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Attualità Cultura Libri

Un attacco militare annunciato da Gianni Perrelli suo ultimo libro.

di RICCARDO TAVANI

L’attacco israeliano antisiriano (avvenuto ieri 30 gennaio, ndr) è anticipato e descritto in Il Tunnel l’ultimo romanzo di Gianni Perrelli, che questo blog ha recensito solo qualche giorno fa.

Fresco di libreria, edito da Di Renzo, il libro fa proprio di quel tipo di attacco a un convoglio militare il centro di una complicata partita a scacchi di tipo politico, spionistico e militare.

Gianni Perrelli è un veterano degli inviati italiani nelle zone più calde e nevralgiche del pianeta, oltre a essere stato corrispondente da New York per l’Espresso. In particolare sono proprio le principali città nelle quali si avviluppa la ragnatela di questa political-spy-story, ovvero Teheran, Damasco, Beirut, e Bagdhad, che Perrelli ha frequentato per anni e conosce fin nelle più riservate ambientazioni.

Ci sono sulla mappa della realtà anche zone di confine e oscuri snodi territoriali di scambio, traffici, doppi giochi e felpati voltafaccia internazionali che Perrelli riproduce non solo nella topografia Buy Viagra ma soprattutto nelle insidie impalpabili che si nascondo nelle atmosfere del via vai quotidiano e che sfuggono a chi non sa leggerne i segni.

È proprio la dimestichezza sia con il quadro generale che con i dettagli che esso contiene che ha fatto intuire a Perrelli che sul quel confine oscillava, un fattore di crisi permanente, incombente e pronto a prendere la forma dell’attacco che proprio ora si è attuato.

Se ne è discusso, ieri, mercoledì 30 gennaio, al Palazzo Fandango Incontro, in via dei Prefetti a Roma, in occasione della presentazione di “Tunnel”. Forse, sempre in virtù di questa conoscenza e intuizione premonitoria, Andrea Purgatori che discuteva con Perrelli del libro, ha fatto riferimento a un bombardamento del passato a Teheran, attuato allora dagli americani, che somigliava molto all’altro obiettivo ieri colpito dagli israeliani, ovvero a un centro di ricerca militare vicino Damasco. Gianni Perrelli, Il Tunnel, Di Renzo Editore, pagine 257, 14 Euro. (Beh, buona giornata).

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Fumetti. libertà, informazione, pluralismo, Movimenti politici e sociali Popoli e politiche

C’era una volta a Gaza.

di Giulio Gargia-3dnews.it

Dedicato a Vittorio Arrigoni

Il giorno in cui fu assassinato,Vittorio Arrigoni viveva a Gaza,
dentro una comunità di cui raccontava problemi e sofferenze, come
quelli causati dall’Operazione Piombo Fuso del 2008.

Dopo allora solo sette attivisti occidentali dell’ISM, l’International
Solidarity Mouvement, tra cui lui, sono rimasti sotto le bombe,
decisi a dare una mano alla popolazione civile di Gaza.

Per questo, Vittorio ha ricevuto il Premio Speciale Rachel Corrie
2010. dedicato all’attivista USA morta sotto un bulldozer israeliano.
Non potendo uscire da Gaza a causa del blocco israeliano, alla
premiazione del 4 ottobre sono andati i suoi genitori

Tra i suoi articoli, veri e propri scoop, come la denuncia
dell’impiego massiccio di fosforo bianco e di armi di nuova
generazione (DIME).
Per le sue attività un sito pro Israele, http://stoptheism.com/ lo
indica tra i “bersagli da colpire”, con relativi riferimenti
telefonici.
I volontari dell’ISM sono definiti “terroristi” , su di loro ci sono
schede dettagliate e invito, a chiunque possa fornire indicazioni
utili, a mettersi in contatto con l’organizzazione tramite mail o
numero di telefono.

