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Che sta succedendo all’economia europea/3.

Atene e Roma società del ricatto, di BARBARA SPINELLI-lastampa.it

Ci vorranno non mesi ma anni, perché la Grecia trovi la forza, in se stessa, di assumere il fardello molto pesante di sacrifici che il primo ministro George Papandreou ha presentato giovedì alle camere. Molti demoni dovrà combattere, molte tribolazioni le si accamperanno davanti man mano che si snoderà la via stretta del risanamento, e in cuor loro i greci l’hanno appreso, in queste settimane di prova: non sono tutti esterni, i demoni; non vengono tutti dal mercato o dalle agenzie di rating le minacce, i sospetti, gli assalti. I mali della Grecia sono in massima parte interni: sono parte della sua storia, dell’uso che è stato fatto di essa, delle memorie paralizzanti che l’impacchettano. Se la resistenza ad accettare la nuova austerità è così vasta, se il coraggio di Papandreou fatica a imporsi, è perché dietro di lui c’è un paese smagato, disunito, radicalmente sfiduciato.

È una sfiducia che ha radici antiche e che risale all’impero ottomano, ma che non ha vissuto una catarsi nel dopoguerra. Lo Stato non ha tratto vigore dalla resistenza al nazifascismo, supinamente ha accettato per decenni di essere una guarnigione della Nato, ha consentito alla dilatazione di un potere militare abnorme: un potere che gli Stati Uniti hanno sfruttato a piacimento, nella guerra fredda. Fin dal dopoguerra Washington ha appoggiato costantemente le destre, non esitando a distruggere le energie della Resistenza e ad appoggiare la dittatura dei colonnelli fra il ’67 e il ’74. L’ingresso greco in Europa e nell’Euro non ha coinciso con uno Stato redento, e oggi i frutti avvelenati di quell’occasione mancata si toccano con mano. Nel giorno del grande esame ­ lo Stato in bancarotta ­ non c’è quella che Leopardi chiama una società stretta, addomesticatrice di egoismi e interessi particolari. Sono scettici e disillusi soprattutto i giovani, che hanno visto degradarsi ai vertici il senso dello Stato, dilagare una corruzione senza limiti, estendersi l’impunità di politici e partiti complici nella difesa dello status quo.

I manifestanti ateniesi domandano questo, in sostanza: come fidarsi di uno Stato che non si è limitato a truccare bilanci ma ha tragicamente fallito la propria rigenerazione? Il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papachelas, afferma che per uscire dal marasma servono misure non solo economiche, ma politiche, civili. Quel che urge recuperare non è l’identità offesa della Nazione, come reclamano alcuni, ma la dirittura e l’equità dello Stato: «La sola vera cura è un emendamento costituzionale ­ concordato fra i politici ­ che annulli l’immunità di cui godono ministri e parlamentari, la riduzione del numero dei parlamentari a 200, l’invio di farabutti ed evasori fiscali davanti alle corti o in carcere». Se la crisi vuol essere catarsi, devono emendarsi le scelte economiche ma anche le usanze della politica. Sullo stesso giornale, Nikos Xydakis chiede una «rinascita antropologica».

È il motivo per cui sono tante le somiglianze tra Grecia e Italia, e degne di esser studiate. Negli ultimi giorni si è parlato di un rischio Italia, oltre che spagnolo e portoghese: in genere a torto, per quanto riguarda la nostra economia, il risparmio delle famiglie, la salute delle banche, il deficit dello Stato. Finanziariamente, Roma non vacilla come Atene. È vero anche che la Resistenza non è stata svilita e soppressa con l’aiuto delle forze alleate, come nella guerra civile greca. Nella nostra storia antica e recente abbiamo potuto contare su uomini e istituzioni profondamente fedeli alla res publica, e non siamo stati tormentati, come in Grecia, da una casta militare potenzialmente sovversiva. Ma se si guarda alla fiducia che i cittadini hanno nell’imperio della legge e nella cosa pubblica, le affinità sono impressionanti. Esiste anche in Italia una fondamentale diffidenza verso lo Stato, la legge. Alcune regioni a Sud sono dominate da mafie che di tale miscredenza si nutrono da un secolo. Esiste a Nord e a Milano un disprezzo delle istituzioni pubbliche, del civismo, della legalità, non meno annoso e intenso. Anche qui lo sforzo di rinascere tarda a mobilitarsi. Tarda a nascere una destra autentica, che con Fini fabbrichi futuro e riempia il temibile vuoto. Tarda a sinistra un rapporto non intimidito con il conflitto.

