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Romano Prodi: il G20 ha messo sotto torchio il governo, non il Paese.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Il G20 di Cannes era partito con un obiettivo ed è finito con un altro. Per mesi la roboante regia francese ci aveva annunciato che questo sarebbe stato il vertice delle grandi riforme del sistema finanziario internazionale. Un obiettivo più volte ripetuto anche se politicamente impossibile perché le grandi riforme non si fanno in un periodo in cui nessuno ha interesse a farle. Non gli Stati Uniti perché con qualsiasi riforma perderebbero i loro ingiustificati privilegi, non la Cina perché ha tutto l’interesse a rinviare le riforme a quando sarà più forte e più pronta, non l’Europa perché a Bruxelles non comanda nessuno e nelle diverse capitali ognuno la racconta per conto suo. Tolto ogni grande progetto di riforma è rimasta in agenda l’emergenza della zona euro. In teoria il G20, rappresentando tutti i grandi Paesi del mondo, avrebbe dovuto aiutare il confezionamento di un paracadute per l’attuale crisi europea ma tutti i grandi, a cominciare dalla Cina, hanno fatto marcia indietro quando si sono resi contro che nemmeno i Paesi europei erano disposti ad aumentare il proprio contributo nei confronti del Fondo salva-Stati (Efsf).

Di fronte all’impossibilità di accordo su nuove regole e di fronte al rifiuto di raccogliere nuove risorse per fare fronte all’emergenza, l’unica strada rimasta al G20 è stata quella di fare la voce grossa di fronte ai Paesi devianti. A questo punto si è snodato l’aspetto per noi drammatico e inatteso: il processo cominciato nei confronti della Grecia si è trasformato in un serrato dibattimento contro l’Italia, con tanto di condanna ad un lungo periodo di libertà vigilata. E per essere sicuri che i comportamenti del condannato non si discostino dagli obblighi contenuti nella sentenza è stato deciso un doppio controllo sia da parte della Commissione Europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Un’umiliazione nei confronti dell’Italia del tutto inedita e, da parte di molti osservatori, ritenuta eccessiva anche tenendo conto delle difficoltà oggettive della nostra economia. A Cannes non è stata tuttavia processata l’economia italiana ma la mancanza di credibilità del nostro governo e la sua incapacità sia nel prendere le decisioni necessarie per porre rimedio alle nostre anomalie, sia nel dare attuazione agli impegni faticosamente e tardivamente assunti.

Più che un processo contro l’Italia abbiamo assistito ad un processo contro il governo italiano, ritenuto da tutti gli organismi internazionali non credibile e perciò non degno di fiducia. Un fatto estremamente dannoso perché riportato e ossessivamente ripetuto in tutti i media del pianeta, forse perché dal vertice di Cannes non vi era null’altro da riportare o forse anche perché il folklore del nostro primo ministro fa notizia ovunque. Il primo ministro, durante la conferenza stampa conclusiva, si è difeso descrivendo l’immagine di un’Italia prospera, spendacciona e felice, che potrebbe navigare serena nelle acque tempestose della crisi se non fosse entrata nell’euro con un tasso di cambio sbagliato. Non vale nemmeno la pena di sottolineare l’aspetto tragicamente ridicolo di quest’affermazione: basta ricordare come la fissazione del livello di ingresso della nostra moneta nell’euro a 990 lire per marco tedesco sia stato riconosciuto da tutti gli osservatori stranieri e italiani (compresi quelli appartenenti alla parte politica dell’attuale presidente del consiglio) come un insperato successo per l’economia italiana che, con questo tasso di cambio, poteva entrare nell’euro con la massima capacità concorrenziale possibile.

È doveroso invece sottolineare come questi attacchi all’euro e le ripetute manifestazioni di sfiducia nei suoi confronti siano state nei giorni scorsi una delle principali cause di irrigidimento dei governi europei e di sfiducia dei mercati finanziari nei nostri confronti. La conferenza stampa del premier al termine del G20 ha lanciato infatti un messaggio chiaro: la responsabilità dei problemi e dei guai dell’Italia sarà, nei prossimi mesi e nella prossima o futura campagna elettorale, interamente imputata all’euro. Lasciamo in disparte (perché rientra nel genere del ridicolo) la contraddizione fra la gravità di questi guai e la descrizione del Paese di bengodi che ci è stata propinata e concentriamoci sui danni che anche in futuro ci verranno addosso da un governo che da un lato si è impegnato ad adottare una politica e una disciplina mirate a mantenere l’Italia nell’ambito della moneta unica e, dall’altro, tenterà continuamente di imputare alla stessa moneta unica le conseguenze dei propri ritardi e della propria inazione.

Di fronte a queste prospettive ci conviene prendere per buone le affermazioni di un Twitter che il Financial Times attribuisce al ministro Tremonti. Il ministro dell’Economia avrebbe dichiarato che domani i mercati si aggiusteranno e gli spread diminuiranno solo se Berlusconi si farà da parte. È assai probabile che Tremonti non abbia detto nulla di simile e che la battuta sia da attribuire alla consueta malignità dei giornali inglesi nei nostri confronti, ma ritengo comunque che il consiglio contenuto in questo messaggio sia degno di essere preso in considerazione. (Beh, buona giornata).

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La lobby del nucleare (e Publitalia) vittime del conflitto di interessi.

A quelli del Forum nucleare deve essere preso un attacco di bile. Lo si capisce dalle dichiarazioni di Chicco Testa che, sorvolando sulle motivazioni politiche che hanno fatto dire stop al nucleare al neo ministro dello Sviluppo economico, si è limitato a osservare che così vince il petrolio e i suoi derivati.

Certo è che a quelli del nucleare gli devono girare forte. Come ha avuto modo di dire Massimo D’Alema ,con il suo consueto cinismo, il governo Berlusconi si rimangia, in un boccone solo, l’unica vera innovazione della sua travagliata legislatura: il ritorno al nucleare , con tanto di accordi firmati con i francesi, la gran cassa mediatica, il cavallo di battaglia dell’ex ministro Scajola, il quasi riuscito sfondamento a sinistra in fatto di energia atomica, con i possibilisti pronti all’avventura, per non dire dei neoconvertiti già partiti all’attacco, di cui Chicco Testa è stato alfiere.

Adesso che tutto è andato in vacca, ci si chiede ma chi è che ha portato sfiga? E’ stato il Forum che ha gettato sul piatto della comunicazione quattro o cinque milioni di euro per la famosa campagna degli scacchi? L’operazione di comunicazione sollevò un vespaio, beccandosi anche una censura dal parte degli organi di autodisciplina della pubblicità italiana. E’ come se quella campagna avesse evocato il disastro di Fukushima, come dire che il Forum se l’è tirata: si è fatto scacco matto da solo.

Oppure, chi ha portato sfiga è stato Scajola? Scajola è quello che faceva il ministro degli Interni quando si scatenò l’inferno a Genova per quel G8 che vide morire ammazzato Carlo Giuliani, che vide la “macelleria messicana” alla Diaz e alla Caserma Bolzaneto. Non pago, Scajola qualche settimana dopo in barca se se esce con i giornalisti che Marco Biagi, ammazzato della nuove Br a Bologna era (testuale) “un rompicoglioni”. Bufera e Scajola si dimette. Tornerà al governo con il nuovo governo Berlusconi, ma si deve dimettere dopo la scoperta della cricca dei costruttori, quelli che si sfregavano le mani non solo per il terremoto de L’Aquila, ma anche al pensiero delle tonnellate di cemento armato che servono per costruire le centrali nucleari. Ma per via dell’acquisto di quella famosa casa “che se scopro che qualcuno me l’ha pagata a mia insaputa…..”, ecco che è proprio Scajola che ha portato sfiga al nucleare, lui che gli tsumani politici se li crea e se li scatena addosso.

