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New York Times durissimo sull’Italia: “Aver tollerato troppe buffonerie ha provocato troppi danni.”

(fonte: repubblica.it)

Un articolo nelle pagine dei commenti firmato da Frank Bruni, che anni fa fu corrispondente da Roma. Il New York Times pubblica un pezzo durissimo contro il premier italiano, dal titolo “L’agonia e il bunga a bunga”. Parla di “baccanali di Berlusconi”, di uno spettacolo da “petit guignol” che va in scena mentre l’Italia è in crisi e addirittura minaccia la stabilità finanziaria di tutta Europa. Bruni ricorda il settembre nero italiano: in cui non si sa se il Parlamento riuscirà ad approvare la manovra finanziaria, se questa sarà sufficiente e come sarà giudicata dall’Europa. Ma in questo momento drammatico – secondo il columnist del quotidiano americano – ci si domanda come il “lussurioso imperatore” del Paese vorrà festeggiare i suoi 75 anni.

Nell’articolo si ricordano il processo che il presidente del Consiglio dovrà affrontare perché accusato di aver fatto sesso con una minorenne, i bunga a bunga in cui riunisce veri e propri harem di donne, spesso travestite da infermiere. Bruni ammette: “Noi americani abbiamo trovato anche divertente tutto questo, perché è terrificante, ma anche rassicurante”. “Però – ammonisce i suoi connazionali – non dovremmo restare a bocca aperta e ridere. Perché ora l’Italia minaccia la stabilità finanziaria di tutta l’Europa”.

“Il cammino dell’Italia dalla gloria al ridicolo – continua Bruni – spianato dalle distrazioni legali e carnali del premier, non dà benefici a nessuno. L’Italia ha una storia che dovrebbe rappresentare un monito per molte democrazie occidentali che si sono fatte cullare dal comfort nella compiacenza di sè. Aver tollerato troppe buffonerie ha provocato troppi danni”. (Beh, buona giornata)

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche

Siamo un Paese in imminente pericolo di vita.

Il falso mito del risultato elettorale già scritto. Ma solo dopo- da Bussole, di Ilvo Diamanti. (repubblica.it)

Oggi che le classi sociali hanno perso visibilità e forse sono perfino scomparse, confuse in mezzo a una moltitudine di individui. E le ideologie sembrano ridotte a leggende perdute nel tempo. Oggi, in politica, si evocano altre definizioni. Meno suggestive, meno epiche, ma comunque eloquenti. Capaci di spezzare. Distinguere. Stigmatizzare. Dividere il mondo. Per esempio: gli aristocratici e il popolo. Con tre p. Oppure la gente. Con quattro g. I radical chic e i radical choc. La sinistra dei salotti e la destra delle partite IVA e delle piccole imprese. Quelli che parlano di cultura tra Uomini di Cultura – rigorosamente con le iniziali maiuscole – e quelli che parlano dei problemi di tutti i giorni nella vita di tutti i giorni con le persone comuni. Quelli dell’Alta Finanza e quelli che hanno i calli alle mani. Insomma: definizioni di senso comune dette in modo diretto. Capaci di tracciare confini chiari e netti. Per riprodurre la distanza fra Noi e Loro. Amici e nemici. Senza possibilità di dialogo, ma che dico?, di sguardo reciproco. Ciascuno per la sua strada, dalla sua parte della strada. Senza neppure pensare di attraversarla.

Così, i “populisti” – orgogliosi di essere tali, dalla parte del popolo, di quelli che faticano e si sporcano le mani – guardano gli “elitisti” e gli aristocratici da lontano. Come animali rari. La destra popolare e la sinistra impopolare. Condannata – e rassegnata – a perdere le elezioni. Tutte le elezioni. Sempre. Senza speranza. E viceversa. Gli aristocratici, chiusi nei loro salotti e nei loro circoli culturali, tra loro, lontano dal vociare del popolo minuto. Il ventre di questa società imbarbarita dal benessere e dalla televisione. Che la sinistra aristocratica osserva con malcelata insofferenza. Così tutto pare congelato. Vincitori e vinti predestinati, in competizioni elettorali non competitive. Dall’esito scontato.

Non c’è luce, in questo scenario senza luce. In questa rappresentazione ideologica. Tanto ideologica, però, da occultare la realtà. Fino a negarla. Come spiegare, altrimenti, comportamenti ed esiti elettorali tanto diversi in poco tempo? Nello stesso giorno? La sinistra sconfitta nel 1994 vittoriosa nel 1996; di nuovo sconfitta nel 2001 e poi di nuovo vittoriosa, in tutte le elezioni successive, fino al 2006. Per poi subire l’insuccesso nel 2008 e le battute d’arresto successive. E, dall’altra parte, come spiegare le vicende altalenanti di Berlusconi, One Man Show.