Anche l’anniversario dell’unità d’Italia, lo prepariamo dolendoci più della scarsa identità comune che dell’incultura dello Stato. Si può certo vivacchiare senza cultura dello Stato, della legalità: sia i greci che gli italiani lo fanno da decenni. Ma quando arriva l’ora della prova, l’assenza di fiducia rischia di divenire un fatale cappio al collo per chi impone sacrifici. La gente semplicemente non segue, si sparpaglia, si scinde in mille corporazioni ingovernabili. Per aderire a sacrifici, la società deve pur sempre riconoscersi nello Stato risanatore: nella sua affidabilità, nella sua vocazione a mantenere la parola data, nella rettitudine dei suoi servitori. È la ragione per cui Daniel Cohn-Bendit, intervistato giovedì da la Repubblica, invita a riflettere sulla società e lo Stato ellenico, oltre che sull’economia: «Uno Stato in cui in Grecia non s’identifica nessuno o quasi nessuno. È sempre stato lo Stato degli altri, lo Stato dei ricchi e dei potenti, ognuno lo ha strumentalizzato per sé. È sempre apparso lo Stato dei corrotti, e la gente ha partecipato alla corruzione. Adesso bisogna cambiare tutto questo, ma ci vuole tempo».

Il deputato europeo ammira Papandreou, e critica chi confonde i manifestanti ateniesi con i pochi estremisti che il 5 maggio hanno provocato la morte di tre impiegati della Marfin Egnatia Bank. Il lettore, ascoltando queste parole, avrà legittimamente l’impressione di sentir narrata anche l’Italia: la nascita di uno Stato contaminato dalla corruzione fin dall’inizio della Repubblica, il peso esercitato da potentati esterni interessati all’esistenza di uno Stato parallelo e incontrollato, i patti stretti dalla politica con l’illegalità e la malavita, la magra incidenza che ha avuto Mani Pulite nell’ultimo ventennio, l’impunità dei politici, la magistratura sabotata. Non diversamente dalla Grecia, l’Italia è decaduta fra il dopoguerra e oggi perché piano piano si è creato, fra i partiti, un pericoloso consenso in difesa dello status quo: status quo fondato sulla svalutazione dello Stato, della legalità. Viene in mente, più che attuale, l’allarme lanciato il 22 febbraio ‘98 dal giudice Gherardo Colombo, in un’intervista a Giuseppe D’Avanzo sul Corriere: il male, disse, era in Italia la diffusa società del ricatto, non affermatasi di recente ma fin da quando gli americani, pur di esser facilitati nello sbarco in Sicilia, chiesero aiuto alla mafia.

È in quegli anni che «si è stabilito un rapporto di “quieto vivere” con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. (…) Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. (…) Negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». La democrazia degenera così, secondo l’ex magistrato di Mani Pulite: non a causa di una conflittualità troppo accesa e dai toni troppo alti, che sono anzi il suo sale. Le «nuove regole della Repubblica vanno organizzate non attorno al conflitto, ma attorno al compromesso». È quest’ultimo che va imbrigliato, assai più del conflitto. È straordinario come la crisi metta in luce proprio questa verità, apparentemente paradossale: se usciremo dalla crisi rinnovati, se sapremo radunare le forze in caso di tracolli, è perché avremo smosso gli opachi patti dello status quo. Non se difenderemo una democrazia fondata sulla discussione, la critica, il disvelarsi del nascosto e del sommerso. La crisi ha questo, di catartico. Porta alla luce difetti di fondo, politici e culturali più che finanziari. Suona il campanello: la ricreazione è finita. Dà nuovo senso ai tentativi di rigenerazione, anche quelli insabbiati e morti. La strada stretta consiste nel riconoscerlo.
(Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/2.

