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Nuovo crollo della fiducia, i consumi sempre peggio.

(fonte: repubblica.it)

Cala a settembre la fiducia dei consumatori
Secondo i dati dell’Istat, non crescono le attese di un ritorno dei consumi. L’indice scende da 100,3 di settembre a 98,5 attuale.

La Fiducia dei consumatori è debole. A settembre l’indice continua a calare scendendo a 98,5 da 100,3 di agosto. Lo ha comunicato l’Istat. “La flessione, diffusa a tutte le componenti, è più marcata per il clima economico, il cui indice diminuisce da 70,0 a 67,8; la fiducia sulla situazione personale scende da 116,2 a 114,4”, ha spiegato l’istituto.

L’indice del clima corrente cala da 112,1 a 109,7, mentre quello relativo al complesso delle attese a breve termine segna una lieve diminuzione (da 87,5 a 87,2). Peggiorano le valutazioni, presenti e prospettiche, sulla situazione economica del Paese e della famiglia, nonché i giudizi sul bilancio familiare e sull’opportunità attuale del risparmio. Si deteriorano, seppur con intensità minore, anche le attese sull’evoluzione del mercato del lavoro.

Migliorano, per contro, le attese sul mercato dei beni durevoli e sulle intenzioni future di risparmio. I saldi dei giudizi sull’evoluzione recente dei prezzi al consumo e quelli delle previsioni sulla loro dinamica futura registrano un aumento rispetto al mese precedente. La fiducia peggiora in quasi tutte le ripartizioni e il deterioramento è particolarmente intenso nel Mezzogiorno; solo nel Nord-est si registra un lieve recupero. (Beh, buona giornata)

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Crollo della fiducia dei consumatori: non si vede luce in fondo al tunnel della crisi.

La fiducia dei consumatori è crollata ad agosto ai minimi da marzo 2009. L’indice calcolato dall’Istat si è attestato a 100,3 punti, in forte calo dai 103,7 di luglio, e ben sotto i 102 punti previsti mediamente dagli analisti. La flessione, diffusa a tutte le componenti, è particolarmente marcata per il clima economico, il cui indice diminuisce da 74,9 a 70,0. La fiducia sulla situazione personale scende da 118,8 a 116,2, quella sul quadro corrente passa da 116,5 a 112,8. L’indice sul complesso delle attese a breve termine segna un calo più limitato, passando da 87,8 a 87,5.

Peggiorano marcatamente, in particolare, i giudizi sulla situazione economica del Paese e sul mercato dei beni durevoli. Si deteriorano invece con minore intensità le valutazioni presenti e di prospettiva sul risparmio e le attese sull’evoluzione del Paese e del mercato del lavoro. Migliorano lievemente, per contro, quelle sulla situazione personale e sul bilancio familiare. I giudizi sulla dinamica dei prezzi al consumo restano stabili rispetto a luglio, mentre le previsioni sull’evoluzione futura dell’inflazione registrano una flessione rispetto al mese precedente. La fiducia peggiora in tutte le ripartizioni e il deterioramento è particolarmente intenso nel Nord-Est. Beh, buona giornata.

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L’incerta primavera della pubblicità italiana.

Secondo l’Istat, la benzina aumenta del 3,4% su mese e del 12,7% su anno, il gasolio del 4,3% e del 18,5%, il gpl +0,1% e +20,7%, il gasolio da riscaldamento +4,3% e +19,1%. Nel settore regolamentato, i prezzi salgono dello 0,2% su mese e del 3,4% su anno, a causa del rialzo del costo del gas (+0,3% su febbraio e +8,5% tendenziale).

Ed ecco riapparire l’inflazione: a febbraio il costo della vita aveva registrato un incremento dello 0,3% rispetto a gennaio e del 2,4% su base annua. Ed ecco un’accelerazione a marzo: i prezzi sono saliti dello 0,4% mensile per un incremento tendenziale del 2,5%, massimo da novembre 2008.

Com’è facile prevedere, questa situazione non favorisce i consumi, dunque fa male alla pubblicità. Non solo. Fa male alla pubblicità anche il fatto che l’aumento dei prezzi all’ingrosso dei prodotti derivati dal petrolio, utili al confezionamento di beni di largo consumo sta determinando una situazione critica: per non aumentare i prezzi al dettaglio si tagliano i budget pubblicitari, in modo da riequilibrare i relativi business plan.