A Vik e a tutti loro abbiamo dedicato questa nostra puntata della
cronaca a fumetti, che trovate sul nostro link
http://www.3dnews.it/taxonomy/term/384?page=7
Con una particolare citazione per Fiamma Nirenstein e per il suo odio
inconsulto per tutti quelli che vogliono aiutare il popolo
palestinese. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Il Cairo, 4 Giugno 2009.

Ecco la traduzione integrale del discorso del presidente americano Barack Obama all’Università del Cairo.-repubblica.it

SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l’Università del Cairo è la culla del progresso dell’Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso.

Sono grato di questa ospitalità e dell’accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum.

Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l’Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell’Islam.

Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati dell’11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l’Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell’America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze.

Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l’odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.

Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’inizio di un rapporto che si basi sull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’uomo.

Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell’arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l’uno dall’altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: “Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità”. Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l’importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.

In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell’azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.

Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell’Islam. Fu l’Islam infatti – in istituzioni come l’Università Al-Azhar – a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all’Illuminismo. Fu l’innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l’algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l’Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l’eguaglianza tra le razze.

So anche che l’Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell’ordine dei musulmani”. Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – custodiva nella sua biblioteca personale.

Ho pertanto conosciuto l’Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’Islam, ovunque esso possa affiorare.

Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell’America da parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l’America non corrisponde a quell’approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull’ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. “Da molti, uno solo”.

Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.

E ancora: la libertà in America è tutt’uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c’è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all’interno dei nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l’hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo.

Non c’è dubbio alcuno, pertanto: l’Islam è parte integrante dell’America. E io credo che l’America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.

Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l’inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.

Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione vuole dotarsi di un’arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano.

Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l’una all’altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all’insuccesso.

Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso.

Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme.

Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l’America non è – e non sarà mai – in guerra con l’Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell’America, e la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell’11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.

Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l’America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l’ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così.

Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l’impegno dell’America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l’Islam stesso.

Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.

Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.

Permettetemi ora di affrontare la questione dell’Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all’America per comprendere meglio l’uso delle risorse diplomatiche e l’utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo”.

Oggi l’America ha una duplice responsabilità: aiutare l’Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l’America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell’Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l’accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall’Iraq entro il 2012. Aiuteremo l’Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da partner, non da dominatori.

E infine, proprio come l’America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L’11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d’azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l’ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell’anno venturo.

L’America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch’esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro.

La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile.

Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l’antisemitismo in Europa è culminato nell’Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all’intera popolazione odierna di Israele.

Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l’odio. Minacciare Israele di distruzione – o ripetere vili stereotipi sugli ebrei – è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita.

D’altra parte è innegabile che il popolo palestinese – formato da cristiani e musulmani – ha sofferto anch’esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all’essere sfollati. Molti vivono nell’attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all’occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.

Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all’interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall’altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l’unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.

Questa soluzione è nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l’impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro – e noi tutti con loro – facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.

I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l’umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell’America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all’Asia meridionale, dall’Europa dell’Est all’Indonesia. Questa storia ha un’unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l’autorità morale: questo è il modo col quale l’autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.

È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L’Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.

Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino.

Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l’incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.

Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l’Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l’attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l’incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.

L’America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.

Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera.

Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l’Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l’Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l’Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.

Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell’interesse dell’America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.

Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l’impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni – Iran incluso – dovrebbero avere accesso all’energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo.

Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un’altra.

Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L’America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un’equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.

La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L’America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.

Quest’ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l’unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia.

Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell’Andalusia e di Cordoba durante l’Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.

Tra alcuni musulmani predomina un’inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq.

La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.

Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l’ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo.

È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell’Arabia Saudita e la leadership turca nell’Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all’azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.

Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l’opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo “meno uguale”. So però che negare l’istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.

Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell’eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l’Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.

Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani – uomini e donne – di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere il diritto delle bambine ad accedere all’istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un’occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.

Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni – compresa la mia – questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.

