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Se l’inglese diventa un trucco del governo.

C’è una vecchia storiella che parla di un emigrante italiano in procinto di partire per la Gran Bretagna, al quale un amico del suo paese di provincia insegna che l’inglese è come l’italiano, basta parlare lentamente, molto lentamente. Sicché il nostro arriva a Londra, entra in un bar e chiede molto, ma molto lentamente un caffè. Molto lentamente, ma molto lentamente il barman gli risponde chiedendogli come desidera sia fatto il caffè: corto o lungo? Macchiato caldo o freddo? In tazzina o al vetro? Sorpreso, l’emigrante chiede , molto, molto lentamente al barista: ” Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?”.

Dal che si evince, parafrasando un’uscita del celebre Totò, che ogni lingua ha una pazienza.

Dunque rivolgerò lentamente, ma molto lentamente una domanda a chi ha escogitato il trucco semantico che per dire “non vi do un a lira” dice invece “fiscal compact”. La domanda è: perché non parli come tagli?

Anche recentemente, il trucco di mascherare in inglese cose sgradevoli da dire in italiano riguarda, guarda caso, le classi sociali meno abbienti.

Perché chiamare “spending review” il taglio dei soldi alla Sanità, all’Istruzione, ai trasporti pubblici?

Perché chiamare Job Act il peggioramento normativo della condizione del lavoro dipendente, invece che, parafrasando il Belli, “io (imprenditore) sono io e voi (lavoratori) non siete un cazzo”?

È vero che la lingua italiana è sempre stata la lingua delle classi alte, quindi del potere, o meglio dei poteri, per cui tutte le cose importanti vengono ancora oggi scritte e dette con quell’accurata capacità di intimorire, più che farsi capire: basti pensare al linguaggio giuridico, a quello medico, a quello finanziario.

In effetti, oggi sembrerebbe che l’uso della lingua inglese sia come quello del latino ai tempi della nascita del volgare: una roba da pochi eletti, mica da tutti gli elettori.

E allora, invece che spernacchiare, sia pur a ragion veduta, l’uso goffo dell’inglese maccheronico dei nostri politici, dovremmo preoccuparci di come vengono chiamate le leggi.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

Al contrario, se si usano artifici linguistici, forzature semantiche, sforzi pirotecnici atti a stupire invece che dialogare; se si fa ricorso a stereotipi e slogan anglofoni, che spesso risultano maccheronici, come un tempo fu il latinorum, allora forte è il puzzo dell’inganno.

Se la lingua inglese diventa la lingua della propaganda del governo, per dire cose che si vergognerebbe di dire in italiano, la domanda che pongo lentamente, molto lentamente è: “Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?” Beh, buona giornata.

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3DNews/E adesso vediamo che sapete fare.

di Marco Ferri

Nonostante i sostanziosi acquisti di azioni Mediaset da parte di Fininvest e di Holding Italiana, sempre di famiglia, avvenuti durante l’estate per rilanciarlo, il titolo va male. Lo si è visto col rovinoso capitombolo dell’altro giorno, quando il titolo Mediaset ha toccato ripetutamente quota -12.

D’altro canto, neppure guardando alla terza trimestrale si trovano segnali positivi: la raccolta pubblicitaria è andata sotto zero. Nel comunicato stampa relativo alla riunione del cda che ha approvato la trimestrale Mediaset, si riafferma la leadership sul mercato, ma è un’affermazione un tantino autolesionistica: lo sanno tutti che ogni volta che Mediaset è in difficoltà, Sipra si sgonfia ad arte, quel tanto che permetta, appunto la riconferma della supremazia di Mediaset. Basta mandare via uno come Santoro, per esempio, per indebolire la raccolta Sipra a tutto vantaggio di Publitalia. E per lo stesso motivo continuare a far dirigere il TG UNO a un direttore che perde pubblico come un tubo rotto.

È in questa difficoltà di mercato, come viene definita nella trimestrale Mediaset, che ci si interroga sulla forte relazione che è intercorsa tra i successi politici del Berlusconi capo del governo e il Berlusconi tycoon dei media italiani. Le domande sono: che fine farà Mediaset, azienda-partito di business e di governo adesso che il Cavaliere è stato costretto alla resa? Come farà a stare sul mercato rispettando le regole del mercato? Come se la caverà senza il sostegno delle leggi ad aziendam? Più che domande irriverenti, sono problemi seri, che tormentano la premiata ditta Berlusconi&figli. D’altro canto non sarà più possibile procrastinare anacronisticamente nuove norme sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni.

Tanto per fare un esempio, Mario Monti, che probabilmente guiderà un esecutivo “tecnico”, nato per seppellire l’era berlusconista in politica, non si è mai dichiarato tenero con la mancanza di una reale concorrenza tra soggetti del mercato.

Sta lì a dimostrarlo la decennale esperienza come Commissario Europeo alla Concorrenza, ma anche la mission che Monti dovrà incarnare: la ripresa, la crescita passano per un corretto funzionamento delle regole dell’economia di mercato.