Gli effetti di questa politica commerciale, che potremmo definire di resistenza alla crisi petrolifera da parte delle aziende italiane comincia a farsi sentire a partire da i centri media e non tarderà ad attraversare tutta la filiera.

Ma non sono solo le turbolenze geopolitiche del nord Africa, con le conseguente corsa al rialzo dei prezzo del petrolio, a turbare i sonni già da tempo molto agitati della pubblicità italiana. Il terremoto e lo tsunami che hanno sconvolto il Giappone stanno diventando un incubo per le concessionarie di pubblicità, soprattutto delle tv commerciali italiane.

La catastrofe nucleare di Fukushima ha provocato un’ondata di generale disapprovazione nei confronti delle politiche nucleariste. La cosa ha provocato una vera e propria catastrofe nella raccolta pubblicitaria.

Se in previsione del referendum erano stati prenotati spazi, soprattutto televisivi, da parte delle aziende del settore energia per sostenere il No al referendum, l’effetto Fukushima ha azzerato tutto: ha costretto il governo a ipotizzare una moratoria di un anno sulla legge che prevedeva il ritorno al nucleare.

E così le aziende del comparto energia hanno disinvestito, annullato le prenotazioni, gettando nel panico le concessionarie. Così è in questa incerta primavera. Beh, buona giornata.

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Aspettando la manovra finanziaria del governo Berlusconi, quello che non metteva le mani nelle tasche degli italiani.

L’Italia sale al quinto posto nella classifica europea: lo scorso anno il peso del fisco sul pil è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Debito pubblico è sempre il più alto d’Europa: nel 2009, in rapporto al prodotto interno lordo, è aumentato di quasi 10 punti rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Beh, buona giornata.

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L’Italia dell’Era Berlusconi: disoccupazione 8,8%; disoccupazione giovanile 27,7%, la più alta d’Europa. Proprio un bel Primo Maggio!

Solo in un anno, da marzo 2009 a marzo 2010, sono stati persi 367 mila posti di lavoro. Si tratta di una riduzione consistente, spiega l’Istat, che in termini di percentuale si traduce in un calo dello 0,2 per cento rispetto a febbraio e dell’1,6 per cento rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è così pari al 56,7% (inferiore, rispetto a febbraio, di 0,1 punti percentuali e di 1,1 punti percentuali rispetto a marzo dell’anno precedente). Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 194 mila unità, in crescita del 2,7% (+58 mila unità) rispetto al mese precedente e ben del 12% (+236 mila unità) rispetto a marzo 2009.

Il tasso di disoccupazione, invece, si innalza ai massimi dal secondo trimestre del 2002: sempre secondo l’Istat, si è attestato a marzo all’8,8%, lo 0,2% in più rispetto al mese precedente e l’1% rispetto a marzo 2009. In forte rialzo anche il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 27,7%, in calo dello 0,4% rispetto al mese precedente e in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009. Beh, buona giornata.

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Altro che percentuali elettorali: la disoccupazione giovanile in Italia è al 28,2 per cento.

Vola a febbraio il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), attestandosi a quota 28,2%. La disoccupazione tra i giovani cresce di 0,8 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4 punti percentuali rispetto a febbraio 2009. Lo rende noto l’Istat nella stima provvisoria di febbraio relativa a occupati e disoccupati. I tecnici dell’Istituto sottolineano che il tasso italiano è superiore di 7,6 punti rispetto a quello relativo alla Ue-27 (20,6%). Resta stabile invece il tasso complessivo a 8,5%, con una variazione congiunturale nulla ma in crescita di 1,2 punti percentuali rispetto a febbraio 2009. Il mese scorso sono stati persi 395 mila posti di lavoro. A perdere il lavoro sono stati soprattutto gli uomini: 294 mila a fronte di 101mila donne. Beh, buona giornata.

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L’Italia il Paese che ha meglio affrontato la crisi? Berlusconi lo dice, l’Istat lo smentisce.

Le vendite al dettaglio dei prodotti alimentari sono diminuite a gennaio dell’1% rispetto a dicembre e del 3,3% rispetto allo stesso periodo del 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da aprile 2007 mentre quello tendenziale è il peggiore dal marzo 2009, quando segnò il -5,2%. Nel complesso le vendite al dettaglio a gennaio sono diminuite dello 0,5% rispetto a dicembre e del 2,6% rispetto a gennaio 2009. Lo rileva l’Istat precisando che il dato congiunturale è il peggiore da dicembre 2008 (allora segnò -0,7%).