So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l’economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all’avanguardia nell’innovazione e nell’istruzione.

Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un’enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l’istruzione e l’innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l’America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.

Dal punto di vista dell’istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull’insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest’anno un summit sull’imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro “verdi”, monitorare i successi, l’acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l’Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute infantile e delle puerpere.

Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.

I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l’energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.

So che molte persone – musulmane e non musulmane – mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d’accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: “Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo”.

Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo – un lungo e impegnativo sforzo – per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.

È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C’è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.

Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: “Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri”. Nel Talmud si legge: “La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace”. E la Sacra Bibbia dice: “Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi. (Beh, buona giornata).

(Traduzione di Anna Bissanti)

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Popoli e politiche

Gaza non è l’Aquila.

di Gideon Levy – «Haaretz» da megachip.info

Alyan Abu-Aun giace nella sua tenda, accanto a lui le sue stampelle. Fuma sigarette e guarda nella spazio vuoto della piccola tenda. Il figlioletto gli siede in grembo. Dieci persone sono stipate in una tenda che ha le dimensioni di una piccola stanza. È la loro casa da tre mesi. Nulla rimane della loro casa precedente, che le Forze di Difesa di Israele bombardarono durante l’Operazione Piombo Fuso. Sono profughi per la seconda volta; la madre di Abu-Aun ricorda ancora la sua casa a Sumsum, una città che una volta era vicino ad Ashkelon.

Abu-Aun, 53 anni, è stato ferito durante il tentativo di fuggire quando la sua casa nella città di Beit Lahia, nella striscia di Gaza, è stata bombardata. Da allora è in stampelle. Sua moglie ha partorito durante la guerra, e ora il bambino è con loro nella tenda fredda. La tenda è stata spazzata via durante la tempesta che ha imperversato sulla Striscia di Gaza mercoledì scorso, così che la famiglia ha dovuto ripiantarla. Ricevono l’acqua solo occasionalmente in un serbatoio, e hanno una piccola baracca di latta come bagno per 100 famiglie in questo nuovo campo di rifugiati, ‘Camp Gaza,’ a Beit Lahia quartiere di Al-Atatra.

Abu-Aun sembrava particolarmente amareggiato lo scorso fine settimana; la Croce Rossa ha negato alla sua famiglia un tenda più grande. E poi ne ha abbastanza di mangiare fagioli.

Da tre mesi, la famiglia di Abu-Aun e migliaia di altri, vivono in cinque tendopoli costruite dopo la guerra. Non hanno iniziato a portare via i resti delle loro case, per non parlare di costruirne di nuove. A migliaia vivono all’ombra delle rovine delle loro case, a migliaia nelle tende, migliaia stipati insieme ai loro parenti, decine di migliaia di persone, nuovi senzatetto, per i quali il mondo ha perso interesse. Dopo la conferenza dei paesi donatori, convocata con grande fanfara a Sharm el-Sheikh un mese e mezzo fa, che comprendeva 75 paesi e che ha deciso di stanziare 1 miliardo di dollari per la ricostruzione di Gaza, nulla è accaduto.

Gaza è sotto assedio. Non ci sono materiali da costruzione. Israele e il mondo impongono condizioni, i palestinesi non sono in grado di formare un governo di unità, come è necessario, di soldi e di calcestruzzo non se ne vedono e la famiglia di Abu-Aun continua a vivere in una tenda. Anche i 900 milioni di dollari promessi dagli Stati Uniti sono bloccati nel registratore di cassa. C’è da dubitare se verranno mai tirati fuori. Parola dell’America.

È esattamente da tre mesi che si fa tanto parlare di guerra, e Gaza è ancora una volta dimenticata. Israele non si è mai data cura del benessere delle sue vittime. Ora anche il mondo ha dimenticato. Due settimane con a malapena un razzo Qassam son bastate a portare Gaza completamente fuori dall’ordine del giorno. Se gli abitanti di Gaza non si sbrigano a riprendere il fuoco, nessuno un’altra volta si darà cura del loro benessere. Anche se non è nuovo, questo è un messaggio particolarmentee terribile e doloroso capace di innescare il prossimo ciclo di violenze. E allora sarà certo che non riceveranno aiuti, perché staranno sparando.

