(fonte: ilmessaggero.it)
Il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, è rimasto bloccato per qualche minuto in un ascensore della nuova sede della Gran Sasso Acque, società che gestisce il ciclo idrico integrato nell’Aquilano. Bertolaso era intervenuto per l’inaugurazione della sede, il primo edificio pubblico realizzato dopo il terremoto anche se l’opera era stata programmata prima del sisma. Il problema si è creato – come ha sottolineato il presidente della Gran Sasso Acque – perchè sono saliti in troppi superando il peso massimo trasportabile. Il gruppo, tra cui la scorta del capo della protezione civile, è stato «liberato» dalla polizia.
Beh, buona giornata.
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Chi rompe la tregua paga
di BARBARA SPINELLI-La Stampa.
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.
Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.
Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.
Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.
Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.
Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.
Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.
Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco – wstawac – che intima di alzarsi.
Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.
Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.
Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane – presumibilmente ascoltato da Carla – perché le first ladies non venissero al G8.
L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento. (Beh, buona giornata).
Tra gli italiani vince l’idea che il vertice ci ha rafforzati. Per il 38 per cento dei nostri concittadini l’immagine del Paese è migliorata, il 33 la considera invece immutata di RENATO MANNHEIMER-corriere.it
Il G8 si è concluso con numerose prese di posizione di rilevante importanza strategica. Sarebbe auspicabile che — contrariamente a quanto è talvolta accaduto in passato — queste trovassero poi una concreta applicazione nella realtà. Come molti hanno osservato, uno dei limiti dei consessi internazionali di questo genere è la difficile traduzione delle intenzioni in comportamenti concreti. Anche per questo, alcuni valutano criticamente queste riunioni, proponendone in certi casi l’allargamento o, più raramente, la limitazione nel numero dei partecipanti. La netta maggioranza degli italiani, comunque ritiene valida la scadenza del G8. Più del 70% la giudica infatti «molto» o «abbastanza» importante. Questa opinione è notevolmente più accentuata tra i giovani (specie se studenti) e tra chi possiede un titolo di studio medio-alto.
C’è da notare anche un’accentuazione di questo orientamento nelle donne che finiscono col costituire uno dei segmenti sociali più interessati e partecipi. Dal punto di vista della collocazione politica, l’opinione sull’importanza degli appuntamenti del G8 non è però unanime, poiché si rileva un netto maggior favore da parte degli elettori del centrodestra, stimolati forse anche dalla funzione svolta da Berlusconi in quanto presidente di questa edizione. Ma anche quasi tre elettori del centrosinistra su quattro riconoscono il rilievo dell’evento. Il quale sembra aver rappresentato un successo per l’Italia, sia dal punto di vista organizzativo, sia, in parte, da quello dei contenuti proposti. Anche questa opinione appare condivisa dalla maggioranza relativa. In questo caso, però, i giovani fino ai 35 anni risultano più scettici: tra costoro la maggioranza relativa non vede mutamenti significativi nell’immagine del Paese, che appaiono invece più presenti tra chi ha superato i 45 anni, specie se laureato. Com’era facile attendersi, il proprio orientamento politico (che funziona, come sempre accade, da «facilitatore » per formare la propria opinione su tematiche complesse o di cui si sa poco) gioca un ruolo centrale in questa valutazione: i votanti per il centrodestra appaiono assai più convinti (per il 60%) che l’immagine dell’Italia si sia rafforzata. Questa opinione è invece condivisa solo dal 24% degli elettori del centrosinistra, tra i quali quasi uno su cinque è del parere che, tutto sommato, la nostra immagine si sia indebolita a seguito del G8 e delle vicende connesse.
Il G8 parrebbe aver costituito un successo personale anche per Berlusconi. Tanto che quest’ultimo vede, proprio in questi giorni, un significativo incremento delle intenzioni di voto per il suo partito (superando il risultato delle Europee e avvicinandosi nuovamente all’obiettivo del 40%), dopo aver subito un’erosione nelle scorse settimane, anche a seguito delle vicende personali che lo hanno coinvolto. Le quali, tuttavia, potrebbero tornare alla ribalta già nei prossimi giorni, ora che la «tregua » del G8 si è esaurita. (Beh, buona giornata).
G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it
Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.
Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.
Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.
La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.
E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.
Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.
Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.
Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.
Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.
Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).
Il sindaco Cialente (Pd): “Tra 15 giorni l’Aquila sarà come Napoli per l’emergenza rifiuti”-da blitzquotidiano.it
«Tra 15 giorni avremo un’emergenza rifiuti come quella napoletana, perché il Comune non ha i soldi per poter pagare l’azienda municipalizzata che si occupa della raccolta». È l’allarme lanciato dal sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, che ha partecipato a un incontro sulla Sanità abruzzese tra il viceministro Ferruccio Fazio e i medici. Sarà emergenza, ha sottolineato Cialente, «anche per il ciclo delle acque, visto che nessuno ovviamente paga più la bolletta. Faremo venire il G8 in questa situazione?».