Che, dopo il 1994, solo “insieme” alla Lega. Nel 2000, nel 2001, nel 2008. E solo “grazie” alla Lega, alle regionali di 10 giorni fa. La Lega, per sua parte, oggi appare invincibile. Eppure ha perso tante volte, da quando è sorta. È cresciuta e poi si è ristretta. Dall’8% nel 1992 al 10% nel 1996: 3-4 milioni di voti. Poi è crollata negli anni seguenti.. Ha tenuto a fatica il 4%. Per poi risalire, dopo il 2006. Fino a raggiungere e sfondare, negli ultimi 3 anni, la barriera del 10%. Senza però produrre la valanga di voti degli anni Novanta.

E come spiegare, con la teoria del Popolo con tre p, lontano dalle èlite, che quel popolo, lo stesso popolo, lo stesso giorno, il 28 marzo scorso, ha votato diversamente, molto diversamente, per la Regione e il Municipio? A Venezia e a Lecco, per esempio: i voti leghisti, alle regionali, si sono tradotti in sostegno ai sindaci di centrosinistra.
Perché, ha suggerito qualcuno, le città sono radical chic. Affollate di borghesi e intellettuali da salotti. Ma, allora, Verona? Governata dalla Lega? Dubitiamo che, se si fosse votato per il Comune, due settimane fa, i cittadini avrebbero votato diversamente.
I benpensanti e i malpensanti, i salotti e le partite IVA, la società civile e la società reale. Queste definizioni dirette, per quanto suggestive e di senso comune, sono molto più ideologiche delle vecchie ideologie. Aiutano a coltivare l’etica dell’irresponsabilità. Non spiegano ma rassicurano. Non aiutano a distinguere, ma soddisfano gli istinti. Sono autoconsolatorie. Ti convincono che se perdi non è colpa tua. Ma della gente. Del popolo. Oppure degli intellettuali, dei poteri forti. Del destino cinico e baro. Storie già scritte, dove la politica e gli uomini non contano. Storie senza pathos e senza epica. Troppo scontate per essere vere. Sono attraenti e insidiose. Soprattutto per chi ha per ha perso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

I frutti acidi del berlusconismo: “Se l’Italia non trova più un investitore che voglia rischiare i suoi soldi imprestandoli all’Italia a tassi convenienti, il coro della finanza mondiale e dei suoi sicofanti nazionali sarà: “Privatizzate” che tradotto in latino vuol dire “vendete a buon prezzo per gli stranieri”.

Attacco degli hedge fund Usa contro l’euro e delle banche contro Grecia, Spagna e Italia-blitzquotidiano.it

Dalle segrete stanze della grande finanza americana è partita una nuova guerra contro l’Europa. Secondo il quotidiano Wall Street Journal di venerdì 26 febbraio, i maggiori hedge fund americani stanno scommettendo alla grande e di concerto sulla debolezza dell’euro. I colossi del Sac Capital Advisors e il Soros Fund Management sarebbero in prima fila nello sviluppo di questa azione speculativa. E il nome di Soros rimanda alla grande speculazione che aggredì la sterlina nel 1992.

L’attacco alla moneta unica europea (dei grandi, solo la Gran Bretagna non aderisce all’euro) sembra rientrare in un disegno globale del grande capitalismo americano, che operando come un gigantesco granchio, con l’altra chela ha aggredito la credibilità (i tecnici la chiamano rating) dei paesi deboli: Grecia, Spagna, Italia.

Questi paesi sono stati aiutati, dalle grandi banche americane, le stesse che sono all’origine della grande crisi iniziata nel 2008 e che ci fa soffrire ancora oggi, a taroccare i propri conti nascondendo le reali dimensioni dei propri debiti per entrare a testa alta nell’euro, senza essere costretti a misure feroci di risparmio, altamente impopolari.

Che le misure di rientro del debito siano ferocemente osteggiate dai cittadini lo dimostrano i disordini che tormentano in questi giorni proprio la Grecia. Che sotto ci possa essere una manovra studiata a tavolino e non solo crudeltà, spietatezza e cinismo da parte dei banchieri trova sostegno in un ragionamento che chiunque può fare. I paesi deboli, quelli del “ventre molle” dell’Europa, tra cui l’Italia, conservano alcune attività tra le più redditizie in società controllate dallo Stato. In Italia le tre principali sono Eni, Enel e Finmeccanica. L’interesse dei partiti che controllano lo Stato perché lo Stato tenga in pugno i cordoni di controllo di quante più industrie possibile è dimostrato abbastanza chiaramente ad ogni scandalo che si abbatte su politica e dintorni. L’ultimo esempio viene dalla Protezione civile.

L’interesse del grande capitale americano, che domina la finanza mondiale, in una crisi della capacità di indebitamento di un paese come l’Italia sono altrettanto evidenti: se l’Italia non trova più un investitore che voglia rischiare i suoi soldi imprestandoli all’Italia a tassi convenienti, il coro della finanza mondiale e dei suoi sicofanti nazionali sarà: “Privatizzate” che tradotto in latino vuol dire “vendete a buon prezzo per gli stranieri”. E di bocconi buoni, come s’è visto, ce ne sono ancora.