Qualcuno deve assumersi la responsabilità per le sorti della famiglia Abu-Aun e di altre vittime come loro. Se fossero stati feriti in un terremoto, il mondo probabilmente avrebbe aiutato loro a riprendersi già da molto. Anche Israele avrebbe rapidamente speditio convogli di aiuti da parte di ZAKA, Magen David Adom, persino dell’IDF (le Forze di Difesa di Israele, ndt). Ma la famiglia di Abu-Aun non è stata ferita da una calamità naturale, bensì da mani, carne e sangue “made in Israel” e non per la prima volta. La risposta: nessun risarcimento, nessun aiuto, nessuna riabilitazione. Israele e il mondo sono troppo preoccupati da altre faccende per ricostruire Gaza. Non hanno più parole. Gaza, ricordate?

Dalle rovine della famiglia di Abu-Aun germoglia una nuova disperazione. Sarà più amara rispetto alla precedente. Una dignitosa famiglia di otto persone è stata distrutta, fisicamente e psicologicamente, e il mondo se ne lava le mani. Non dobbiamo aspettarci che Israele compenserà le sue vittime o ricostruisca le rovine che ha causato, anche se questo sarebbe nel suo interesse, per non parlare del suo obbligo morale, un argomento di cui neppure si parla.

Ancora una volta il mondo deve ripulire i casini di Israele. Ma Israele sta imponendo sempre più condizioni politiche per fornire aiuti umanitari di emergenza: scuse vacue per lasciare Gaza in rovina e non offrire l’aiuto che Gaza merita e di cui ha disperatamente bisogno. Gaza, ancora una volta, è stata lasciata a se stessa, la famiglia di Abu-Aun è stata lasciata nella sua tenda, e quando le ostilità riprenderanno ci verranno a parlare, ancora una volta, della crudeltà e della brutalità de… i palestinesi. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: Gideon Levy, Gaza, remember? – «Haaretz»
Link: http://haaretz.com/hasen/spages/1079219.html

Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip

Aggiornamento:
Ci siamo accorti a pubblicazione avvenuta che anche l’amica Manuela Vittorelli della rete di traduttori Tlaxcala aveva tradotto pure lei l’articolo di Gideon Lev

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Attualità

Nessuno parla più di Gaza. Tranne due chirurghi inglesi.

di Dr. Ghassan Abu Sittah e Dr. Swee Ang – «The Lancet»* (da megachip.info)

