Mentre ci stiamo tutti interrogando su come finiranno le controversie legali su voto alla regionali, tra trucchi, finte firme, marchietti copiati, panini mangiati fuori orario, viene approvata una legge che va contro i diritti di chi lavora: è stata sancita una scappatoia contro l’art.18 della Statuto dei lavoratori. Alla faccia dei precari, dei licenziati, dei cassaintegrati la lotta di classe contro la la classe dei lavoratori va avanti imperterrita. Beh, buona giornata.
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La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa
E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.
Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.
E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.
Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.
Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.
In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.
Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).
di TITO BOERI da La Repubblica
AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.
“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.
Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.
A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.
Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.
L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.
Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.
Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.
Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».
Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).