Sul fronte dell’attacco all’euro, il Wall Street Jourrnal riporta importanti indiscrezioni raccolte durante un esclusivo incontro ospitato da una banca di investimenti a Manhattan: l’”idea dinner” della serata era per l’appunto scommettere sul probabile collasso dell’euro, in previsione di un suo riavvicinamento al dollaro, se non sulla loro parità. L’euro, che veniva scambiato a 1,51 dollari a dicembre, è sceso attualmente 1,355 e le recenti crisi dei debiti sovrani europei ne accentuano la caduta.

Secondo il quotidiano newyorkese i vertici degli hedge fund avrebbero deciso di concordare una serie di mosse per speculare al ribasso sulla moneta unica, mettendo così ancora più sotto pressione l’Europa alle prese con i rischi di un default greco. La prova che il quotidiano porta a supporto del suo scoop è il livello record di contratti futures ribassisti sulla moneta unica (che garantiscono un premio in caso la valuta scenda oltre una certa soglia) acquistati a partire dalla settimana successiva alla cena: circa 60mila secondo dati Morgan Stanley. Si tratta del livello più alto dal 1999.

La previsione della parità tra le valute americane e europee è un’occasione unica per gli investitori per realizzare enormi profitti. Il gioco al ribasso dei trader segnala una tendenza: e se tutti gli investitori seguono questa dinamica sono guai. La convergenza speculativa su un’unica valuta può addirittura affossarla a dispetto di fondamentali economici sostanzialmente sani. (Beh, buona giornata).

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Verso Copenhagen 2009: “alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.”

Alla faccia di Copenaghen, dal blog di VALERIO GUALERZI-repubblica.it
Altro che vertice di Copenaghen affossato dalla prepotenza del G2, dalla timidezza di Obama e dalla sfrenata corsa cinese allo sviluppo a suon di emissioni. Non c’è bisogno di andare così lontano per cercare i sicari dell’impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Basta guardarsi in casa. E’ di questi giorni la notizia di alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.

A denunciare l’agguato nel quale rischiano di cadere soprattutto eolico, solare e biomasse, è un cartello di associazioni ambientaliste e organizzazioni del settore. Il testo, spiega un comunicato congiunto di ANEV, APER, FEDERPERN, FIPER, GREENPEACE ITALIA, ISES ITALIA, ITABIA, KYOTO CLUB e LEGAMBIENTE, prevede ben tre passaggi deleteri per lo svilluppo delle rinnovabili

1) “rimodulazione in forte riduzione, causa l’impraticabilità dell’obbligo di dotare gli impianti di idonea capacità di accumulo, dei coefficienti di incentivazione delle fonti rinnovabili non programmabili, là dove Terna dichiara di avere difficoltà di dispacciamento”.

Detto in altre parole: come è noto le rinnovabili portano molti vantaggi, ma richiedono un adeguamento della rete di trasmissione e distribuzione. Per questo Bruxelles (Direttiva 2001/77/CE e successive) impone ai gestori delle reti “di garantire la priorità di dispacciamento alle fonti rinnovabili e di prevedere e risolvere in anticipo, attraverso le attività di idoneo sviluppo della rete, le problematiche connesse all’inserimento delle fonti rinnovabili nel sistema elettrico nazionale”. Ma in disprezzo a questo principio (e a qualsiasi logica di impegno ambientale) l’emendamento governativo chiede invece che si sviluppino nuovi impianti solo lì dove la rete è in grado di assorbirne la produzione.

2) ”riduzione drastica del valore del prezzo di riferimento del Certificato Verde che passerebbe dal prezzo medio di mercato pari a circa 85,00 €/MWh a circa 40,00 €/MWh (pari alla differenza tra 120 €/MWh e il prezzo medio dell’energia elettrica)”. In questo caso il proposito dell’emendamento è fin troppo chiaro;

3) ”invece di impegnare Terna a realizzare i necessari è già previsti piani di potenziamento delle reti, gli si attribuisce l’insindacabile potere di stabilire la massima quantità di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non programmabile che può essere connessa ed erogata”. Una modifica che fa il paio con il punto 1 : non si fissa un obiettivo di espansione e si chiede a tutti gli attori interessati di adeguarsi, ma si delega a Terna il compito di pronunciare la parola finale su quanta energia rinnovabile si può “permettere” il Paese.

Sulla base di queste intenzioni, le associazioni denunciano quindi come gli emendamenti proposti, “anche a causa della loro estemporaneità, debbano essere ritirati, dato che la loro approvazione provocherebbe innanzitutto una forte confusione nel mercato, tra gli operatori e negli investitori, a causa del repentino ennesimo mutamento delle regole del gioco in corsa”.

“Tali emendamenti, inoltre – denunciano ancora il comunicato – provocherebbero la crisi di un settore, quello della produzione di energia da fonte rinnovabile, attualmente in grande sviluppo, oltre tutto anticiclico e con notevoli prospettive economico-occupazionali (almeno 250.000 addetti diretti ed indiretti al 2020), e impedirebbero all’Italia di mantenere gli impegni per il raggiungimento degli obiettivi vincolanti al 2020 (17% dei consumi finali di energia coperti da fonti rinnovabili), definiti in sede europea nel pacchetto Energia-Clima, con la grave conseguenza di dover sostenere elevate penalità finanziarie a causa del mancato raggiungimento del target”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il capolinea del governo Berlusconi.