Il dottor Ghassan Abu Sittah ed il dottor Swee Ang, due chirurghi inglesi, sono riusciti a raggiungere Gaza durante l’invasione israeliana. In questo articolo descrivono le loro esperienze, condividono le loro opinioni e ne traggono le inevitabili conseguenze: la popolazione di Gaza è estremamente vulnerabile e totalmente inerme davanti ad un eventuale attacco israeliano.
Le ferite di Gaza sono profonde e stratificate. Intendiamo parlare del massacro di Khan Younis del 1956, in cui 5mila persone persero la vita? Oppure dell’esecuzione di 35mila prigionieri di guerra da parte dell’esercito israeliano nel 1967? E la prima Intifada, in cui alla disobbedienza civile di un popolo sotto occupazione si rispose con un incredibile numero di feriti e centinaia di morti? Ancor di più, non possiamo non tener conto dei 5.420 feriti nel sud di Gaza durante le ostilità del 2000. Ma, nonostante tutto ciò, in questo articolo ci occuperemo esclusivamente dell’invasione che ha avuto luogo dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009.
Si stima che, in quei 23 giorni, siano state riversate sulla Striscia di Gaza un milione e mezzo di tonnellate di esplosivo. Per dare un’idea approssimativa di ciò di cui si sta parlando, è bene specificare che il territorio in questione copre una superficie di 360 kilometri quadrati ed è la casa di 1,5 milioni di persone: è l’area più densamente popolata del mondo. Prima dell’invasione, è stata affamata per 50 giorni da un embargo commerciale ma, in realtà, fin dall’elezione dell’attuale governo è stata posta sotto vincoli commerciali. Negli anni, l’embargo è stato parziale o totale, ma mai assente.
L’occupazione si è aperta con 250 vittime in un solo giorno. Ogni questura è stata bombardata, causando ingenti perdite tra le forze dell’ordine. Dopo aver spazzato via la polizia, l’esercito israeliano si è dedicato ai bersagli non governativi. Gli elicotteri Apache e gli F16 hanno fatto piovere morte dal cielo, mentre i cannoni della marina militare hanno condotto un attacco dal mare e l’artiglieria si è occupata della terra. Molte scuole sono state ridotte in macerie, tra cui l’American School of Gaza, 40 moschee, alcuni ospedali, vari edifici dell’ONU ed ovviamente 21mila case, di cui 4mila sono state rase al suolo. Circa 100mila persone sono divenute improvvisamente senzatetto.

Le armi israeliane

Gli armamenti impiegati, oltre alle bombe e agli esplosivi ad alto potenziale convenzionali, includono anche tipologie non convenzionali. Ne sono state identificate almeno quattro categorie:

Proiettili e bombe al fosforo
I testimoni oculari affermano che alcune bombe esplodevano in quota, rilasciando un ampio ventaglio di micro-ordigni al fosforo che si distribuivano su un’ampia superficie. Durante l’invasione via terra, i carri armati erano usi sfondare le mura delle case con proiettili ordinari per poi far fuoco al loro interno con proiettili al fosforo. Questo metodo permette di scatenare terribili incendi all’interno delle strutture, ed un gran numero di corpi carbonizzati è stato rinvenuto ricoperto da particelle di fosforo incandescente. Un preoccupante interrogativo è posto dal fatto che i residui rinvenuti paiono amalgamati ad un agente stabilizzante speciale, che gli conferisce la capacità di non bruciare completamente, fino all’estinzione. I residui di fosforo ancora coprono le campagne, i campi da gioco e gli appartamenti. Si riaccendono quando i bambini curiosi li raccolgono, oppure producono fumi tossici quando i contadini annaffiano le loro terre contaminate. Una famiglia, ritornata al suo orto dopo le ostilità, ha irrigato il terreno ed è stata inglobata da una coltre di fumo sprigionata dal suolo. La semplice inalazione ha prodotto epistassi. Questi residui di fosforo trattato con stabilizzante sono, in un certo senso, un analogo delle mine antiuomo. A causa di questa costante minaccia, la popolazione (specialmente quella infantile) ha difficoltà a tornare ad una vita normale.
Dagli ospedali, i chirurghi raccontano di casi in cui, dopo una laparotomia primaria per curare ferite relativamente piccole e poco contaminate, un secondo intervento ha rivelato aree crescenti di necrosi dopo un periodo di 3 giorni. In seguito, la salute generale del paziente si deteriora ed, entro 10 giorni, necessitano un terzo intervento, che mette in luce una massiccia necrosi del fegato. Questo fenomeno è, a volte, accompagnato da emorragie diffuse, collasso renale, infarto e morte. Sebbene l’acidosi, la necrosi del fegato e l’arresto cardiaco improvviso (dovuto all’ipocalcemia) siano tipiche complicazioni nelle vittime di fosforo bianco, non è possibile attribuirle alla sola opera di questo agente.
È necessario analizzare ed identificare la vera natura di questo fosforo modificato ed i suoi effetti a lungo termine sulla popolazione di Gaza. È anche urgente la raccolta e lo smaltimento dei residui di fosforo sulla superficie dell’intera regione. Queste sostanze emettono fumi tossici a contatto con l’acqua: alla prima pioggia potrebbero avvelenare tutta la Striscia. I bambini dovrebbero imparare a riconoscere ed evitare questi residui pericolosi.