Secondo l’istituto di statistica il calo delle vendite su dicembre (-0,5%) è la sintesi tra il -1% delle vendite alimentari (il dato peggiore da aprile 2007) e dello 0,3% dei prodotti non alimentari. Rispetto a gennaio 2009 le vendite alimentari sono diminuite del 3,3% (il calo più consistente da marzo 2009) mentre quelle dei prodotti non alimentari sono diminuite del 2,3%. Il calo tendenziale è stato forte soprattutto nelle imprese della grande distribuzione (-3,1%) mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno segnato un -2,2% su gennaio.

Nell’alimentare le imprese della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 3,5% mentre le imprese operanti su piccole superfici hanno registrato un calo delle vendite del 3,1%. Nel comparto non alimentare le aziende della grande distribuzione hanno segnato un calo delle vendite del 2,9% a fronte del calo del 2% dei piccoli negozi. Nell’alimentare gli ipermercati e i supermercati hanno perso il 3% del fatturato al livello tendenziale mentre i discount alimentare hanno segnato un -2,9%. Sul calo complessivo del 2,6% delle vendite a gennaio spicca quello dei prodotti farmaceutici (-4,2%) e delle dotazioni per l’informatica (-4,3%). Reggono meglio la crisi l’abbigliamento e le calzature (-1,2% per entrambi i comparti) la foto ottica (-0,6%) e il settore dei giocattoli, sport e campeggio (-0,9%). Beh, buona giornata.

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Dove affondano le radici del decreto- salva liste.

Un quarto degli italiani non sa niente di politica. Istat: uomini più attenti delle donne-blitzquotidiano.it

Un quarto della popolazione italiana non si informa mai di politica: il 23,3% degli italiani con più di 14 anni non è interessato alla vita politica del Paese: si tratta, in valori assoluti, di quasi 4 milioni di uomini e di 7 milioni 847 mila donne.

Il dato allarmante è stato diffuso stamane dall’Istat nel rapporto “La partecipazione politica: differenze di genere e territoriali”. L’Istituto di statistica certifica anche che il 60,7% del campione considerato si informa almeno una volta a settimana e il 35,9% ogni giorno. Parla di politica almeno una volta a settimana il 39,4%, ne parla solo occasionalmente il 26,2%, mentre non ne parla mai il 31,9%.

L’ascolto di dibattiti politici è meno diffuso e coinvolge il 23,6% della popolazione: solo 12 milioni di persone dichiarano, infatti, di aver ascoltato dibattiti politici almeno una volta nell’anno.

Le donne sono meno interessate alla politica rispetto agli uomini: solo il 53,6% delle donne si informa settimanalmente contro il 68,5% degli uomini. Inoltre le donne parlano di politica almeno una volta a settimana solo nel 31,3% dei casi contro il 48,1% degli uomini. Ben il 40,1% delle donne non parla di politica e il 29,3% non si informa mai.

Le fasce di età meno interessate alla politica sono giovani e anziani: parla di politica almeno una volta a settimana il 24,5% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni e il 25,2% delle persone con più di 75 anni, mentre a non parlarne mai sono, rispettivamente, il 46,8% e il 54,2%. (Beh, buona giornata).

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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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Ma quale ripresa: in Italia Pil a -5,2 e tasso di disoccupazione a 8,3.

Nubi nere continuano a caratterizzare la situazione economica. I dati dell’Istat non lasciano dubbi. Si parte dal brusco innalzamento del deficit-pil nei primi nove mesi del 2009, un dato quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Si prosegue con l’occupazione che, a novembre, è diminuita di 389.000 unità rispetto allo stesso mese del 2008 e di 44.000 rispetto ad ottobre. Sempre secondo l’Istat il tasso di disoccupazione a novembre ha raggiunto l’8,3%, il dato più alto da aprile 2004.

Deficit-Pil. Nei primi tre trimestri del 2009, comunica l’istat, l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche in rapporto al pil è stato del 5,2%, contro il 2,8% di gennaio-settembre del 2008 (era 6,1% al termine del secondo trimestre del 2009). Solo nel terzo trimestre dell’anno scorso il disavanzo pubblico è stato pari al 3,3% (era 3,2% ad aprile-giugno), più che raddoppiato rispetto all’1,3% dello stesso periodo del 2008. Nel terzo trimestre del 2009 il saldo primario è stato positivo e pari a 2,244 miliardi (era 14,921 miliardi nello stesso periodo del 2008), con un’incidenza positiva sul pil dello 0,6%, mentre era +3,9% a luglio-settembre dell’anno prima.