(fonte: blitzquotidiano.it)
A Berlusconi non far sapere…ma la crisi bussa tre volte in un giorno solo. Alla porta del suo governo ma, quel che più importa, anche alla porta di casa nostra. Come il premier, anche ciascuno di noi preferisce tenerla fuori dell’uscio, ignorare i rintocchi, aspettare che si stufi e si stanchi di importunarci. Però la crisi non se ne va, anzi bussa, tre volte in un giorno.

La prima volta suona per chi i soldi li ha: 102 miliardi di quotazioni azionarie come si dice “in fumo” in un giorno. Miliardi che un giorno vanno e un giorno vengono, non è il caso di farne un dramma. E poi riguarda appunto chi ha azioni e chi ce l’ha più tra la gente normale? Solo i matti.

Se non fosse che le Borse sentono odore di bruciato. Dopo settimane e mesi di risalita perché annusavano la fatidica uscita dalla crisi, adesso sono giorni che si vende, si vende. Si vende perché non si crede che molte aziende, quelle che fabbricano cose e non finanza ce la facciano ad arrivare a fine anno. A leggere tra le righe delle cronache dei giornali si vede che molte chiusure per ferie quest’anno rischiano di essere chiusure e basta. Storie di piccole aziende, comunque la prima bussata è per investitori e azionisti, il più di noi può non sentirla.

La seconda bussata riguarda chi lavora a stipendio e a salario. Un po’ di più, parecchia più gente. La seconda bussata dice che in Europa la disoccupazione è arrivata al 9,5 per cento. Altissima. Traduzione: chi ha un lavoro rischia di perderlo, chi non ce l’ha un lavoro è quasi sicuro che non lo trova. Almeno fino al 2010, arrivarci al 2010.

La terza bussata è per i nostri figli e nipoti: il deficit dello Stato italiano nei primi tre mesi dell’anno ha viaggiato a quota 9,3 per cento della ricchezza prodotta. Una volta il tre per cento era il limite, il 4 segnale d’allarme. Ora quel nove e passa dice che lo Stato si indebita sempre più e pagheranno i figli e i nipoti nei prossimi anni e decenni. Tasse? Non ce ne sarà bisogno: sarà una tassa chiamata inflazione ad asciugare l’alluvione del debito.

Tre colpi alla porta in un solo giorno, uno per chi i soldi li ha, uno per chi vive di lavoro, l’altro per il futuro delle famiglie. Meglio non sentirli, accendiamo la tv. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Dopo le elezioni, Berlusconi è un’anatra zoppa.

Il Cavaliere in frenata di MASSIMO GIANNINI-Repubblica.

L’Italia monocolore può attendere. L’Italia azzurra dalle Alpi alla Sicilia per ora esiste solo nei sogni del presidente del Consiglio. Le elezioni amministrative ci consegnano un Paese palesemente spostato a destra, ma non irrimediabilmente votato al berlusconismo. Da questo voto esce, ancora una volta, un’Italia divisa, frammentata e spaccata in due metà. Il Pdl cresce sul territorio ma non sfonda. Il sogno plebiscitario di Berlusconi svanisce nelle trame oscure della sua personale “Velinopoli”. L’onda alta e lunga del berlusconismo si infrange sugli scogli di Casoria e sulle spiagge di Bari. Il Cavaliere ha dichiarato vittoria, ma subito dopo è tornato a parlare della sua vera ossessione – che gli ha fatto perdere voti – ripetendo le accuse di “attacchi eversivi” a Repubblica.

C’è un dato quantitativo, che conferma il mancato sfondamento. E qui il giudizio non può prescindere dai dati di partenza, che erano già di per sé eccezionali. Il centrosinistra si presentava a queste amministrative forte del risultato clamoroso e irripetibile del 2004: aveva vinto 51 province e 26 comuni capoluogo, contro le 9 e 6 rispettivamente conquistate dal centrodestra. Cinque anni dopo, il 6 giugno scorso il centrodestra aveva avviato una promettente rimonta, vincendo il primo turno e battendo il centrosinistra 26 a 14 nelle province e 9 a 5 nei comuni capoluogo.

Quindici giorni dopo, il centrosinistra re-inverte la tendenza, vincendo i ballottaggi e superando il centrodestra 15 a 7 nelle province e 12 a 4 nei comuni. Il quadro complessivo di questo voto locale, dunque, ci consegna un sostanziale pareggio: la maggioranza in carica prevale in 33 province e in 13 comuni, mentre l’opposizione mantiene 29 province e 17 comuni capoluogo. Non proprio un Paese governato ovunque dal monocolore azzurro, insomma. Piuttosto, e ancora una volta, un Paese trasversalmente tagliato a metà, e fortemente polarizzato tra due schieramenti “anelastici”, che scambiano flussi nel perimetro interno senza mai valicare quello esterno.