Bombe pesanti
L’uso di bombe DIME (esplosivi a materiale denso inerte) risulta evidente, anche se non è stato determinato con chiarezza se sia stato impiegato uranio impoverito nelle aree meridionali. Nelle zone urbane, i pazienti sopravvissuti mostrano amputazioni dovute a DIME. Queste ferite sono facilmente riconoscibili perché i moncherini non sanguinano ed il taglio è netto, a ghigliottina. I bossoli e gli shrapnel delle DIME sono estremamente pesanti.

Bombe ad implosione
Tra le armi usate, ci sono anche i bunker-buster e le bombe ad implosione. Ci sono casi, come quello del Science & Technology Building o dell’università islamica di Gaza, in cui un palazzo ad otto piani è stato ridotto ad un mucchio di detriti non più alto di un metro e mezzo.

Bombe silenziose
La popolazione di Gaza ha descritto un nuovo tipo di arma dagli effetti devastanti. Arriva sotto forma di proiettile silenzioso, o al massimo preceduto da un fischio, e vaporizza tutto ciò che si trova in aree estese senza lasciare tracce consistenti. Non sappiamo come categorizzare questa tecnologia, ma si può ipotizzare che sia una nuova arma a particelle in fare di sperimentazione.

Esecuzioni
I sopravvissuti raccontano di tank israeliani che, dopo essersi fermati davanti agli appartamenti, intimavano ai residenti di uscirne. Di solito, i primi ad obbedire erano i bambini, gli anziani e le donne. Che, altrettanto prontamente, venivano messi in fila e fucilati sul posto. Decine di famiglie sono state smembrate in questo modo. Nello scorso mese, l’assassinio deliberato di bambini e donne disarmate è stato anche confermato da attivisti per i diritti umani.

Eliminazione di ambulanze
Almeno 13 ambulanze sono state vittima di sparatorie. Gli autisti e gli infermieri sono stati sparati mentre recuperavano ed evacuavano i feriti.

Bombe a grappolo
Le prime vittime delle bombe a grappolo sono state ricoverate all’ospedale Abu Yusef Najjar. Più della metà dei tunnel di Gaza sono stati distrutti, rendendo inutilizzabile gran parte delle infrastrutture atte alla circolazione dei beni primari. Al contrario di ciò che si pensa, questi tunnel non sono depositi per armi (anche se potrebbero essere stati usati per trafugare armi leggere), ma per carburante ed alimenti. Lo scavo di nuovi tunnel, che ora occupa un buon numero di palestinesi, ha talvolta innescato bombe a grappolo presenti sul suolo. Questo tipo di ordigni è stato usato al confine di Rafah e già cinque ustionati gravi sono stati portati all’ospedale dopo l’esplosione di queste trappole.

Conteggio dei morti
Al 25 gennaio 2009, la stima dei morti è arrivata a 1.350. Il numero è in continua ascesa a causa della mole di feriti gravi che continuano a morire negli ospedali. Il 60% dei morti è costituito da bambini.

Feriti gravi
Il numero dei feriti gravi è di 5.450, con un 40% di bambini. Si tratta in massima parte di pazienti ustionati o politraumatici. Coloro che hanno subito fratture ad un solo arto e coloro che, pur avendo riportato lesioni sono ancora in grado di camminare, non sono stati inclusi in questo conteggio.
Nelle nostre discussioni con infermiere e dottori, le parole “olocausto” e “catastrofe” sono state spesso menzionate. Lo staff medico al completo porta i segni del trauma psicologico dovuto al lavoro frenetico dell’ultimo mese, passato a fronteggiare le masse che hanno affollato le camere mortuarie e le sale operatorie. Molti dei pazienti sono deceduti nel Reparto Incidenti ed Emergenza, ancor prima della diagnosi. In un ospedale distrettuale, il chirurgo ortopedico ha portato a termine 13 fissazioni esterne in meno di un giorno.
Si stima che, tra i feriti gravi, 1.600 sono destinati a rimanere disabili a vita. Tra questi, molti hanno subito amputazioni, ferite alla colonna vertebrale, ferite alla testa, ustioni estese con contratture sfiguranti.