Nei primi nove mesi del 2009, il saldo primario rispetto al pil è negativo e pari allo 0,8%, contro il +2,3% dello stesso periodo del 2008. A luglio-settembre, aggiunge l’istituto di statistica, il saldo corrente (risparmio) è stato negativo e pari a 940 milioni, contro il valore positivo di 6,499 miliardi dello stesso trimestre dell’anno precedente, con un’incidenza negativa sul pil pari allo 0,2% (+1,7% nello stesso periodo del 2008). Nei primi nove mesi del 2009, inoltre, il saldo corrente in rapporto al pil è negativo e pari al 2,3% (era +0,3% nei primi tre trimestri del 2008).

Disoccupazione. Il tasso di disoccupazione a novembre ha raggiunto l’8,3%, il dato più alto da aprile 2004. A novembre 2008 il tasso di disoccupazione si era attestato al 7,1%. Le persone in cerca di occupazione nel mese erano 2.079.000, cioè 313.000 in più rispetto ad un anno prima e 30.000 in più rispetto ad ottobre. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 26,5%, segnando una riduzione di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente contro un aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a novembre 2008.

Occupazione. L’occupazione a novembre è diminuita di 389.000 unità rispetto allo stesso mese del 2008 e di 44.000 rispetto ad ottobre. Lo rileva l’Istat sulla base dei dati destagionalizzati precisando che il calo tendenziale è dell’1,7% mentre quello congiunturale è dello 0,2%.

Eurozona. La disoccupazione nell’eurozona a novembre ha toccato quota 10% rispetto al 9,9% di ottobre. E’ il dato destagionalizzato diffuso da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, che precisa come si tratti del tasso più elevato da agosto 1998. Nel novembre 2008 il dato era pari all’8%. I dati sono stati diffusi da Eurostat, secondo cui i disoccupati nell’Eurozona sono 15,712 milioni nell’area euro a novembre (+185 mila da ottobre) e 22,899 milioni nell’Ue (+102 mila). Beh buona giornata.

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Il 2010 sarà l’anno della disoccupazione.

L’occupazione e’ calata ad ottobre, su base annua, dell’1,9% mentre nei primi 10 mesi di quest’anno il decremento e’ stato dell’1,4%. Lo segnala l’Istat. Sempre ad ottobre, rispetto a settembre, non c’e’ stata invece alcuna variazione. Tornando invece al confronto con il mese di ottobre 2008, l’Istat evidenzia che il calo dell’1,9% e’ da intendersi al lordo della cig. Al netto, infatti, il calo e’ ancora piu’ accentuato e nell’ordine del 3,7%.
(Beh, buona giornata).

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Italia d’Autunno: superati 2 milioni di disoccupati.

Più di due milioni di disoccupati in Italia: è la prima volta dal marzo del 2004 che l’Istat rileva un numero così elevato di senza lavoro. A ottobre il tasso di disoccupazione è salito all’8% dal 7,8% di settembre. Il numero delle persone in cerca di lavoro è di 2.004.000, in aumento del 2% ( 39mila persone) rispetto a settembre e del 13,4% ( 236mila) su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile – aggiunge l’istituto di statistica – a ottobre è aumentato al 26,9% dal 26,2% di settembre.

Sono 14.741.000, con un aumento di 210.000 unità rispetto all’ottobre 2008, gli ‘inattivi’, che per la statistica sono i non occupati che nelle quattro settimane che precedono l’indagine non hanno effettuato neanche un’azione attiva di ricerca di lavoro (categoria ampia che include gli studenti, le casalinghe, ma anche i cosiddetti ‘scoraggiati’, cioè i disoccupati di lungo corso che ormai non cercano più lavoro perché si sono convinti che non lo troveranno). Il tasso di inattività è pari al 37,4 per cento, invariato rispetto al mese precedente e in aumento dello 0,4 per cento su base annua.

Penalizzata l’occupazione femminile. Infatti l’occupazione maschile a ottobre 2009 è pari a 13.801.000 unità, con un incremento dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente ( 31 mila unità) e una riduzione dell’1,5 per cento (-217 mila unità) rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente. L’occupazione femminile raggiunge le 9.298.000 unità, con una riduzione rispetto a settembre dello 0,3 per cento (-30 mila unità) e dello 0,7 per cento (-67 mila unità) rispetto ad ottobre 2008. Beh, buona giornata.

