di Barbara Spinelli-la Repubblica
NEL GIRO di pochi giorni è accaduto qualcosa di importante, sia in Italia sia in Grecia, che ci obbliga a inforcare nuovi occhiali, di tipo bifocale, fatti per vedere quel che accade in Italia e simultaneamente in Europa, quel che s’è guastato e va riparato qui da noi e lì. Anche il tempo dovremo imparare a guardarlo con lenti bifocali, combinando la veduta ampia e la corta. Italia e Grecia non sono comparabili, perché la nostra svolta mette fine a un lungo esperimento populista, quello berlusconiano. Ma Roma e Atene hanno in comune due cose non trascurabili. In ambedue, la politica è stata per decenni sinonimo di corruzione e realtà occultata, e per questo è degenerata. In ambedue, si sta tentando una via inconsueta: lo scettro passa a uomini considerati tecnocrati, ma che non sono affatto nuovi alla politica.
I due tecnici sanno perfettamente la dedizione speciale (la vocazione) che ci si aspetta dal professionista politico, ed è con la massima naturalezza che Monti, intervistato, ha detto che “operazioni così grandi” – riordinare la nostra economia – “richiedono politica, più che tecnica”. Sia lui che Papademos non sono nuovi alla politica, solo che l’hanno fatta a un altro livello: quello europeo. La res publica italiana, che è lo spazio cui la nostra democrazia è avvezza, ha come complemento, ormai, una res publica europea: una cosa pubblica, con suoi organi di governo e controllo democratico, che influisce sulle nostre vite non meno dei governi nazionali. Che fa di ciascuno di noi, anche se non lo percepiamo, cittadini europei oltre che italiani.
Mario Monti è stato per 9 anni nel governo europeo che è la Commissione di Bruxelles: lì si è occupato prima di mercato interno poi di concorrenza, e ha condotto battaglie molto dure, molto politiche, contro gli abusi di posizione dominante e il capitalismo senza regole. Cos’è stata, la sua cocciuta battaglia contro Microsoft o la fusione General Electric-Honeywell, se non governo dell’economia? Lucas Papademos è stato per 8 anni vicepresidente della Banca centrale europea, e ha visto il ruolo della Bce farsi cruciale. L’uno e l’altro hanno fatto politica piena, se politica è governo della vita pubblica e dei suoi conflitti in nome di cittadini (o nazioni) associati.
Parlare di un potere di tecnocrati e banchieri centrali che avrebbe usurpato il trono del politico vuol dire ignorare coscientemente la realtà in cui viviamo, fatta non di evaporazione ma di differenziazione-moltiplicazione della sovranità politica. Siamo membri delle nazioni e al tempo stesso dell’Europa. La sovranità del popolo si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione italiana, ma anche di quella europea. La seconda Costituzione esiste di fatto – con le sue leggi preminenti sulle nazionali, con la sua Carta dei diritti inserita nel Trattato dunque giuridicamente vincolante – anche se gli Stati, vigliaccamente, si son rifiutati di dare al Trattato di Lisbona il nome di Costituzione. È per una sorta di ignoranza militante, strabica, che non scorgiamo quel che pure esiste. Un’ignoranza che paradossalmente affligge più i centristi che le forze estreme, di destra o sinistra. Queste ultime hanno visioni più apocalittiche e nazionaliste, ma spesso vedono più chiaro.
Anche l’accusa di scarsa democraticità nasce da ignoranza militante. Le istituzioni europee non sono del tutto democratiche, il Parlamento europeo non ha i poteri che dovrebbe avere. Ma ne ha molti. Dipende dai partiti accorgersene, e fare vera politica europea: trasformando le elezioni dei deputati di Strasburgo in autentica deliberazione comune, imponendo l’elezione diretta del Presidente della Commissione, suscitando un’agorà europea. Quanto alla democrazia italiana, non è credibile chi ritiene lesa la Costituzione perché caduto un governo non si va subito alle urne. La prassi degli ultimi 18 anni ha personalizzato le elezioni sino a diffondere un’idea storta della nostra democrazia: l’idea che il popolo scelga il leader una volta per tutte.