Ma c’è anche un dato qualitativo, che non può essere sottovalutato. Province e comuni capoluogo non si possono solo contare: vanno anche “pesati”. Anche da questo punto di vista, benché il Pdl abbia strappato al Pd la provincia di Milano e di Venezia, non si può parlare di “marcia trionfale” del centrodestra. Al Nord il Pd perde terreno, ma mantiene qualche presidio importante: Padova tra i comuni, ma poi anche Torino, Alessandria, Belluno e Rovigo tra le province. Al Centro il Pdl espugna Ascoli e Prato dopo 63 anni, ma nell’insieme la ex “zona rossa” della dorsale appenninica, tra comuni e province, resta saldamente in mano al Pd: da Firenze a Ferrara, da Bologna a Forlì, da Rimini a Parma, da Rieti a Fermo. La stessa cosa vale per il Sud, dove il Pdl conquista Lecce, ma il Pd si riconferma da Bari a Brindisi, da Crotone a Cosenza. Detto altrimenti: al Popolo delle Libertà non riescono più i clamorosi cappotti alla siciliana di qualche tempo fa, mentre al Partito democratico, almeno per ora, sembra evitato lo spettro di vedersi immiserito a quella “Lega dell’Appennino” più volte preconizzata da Tremonti.

Certo, in questo esito ha giocato un ruolo fondamentale l’astensionismo, che si è rivelato la vera novità di una velenosa e accidiosa stagione elettorale italiana. Un astensionismo che prima di tutto ha finito di uccidere il referendum sulla legge elettorale, con il tasso di partecipazione più basso della storia repubblicana, frutto delle troppe strumentalizzazioni cui i quesiti sono stati sottoposti, oltre che della consueta, abusata distorsione dello strumento referendario compiuto in questi decenni. E poi ha condizionato fortemente anche il voto amministrativo: quanti leghisti se ne saranno andati al mare, preferendo l’affondamento del referendum contro la porcata di Calderoli al sostegno del candidato dell’alleanza di centrodestra? Sta di fatto che l’ennesimo fallimento della consultazione popolare impone un ripensamento dell’istituto: se vogliamo salvare questa importante forma di democrazia diretta, piuttosto, eliminiamo il quorum ed alziamo di molto la soglia della raccolta delle firme. Ma di questo ci sarà tempo e modo per discutere. Sul piano politico, questo ciclo di voto si presta ad almeno due considerazioni di fondo.

La prima riguarda la maggioranza. O meglio, il premier. Sembra incredibile, a poco più di un anno dal trionfo del 13 aprile 2008, che aveva consacrato il Cavaliere come uno “statista” baciato dal consenso e aveva cementato una maggioranza con numeri “bulgari” in Parlamento. Eppure è accaduto: la metamorfosi si è compiuta. Il cigno è già un’anatra zoppa. Vulnerata dalla sua stessa, tragica esondazione egotistica, prima ancora che dalla sua drammatica inazione politica. La sovrapposizione delle europee e delle amministrative fotografa la vera novità della fase: l’insuccesso, l’appannamento, la crisi del Cavaliere. Sancita dalle preferenze, che si fermano a quota 2 milioni e 700 mila con la somma dei voti dei due ex partiti (Forza Italia ed An) mentre raggiunsero quota 2 milioni e 900 mila nel 1994 e nel 1999, quando a votarlo era solo il suo partito personale.

Palesata dai consensi a livello locale, e soprattutto a Bari, che per ovvi motivi (l’inchiesta sulle feste nelle dimore berlusconiane) era diventato un test pilota, quasi un referendum. Ebbene, tutto dimostra quanto era già evidente da tempo, e quanto solo i vacui replicanti del premier si ostinavano a non vedere: il torbido terremoto a sfondo sessuale che fa vacillare le mura di Villa Certosa e di Palazzo Grazioli ha un contenuto politico incancellabile, e un impatto sociale innegabile. A destra lo hanno ammesso persino antichi sodali dell’uomo di Arcore, come Marcello Dell’Utri, e lucidi intellettuali vicini al presidente della camera Fini, come Alessandro Campi. Solo i ventriloqui del Re Travicello come Bondi, Cicchitto o Gasparri si ostinano a negare questa evidenza.

La seconda considerazione riguarda l’opposizione. O meglio, il Pd. Il risultato in Puglia, e nelle altre zone dove è stato possibile l’accordo con l’Udc, dimostra che il dialogo con il centro di Casini è forse l’unica via per tentare una riapertura del gioco politico. Per provare a scongelare i due blocchi contrapposti, in una ricomposizione difficile ma forse non impossibile. Nei ballottaggi l’Udc ha adottato la politica dei due forni: in 7 province si è alleato con il centrosinistra, in 10 con il centrodestra. La stessa cosa ha fatto nei comuni, firmando un’alleanza con la sinistra in 3 casi, e con la destra in 7. L’epilogo di questo opportunismo neo-democristiano di Casini dimostra che, dove è stato possibile, l’alleanza con la sinistra ha premiato. E avrebbe premiato persino a Milano, se fosse andato in porto l’accordo per sostenere Penati. Anche questo, in vista del congresso di ottobre che a questo punto non sarà un funerale, impone una seria riflessione, che può utilmente incrociare anche un ragionamento sulla riforma della legge elettorale: in queste condizioni un ritorno sul modello tedesco, proporzionale con la soglia di sbarramento, potrebbe essere una soluzione da valutare, vista anche la disponibilità teorica della Lega.