Fattori speciali
Durante l’invasione, il numero dei morti e dei feriti è stato particolarmente alto a causa dei seguenti motivi:

* Nessuna via di fuga: Gaza è stata sigillata dalle truppe israeliane, che hanno impedito a chiunque di fuggire dai bombardamenti e dall’invasione terrestre. Semplicemente, non c’era alcuna via di fuga. Anche all’interno dei confini di Gaza gli spostamenti dal nord al sud sono stati resi impossibili dai tank israeliani, che hanno tagliato ogni via di comunicazione. Al contrario della guerra in Libano dell’82 e del ‘06, in cui la popolazione poteva spostarsi dalle aree di bombardamento massiccio a quelle di relativa sicurezza, un opzione di questo tipo era preclusa a Gaza.

* La densità della popolazione di Gaza è eccezionale. E’ inquietante notare che le bombe impiegate dall’esercito israeliano sono “ad alta precisione”. Il loro tasso di successo, nel centrare palazzi affollati, è del 100%. Altri esempi? Il mercato centrale, le stazioni di polizia, le scuole, gli edifici dell’ONU (in cui gli abitanti erano confluiti per sfuggire ai bombardamenti), le moschee (di cui 40 sono state rase al suolo) e le case delle famiglie, convinte di essere al sicuro perché tra loro non si annidavano combattenti. Nei condomini, una sola bomba a implosione è sufficiente a sterminare decine di famiglie. Questa tendenza a prendere di mira i civili ci fa sospettare che gli obiettivi militari siano considerati bersagli collaterali, mentre l’obiettivo primario sia la popolazione.

* La quantità e la qualità delle munizioni sopra descritte ed il modo in cui sono state impiegate.

* La mancanza di difese che Gaza ha dimostrato nei confronti delle moderne armi israeliane. La regione non ha tank, aeroplani da guerra, nessun sistema antiaereo da schierare contro l’esercito invasore. Siamo stati testimoni in prima persona di uno scambio di pallottole tra un tank israeliano e gli AK47 palestinesi. Le forze in campo erano, per usare un eufemismo, impari.
L’assenza di rifugi antibomba funzionali a disposizione della popolazione civile. Sfortunatamente, anche se ci fossero non avrebbero alcuna chance contro i bunker-buster israeliani.

Conclusione
Se si prendono in considerazione i seguenti punti, è ovvio che un’ulteriore invasione di Gaza provocherebbe danni catastrofici. La popolazione è vulnerabile ed inerme. Se la Comunità Internazionale intende evitare ferimenti ed uccisioni di massa nel prossimo futuro, dovrà sviluppare una qualche forza di difesa per Gaza. Se ciò non accadrà, i civili continueranno a morire. (Beh, buona giornata).


Articolo originale: The wounds of Gaza, «The Lancet – Global Health Network», 2 febbraio 2009.
Traduzione di Massimo Spiga per Megachip.

* «The Lancet» è la rivista medica più autorevole del mondo.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Bombe al fosforo, armi a microonde e al plasma? Che armi sono state usate nell’Operazione Piombo Fuso?

di Fernando Termentini – da www.paginedidifesa.it

La battaglia a Gaza è terminata ma ancora molte fonti di informazione, ricorrendo anche ad immagini di repertorio degli scontri, ripropongono il problema di armi al fosforo bianco.
Munizionamento illuminante al fosforo sicuramente è stato utilizzato nel corso degli scontri, anche bombe d’aereo o proietti di artiglieria pesante, ma affermare con decisione che questo particolare materiale sia stato usato su larga scala per scopi offensivi, potrebbe essere forse azzardato e comunque semplicistico.