La situazione finanziaria del Comune, ha ribadito il sindaco, è drammatica: «Non abbiamo più l’entrata dell’Ici, né la Tarsu. Non abbiamo più i soldi. Tra due mesi non potrò più pagare gli stipendi».(Beh, buona giornata).
(fonte: l’Espresso)
Guido Bertolaso promette entro ottobre 3 mila appartamenti per L’Aquila. Le esperienze passate con i Mondiali di nuoto del 2009 non sono confortanti.
Nel dicembre 2005 Bertolaso chiede e ottiene da Berlusconi i poteri straordinari, promettendo di costruire per luglio 2009 le strutture. Dopo tre anni e mezzo la struttura commissariale guidata prima da Angelo Balducci e poi da Claudio Rinaldi, ha fallito. Nonostante gli appalti assegnati con urgenza per ben 110 milioni di euro, gli uomini di Bertolaso non hanno concluso nemmeno una nuova opera. Il museo dello Sport (21 milioni), il polo di Ostia (15 milioni), le piscine di San Paolo (13 milioni) e il palazzetto del Foro Italico (30 milioni) non saranno pronti. E ora alla figuraccia si aggiungono le indagini.
La Procura di Roma ha acquisito le carte su un circolo sportivo. Il Salaria Village, come raccontato da “L’espresso” a gennaio, ha potuto ampliare le sue strutture a ridosso del Tevere grazie alle deroghe urbanistiche concesse dalla struttura del commissario Claudio Rinaldi. Ora i pm vogliono vederci chiaro anche perché la società che ha usufruito di queste deroghe (e dei finanziamenti speciali) vantava tra i soci il figlio del precedente commissario dei mondiali, Angelo Balducci, e Diego Anemone, della famiglia omonima, asso pigliatutto degli appalti assegnati con procedure di urgenza sia per il G8 che per i Mondiali. (Beh, buona giornata).
Roma, 2 mag. (Adnkronos) – “Il G8 avverrà tutto nella cittadella” sede della scuola dei sovrintendenti degli ispettori della Gdf a Coppito, piccola frazione de L’Aquila. Ad assicurarlo è il premier Silvio Berlusconi in una conferenza stampa a palazzo Chigi sull’emergenza terremoto in Abruzzo. “Anche i giornalisti – continua – non saranno tenuti a chilometri di distanza”. Il Cavaliere assicura che “la Sardegna sarà ricompensata”. Questa la notizia. Ma il settimanale l’Espresso di questa settimana pone dubbi sulla stabilità della struttura che dovrà ospitare il summit. Ecco il testo del servizio, realizzato da Marco Lillo.
Le crepe del G8 di Marco Lillo-l’Espresso
È il quartiere generale dei soccorsi e dovrà ospitare il vertice dei Grandi. Ma un esposto contesta il progetto della scuola Fiamme Gialle: i piloni costruiti senza verifica antisismica. A guardarla svettare nel cielo dell’Aquila, con le sue camerate che hanno resistito al terremoto, sembra davvero solida.
Eppure la caserma Vincenzo Giudice della Guardia di Finanza, quella che dovrà ospitare nei primi giorni di luglio le delegazioni degli Stati del G8 nasconde sotto terra un mistero inquietante. Le sue fondamenta sarebbero state costruite con una tecnica anomala che non rispetta le norme e senza i calcoli necessari per verificarne la tenuta sotto sisma. Questo è quello che sostiene la relazione allegata a un esposto dell’Ordine degli ingegneri di Roma inviato alla Procura dell’Aquila del novembre del 2004. Il fascicolo è stato archiviato, ma la relazione resta significativa. Quando le delegazioni dei grandi del mondo, dopo una lunga giornata di lavori si stenderanno a riposare sui letti della scuola sottufficiali, fisseranno certamente il tetto chiedendosi prima di addormentarsi: “Reggerà sotto i colpi di un eventuale nuovo terremoto?”.