Oppure a portare sfiga al ritorno al nucleare è stato Marcello Andreani, amministratore delegato di Publitalia, la concessionaria di pubblicità di Mediaset. Le reti del Biscione si leccavano i baffi, avevano già offerto spazi a tutte le aziende dell’energia, che, in occasione del Referendum, avrebbero potuto inondare le tv di spot a favore del nucleare. Forse l’eccessiva sicurezza di avere il portafoglio già pieno di inserzioni pubblicitarie ha giocato un brutto scherzo alle reti del Cavaliere: succede il disastro a Fukushima, tutti loro dicono che non bisogna farsi prendere dall’emotività, poi però ci sono le elezioni amministrative, si rischia di perderle. Le aziende dell’energia mangiano la foglia e cominciano a disinvestire. A Publitalia sfuma l’affare pubblicitario, che avrebbe potuto salvare un anno difficile anche per loro.

C’è da pensare che Andreani, se potesse, ammazzerebbe Berlusconi, ma ovviamente non può. Anche se è proprio Berlusconi l’unico vero colpevole della fine del sogno nucleare. Deve aver pensato, che sfiga: se quelli vanno a votare contro e vincono, il governo va in minoranza nel Paese e addio sogni di gloria dell’”eletto dal popolo”. Col pericolo che magari vince anche il referendum contro la privatizzazione dell’acqua pubblica e, sciagura delle sciagure, magari già che ci sono gli elettori mettono una bella croce sul Sì all’abrogazione della legge sul legittimo impedimento.

Insomma, ‘sta volta Berlusconi è stato vittima del suo stesso conflitto di interessi. E’ diventata una scoria radioattiva, che ha portato sfiga alla stessa lobby dell’atomo made in Italy. Beh, buona giornata.

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Confindustria scarica Berlusconi?

“Nei primi mesi della crisi il governo ha tenuto i conti pubblici a posto e abbiamo visto invece cosa succede in Portogallo e Spagna, ma ora serve di più: da sei mesi a questa parte l’azione del governo non è sufficiente”.

Lo afferma la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, intervistata da Fabio Fazio durante la trasmissione “Che tempo che fa”. Marcegaglia ha denunciato l’immobilismo del governo, a fronte della necessità di varare le riforme, favorire la crescita e superare la crisi. Se il governo non è in grado di farlo, ha concluso la presidente di Confindustria, “bisogna fare altre scelte”. Beh, buona giornata.

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In Italia un debito pubblico da record. Complimenti al governo.

Il debito pubblico italiano sale a maggio e tocca i 1.827,1 miliardi di euro, aumentando di 15 miliardi rispetto al mese precedente e raggiungendo un nuovo record in valori assoluti. Dalla fine del 2009 il valore del debito italiano è salito di 65,8 miliardi, segnando un incremento del 3,7%. Lo dice la Banca d’Italia. Beh, buona giornata.

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Protestano le Regioni. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Il berlusconismo è in crisi?

L’entropia dei conti, di MASSIMO GIANNINI-repubblica.it

L’eroica settimana del “ghe pensi mi” precipita nella prosaica entropia della manovra economica. Berlusconi ha disinnescato la mina Brancher, al prezzo di una penosa rinuncia che ha svelato il patto diabolico tentato sulla pelle delle istituzioni: un ministero ad personam in cambio di un’impunità personale. Ma non riesce a disinnescare la bomba del decretone da 25 miliardi, sul quale si concentrano le tensioni della maggioranza e le pressioni della società. La ragione è semplice. Per un governo non c’è atto politico più costitutivo di una legge finanziaria. E poiché questo governo non ha una proposta politica, non può sperare nel consenso del Paese sulla sua manovra economica.

C’è un’evidente confusione “tecnica”, che in queste ore supera i limiti della decenza. In una manovra già nata male, perché iniqua nella distribuzione dei tagli di spesa e incerta nella quantificazione delle voci di entrata, si stanno moltiplicando emendamenti sulle materie più astruse e disparate. A colpi di “refuso” quotidiano, e di blitz notturni di fugaci peones e audaci relatori, si aggiungono e si sottraggono impreviste stangate sulle assicurazioni e improbabili riforme del processo civile, intollerabili batoste sulle tredicesime e incredibili abbattimenti degli stipendi Rai.

Il tutto accompagnato dall’ennesima celebrazione del conflitto di interessi: l’immancabile norma ad aziendam (questa volta la Mondadori) che pagando un misero obolo del 5% sul dovuto potrà estinguere il suo contenzioso da 400 milioni con il Fisco. Il risultato di questo caos è a somma zero. Nessuno può alterare i saldi finali, come esige il ministro dell’Economia. Ma nessuno capisce più niente, come teme il presidente del Consiglio. Meno male che la riforma del bilancio su base triennale avrebbe dovuto metterci al riparo dagli indecorosi assalti alla diligenza della Prima Repubblica. Le cavallette all’opera nella Seconda Repubblica sono molto peggio.

Ma c’è soprattutto una patente convulsione politica, che in questi giorni mette a nudo i vizi di questo centrodestra in cui la logica irriducibile della monarchia assoluta comincia a patire il parziale squilibrio di una diarchia relativa. Lo scontro con le Regioni è forse il sintomo più inquietante. Il presidente del Consiglio sarebbe pronto ad ascoltare le grida di dolore che arrivano dai governatori, molti dei quali appartengono alla sua maggioranza, uscita già molto provata dalle elezioni amministrative della primavera scorsa. Berlusconi sarebbe pronto a venire incontro alle richieste non solo delle virtuose regioni del Nord di fresca marca leghista, ma anche delle disastrate regioni del Sud di vecchia marca forzista. Ma il suo ministro del Tesoro non può permettersi questo lusso: i tagli pesanti agli enti locali, insieme al salasso dilazionato sul pubblico impiego, sono l’unica certezza di questa manovra scritta sull’acqua. Tremonti non si può permettere di cedere su questo: non può dare ai mercati l’impressione che il governo italiano sia pronto a scendere a patti su una manovra che per il Paese (e per l’Eurozona) rappresenta la linea del Piave da opporre agli attacchi speculativi.

Questo spiega la resistenza del governo ad incontrare i governatori (con la discutibile eccezione dell’udienza “privata” concessa a Palazzo Grazioli agli azzurri Formigoni, Polverini, Caldoro e Scopelliti) e ad ascoltare le proteste delle categorie (con l’inaccettabile eccezione del presidente di Confindustria Marcegaglia, rassicurata personalmente al telefono sull’eliminazione dei nuovi adempimenti fiscali per le imprese). Questo spiega anche l’ennesimo schiaffo della doppia fiducia imposta a Camera e Senato, per blindare un testo che con tutte le sue clamorose storture deve comunque assicurare i 25 miliardi promessi sulla carta. Ma è evidente che, al di là delle smentite di rito, Berlusconi ha un problema serio con Tremonti. Persino più serio di quello che ha con Fini. Per la legge sulle intercettazioni si trova a dover fronteggiare il presidente della Repubblica e il presidente della Camera, dentro una cornice istituzionale difficile ma con un margine interno gestibile. Per la manovra deve fronteggiare il suo ministro del Tesoro che si propone come unico garante della stabilità economica, dentro un quadro di compatibilità politiche aperte ma con un vincolo esterno indisponibile.