A Gaza le operazioni militari sono state caratterizzate da episodi tattici di combattimento degli abitati come ormai avevamo dimenticato dalla fine del secondo conflitto mondiale, a stretto contatto con la popolazione civile e in zone densamente abitate. In queste condizioni utilizzando munizionamento a caricamento speciale come gli ordigni illuminanti caricati con il fosforo bianco, diventa difficile gestire la ricaduta al suolo delle gocce incandescenti, concentrandole su obiettivi areali come, ad esempio, un bunker o una postazione avversaria.

In queste condizioni, quindi, si potrebbe verificare che qualcuno o qualcosa possa essere colpito da fosforo che brucia e che non è possibile spegnere con l’acqua. In questo caso però le parti di materiale che brucia lascerebbe tracce profonde su qualsiasi cosa venisse a contatto.

Le immagini che sono arrivate dal teatro di guerra non confermano in maniera incontrovertibile queste ipotesi, né lasciano pensare a un uso estensivo e generalizzato di fosforo bianco né contro i combattenti né contro la popolazione palestinese.

Se, invece, come sembra, molti dei feriti e molti cadaveri presenterebbero (la forma ipotetica è d’obbligo non disponendo di riscontri certi) lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli, allora si potrebbe pensare che forse siano state utilizzate ancora armi a microonde e/o al plasma.

Strumenti che dovrebbero essere stati sperimentati in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City. Armi che invece dei proiettili sparano fasci di energia più o meno potente. Sistemi a suo tempo studiati e realizzati per conto dell’amministrazione americana fin dai tempi della presidenza Clinton per disporre di efficaci dispositivi anti-sommossa non letali (l’arma Sceriffo costruita dall’industria americana Raytheon), successivamente trasformate in vere e proprie armi offensive agendo sulla potenza irradiata.

La materia colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida e si accartoccia diminuendo di volume. Fenomeno che aumenta in maniera esponenziale quando l’obiettivo è un uomo. Cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni. Condizioni che hanno caratterizzato molti cadaveri trovati a Falluja dopo i combattimenti casa per casa e in Libano nel corso della guerra del 2006.

A Gaza, peraltro, sembra che la scorsa estate, organi istituzionali della Sanità palestinese, riferendosi alla tipologia delle lesioni di molti feriti fra i manifestanti, hanno ipotizzato l’uso da parte degli israeliani di armi non convenzionali. In quella occasione si parlò seppure in modo superficiale di persone con gravi effetti ustionanti, con feriti o cadaveri quasi fusi con muscoli e organi interni distrutti. Di fatto, tessuti prosciugati dell’acqua, come avviene sulle sostanze organiche sottoposti all’azione delle microonde.

Sistemi del tipo la pistola Taser capace di uccidere a otto metri di distanza irradiando energia elettrica di oltre 60.000 volt, diffusissima in Usa e anche in Francia. Armi corte che nei combattimenti negli abitati, negli spazi stretti, nei cunicoli, nei locali sotterranei e di notte potrebbero essere molto più efficaci rispetto alle armi convenzionali.

Molto più sicuri anche per chi le ha in dotazione, in quanto si abbatte il rischio dei colpi di rimbalzo ricorrente quando si opera in locali stretti e circondati da mura, pericolosi anche per le truppe amiche. Sistemi sicuramente più selettivi nella scelta del bersaglio rispetto ad armi leggere automatiche o a bombe a mano offensive.

Un’ipotesi di cui si è già scritto in occasione della guerra in Libano e forse più condivisibile sul piano tecnico rispetto a ipotesi che invece fanno riferimento all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.  (Beh, buona giornata).

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