L’onda lunga dello sciame non si esaurisce e a luglio, se le scosse continueranno, le delegazioni dei maggiori Stati industriali (che, nonostante il nome del vertice resti sempre G8, sono ben 23) dovranno ballare con gli aquilani sul terreno di Coppito, una frazione a pochi chilometri dal centro storico. Non si sa ancora chi dormirà nel complesso. Che sia Obama o l’ultimo degli sherpa sarà interessato però a leggere questo documento datato 2004. Il titolo è: “Esame tecnico strutturale e valutazione di elementi di anomalia o illegittimità nella costruzione del complesso di edifici “B2″ della Scuola della Finanza dell’Aquila”. La relazione riguarda nove palazzine che ospitano metà dei 2 mila allievi ed è firmata da un generale del genio aeronautico, Antonio Capozzi, e da un professore ordinario di tecnica delle costruzioni, Piero D’Asdia, incaricati nel 2004 dall’Ordine di Roma di verificare se i nove edifici fossero a norma e sicuri in caso di terremoto. La relazione di 57 pagine si conclude così: “Il progetto delle fondazioni, calcolato con uno schema, è stato realizzato con un altro del tutto anomalo e inspiegabilmente privo di una valida verifica dell’interazione terreno-struttura sotto sisma”. Non basta: “L’incertezza statica è fondata e non assicura la pubblica incolumità”. Parole che non sembrano spot a favore della decisione di Berlusconi di trasferire a Coppito il vertice. Obama e Medvedev forse sorrideranno un po’ meno, abbracciati al Cavaliere, sapendo che sopra la loro testa “sussistono potenzialmente sotto sisma problemi per la pubblica incolumità”. Brown e Sarkozy non faranno salti di gioia scoprendo che “la situazione attuale di incertezza nella sicurezza degli edifici in esame, sotto sisma, non è tollerabile”. La relazione fu fatta propria dall’Ordine nel 2004, che la inviò in Procura. Ma è stata scritta prima del sisma ed è contraddetta da altri tecnici e dalla magistratura. Comunque resta un documento da valutare con attenzione, tanto che lo stesso Guido Bertolaso, dopo esserne venuto a conoscenza, nel 2005, scrisse a Regione e Comune per chiedere chiarimenti. Insomma, anche se la magistratura ha archiviato tutto, anche se l’edificio ha retto al sisma, vale la pena raccontare questa storia. Anche perché dimostra che i controlli rigidi in Italia diventano di moda solo dopo i terremoti. Mentre prima restano riservati a pochi e isolati Don Chisciotte del rigore.
La caserma Giudice è stata realizzata da un consorzio guidato dalla Todini costruzioni dal 1986 al 1995 per un costo di 314 milioni di euro. Il progetto è firmato da uno studio famoso: quello di Vittorio De Benedetti.
Solo dopo la costruzione dell’ultimo lotto, uno dei collaboratori dello studio, l’ingegner Sergio Andruzzi, si accorse dell’anomalia: il complesso B2, uno dei due gruppi di nove edifici che ospitano le camerate degli allievi, è stato realizzato, contrariamente a quanto scritto nel progetto e diversamente dal B1, senza che i pali di cemento delle fondazioni siano collegati alla struttura. Non c’è continuità nella gettata di calcestruzzo tra i piloni e le nove camerate sovrastanti. Una parte della caserma che ospiterà i grandi del mondo poggia su uno strato di 15 centimetri di materiale “stabilizzato” e non è vincolata ai pali sottostanti.
L’ingegnere Andruzzi, quando si avvede della difformità rispetto al progetto iniziale, salta sulla sedia. I calcoli che lui stesso aveva eseguito erano basati sulla tecnica di costruzione antisismica dei pali collegati, prevista dalla legge. La realizzazione invece si basa su un disegno che contrasta con i calcoli e usa una tecnica non prevista dalle norme senza che nel progetto si spieghi perché e soprattutto senza un calcolo che ne verifichi la tenuta in caso di sisma. Andruzzi affronta il suo professore e gli contesta la scelta (ideata dal figlio Stefano, erede dello studio). Dopo una discussione accesa, Andruzzi denuncia alla Procura dell’Aquila la storia della caserma che secondo lui è fuori legge.
Se avesse ragione, bisognerebbe abbattere un edificio costato 50 miliardi di vecchie lire e approvato (senza spendere una sola parola sull’anomala tecnica adottata) da due fior di collaudatori. Uno dei quali è il potente Angelo Balducci, che poi diverrà presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Per ben due volte la magistratura dell’Aquila archivia le denunce di Andruzzi. I periti del pm e del gip d’altronde, pur rilevando la difformità dal progetto, concordano sul fatto che l’opera non è pericolosa. Non avendo avuto successo con i magistrati, Andruzzi si rivolge all’Ordine di Roma nel 2004. Ed è proprio su incarico dell’Ordine, come detto, che i due periti D’Asdia e Capozzi stilano il loro parere . Nella disfida tra Andruzzi e il suo capo il verdetto è netto: “Ci sono illegittimità e violazioni delle normative tecniche nella progettazione e nella realizzazione della scuola e l’arbitraria separazione pali-struttura pone in dubbio la sicurezza sotto sisma”. Nonostante tutto, l’esposto viene archiviato dalla Procura dell’Aquila in meno di un mese. Il 18 febbraio 2006, i due consulenti tornano alla carica, chiedendo all’Ordine di “far valutare al Demanio e alla Guardia di Finanza il grado di sicurezza del complesso, attualmente incerto ed indefinito, come indicato nelle conclusioni della consulenza, sussistendo allo stato attuale potenzialmente sotto sisma problemi per la pubblica incolumità”.