Per questo la battaglia sulla manovra è più insidiosa per il premier, che su questo deve fare i conti non tanto e non solo con l’opposizione, ma con la sua constituency politica e, in definitiva, con il Paese. A parte le Regioni, i focolai di conflitto si diffondono con velocità e intensità impressionanti. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Un dissenso concentrico così vasto non si era mai visto. Meno che mai nei confronti del leader che, più di chiunque altro non solo in Italia ma forse nell’intero Occidente, ha fatto della sua popolarità l’unico metro per misurare la sua politica.

Qui sta il drammatico limite del berlusconismo, che forse per la prima volta assaggia, anche tra la sua gente, il frutto amaro dell’impopolarità. Mai come in questo momento, sulla manovra e non solo su questa, servirebbe un presidente del Consiglio capace di fare una sintesi più avanzata tra le tesi del suo ministro dell’Economia e le antitesi espresse dagli enti locali e dalla società civile. Mai come in questo momento servirebbe una vera politica del fare, e non la solita mistica del potere. E invece, con quel grottesco “ghe pensi mi”, il Cavaliere ci ripropone l’eterno ritorno dell’uguale. Se in campo c’è lui, la politica non serve: Silvio è il messaggio. È stato vero per molto tempo, nell’Italia dell’egemonia sottoculturale televisiva. Ora, forse, non lo è più. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Aspettando la manovra finanziaria del governo Berlusconi, quello che non metteva le mani nelle tasche degli italiani.

L’Italia sale al quinto posto nella classifica europea: lo scorso anno il peso del fisco sul pil è stato del 43,2%, in aumento rispetto al 2008. Debito pubblico è sempre il più alto d’Europa: nel 2009, in rapporto al prodotto interno lordo, è aumentato di quasi 10 punti rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Beh, buona giornata.

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NO alla legge bavaglio, ma neanche alla benda sugli occhi.

La legge bavaglio, nasce con Prodi, arriva al sublime con Berlusconi. Ha radici lontane e i politici la vogliono tutti-blitzquotidiano.it
Leggere le varie versioni della legge bavaglio, nella sua evoluzione fino a oggi, insegna molte cose.

Insegna, innanzi tutto, che il bavaglio c’è sempre stato, solo che era punito in modo così blando che nessuno ne teneva conto. Dice infatti l’articolo 114 del codice di procedura penale, intitolato Divieto di pubblicazione di atti e di immagini, in vigore dall’inizio della Repubblica e negli anni perfezionato:

1. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto.

2. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

3. Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo per il dibattimento, se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e di quelli del fascicolo del pubblico ministero , se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. E’ sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni.

4. E’ vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti del dibattimento celebrato a porte chiuse nei casi previsti dall’articolo 472 commi 1 e 2. In tali casi il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione anche degli atti o di parte degli atti utilizzati per le contestazioni. Il divieto di pubblicazione cessa comunque quando sono trascorsi i termini stabiliti dalla legge sugli archivi di Stato ovvero è trascorso il termine di dieci anni dalla sentenza irrevocabile e la pubblicazione è autorizzata dal ministro di grazia e giustizia.

5. Se non si procede al dibattimento, il giudice, sentite le parti, può disporre il divieto di pubblicazione di atti o di parte di atti quando la pubblicazione di essi può offendere il buon costume o comportare la diffusione di notizie sulle quali la legge prescrive di mantenere il segreto nell’interesse dello Stato ovvero causare pregiudizio alla riservatezza dei testimoni o delle parti private. Si applica la disposizione dell’ultimo periodo del comma 4.

6. E’ vietata la pubblicazione delle generalità e dell’immagine dei minorenni testimoni, persone offese o danneggiati dal reato fino a quando non sono divenuti maggiorenni. È altresì vietata la pubblicazione di elementi che anche indirettamente possano comunque portare alla identificazione dei suddetti minorenni. Il tribunale per i minorenni, nell’interesse esclusivo del minorenne, o il minorenne che ha compiuto i sedici anni, può consentire la pubblicazione .

6-bis. E’ vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta.

7. E’ sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto.

Vale la pena di soffermarsi sul punto 6 bis, che vieta di pubblicare foto di gente in manette. Ancora di recente si è verificato un episodio che dimostra come, comunque, della legge nessuno tenga conto più di tanto.

Altra cosa che insegna un minimo di ricerca è che la classe politica è tutta o quasi d’accordo e che in queste ultime settimane abbiamo assistito a sceneggiate ipocrite. Ci sono delle voci sincere, come Giuseppe Giulietti e Gerardo D’Ambrosio, ma gli spiriti liberi non abbondano in natura e meno che mai in politica e Giulietti lo sa bene.

Insegna inoltre che l’impianto originale della legge è del governo Prodi; la prima versione porta la firma di Clemente Mastella e di Giuliano Amato, ministri della Giustizia e delle Finanze in quel Governo, con la benedizione formale e richiesta di Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca nei panni oggi indossati da Giulio Tremonti Relatore un ex magistrato, Felice Casson.

Le norme bavaglio c’erano già tutte.

Ecco il testo, come è uscito dalla Camera dei deputati, il 17 aprile del 2007.

È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare»;

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini ovvero il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza in materia di misure cautelari, fatta eccezione per le parti che riproducono gli atti di cui al comma 2-bis»;

Se si procede al dibattimento, non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti del fascicolo del pubblico ministero, se non dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello. È sempre consentita la pubblicazione degli atti utilizzati per le contestazioni o dei quali sia data lettura in pubblica udienza;

Salvo quanto previsto [sopra], è consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti dal segreto.

Queste norme furono accolte dal plauso di tutte le forze politiche, e le dichiarazioni di voto dei deputati della sinistra, inclusi verdi e rifondazione comunista, erano di grande soddisfazione.

Forse questo non bastava a Berlusconi, che ha avuto la sfortuna di tornare al governo troppo presto. Ancora un anno e propbabilmente si sarebbe trovato la legge bavaglio bella e pronta, senza dover tanto penare.

Invece, tornato al governo e ripresa in mano la materia, Berlusconi doveva proprio caricarla di tutto il suo risentimento, semplicemente perché non avrebbe mai accettato di riconoscere un qualche valore a una legge della odiata sinistra. Con il risultato che si è infilato in un guaio.

Ed ecco il testo della legge approvata dal Senato il 10 giugno 2010, firmata dal ministro della Giustizia Angelinio Alfano e approvata dalla Camera un anno fa.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, della documentazione e degli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati riguardanti il traffico telefonico o telematico, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

È vietata la pubblicazione, anche parziale, per riassunto o nel contenuto, delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misure cautelari. Di tali atti è tuttavia consentita la pubblicazione nel contenuto dopo che la persona sottoposta alle indagini o il suo difensore abbiano avuto conoscenza dell’ordinanza del giudice, fatta eccezione per le parti che riproducono la documentazione e gli atti di cui al comma 2-bis».

Sono vietate la pubblicazione e la diffusione dei nomi e delle immagini dei magistrati relativamente ai procedimenti e processi penali loro affidati. Il divieto relativo alle immagini non si applica all’ipotesi di cui all’articolo 147 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, nonché quando, ai fini dell’esercizio del diritto di cronaca, la rappresentazione dell’avvenimento non possa essere separata dall’immagine del magistrato».