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La crisi morde gli italiani e si mangia i consumi. Se il Governo non cambia politica economica, anche la pubblicità finisce nei guai.

Diminuisce il reddito disponibile lordo delle famiglie italiane, calano il potere d’acquisto, le spese per consumi finali e gli investimenti fissi lordi. Diminuisce anche la propensione al risparmio. È il quadro delineato dall’Istat nell’indagine riferita al secondo trimestre 2009.

Il reddito lordo a disposizione delle famiglie italiane, consumatori e micro-imprese, è calato di 11 miliardi di euro (-1%). Secondo l’Istat insieme al reddito si riduce anche la propensione al risparmio che è scesa dello 0,4% rispetto al trimestre precedente. Nel dettaglio, la propensione al risparmio delle famiglie nel secondo trimestre 2009 è stata pari al 15,2% del reddito lordo, in calo dopo molti trimestri di aumento.

La spesa delle famiglie per consumi finali si è ridotta invece dello 0,5%. Beh. buona giornata.

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Se la pubblicità fa i conti senza l’oste: il consumatore.

Secondo l’Istat la spesa media mensile per famiglia è stata pari a 2.485 euro, praticamente invariata in termini nominali rispetto all’anno precedente (+0,2%), ma in netto calo se si tiene conto dell’inflazione

Nel 2008 la spesa media mensile per famiglia è stata pari a 2.485 euro, praticamente invariata rispetto all’anno precedente (+0,2%). Il dato emerge dall’analisi annuale dell’Istat sui consumi delle famiglie. La variazione, che tiene conto del tasso di inflazione pari al 3,3%, mette in evidenza la netta flessione della spesa in termini reali.

Lo scorso anno, la spesa per generi alimentari e bevande si è attestata sui 475 euro, circa 9 euro in più rispetto al 2007. Il risultato sembra essenzialmente dovuto alla sostenuta dinamica inflazionistica dei generi alimentari (+5,4%). Le famiglie hanno però cercato di contenere le spese: più del 40% delle famiglie ha dichiarato di aver limitato l’acquisto o di aver scelto prodotti di qualità inferiore o diversa rispetto all’anno precedente (la percentuale è del 43,4% se si considera l’acquisto di pane; il 49,2% per la pasta, il 55,7% per la carne, il 58% per il pesce e il 53,7% per frutta e verdura).

Le spese familiari per generi non alimentari passano dai 2.014 euro del 2007 ai 2.009 euro del 2008. Aumentano le spese per combustibili: la composizione percentuale rispetto al totale della spesa passa dal 4,7% del 2007 al 5,2% del 2008. L’aumento è determinato, spiega l’Istat, da un lato dalla spesa contenuta nel 2007 e dall’altro dalla sostenuta dinamica dei prezzi per combustibili nel 2008.

Analizzando la situazione a livello territoriale si riscontra una sostanziale stabilità del livello di spesa in termini nominali: nel Nord la spesa media mensile delle famiglie è stata pari a 2.810 euro (+0,5% rispetto al 2007), nel Centro a 2.558 euro (+0,7%) e nel Mezzogiorno a 1.950 euro (-1%). Beh, buona giornata.

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La crisi e gli italiani: e pensare che la pubblicità diceva che la vita comincia a 50 anni.

La crisi ha colpito anche le categorie di lavoratori che sembravano più garantite
Dal 1995 per la prima volta la crescita dei senza lavoro supera quella degli occupati
Maschio, sposato, di mezza età
Per l’Istat è il “nuovo disoccupato”
Dal Rapporto Annuale emerge anche una maggiore vulnerabilità degli immigrati
Un milione e mezzo di famiglie ha gravi difficoltà per il cibo, i vestiti e il riscaldamento
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

Aumentati nel 2008 i disoccupati maschi tra i 35 e i 54 anni

ROMA – Tra i 35 e i 54 anni, maschio, residente al Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, coniugato o convivente, ex titolare di un contratto a tempo indeterminato nell’industria. E’ il “nuovo disoccupato”, secondo la descrizione che ne fa il Rapporto Annuale dell’Istat. Perché la crisi non ha prodotto solo disoccupati ‘di lusso’ come i manager, non si è accanita solo sulle categorie da sempre in Italia ai margini del mercato del lavoro: i meridionali, i giovani, i precari, le donne. La novità della crisi è che a perdere il lavoro sono “i padri di famiglia”, le figure di riferimento, che magari portavano a casa stipendi mediocri, ma tali comunque da permettere ad altre persone (moglie, convivente, figli o altri parenti) di condurre un’esistenza dignitosa.