L’Italia che esce dal voto non è bipartitica, ma resta bipolare. Anche di questo occorrerà tener conto, per definire il profilo di un’opposizione che, mai come ora, ha il dovere di riprofilarsi e di ripresentarsi al Paese come un’alternativa seria, vera, credibile. Di fronte al “complottismo” e alle “teorie cospiratorie” che lui stesso alimenta, il Cavaliere tradisce uno “stile paranoico” (raccontato a suo tempo da Richard Hofstadter) che non promette nulla di buono. Le “scosse” al governo e alla maggioranza sono arrivate. Non c’entravano le spallate giudiziarie. C’entra la politica. E per lui è persino peggio. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Berlusconi è stato all’altezza dell’agognato incontro con Obama?

Il vecchio clown alla Casa bianca, di Giovanna Pajetta-Il Manifesto

Silvio Berlusconi è arrivato a un passo dal colpo grosso, essere inquadrato alla Casa bianca nel momento, atteso per tutta la giornata di lunedì, in cui Barak Obama finalmente commentava la situazione iraniana. Ma le telecamere, impietose, hanno evitato in ogni modo di far vedere chi fosse l’ospite straniero. E così, mentre il presidente americano spiegava compreso “non posso rimanere in silenzio davanti alle immagini che vedo in televisione… al di là del risultato delle elezioni, gli iraniani devono poter decidere del futuro del loro paese “, l’unica altra voce che si è sentita (bruscamente zittita dallo stesso Obama) è stata quella dell’interprete italiano.
Schiacciato tra la grande battaglia per la riforma sanitaria e gli eventi, sempre più preoccupanti, di Teheran, il primo incontro di Silvio Berlusconi con il nuovo presidente egli Stati uniti, è stato in realtà molto formale. Il premier italiano ha portato in dono l’invio di altri 200 o 300 soldati italiani (probabilmente spostandoli, temporaneamente, dai Balcani) e soprattutto l’offerta di ospitare (incarcerare?) nella penisola almeno 3 ex detenuti di Guantanamo. Barak Obama ha apprezzato e ha risposto con un classico, e stereotipato “Piacere di vederti, amico mio”, sorridendo composto anche quando Berlusconi l’ha praticamente abbracciato, o con l’altrettanto classica affermazione “L’Italia è un alleato cruciale”.
Organizzato in vista del G8 di luglio all’Aquila, al centro di buona parte dei colloqui (a cui ha partecipato anche Hillary Clinton) l’incontro del resto era stato voluto fortemente da Silvio Berlusconi. Dopo gli anni della “grande amicizia” con George Bush, la distanza tra Italia e Stati uniti è cresciuta a dismisura, fino a far maturare le voci di un vero e proprio fastidio americano nei confronti di un premier più vicino a Vladimir Putin che alla Casa bianca. Poi è arrivato lo scandalo Veronica, Silvio Berlusconi è stato sbeffeggiato su tutta la stampa straniera e, come notava James Walston, professore dell’Accademia americana di Roma, il viaggio a Washington serviva per cercare di dimostrare che il nostro premier è “uno statista e non solo un vecchio clown”.
In realtà le televisioni americane hanno non hanno dato nessun rilievo alla visita, giusto qualche accenno su siti come “Politico.com”, e un benvenuto decisamente velenoso da parte della “National public radio”. La cui corrispondente da Roma ha annunciato l’arrivo “dello screditato premier italiano che, come si sa, dichiara che la crisi economica è un’invenzione dei media”. Ma del resto di questi tempi qualsiasi articolo, o servizio, sul nostro paese è impietoso. Speriamo che almeno una volta entrato nella stanza del caminetto, seduto a fianco di Barak Obama, il nostro premier si sia un po’ trattenuto, evitando quantomeno di spiegare come anche il New York Times (l’Economist, il Finacial Times…) sia in realtà un giornale che complotta contro di lui.

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Ai partiti italiani impegnati nella campagna elettorale dell’Europa gli importa un fico.

L’Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia/ di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Potremmo ancora continuare nell’elencare i punti di forza di questo grande protagonista del nuovo mondo globalizzato.

Eppure dobbiamo fermarci perché, in questo mondo, l’Europa non è attore ma, nonostante le cifre della sua economia, un semplice spettatore.

Le grandi decisioni internazionali ci vedono assenti o irrilevanti, anche quando si tratta di problemi che sono a noi vicini per geografia o per interessi, come è stato il caso del Kossovo. Per questo motivo, dopo infiniti dibattiti, è iniziato negli scorsi anni un processo di riforma delle istituzioni europee fondato sulla premessa fondamentale ed inconfutabile che l’Europa non può ottenere risultati ambiziosi se non passando attraverso riforme altrettanto ambiziose. Il processo è partito, ha dato vita ad una Costituzione, bocciata però dal referendum francese, e quindi al trattato di Lisbona, ora fermo a metà strada per il no dell’Irlanda.