È in ogni caso vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271. È altresì vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni telematiche riguardanti fatti, circostanze e persone estranee alle indagini, di cui sia stata disposta.

Cambiano un po’ le parole, ma la sostanza è quella: è vietata la pubblicazione di tutto…

Quel che incattivisce la legge, nella versione uscita dal Senato il 10 giugno, è l’utilizzo dell’Ordine dei giornalisti e del Consiglio superiore della magistratura come strumenti repressivi. A tanto Prodi e i suoi non erano arrivati.

La norma ha origini lontane, perché già fu presentata, come emendamento alla legge Mastella, da Roberto Castelli, leghista ed ex ministro della Giustizia. Essa prevede che «di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone indicate al comma 1, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l’organo titolare del potere disciplinare, che nei successivi trenta giorni, ove siano state verificate la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità, e sentito il presunto autore del fatto, dispone la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi».

Il comma 1, dell’art.115 del codice di procedura penale, è lì da anni e dice che, in caso di Violazione del divieto di pubblicazione,

Salve le sanzioni previste dalla legge penale (684 c.p.), la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lett. b) costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, leggesi magistrati e giornalisti.

Solo che non era previsto alcun provvedimento punitivo, ma semplicemente che di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l`organo titolare del potere disciplinare.

Dato che cane non morde cane, nessuno aveva mai segnalato nulla e nessun provvedimento disciplinare risulta essere stato preso. Ora, invece, con questa norma, il provvedimento è obbligatorio, a discrezione c’è solo la durata della sospensione e per i giornalisti si profilano momenti cupi, visto che a giudicarli saranno loro colleghi, senza una preparazione giuridica adeguata, in una categoria sempre più lacerata dalle passioni della lotta politica.(…). (Beh, buona giornata).

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L’Italia dell’Era Berlusconi: disoccupazione 8,8%; disoccupazione giovanile 27,7%, la più alta d’Europa. Proprio un bel Primo Maggio!

Solo in un anno, da marzo 2009 a marzo 2010, sono stati persi 367 mila posti di lavoro. Si tratta di una riduzione consistente, spiega l’Istat, che in termini di percentuale si traduce in un calo dello 0,2 per cento rispetto a febbraio e dell’1,6 per cento rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è così pari al 56,7% (inferiore, rispetto a febbraio, di 0,1 punti percentuali e di 1,1 punti percentuali rispetto a marzo dell’anno precedente). Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 194 mila unità, in crescita del 2,7% (+58 mila unità) rispetto al mese precedente e ben del 12% (+236 mila unità) rispetto a marzo 2009.

Il tasso di disoccupazione, invece, si innalza ai massimi dal secondo trimestre del 2002: sempre secondo l’Istat, si è attestato a marzo all’8,8%, lo 0,2% in più rispetto al mese precedente e l’1% rispetto a marzo 2009. In forte rialzo anche il tasso di disoccupazione giovanile, pari al 27,7%, in calo dello 0,4% rispetto al mese precedente e in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009. Beh, buona giornata.

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Art. 18 e i diritti dei lavoratori: il saggio mostra la luna, lo stolto guarda il dito.

Mentre ci stiamo tutti interrogando su come finiranno le controversie legali su voto alla regionali, tra trucchi, finte firme, marchietti copiati, panini mangiati fuori orario, viene approvata una legge che va contro i diritti di chi lavora: è stata sancita una scappatoia contro l’art.18 della Statuto dei lavoratori. Alla faccia dei precari, dei licenziati, dei cassaintegrati la lotta di classe contro la la classe dei lavoratori va avanti imperterrita. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Popoli e politiche Salute e benessere

Il ritorno al nucleare in Italia è una follia energetica.

(fonte:www.rispondeferrero.com) L’articolo è tratto da http://prcserrenti.blogspot.com/2009/08/un-fisico-nucleare-spiega-il-perche-del.html

LA VIA ITALIANA AL NUCLEARE: UNA FOLLIA ENERGETICA

Autore: Prof. Massimo De Santi, Fisico nucleare, esperto di protezione dalle radiazioni ionizzanti Responsabile Dip.to Energia, Prc Toscano

Il popolo italiano si è già espresso per il NO al nucleare fin dal 1987 attraverso un Referendum che vide tra l’altro una forte partecipazione al voto. Eppure oggi, ancora una volta, così come dopo la grande crisi petrolifera del 1973, il governo ha approvato in fretta e furia una programma di emergenza per la costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, con la scusa di contribuire anche alla risoluzione del problema dei gas serra.

Il partner di turno in questa dissennata scelta sarebbe la Francia che ha certamente accumulato un grande background in campo nucleare sia esso civile che militare (non dimentichiamo mai questo dettaglio che non è trascurabile), ma che non ci sembra offrire tante certezze sotto il profilo della sicurezza, dell’impatto ambientale/sanitario e dello smaltimento delle scorie. Nonostante i suoi 50 anni di esperienza e le sue19 centrali atomiche con 58 reattori in funzione, la Francia oggi si trova in seria difficoltà per le scelte nucleari del passato, in particolare nello sviluppo del cosiddetto reattore veloce autofertilizzante (il cui intento era il risparmio di combustibile nucleare) che è stato un fallimento completo dal punto di vista economico-energetico, ma anche della sicurezza. Nel corso del 2008 proprio in Francia si sono verificati una serie di incidenti agli impianti nucleari che, anche se definiti di lieve intensità, non hanno ancora trovato una giustificazione plausibile da parte delle autorità competenti. Inoltre, a tutt’oggi non sono state eseguite le necessarie valutazioni di impatto sanitario (effetto delle radiazioni ionizzanti) nelle zone interessate. Non risulta, tra l’altro, che siano mai state eseguite da parte degli organi competenti studi approfonditi sul genoma umano nelle zone vicine agli impianti nucleari.

Questa cosiddetta rinnovata via italiana al nucleare è una follia energetica. E non c’è bisogno di essere degli esperti di economia energetica o di nucleare per comprendere le ragioni principali che andrò di seguito riassumendo. Siamo di fronte a un vero e proprio crimine ambientale, sanitario, sociale ed economico. Ma procediamo con ordine.

1. La costruzione di una centrale nucleare richiede mediamente 10 anni, mentre il nostro paese avrebbe, invece, bisogno di iniziare da subito la transizione dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili di energia. Ciò significa che le centrali, anche partendo oggi a costruirle, entrerebbero in funzione in ritardo rispetto agli scopi che si prefigge il governo. E poi le centrali non contribuirebbero alla diminuzione dell’effetto serra, in quanto l’estrazione dell’uranio, il suo trasporto, la sua lavorazione e la produzione delle barre di combustibile, la costruzione stessa della centrale , ecc. sono tutti processi che richiedono l’uso di combustibili fossili con la produzione di enormi quantità di CO2.

2. Il nostro paese dovrebbe importare “chiavi in mano” le centrali nucleari dalla Francia con ingente esborso di denaro pubblico e ciò in una situazione di crisi economica è un crimine sociale.

3. L’Italia non ha più tutte le competenze nucleari degli anni ‘60 e ‘70 che aveva accumulato attraverso un impegno crescente in ricerca, sperimentazione e nella stessa produzione di parti importanti delle centrali nucleari (Ansaldo Meccanica Nucleare, Fiat, Breda, ecc.).