Più disoccupati anche tra gli stranieri. La crisi non ha risparmiato neanche gli stranieri, e anche in questo caso, i più colpiti sono stati gli uomini di età media: “L’andamento dell’ultimo anno – si legge nel Rapporto – segnala un forte calo delle donne disoccupate con responsabilità familiari, soprattutto di quelle con figli, arrivate a incidere non più del 70 per cento a fronte del 78 per cento di tre anni prima. Al contrario, gli effetti della crisi sembrano aver investito i loro coniugi/conviventi uomini, la cui incidenza è invece aumentata in maniera significativa, specie negli ultimi tre trimestri”.

Va peggio alla fascia 40-49 anni. Tanto che nel quarto trimestre del 2008 la quota dei disoccupati stranieri arriva a superare il 10 per cento del totale dei senza lavoro, contro il 6,1 per cento del primo trimestre del 2005. “In particolare – rileva l’Istat – gli stranieri tra i 40 e i 49 anni accusano più degli altri gli effetti della fase recessiva, e spiegano circa il 50 per cento dell’incremento della disoccupazione maschile”.

Il deterioramento del mercato. Dunque i due fenomeni sono collegati. I maschi adulti con carichi familiari, italiani o stranieri, sono diventati i più vulnerabili in una situazione di generale peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro: infatti nel 2008, per la prima volta dal 1995, la crescita degli occupati (183.000 unità) è inferiore a quella dei disoccupati (186.000 unità).

La disoccupazione si fa adulta. Perdono il lavoro i titolari di un contratto a termine, o atipico. Ma vengono licenziati anche i titolari di un contratto a tempo indeterminato ( 32 per cento nel 2008). In dettaglio, questa l’analisi dell’Istat: “Un disoccupato su quattro ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre l’aumento delle persone tra 35 e 54 anni spiega quasi i due terzi dell’incremento totale della disoccupazione. Si è passati nel tempo da una disoccupazione da inserimento, essenzialmente concentrata nei giovani con meno di 30 anni fino alla metà degli anni Novanta, a una sempre più adulta. Nel corso del 2008 questa tendenza ha accelerato”.

Più ‘padri’ atipici o precari. La crisi ha colpito di più le famiglie con figli, a loro volta vittime di un mercato del lavoro che più che mai li respinge (il tasso di occupazione dei ‘figli’, pari al 42,9 per cento, nel 2008 è sceso di sette decimi di punto rispetto al 2007). E allora, accanto alla disoccupazione dei ‘padri’, si registra un peggioramento del tipo di lavoro. “Tra il 2007 e il 2008 i padri con un’occupazione part time, a termine o con una collaborazione sono 17.000 in più; quelli con un’occupazione ‘standard’ 107.000 in meno”: cioè tra i tanti che vengono licenziati, qualcuno riesce a riciclarsi con un lavoro precario. Tra padri e figli, i più colpiti sono quelli meno istruiti, che al massimo hanno un diploma di scuola media superiore.

Le famiglie che non arrivano a fine mese. La diminuzione o il venir meno dei redditi da lavoro produce povertà. L’Istat individua circa un milione e 500.000 famiglie (il 6,3 per cento del totale) che arrivano alla fine del mese “con grande difficoltà” e che, nell’81,1 per cento dei casi, dichiarano di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 700 euro. In questo gruppo ci sono le famiglie indietro con il pagamento delle bollette, che non possono permettersi di riscaldare adeguatamente l’abitazione (45,8 per cento). Hanno difficoltà ad acquistare vestiti (62,9 per cento) o ad affrontare le spese per malattie (46,6 per cento). In genere le famiglie di questo gruppo contano su un unico percettore di reddito con un livello di istruzione non superiore alla licenza media, di età inferiore ai 45 anni. Ci sono poi 1,3 milioni di famiglie che hanno difficoltà leggermente inferiori, ma che spesso, a causa dei redditi bassi (nella maggior parte dei casi possono contare su un unico percettore di reddito che ha la licenza media inferiore), hanno difficoltà nei pagamenti, nell’acquisto di alimenti e vestiti, e anche nel riscaldamento della casa.