Potere e mercati, la prova verità, di SERGIO ROMANO-corriere.it

Le grandi crisi non bastano purtroppo a rinsavire quelli che ne sono direttamente o indirettamente responsabili. Ma hanno l’effetto positivo di rendere evidenti alcune verità che prima della crisi apparivano poco convincenti o erano addirittura negate. Abbiamo sempre saputo che la mancanza di un governo europeo dell’economia avrebbe reso l’unione monetaria incompiuta e vulnerabile. Sapevamo che i divieti e le punizioni inseriti su pressioni tedesche nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità non avrebbero mai impedito a un Paese di commettere errori e soprattutto avrebbero convinto la speculazione che il Paese in pericolo non sarebbe stato salvato. Sapevamo che i compiti assegnati alla Banca centrale europea erano troppo rigidamente limitati e che fare da sentinella all’inflazione può essere in alcuni casi una politica insufficiente, se non dannosa. E sapevamo infine che gli aiuti, quando sono tardivi e vengono decisi soltanto dopo penose discussioni inconcludenti, sono sempre più costosi di quanto sarebbero stati se concessi tempestivamente. La Germania ha frenato gli altri maggiori Paesi della zona euro perché temeva che gli aiuti alla Grecia avrebbero mal disposto gli elettori del Nord Reno Westfalia verso la coalizione di governo.
Ebbene, il pacchetto è stato varato dal Bundestag alla vigilia del voto. I tempi, per Angela Merkel, non potevano essere peggiori. Ma di questo non può che rimproverare se stessa.

La crisi, dunque, ha sgombrato il terreno da alcune false verità. Resta da capire se i Paesi dell’eurozona sapranno correggere gli errori. La giornata di avant’ieri, potrebbe essere, in questa prospettiva, memorabile. Il presidente del Consiglio italiano e il presidente francese sembrano essersi accordati sulla necessità di un fondo monetario europeo a cui attingere per aiutare un Paese in crisi. Il presidente della Commissione ha detto che occorre rafforzare Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) e fornirgli gli strumenti per accertare la verità dei conti pubblici degli Stati membri. La Banca centrale europea potrebbe prendere in garanzia, per i suoi prestiti, anche le obbligazioni deprezzate del governo greco e acquistare titoli di Stato per stabilizzare i mercati. Un’agenzia di rating europea potrebbe ridurre l’ingiustificata influenza delle agenzie americane. L’eurogruppo, infine, potrebbe assumere maggiori responsabilità e diventare la prefigurazione di un governo europeo dell’economia.

Molto dipende da tre importanti riunioni che si terranno oggi, prima dell’apertura dei mercati: il consiglio dei governatori della Bce, l’Ecofin, e un G7 dell’ultima ora in teleconferenza.
Ma se verranno adottate, queste misure avranno alcuni punti in comune: rafforzeranno le istituzioni europee a scapito delle sovranità nazionali, saranno un passo verso il completamento dell’Unione monetaria e l’integrazione europea. Faranno capire ai mercati che l’Europa non intende farsi ricattare dalla speculazione. E avranno l’effetto di ridare all’Italia uno spazio europeo che aveva finora trascurato. Tanto più se gli aiuti alla Grecia saranno votati sia dalla maggioranza sia dall’opposizione.
So che molto dipende dalle reazioni dei mercati, domani. C’è troppo denaro in giro per il mondo che è alla ricerca di selvaggina e si comporta come zavorra mal collocata sul fondo di una nave in tempesta. Ma qualche speranza, oggi, è possibile. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/1.

I giorni terribili dell’attacco all’euro di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l’errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l’ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell’Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell’affondamento dell’euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C’è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei “se” e dei “ma” doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all’altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell’Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.
La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall’ipnosi e li costringerà a reagire?

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La novità delle ultime quarantott’ore è questa: i governi hanno capito che l’attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L’obiettivo è assai più alto, il dissesto dell’economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l’euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L’aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l’ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C’erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell’opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l’Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell’Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l’area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati “debiti sovrani” e “fondi sovrani” sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L’uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l’operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l’inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l’assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell’Unione europea, la crisi si è concentrata su quell’obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell’Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell’Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l’insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell’organizzazione del “welfare”. I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l’Europa è ancora lontanissima dall’essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell’Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell’Unione verso un assetto federale. L’ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell’Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell’attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all’altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all’Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l’abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l’evidenza e l’urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un’opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un’opinione personale, credo che l’attacco in corso contro l’attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
(Beh, buona giornata).

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