4. Le 4 centrali nucleari previste, coprirebbero solo una parte minima del segmento della produzione elettrica che tra l’altro è solo una frazione del consumo totale di energia per il nostro paese. La maggior parte dei consumi, infatti, è coperto dai combustibili fossili (trasporti, riscaldamento delle abitazioni, ecc).

5. Per la realizzazione del nucleare lo Stato dovrebbe investire ingenti risorse finanziarie a scapito di un efficace programma di emergenza per il risparmio, l’efficienza dell’energia e le fonti rinnovabili, in linea con quanto previsto a livello europeo con le percentuali del 20%-20%-20% al 2020 con il rischio del superamento dei parametri di Kyoto e le relative sanzioni previste per i paesi che non raggiungono questi obiettivi.

6. Sulla sicurezza delle centrali non avremo garanzie sufficienti. Ciò in relazione al fatto che c’è una sicurezza intrinseca all’impianto che deriva dal tipo di tecnologia usata (in questo caso di importazione francese) sulla quale non possiamo intervenire, una sicurezza derivante dall’ubicazione dell’impianto stesso e una sicurezza di esercizio di cui, come dicevo al punto 3, non abbiamo più le competenze di alta specializzazione necessarie, che probabilmente in certa misura dovremmo importare dall’estero.

7. Elemento non trascurabile sarebbe poi la scelta dei siti (compatibili sul piano territoriale, ambientale e sanitario), che per una paese come il nostro stretto, lungo, densamente popolato e in gran parte sismico diventa praticamente un problema irrisolvibile. Le zone più idonee, infatti, sono normalmente vicine ai grandi corsi d’acqua o al mare, ma sono anche le zone più popolate è già cariche di impianti ad alto rischio (raffinerie, centrali termoelettriche, impianti chimici, ecc.). A meno che non si pensi di imporre la localizzazione delle centrali nucleari con l’esercito, più che con la forza della saggezza ecologica, del convincimento e della partecipazione democratica degli enti locali e delle popolazioni.

8. I piani di preventiva evacuazione delle popolazioni in caso di incidente credo che risulterebbero di difficile attuazione, soprattutto se si ipotizzano siti quali Montalto di Castro nel Lazio (così vicino a città come Civitavecchia, ma anche a Roma) o all’Isola di Pianosa in Toscana, lontano sì dai centri abitati, ma che presenterebbe grandi difficoltà di intervento da parte dei mezzi di soccorso (Vigili del Fuoco, mezzi sanitari, ecc.), oltreché pattugliamenti permanenti della costa per il rischio attentati. In caso di incidente catastrofico a una centrale (fusione del nocciolo del reattore nucleare, attentato, caduta di aereo, ecc), non ci sarebbero poi le condizioni minime per garantire la sicurezza delle popolazioni e il controllo sanitario del territorio, considerato che nel nostro paese non siamo in grado di far fronte neppure alla elementare sicurezza nei luoghi di lavoro.

9. Inquinamento radioattivo durante il normale funzionamento della centrale, dovuto allo sversamento nelle acque circostanti (fiume, mare, ecc) di numerosi radionuclidi a bassa e media intensità che inquinano le falde idriche e la stessa catena alimentare dei territori circostanti. E poi ci sono gli stessi gas radioattivi contenenti Iodio 131, elemento noto per i suoi effetti cancerogeni sulla tiroide. Le radiazioni ionizzanti sono sempre mutagenetiche e non esiste una soglia minima garantita: i loro effetti sull’uomo (insorgenza di tumori, leucemie, ecc.) si possono avere anche a distanza di più di 20/30 anni. A livello internazionale si è definita per le radiazioni nucleari una soglia di rischio accettabile – dose massima ammissibile – ma ciò, sia ben chiaro, non significa che tale soglia non sia dannosa, tanto è vero che per i lavoratori esposti a radiazioni si parla di indennità di rischio.

10. Lo smaltimento delle scorie – sia durante l’esercizio della centrale nucleare (barre esaurite di combustibile radioattivo, strutture contaminate, ecc.) che successivamente nella fase di smantellamento dell’impianto, quanto è terminata la sua funzione – è un problema ancora irrisolto, che comporta inoltre costi altissimi per il loro stoccaggio in depositi radioattivi (la cui sicurezza è tutta da dimostrare) in attesa del loro smaltimento definitivo (se e quando si troverà la soluzione). Ricordiamo, nello specifico, come memoria per tutti che il plutonio prodotto dalle centrali può servire anche per la costruzione di bombe nucleari (ma questo immagino non sia il proposito del nostro paese, anche perché queste sono già depositate nelle basi militari USA e NATO presenti in Italia). In ogni caso questo plutonio deve essere smaltito ed è considerato uno degli elementi più radiotossici che si conosca al mondo, tanto che si calcola che 1 milionesimo di grammo, se inalato, è potenzialmente sufficiente a indurre cancro nell’essere umano. Infine, il tempo di decadimento del plutonio (il tempo in cui dimezza la sua radioattività) è di 24.200 anni: occorrerebbero più di 100.000 anni per esaurire la sua carica radioattiva pericolosa per l’uomo, l’ambiente e tutte le biodiversità.

In definitiva la berlusconiana via italiana al nucleare è dettata dalla logica capitalistica di affare e di massimizzazione del profitto – gli utili per i privati si realizzano soprattutto nella fase di costruzione e di esercizio della grande opera – scaricando ogni perdita sul pubblico, cioè sul cittadino, senza risolvere il problema della dipendenza energetica del paese, la diminuzione dell’effetto serra, nè tanto meno offrendo l’uscita dai combustibili fossili. Il nucleare per il nostro paese sarebbe solamente una follia economica, energetica, ambientale e sanitaria e, in tempi di crisi come quella che stiamo attraversando, un vero e proprio crimine sociale.
(Beh, buona giornata)

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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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Hanno privatizzato la Protezione Civile. Si salvi chi può.

Povero Bertolaso: gli tocca restare, comandare, privatizzare, di Antonio Sansonetti-blitzquotidiano.it
Aveva detto «mollo il Dipartimento e vado in pensione», invece resta – Aveva promesso: «La Protezione Civile non va riorganizzata e tanto meno trasformata in società per azioni», invece i suoi servizi adesso saranno gestiti da una Spa

Aveva fatto credere di essere stanco di fare il Superman delle emergenze e per questo Guido Bertolaso, poco più di due mesi fa, aveva confessato: «Mollo il Dipartimento e vado in pensione».

Un mesetto dopo aveva confermato: «A fine anno me ne vado. Ma non si tratta di dimissioni, si tratta della possibilità di avvalersi di una legge, la cosiddetta legge “anti-fannulloni” voluta dal ministro Renato Brunetta, che consente ai funzionari dello Stato di andare in pensione con anticipo rispetto alla scadenza naturale. Io ho fatto domanda».

Detto per inciso, si tratta di una norma destinata a decapitare lo Stato dei suoi uomini più esperti, come fu agli inizi degli anni ‘70 con la mai abbastanza vituperata legge detta “dei sette anni” di Giulio Andreotti, figlia di un cinismo elettorale che valse parecchi voti alla Dc ma che sfasciò l’apparato statale e in particolare la polizia contribuendo a lasciare per qualche anno l’Italia in balia di malavita e terrorismo.Rivestita del finto efficientismo di Brunetta, questa norma ha un sapore antico e preoccupante che sembra sfuggire a quanti sono troppo occupati a “mandare a casa” Berlusconi bollandolo con la lettera scarlatta per rendersi conto dello sfascio in atto.