Le famiglie ‘agiate’ sono 10 milioni. All’altro estremo si collocano le famiglie agiate: 1,5 milioni che arrivano alla fine del mese “con facilità o con molta facilità”, 8,6 milioni che lamentano solo qualche difficoltà sporadica, “imputabile più allo stile di consumo che a vincoli di bilancio stringenti”. Abitano soprattutto al Nord, con una prevalenza di residenti in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta.

Le famiglie con difficoltà relative. Al centro si collocano le famiglie che non hanno difficoltà economiche eccessive, ma che non risparmiano (spesso si tratta di anziani); le famiglie giovani gravate da un mutuo per la casa, che assorbe una parte più che consistente del reddito disponibile; e infine le famiglie cosiddette ‘vulnerabili’. Si tratta di 2,5 milioni di famiglie, il 10,4 per cento del totale: sono a basso reddito, una parte ha una casa di proprietà, una parte vive in affitto. La loro vulnerabilità è data dal fatto che contano su un solo percettore di reddito, che nel 41,4 per cento dei casi ha preso soltanto la licenza elementare. (Beh, buona giornata).

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L’Istat smentisce chi dice che la crisi sta passando.

Gli ordinativi dell’industria italiana a marzo hanno registrato un calo del 26% rispetto a marzo 2008 e del 2,7% rispetto a febbraio 2009, comunica l’Istat. Nel settore auto, informa sempre l’istituto di statistica, il fatturato dell’industria a marzo è diminuito del 27,9% rispetto a marzo 2008, mentre gli ordinativi sono calati del 19%.

La flessione degli ordinativi è stata determinata dalla domanda estera con una contrazione del 9,4% mentre gli ordini domestici mostrano una crescita dell’1%. Al contrario il fatturato estero a marzo sale dello 0,1% e quello domstico accusa un calo dell’1,3%. Nel complesso il primo trimestre dell’anno evidenzia rispetto al precedente un calo del 9,9% per gli ordinativi e per il fatturato.

A marzo, a livello settoriale, i mezzi di trasporto accusano un calo del fatturato del 36,4% sul marzo del 2008 mentre gli ordinativi mostrano una contrazione del 30%. Per il fatturato le flessioni più contenute per la farmaceutica (-6,3%), estrazione minerali (-2,2%), alimentari (-2,7%). Beh, buona giornata.

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Brutte notizie per il governo Berlusconi che sperava la crisi passasse da sola.

Il Prodotto interno lordo dell’Italia è calato nei primi tre mesi dell’anno del 5,9% rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il calo rispetto al trimestre precedente è del 2,4%. Lo rileva l’Istat, che precisa che dati tanto negativi non si registravano dal 1980, cioè dall’inizio della serie storica. Peraltro, quattro trimestri consecutivi di calo non si vedevano dal 1992-1993, quando i cali furono sei, ma di minori entità.

Sulla base degli attuali dati, è del 4,6% il calo della crescita già acquisito per il 2009. In pratica, spiega l’Istat, anche se i prossimi trimestri vedranno una variazione nulla, si registrerà un calo del Pil pari al 4,6%. Un dato peggiore di quello previsto dalle ultime stime del governo, inserite nella Relazione Unificata sull’Economia e Finanza (Ruef): – 4,2%. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Crisi o non crisi, in Italia ci sono sempre due milioni e mezzo di poveri.

Quasi 2 milioni e mezzo di persone, il 4% dell’intera popolazione, vive in Italia in condizioni di povertà assoluta.

Lo rileva l’Istat nel rapporto sulla povertà nel 2007. Nulla è cambiato fra il 2005 e il 2007.

L’incidenza di povertà assoluta è rimasta stabile, e immutate sono anche le caratteristiche delle 975 mila famiglie povere: le più numerose, con tre o più figli, dove il capofamiglia è dissocupato e ha abbandonato la scuola dopo la licenza media, oppure gli anziani soli.

Peggio tra tutte le Regioni, il Sud e le isole dove l’incidenza di povertà assoluta (5,8%) è doppia rispetto a quella osservata nel Nord (3,5%) o al Centro Italia (2,9%).

“Sono i più poveri tra i poveri – ha spiegato Linda Laura Sabbadini che ha curato la statistica – che vivono una vita minimamente accettabile”. (Beh, buona giornata).

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