Eppure il trattato di Lisbona contiene alcune ovvie indispensabili proposte innovative, come la fine di una ridicola rotazione semestale della presidenza dell’Unione, un inizio di coordinamento della politica estera, un presidente della Commissione eletto dal Parlamento e una pur minima riduzione delle decisioni da prendere all’unanimità.

Si tratta di passi in avanti concreti ma ancora insufficienti per giocare un ruolo da protagonista perché in tutti i numerosi campi in cui è prevista l’unanimità, la paralisi europea è destinata a durare. Eppure il voto irlandese ci impedisce di compiere anche questi piccoli passi in avanti.

Sarebbe tuttavia ingiusto addossare le colpe solo all’Irlanda: lo spirito europeo si è ovunque affievolito e perfino i tre grandi protagonisti della prima Europa, cioè Germania, Francia e Italia pensano più ai loro problemi interni che non ai grandi risultati che potrebbero ottenere lavorando insieme.

Naturalmente non si tratta solo di mettersi d’accordo sulle nuove regole di decisione, ma di convenire su alcune priorità senza le quali l’Europa non può funzionare, come la dotazione di risorse adeguate per affrontare le sfide comuni quali la sufficienza energetica, i cambiamenti climatici e le disparità fra Paesi e Continenti. Per vincere queste sfide la dimensione nazionale è del tutto inadeguata. Per rendersi conto di tutto questo non occorre essere raffinati politologi o economisti: basta dare un’occhiata ad un mappamondo. Eppure stiamo andando a votare senza che si sia ancora aperto un minimo di dibattito sul ruolo che vogliamo dare all’Europa nel mondo.

La preparazione elettorale è esclusivamente dedicata alla politica nazionale e all’influenza che i risultati delle urne avranno sui futuri equilibri politici interni. Continuiamo correttamente a ripetere che senza una politica continentale usciremo solo per ultimi dalla crisi economica ma, nello stesso tempo, non vogliamo dare alle istituzioni comunitarie la forza per prendere le necessarie decisioni.

Ogni giorno assistiamo a gridi di allarme per lo strapotere europeo e non vogliamo ammettere che il costo di tutte le politiche dell’Unione (compresa la politica agricola, gli aiuti alle regioni più povere e il costo della burocrazia) è inferiore all’uno per cento del Prodotto Lordo Europeo.

Invece di ragionare sui fatti e di discutere quanto e come si deve spendere e si deve decidere a livello europeo, si preferisce usare Bruxelles come caprio espiatorio per tutte le cose che non vanno nel nostro Paese. Queste contraddizioni non sono certo solo italiane: esse sono comuni a quasi tutti i Paesi europei. Questi Paesi, tuttavia hanno almeno l’astuzia di inviare al parlamento di Strasburgo persone che, per esperienza, padronanza linguistica e conoscenze specifiche, difendono con continuità ed efficacia i propri interessi. Un primo sguardo alle liste dei candidati ci dice invece che i nostri partiti si sono solo marginalmente posto questo problema.

Per cui, se l’elettore non sarà abilissimo nelle sue scelte, non saremo nemmeno in grado di difendere i nostri elementari interessi nazionali.

Abbiamo ancora quattro settimane di tempo per prepararci a scrivere la nostra preferenza nel modo che riterremo più adatto a raggiungere i nostri obiettivi. Mi permetto tuttavia di consigliare agli elettori, prima di recarsi in cabina, di dare ancora un’occhiata al mappamondo per vedere quanto siamo piccoli noi e quanto sono grandi gli altri. Un altro esercizio utile, che noiosamente ripeto in ogni occasione in cui parlo dell’Europa, è quello di ripensare per un attimo alla storia dell’Italia. Ai tempi del Rinascimento (cioè al tempo della prima globalizzazione) gli Stati italiani primeggiavano in ogni campo, dall’arte della guerra, alle scienze, dalla tecnologia all’architettura, dalla filosofia alla finanza. Non abbiamo avuto la capacità politica di metterci assieme e l’Italia è per sempre scomparsa dai grandi protagonisti della storia mondiale. Oggi per i singoli Paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna compresi) la situazione è del tutto identica. Rimanendo soli si esce dalla storia. Prima di andare a votare è quindi bene pensare anche a quello che succederà ai nostri figli. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Crisi o non crisi, in Italia ci sono sempre due milioni e mezzo di poveri.

Quasi 2 milioni e mezzo di persone, il 4% dell’intera popolazione, vive in Italia in condizioni di povertà assoluta.

Lo rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà nel 2007. Nulla è cambiato fra il 2005 e il 2007.

L’incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile, e immutate sono anche le caratteristiche delle 975 mila famiglie povere: le più numerose, con tre o più figli, dove il capofamiglia è dissocupato e ha abbandonato la scuola dopo la licenza media, oppure gli anziani soli.