La distrazione ha fatto sì che nessuno rilevasse le contraddizioni e anche i rischi del caso Bertolaso, il quale giovedì 17 dicembre ha comunicato: «Avevo chiesto di poter andare in prepensionamento alla fine di quest’anno, ma il governo ha inserito una norma che prevede una proroga a questi termini e quindi rimarrò nelle funzioni di capo del Dipartimento fino ad un massimo di 12 mesi a partire da gennaio». Accidenti ’sto Governo.

Ma non finiscono qui le contraddizioni. Bertolaso aveva detto (26 novembre) che «la Protezione Civile non va riorganizzata e tanto meno trasformata in società per azioni (Spa)». Aveva garantito che «la possibilità che la Protezione civile sia in via di privatizzazione, come ipotizzano alcuni organi di stampa, sono solo chiacchiere». Del resto, aveva sottolineato, «la Protezione Civile non può che essere pubblica».

Notizia fresca è che il Governo la Spa l’ha fatta. Lo ha annunciato lo stesso Bertolaso senza un’ombra di imbarazzo: «È stata approvata la realizzazione di una società di servizi che possa agire in nome e per conto della Protezione Civile».

Una cosa non da poco, questa neonata società, alla quale sarà affidata «la gestione della flotta aerea e delle risorse tecnologiche, la progettazione, la scelta del contraente, la direzione dei lavori, la vigilanza degli interventi strutturali ed infrastrutturali, l’acquisizione di forniture o servizi di competenza del Dipartimento, compresi quelli concernenti le situazioni di emergenza socio-economico-ambientale».

Una Spa che nasce per decreto. Nello stesso provvedimento vengono dati in mano a Bertolaso 8,2 milioni di euro che serviranno ad assumere il personale che in questi anni ha lavorato per il Dipartimento.

Insomma i servizi della Protezione Civile sono privatizzati. Su Blitz avevamo spiegato perché si tratta di un “bene pubblico puro”. Così non sarà più. E Bertolaso resta.

Ma per questo c’è una spiegazione. Lui promise che «quel che è certo è che non me ne andrò fino a quando l’ultimo degli sfollati del terremoto del 6 aprile non sarà sistemato in un’abitazione sicura». Un impegno ribadito pubblicamente più volte.

E come lui stesso ha dovuto ammettere il 9 dicembre, «3.000 sfollati che avrebbero dovuto ricevere le case entro la fine dell’anno non entreranno nei moduli abitativi provvisori (Map)». Peggio, molto peggio per altri 14 mila sfollati che si trovano sulla costa, di cui «il 60% vive in case prese in affitto ed il 40 % negli alberghi».

Che dice il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio cui la Protezione civile dovrebbe rispondere? Ovviamente nulla, visto che è lo stesso Bertolaso che ricopre la carica di controllore di se stesso, senza il minimo imbarazzo e senza che ci sia qualcuno che glielo faccia notare, a parte qualche moralista un po’ demodé. Naturalmente di dimissioni dal doppio incarico nessuno ha mai sentito parlare, anche se adesso il conflitto di interessi è ancora più lampante.
(Beh, buona giornata).

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La crisi economica uccide il lavoro: “Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al ‘900”, disse il Ministro della disoccupazione.

Cgil torna in piazza a Roma, Epifani: “Licenziamenti a valanga”-repubblica.it
Maurizio Sacconi, ministro del welfare: “Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al ‘900”

ROMA – La Cgil torna in piazza a Roma contro il governo, da cui esige risposte su lavoro e crisi. La manifestazione nazionale è stata indetta per sottolineare che il peggio della crisi non è affatto alle nostre spalle e che la ripresa sarà lunga e difficile. A sfilare a fianco dei lavoratori della Cgil anche Italia dei Valori, Partito democratico e studenti universitari. Il corteo, partito nel primo pomeriggio da piazza della Repubblica, si è concluso in piazza del Popolo con un intervento del segretario generale Guglielmo Epifani.

“E’ una piazza straordinaria, grazie a tutti voi che siete qui: queste luci vive permettono anche a chi voleva oscurare le nostre ragioni di vederci chiaro e trasparente”: con queste parole il leader della Cgil Guglielmo Epifani ha aperto il suo intervento dal palco di piazza del Popolo.

“Chiediamo che il governo cambi registro per affrontare i nodi della crisi” ha detto il leader della Cgil Epifani, sintetizzando lo spirito del corteo di protesta. “Questa è una manifestazione che vuole chiedere al governo cose precise perchè gli effetti più negativi della crisi arriveranno nelle prossime settimane e investiranno l’occupazione”, ha aggiunto. “La crisi avrà gli effetti più negativi sull’occupazione nelle prossime settimane” ha detto ancora il segretario della Cgil, sottolineando come “il governo non stia facendo nulla per sostenere il lavoro e i pensionati”.

“In un anno sono stati persi, bruciati, 570 mila posti di lavoro di cui 300 mila di precari: una media di 50 mila posti in meno al mese. Questo il consuntivo di un anno da quando la Cgil lanciò l’allarme valanga disoccupazione”, ha denunciato ancora Epifani. “La valanga che avevamo previsto – ha aggiunto Epifani – non ha più neanche la ciambella di salvataggio della cassa integrazione, ma è fatto di mobilità, ristrutturazioni, chiusure e licenziamenti a valanga e ancora di altri precari senza tutela”.

Sull’analisi mostra di concordare il segretario del Pd Luigi Bersani, che nel messaggio inviato a Epifani invoca “una svolta nella politica economica del governo”. “La vera exit strategy a cui dobbiamo dare priorità oggi è la exit strategy dalla disoccupazione di lunga durata e dalla stagnazione dei redditi da lavoro – ha scritto Bersani – Il governo ha perso 18 mesi preziosissimi, ha lasciato impoverire il nostro migliore capitale sociale e la nostra più innovativa capacità produttiva faticosamente irrobustita negli ultimi anni”.

Critico invece il ministro del Welfare Maurizio Sacconi: “Mi sembra un piccolo mondo antico che rappresenta un pezzo del Paese, ma rimane ancorato al ‘900 e alle sue ideologie”. Sacconi ha sottolineato tra la Cgil e gli altri sindacati confederali: “Una manifestazione fatta da soli, esaltando in questo modo la separatezza dalle altre organizzazioni sindacali”.

Secondo gli organizzatori al termine della manifestazione c’erano 100.000 lavoratori provenienti da tutta Italia. Ad aprire il corteo uno striscione con la scritta “Il lavoro e la crisi: esigiamo le risposte”. Tante le bandiere della Cgil, della pace, ma anche di partiti della sinistra come il Pd, l’Idv, dei Comunisti Italiani e grossi palloni colorati con la scritta Flc-Cgil.

Nel corteo anche gli striscioni delle aziende in crisi come l’Eutelia: “Eutelia: come arricchire i padroni depredando i lavoratori. Landi, dove sono finiti i soldi e gli immobili di Getronics e Bull?”. I lavoratori hanno raggiunto la capitale con 3 treni e oltre 750 pullman. Tra i partecipanti anche esponenti politici nazionali come Oliviero Diliberto, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero. In testa alla manifestazione la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso e il segretario regionale del Lazio Claudio Di Berardino.