La personalizzazione è il riflesso della dottrina berlusconiana, non della Costituzione. Quando un Premier perde la maggioranza per governare, il Quirinale tenta di formare un altro esecutivo. Allo stesso modo è il Presidente del consiglio incaricato e non i clan partitici a proporre ministri al capo dello Stato (articolo 92 della Carta). Rifondare la democrazia è tornare alla Costituzione scritta, non a quella sfigurata da consuetudini e poteri più o meno occulti fin dai tempi della Prima repubblica.
Ma anche i due cosiddetti tecnici chiamati a guidare Italia e Grecia devono apprendere l’arte politica nella sua accezione ormai doppia, nazionale e (sempre più) europea. L’esperto economico ha spesso la tendenza a contemplare tabelline. Cambiare il mondo, creare istituzioni politiche, non è precisamente la cosa cui è abituato. Invece dovrà farlo – in Italia dovrà occuparsi di legge elettorale, di indipendenza Rai dai partiti – se è vero che la crisi è una grande trasformazione sociale, democratica, geopolitica. Anche l’euro fu progetto politico, voluto da statisti come Kohl e Mitterrand: tecnici e banchieri centrali, di rado rivoluzionari, erano contrari.
La scommessa di Monti e Papademos ha senso se assumono in pieno il rischio della politica, non solo in patria. Anche in Europa infatti urge il riscatto, oltre che a Roma o Atene. Anzi, a Roma e Atene è possibile solo se avviene anche in Europa. Non è ammissibile che a indicare la linea sia un leader nazionale (Merkel, Sarkozy) piuttosto che istituzioni comuni come Commissione, Parlamento europeo, Bce. Non è ammissibile che Berlino continui a opporsi a un’Europa più solidale, e a istituzioni o misure che accentuino l’unità: un governo federale, una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, un Fondo salva-Stati sovranazionale, un ricorso agli eurobond.
Sono istituzioni e misure auspicate dai governi in difficoltà, ma anche da organi comunitari come la presidenza dell’Eurogruppo e il Parlamento europeo. D’altronde personalità tedesche di primo piano invocano simili rivoluzioni: tra esse il ministro del Tesoro Schäuble (intervista a Le Monde, 13-9). Il no tedesco forse s’attenuerebbe se gli Stati rinunciassero a parte della propria sovranità economica (avvenne quando Berlino accettò l’euro in cambio del Patto di stabilità): è una strada da tentare. Non è stato Monti, in un bell’articolo sul Financial Times del 20 giugno, a denunciare l’immobilizzante deferenza tra Stati dell’Unione? Speriamo che questa impavida capacità critica la dimostri anche da Premier, se scioglierà la riserva. Speriamo che anche in casa non sia troppo deferente. Non sarebbe stato promettente includere nel governo Gianni Letta, se questi non avesse garantito pubblicamente l’indipendenza dagli interessi personali del capo. Ancor meno promettente la scelta, da parte di Papademos, di due ministri della destra più estremista, Makis Voridis e Adonis Georgiades.
Converrà esserne coscienti: finisce per il momento Berlusconi, non il berlusconismo. Non finisce l’estremismo del centro che lo caratterizza, e che si nutre e nutre l’elettorato di paura del nuovo. Non si ricomincia da zero, come se alle spalle non avessimo il quasi ventennio. La memoria da tener viva, e l’arte politica da reinventare, sono come l’amore del prossimo insegnato nel Vangelo. Cos’è l’amore del prossimo, chiede il dottore della Legge (l’equivalente del tecnocrate filisteo)? Gesù risponde con la parabola del Samaritano che si trasforma guardando il dolore che ha davanti (gli si spaccano le viscere, questa la compassione che prova) e conclude, rivolto all’esperto in leggi e teorie: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”. Anche in Italia è questa la via: “Va’, e fa’ memoria. Va’, con spirito profetico oltre che col tuo sapere tecnico, e fa’ politica”.