Il ministro chiede un parere al Consiglio superiore dei lavori pubblici che nomina un’apposita commissione, la quale prima nota che, “in effetti, la fondazione è stata realizzata, diversamente da quanto progettato, senza vincolo di incastro tra platea e pali”, ma poi salva l’opera con questa formula vaga: “Tale tipologia di struttura, pur differendo da quanto progettato, non appare comunque totalmente inusuale esistendo altri importanti esempi di opere costruite con criteri simili in zone ad alta sismicità come il ponte Rion nel golfo di Patrasso”. Il Consiglio annota poi che nel progetto ci sarebbero dovuti essere calcoli coerenti con l’opera realizzata ma non ne trae le conclusioni.
L’indomito Andruzzi torna alla carica e insegue Di Pietro intervenendo durante una trasmissione radiofonica per contestargli la sua inattività. Con la solita franchezza il ministro rispose: “Ho sollecitato gli uffici. Di più cosa potevo fare? Metterci il mio stipendio per ricostruire la caserma? Non basterebbero cinquant’anni di buste paga”. Effettivamente, se i mille ricorsi di Andruzzi fossero stati accolti, il contribuente avrebbe perso 25 milioni di euro in un sol colpo. E a tacitare le polemiche è arrivato il boato del 6 aprile. La scuola ha subito alcune lesioni, ma è rimasta in piedi. “L’espresso” ha risentito gli autori della relazione alla luce degli ultimi eventi. Le loro posizioni oggi divergono. Il professor D’Asdia non rinnega quanto scritto allora, ma aggiunge: “La scuola ha retto al terremoto e direi che, con tutti i difetti del collaudo, ha superato una sorta di prova sul campo”. Quindi, disco libero per il G8. Il generale Capozzi resta scettico: “Quella caserma non rispetta le norme tecniche e oggi manca una verifica scientifica che possa offrire le dovute garanzie di sicurezza”. (Beh, buona giornata).
Terremoto, Abruzzo/ Lontano dai riflettori, il G8 all’Aquila: esibizione e umiliazione
di Luigi Zanda da blitzquotidiano.it
L’idea di Silvio Berlusconi, il nostro primo ministro, di non tenere più la riunione del G8 in Sardegna, alla Maddalena, ma a l’Aquila, è certamente affascinante e suggestiva, è quel che si dice un colpo di genio. Porta i potenti del mondo dove l’Italia ha più sofferto negli ultimi tempi. Il messaggio, sotto elezioni, è forte e chiaro: I care, sembra voler dire. Tradotto, Berlusconi dice: ora che ci sono io, qualcuno si occupa di voi.
Gli abruzzesi sanno bene come stanno le cose, specie quei terremotati che vivono nelle tende, dimenticati da tutti. Ma il resto degli italiani, per i quali il terremoto è ormai un lontano ricordo, provano sollievo nel pensare che ora loro non si devono più preoccupare, perchè c’è lui che provvede.
Ma se vogliamo ragionare in termini non di colpi di teatro e di campagne elettorali ma di buona e sana amministrazione del paese, allora servono spiegazioni precise, perché i conti non tornano.
Fino all’altro ieri governo e protezione civile invitavano tutti – parlamentari compresi – a non andare in Abruzzo per non intralciare i soccorsi e la risistemazione provvisoria del territorio dopo il disastro. Adesso sappiamo che tra qualche settimana arriveranno alla periferia dell’Aquila otto capi di stato e di governo, tremila delegati, tremila giornalisti e sedicimila uomini delle forze dell’ordine.
In questa decisione, c’è qualcosa che non quadra.
Intanto sul piano dei costi, perché è difficile credere che garantire la sicurezza di tutta quella gente sia più facile e meno costoso tra le tendopoli che non su un’isola, dove peraltro, molto di quel denaro che si asserisce di volere risparmiare è stato nel frattempo speso.
Poi sul piano dell’immagine e della solidarietà. Gli abruzzesi sono gente seria e orgogliosa, come i sardi. Non amano mettere in piazza i loro sentimenti. Sono riservati e misurati. Hanno creduto nelle promesse del governo e aspettano che Berlusconi ora le mantenga. Non si aspettavano certo di essere esibiti, nel disagio che vivono ogni giorno, nelle tante piccole umiliazioni che subisce chi vive in modo precario e provvisorio.
Molto di quel che dice Berlusconi è pura immagine, perché lontano dai riflettori della tv la cose stanno diversamente e la gente sta male, c’è da chiedersi cosa proveranno gli abruzzesi quando vedranno che il frenetico vai e vieni di capi di stato e ministri e attendenti comporterà un ulteriore aggravio del ritardo e dell’abbandono. (Beh, buona giornata).