La Cgil ha deciso di scendere in piazza senza Cisl e Uil, come ha spiegato ieri Guglielmo Epifani rispondendo alle domande di RepubblicaTv. “Non siamo stati in condizione di fare una manifestazione unitaria sui temi della crisi” ha spiegato il leader della Cgil. “Questo ci è riuscito solo a livello locale, non nazionale. Sarebbe stato meglio farla insieme. Un’iniziativa comune peserebbe di più e i lavoratori, in questo momento, hanno bisogno di tutto il sindacato. Comunque, per riportare al centro i problemi di chi perde il posto, meglio soli che niente”. Da piazza del Popolo Epifani ha lanciato tuttavia un appello a Cisl e Uil: “Mando a dire a Cisl e Uil che se si volesse fare lo sciopero generale sul fisco la Cgil ovviamente è pronta ed è in prima fila”.

Con la Cgil sono centinaia, fa sapere l’Unione degli universitari, gli studenti in piazza, all’indomani del primo ok del Senato a una legge finanziaria fortemente contestata anche sui risvolti per ricerca e istruzione. Riguardo alla scomparsa dei fondi destinati ai giovani ricercatori dell’università, il leader della Cgil ha detto “è una finanziaria che non dà nulla al lavoro, agli investimenti e al Mezzogiorno e non c’è soluzione neanche per i precari dell’università”. “Manca la promessa di stabilizzare i giovani ricercatori precari”, ha spiegato il segretario generale della Cgil, aggiungendo: “gli interventi del governo vanno contro il mondo del lavoro”.

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Cosa succederà dopo che Berlusconi e la Chiesa avranno fatto la pace.

(da blitzquotidiano.it)
……”Pochi forse si porranno la domanda più fastidiosa: quanto costerà all’Italia, in denaro e in libertà, la pace con il Vaticano? Mentre infatti appare difficile che la Chiesa scarichi Berlusconi in mancanza di alternative valide dal suo punto di vista, è verosimile che cerchi di trarre il massimo vantaggio dalla situazione di debolezza del primo ministro per le polemiche sulla sua vita sessuale che hanno dominato l’estate: saranno concessioni di tipo fiscale o a favore della scuola religiosa o degli insegnanti di religione; saranno concessioni in materia di libertà individuali, come la pillola Ru486.

Fronti aperti ce ne sono tanti, incluso l’atteggiamento del Governo, cui la Lega di Umberto Bossi fa da pilota, in materia di clandestini. Nei paesi di loro provenienza la Chiesa è molto impegnata nella sua opera di missione e ottenere qualcosa in questo campo sarebbe un gran colpo d’immagine.” ……(Beh, buona giornata).

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Cosa succede quando lasciamo fare al Governo orribili leggi, come quella sull’immigrazione.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia di EZIO MAURO-la Repubblica.

Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell’ospedale “Cervello”. Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con “L’Aurora”. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient’altro.

“Adei”, madre, sto andando, pensa senza dormire. “Amlak”, dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: “Giù, giù, vai in mare, vai”. Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. “Mai”, acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete “mai” nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. “E’ arrivato – dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato”. I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. “Meut”, la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie “semai”, il cielo, verrà dal mare, “bahari”. Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, “Adei, Amlak, semai, bahari, meut”. Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’ un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l’altro naufrago ricoverato al “Cervello”, Hadengai, in camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c’è scritto “la vita è un bene prezioso”. (Beh, buona giornata).

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La politica italiana sembra sempre di più un reality show, “e Berlusconi non soltanto è il campione in carica dei reality show, ne è anche il produttore esecutivo”.

Economist: “Il vero scandalo? Berlusconi che nega la crisi” di ENRICO FRANCESCHINI-Repubblica.

Il padrone di casa del G8, il summit dei grandi della terra che si tiene la settimana prossima all’Aquila, ha “tanti luridi scandali” domestici: ma il più grosso dovrebbe essere il suo rifiuto di riconoscere i problemi economici dell’Italia. Così scrive l’Economist in un ampio servizio dedicato a Silvio Berlusconi nel numero oggi in edicola. Il settimanale concentra l’attenzione su un aspetto singolare del vertice: vedendo i danni causati dal terremoto all’Aquila, i leader del G8 potrebbero pensare che anche le loro economie sono state scosse fino alle fondamenta dalla recessione globale. Ma uno di essi non lo pensa: “Il primo ministro italiano insiste che la recessione, nel suo paese, non sarà severa né prolungata come altrove”.

L’Economist osserva che, a prima vista, ciò può apparire veritiero. Il sistema bancario italiano, avendo vissuto isolato e protetto dal resto del mondo, non ha sofferto i disastri di banche americane o britanniche. E un’economia fatta di tante piccole industrie non porta la crisi in prima pagina come fa, negli Usa, il collasso di un gigante quale la General Motors. Ma l’autorevole periodico (un milione e mezzo di copie di tiratura, vendute in tutto il mondo, la maggior parte fuori dal Regno Unito, il che gli dà il titolo di primo vero giornale globale) nota i fattori negativi della nostra economia: la dipendenza dalla esportazioni, l’enorme debito pubblico, la mancanza di riforme per liberalizzare il mondo del lavoro e riformare il sistema pensionistico. L’Economist elenca le previsioni allarmistiche sul futuro dell’Italia fatte negli ultimi tempi da organismi internazionali e dalla stessa Banca d’Italia, sottolineando che Berlusconi ha reagito a questi dati arrabbiandosi, affermando che bisogna “chiudere la bocca a chi parla di crisi”, e suggerendo alle aziende di non fare pubblicità sui giornali che spargono pessimismo.

Conclude il settimanale: “Avendo già incrinato la propria credibilità con la sua vita privata, rifiutando di mantenere l’impegno di spiegare in parlamento la sua relazione con un’aspirante modella 18enne, e ritorvandosi ora a dover rispondere a un mucchio di storie su call-girl intrattenute nella sua residenza di Roma, il premier non può permettere che le sue affermazioni sulla salute dell’economia siano contraddette da prove lampanti davanti agli occhi e alle orecchie degli elettori”.

Di Berlusconi si occupa anche l’americano Time. Ospitando il G8 all’Aquila, il premier italiano sperava di attirare attenzioni positive su di sé e sul suo paese, scrive il settimanale, ma invece “sono le storie sulle feste del premier che catturano l’immaginazione”. Time ricostruisce i vari scandali da Noemi a Patrizia D’Addario, riferendo dell’inchiesta dei pm pugliesi e notando che Berlusconi liquida tutte le polemiche come “spazzatura” e pettegolezzi. “E’ possibile, se le indagini sulla prostituzione porteranno a conclusioni imbarazzanti, che Berlusconi debba dimettersi, aprendo la strada a un governo a interim guidato da qualcuno come il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi o il ministro dell’Economia Giulio Tremonti”, afferma Time. Ma aggiunge anche che è presto per dare Berlusconi per spacciato: la politica italiana sembra sempre di più un reality show, “e Berlusconi non soltanto è il campione in carica dei reality show, ne è anche il produttore esecutivo”. (Beh, buona giornata).

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L’Ocse dice che il teorema Tremonti è sbagliato. Con buona pace del governo Berlusconi.

L’Ocse: per l’Italia “lunga recessione”, di Galapagos-Il Manifesto

Il giudizio dell’Ocse è da brivido: “L’Italia ha di fronte una profonda e prolungata recessione”. E facendo seguire i numeri alle parole, l’organizzazione parigina – nell’ultimo rapporto dedicato all’Italia – sostiene che quest’anno il Pil crollerà del 5,3% e il tasso di disoccupazione potrebbe salire al 10%. Cifre che peggiorano le previsioni formulate il 31 marzo quando l’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – di cui sono soci i 30 paesi più industrializzati del mondo – indicò per l’Italia una caduta del Pil del 4,3% e una disoccupazione intorno al 9,2%. Commenta l’Ocse: quello che “ha colpito della recessione italiana è la sua ampiezza”.