Peggio tra tutte le Regioni, il Sud e le isole dove l’incidenza di povertà assoluta (5,8%) è doppia rispetto a quella osservata nel Nord (3,5%) o al Centro Italia (2,9%).

“Sono i più poveri tra i poveri – ha spiegato Linda Laura Sabbadini che ha curato la statistica – che vivono una vita minimamente accettabile”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il ministro che si è accorto che l’Italia è nel pieno della crisi economica.

“Il 2009 sarà un anno ancora più difficile del 2008. Il che è tutto dire. E’ necessario uno sforzo collettivo Governo, imprese, parti sociali, istituzioni bancarie e finanziarie devono agire per ridurre, per quanto possibile, l’impatto della crisi. Gli obiettivi fondamentali sono due: coesione, nella società e conservazione della base industriale”.E’ assolutamente strategico contrastare il ‘rischio dei rischi’, la stretta creditizia in cui si avvitano prima le imprese, poi i lavoratori e infine le stesse banche”. Parola di Giulio Tremonti, ministro dell’economia in Italia, il paese che stava meglio degli altri, secondo Silvio Berlusconi. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Crisi globale: “Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno il pregio dell’efficacia sistemica.”

di TOMMASO DE BERLANGA – Il Manifesto

Il vertice straordinario dei capi di governo Ue si è concluso con un terribile nulla di fatto. Bocciato il piano di aiuti all’Est, i 27 premier si sono limitati a promettere interventi “caso per caso”. Una non-scelta che avvicina a grandi passi la bancarotta per diversi paesi di quell’area.
Stessa, assoluta, mancanza di idee per quanto riguarda gli asset tossici presenti nei bilanci bancari e che bloccano il rifornimento di liquidità all’economia reale: ogni paese se la vedrà da solo, ma in modo (forse) “coordinato”.

C’è un problema di interessi nazionali divergenti, ma soprattutto di cultura economica. I 27 leader sono cresciuti a champagne e neoliberismo, scolaretti modello di un “pensiero unico” che perseguiva l’integrazione incrementando la concorrenza e la libertà assoluta dell’impresa. Un programma strutturalmente contraddittorio che ha potuto ottenere risultati, a fronte di costi sociali incalcolabili, solo in presenza di una lunga fase di crescita economica. Ma che si rivela dannosa – e irrealizzabile – in una fase di profonda depressione.

Questa “politica” si è infatti fondata su una “deflazione salariale” ultraventennale, che ha congelato i salari occidentali delocalizzando parti consistenti della manifattura. Ancora oggi, con milioni di posti di lavoro un fumo e il moltiplicarsi del ricorso ai “contratti di solidarietà” (una socializzazione della riduzione di reddito), dalla Ue e dalla Bce arriva una sola raccomandazione: inchiodare a zero qualsiasi rivendicazione salariale. Peggio ancora Berlusconi, che rifiuta persino di introdurre i sussidi di disoccupazione.

La destra razzista e xenofoba cavalca la crisi indicando nemici di comodo (zingari, migranti, stranieri), nella speranza che intanto il vecchio meccanismo si rimetta in moto. La sinistra si lecca le ferite proponendo, nel migliore dei casi, ragionamenti non sempre lineari. Un tragico divario di efficacia comunicativa.

Il cuore del problema è la tenuta del sistema del credito. La politica dei “salvataggi” è stata fin qui costosissima e inutile, vista la sproporzione quantitativa tra voragini nei conti e disponibilità in mano ai singoli governi. Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno al tempo stesso il pregio dell’efficacia sistemica e dell’individuazione dei responsabili più indifendibili del tracollo in corso: banchieri, piazze finanziarie, “gestori di patrimoni”, ecc.

Jacques Attali, un mese fa, si è lasciato sfuggire un “bisognerebbe europeizzare le banche in crisi, non nazionalizzarle” o lasciarle in mano a quegli irresponsabili. “Europeizzare” significa trasformare le banche in un “servizio pubblico” sotto il controllo di un’istituzione europea di alto profilo. Ma una simile scelta porta con sé necessariamente tre iniziative per dare all’integrazione europea un volto diverso da quello fin qui dominante.

– Una politica fiscale continentale (armonizzare i vari sistemi nazionali per contrastare le delocalizzazioni incentivate da sconti fiscali locali);

– un’unica politica salariale per armonizzare i differenziali retributivi e di potere d’acquisto (e contrastare il dumping sociale);

– una politica industriale continentale che, riconvertendo gli attuali “fondi europei” (Fas, Fse, ecc), definisca “cosa vogliamo produrre, in che quantità, dove, in che modo”.

In una parola, un ripensamento globale dell’Europa che salvaguardi il “lato buono” della globalizzazione (il superamento dei conflitti commerciali) e ne elimini quelli negativi e impoverenti.

L’orizzonte prossimo più realistico non vede profilarsi la possibilità di una “ripresa” del vecchio meccanismo, ma pone la centralità della tenuta sociale. Il rischio principale è ancora quello della guerra di tutti contro tutti. Ovvero una Weimar al cubo. (Beh, buona giornata).

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