Che quasi sicuramente deriva dalla scarsa domanda interna e dalla eccessiva dipendenza della domanda globale in forte caduta come conseguenza della crisi.
Ugualmente negativo il giudizio sull’andamento dei conti pubblici: il deficit pubblico (rispetto al Pil) per quest’anno è prospettato al 6%, accompagnato da una crescita del debito “oltre il 115%”, “vicino al 120% entro la fine” dell’anno prossimo. Un po’ meno pessimista, invece, l’Ocse è sull’andamento del Pil nel 2010: c’è una piccola inversione rispetto alla previsione di fine marzo. Ora per il prossimo anno è prevista una crescita dello 0,4%, invece di una caduta dello 0,4%. Negli ani successivi, invece, “grazie alla relativa solidità dei bilanci delle famiglie e delle imprese, la ripresa potrebbe essere più robusta che altrove”.

Altri dati negativi rigurdano i consumi: nel 2009 accuseranno un calo del 2,4% per restare poi fermi nel 2010. Gli investimenti fissi a fine 2009 crolleranno del 16% (-20,2% per macchinari ed equipaggiamenti) per tornare a crescere di appena l’1,3% nel 2010. Particolarmente negativo anche l’andamento del commercio estero: le esportazioni scenderanno del 21,5% (-0,7% nel 2010) e le importazioni del 20,2% (-0,2% nel 2010).

A fronte di questa situazione, il governo come si comporta? “Il debito italiano è troppo alto per permettere al governo di fare di più” per sostenere la domanda interna, scrive l’Ocse, apprezzando la cautela delle autorità. Ulteriore problema legato al debito pubblico: “Circa 300 miliardi di euro del debito maturano nel 2009″ e dovranno essere rinnovati. E un ammontare simile è previsto per il 2010. Inoltre, il deficit di bilancio necessiterà di nuovi prestiti per 80 miliardi di euro”.

Per l’Ocse il governo nel varare le misure anticrisi ha avuto a disposizione un “limitato spazio di manovra” nel quale si è mosso abbastanza bene. Per il futuro, tuttavia, l’Organizzazione sostiene che “nel lungo periodo la performance economica può essere migliorata con riforme macroeconomiche e strutturali”. E ritiene utili le iniziative che vanno a sostegno dei nuovi disoccupati che mettono in luce “una certa debolezza nel sistema italiano di welfare”, molto sbilanciato nella spesa pensionistica. E sono proprio le pensioni e la sanità le due aree su cui l’intervento del governo è giudicato prioritario da parte dell’Ocse. Perplessità, invece, vengono rinnovate nei confronti delle misure di sostegno all’industria dell’auto, che “rischiano di falsare l’allocazione delle risorse”. Il settore auto – secondo gli esperti di Parigi – non riveste importanza sistemica e anche se le misure adottate hanno stimolato le vendite di auto a breve termine, è poco probabile che un tale sostegno costituisca il miglior utilizzo delle risorse pubbliche. Ma l’Ocse non dice che gli incentivi alla rottamazione in pratica si autofinanziano con le maggiori vendite. Senza contare che una caduta della produzione e delle immatricolazioni sarebbe costata moltissimo in termini di cassa integrazione e licenziamenti nell’indotto.

Per quanto riguarda il sistema bancario, si sottolinea che “le caratteristiche che hanno protetto le nostre banche sono le stesse che ora possono esporle alle conseguenze della recessione”. E avverte che “gli sforzi di ricapitalizzazione devono continuare, preferibilmente attraverso interventi privati, nazionali ed esteri, ma senza escludere il ricorso al capitale pubblico. Nel rapporto è anche scritto che l’esposizione delle banche italiane nell’Europa centrale e dell’Est supera i 140 miliardi di euro alla fine del 2008. L’esposizione italiana nei paesi in via di sviluppo, che includono quelli dell’Est Europa, nel 2007 “era inferiore a quella delle banche di Germania, Francia, Spagna e Olanda”. “In termine assoluti – si legge nel rapporto – le banche italiane sono più esposte verso Polonia, Croazia, Ungheria e Russia”. L’esposizione con la Polonia è di 35 miliardi di euro, quella con la Croazia di 22 miliardi, quella con l’Ungheria di 18 miliardi e quella con la Russia di 16 miliardi.

Non poteva, ovviamente, mancare la reiterazione della richiesta di rilancio delle liberalizzazioni, estendendo ad altri settori (come trasporti e servizi locali) quelle già compiute, per aumentare la concorrenza e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. L’Ocse fa un esercizio di quantificazione dei benefici delle liberalizzazioni: se l’Italia adeguasse la sua normativa nei settori non-manifatturieri alla “best practice” internazionale, ricaverebbe un aumento del 14,1% della produttività su 10 anni. Se si limitasse a raggiungere i livelli migliori della Ue il miglioramento sarebbe del 13,7%. Nella simulazione dell’Ocse, l’incremento deriverebbe da un +2,6% nel settore dell’elettricità e del gas, dal 4,9% nel retail e dal 7,4% nei servizi professionali. Sarebbero quindi “benefici elevati”, soprattutto nel caso dei servizi professionali, dove l’attuale contesto normativo è particolarmente “scadente se paragonato a quelli di altri paesi”.

Un capitolo è dedicato al federalismo fiscale, che “potrebbe essere difficile da perseguire”. “È importante che abbia un forte sostegno politico e regionale”. Secondo l’Ocse “una nuova tassa locale, in parte basata sul valore delle proprietà di case, sarebbe altamente desiderabile dal punto di vista del federalismo fiscale”. (Beh, buona giornata).

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Secondo Bankitalia Pil a-5%, disoccupazione a +10%. Questa è la crisi degli italiani, questo è il governo dell’Italia.

La terapia della verità di MASSIMO GIANNINI-Repubblica

SERVE l’asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un “pubblico” che si vuole ormai trasformato in “popolo”. Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d’Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un’opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l’Italia è un Paese in crisi profonda. Quest’anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa “ripresa”, sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i “recenti segnali di affievolimento” della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei “sondaggi d’opinione”.

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell’occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell’anno.

La terza verità è che la “coperta” del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un’indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve “una riforma organica e rigorosa” degli ammortizzatori sociali, e “una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti”. Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l’urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane “un forte pessimismo” per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso “a rischio la stessa sopravvivenza”. Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod’s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell’economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l’eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e “prospettiche”, che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C’è l’imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all’azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell’Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L’economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un’anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L’occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l’onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e “disarticola il tessuto sociale”. E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell’1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l’area dell’evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l’abisso analitico e “terapeutico” che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un “dato psicologico”, virtuale e “percepito”. Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un “positivismo ad ogni costo”.

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un “fatto economico”, reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull’esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa “piattaforma” riformista, contrapposta al “format” populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero – come sostiene Giulio Tremonti in un’irrituale intervista “a orologeria” uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali – che la Banca d’Italia è solo “un’autorità tecnica”, che la vera e unica “sovranità appartiene al popolo” e che “la responsabilità politica è del governo che ne risponde”. Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la “tempesta perfetta” che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui. (Beh, buona giornata).

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