E allora Mediaset dovrà passare per le stesse strettoie cui passò la Rai, all’epoca della nascita della tv commerciale (quando si dice il contrappasso!); o Telecom quando si liberalizzò la telefonia, o Enel quando toccò all’energia: accettare di dimagrire, di restringere il perimetro aziendale per fare posto ad altri soggetti. E ripartire da lì per far valere la propria capacità imprenditoriale, magari attraverso nuovi investimenti, progetti innovativi, scelte coraggiose.

Saranno capaci Berlusconi & Figli di fare impresa senza il vantaggio di quella dose massiccia di concorrenza sleale derivante dallo stare contemporaneamente sul mercato e al potere?

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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Il pianto greco degli industriali italiani.

I soldi per il decreto sviluppo “non ci sono, dobbiamo inventarci qualcosa”. Più chiaro di così Silvio Berlusconi non lo è mai stato. Una risposta a voce alta alla lettera delle imprese, nella quale sostenevano “L’Italia ha mezzi e risorse per risalire la china, ma il tempo è scaduto”.

Confindustria, Rete Imprese Italia, Alleanza delle cooperative, Abi e Ania chiedevano ?un efficace piano integrato e condiviso di rilancio del Paese”. A questo punto vi starete chiedendo: quanto può durare questa situazione di stallo tra il governo e le imprese? Stallo? Quale stallo; proprio mentre scrivo queste righe Standard and Poor’s ha tagliato il rating di 24 banche e istituzioni finanziarie italiane a causa dei rischi sull’economia e il debito sovrano.

A questo punto, non serve fare il pianto greco.

Quello che sta succedendo è che ci hanno messo in pentola e sono pronti a mangiarci a piccoli morsi, magari con contorno di olive greche. Beh, buona giornata.

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Il Governo e Confindustria: il gattone gioca con la volpina.

Marcegaglia: «Caro Silvio, le parole non bastano più»-ilsecoloXIX.it
«Impegni precisi, tempi certi». Gli industriali non vogliono «promesse generiche». Emma Marcegaglia incalza il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che l’ascolta in prima fila al forum di Confindustria a Parma. «Anche su questo ti chiedo un impegno», ripete scandendo i sei punti di «una road map precisa», una «agenda vincolante»: per Berlusconi, che «ha vinto in modo chiaro le regionali», e per un governo che ha di fronte tre anni senza elezioni, la sfida su riforme invocate da tempo è «l’ultima, senza appello». Per il fisco «non si possono aspettare tre anni». E serve subito una forte spinta alla crescita: mettere in campo 2,5 miliardi puntando su ricerca-innovazione e infrastrutture. Su questa proposta Emma Marcegaglia vuole risposte presto, entro due mesi: «Sarebbe bello se alla nostra assemblea di maggio tu venissi per dire: sì, ho stanziato questi soldi», dice al premier.

Mentre entro l’anno Confindustria vuole risposte su «una sfida»: generare 50 miliardi di ricchezza e 700mila posti di lavoro spingendo la crescita del 2% l’anno in tre anni. La strada per farlo è «un piano serio per tagliare la spesa pubblica improduttiva dell’1% del Pil l’anno per tre anni»: per Emma Marcegaglia è necessario per reperire risorse, anche per tagliare le tasse, ed è giusto perché con, la crisi, «cittadini e imprese hanno stretto la cinghia» e, sottolinea, «se lo stato chiede solo a noi, e non lo fa, non è tollerabile». Nei sei punti c’è il fisco: «Abbassare le tasse su chi tiene in piedi il Paese, cittadini e imprese», per le aziende a partire dall’Irap. Con un no netto a eventuali manovre correttive. Serve poi un federalismo fiscale efficiente: «C’è chi teme che la Lega voglia fare troppo, noi ti chiediamo che la Lega e il governo facciano sul serio», dice Emma Marcegaglia al premier, per poi strigliare i neo-governatori di Lazio e Calabria che trattano il rinvio del rientro del deficit per la Sanità: «Così non facciamo quello che dobbiamo fare». Nell’agenda ci sono anche le infrastrutture: Emma Marcegaglia chiede «una operazione verità»: il governo ha annunciato risorse per miliardi, allora «vediamo quali sono i soldi spendibili, spendiamoli».

L’associazione dei costruttori «dice che per le opere immediatamente cantierabili sono stati spesi solo 20 milioni». E le Regioni deve attuare il piano casa. Sotto accusa la burocrazia, bisogna semplificare la macchina dello Stato, un «cancro enorme». Mentre sul fronte del’energia bisogna andare avanti con il nucleare, coordinarsi con le regioni sui siti ma poi prendere decisioni. A Silvio Berlusconi la presidente di Confindustria chiede anche che la politica italiana faccia sentire la sua voce in Europa, che orienti gli altri Paesi. Come per il confronto sui nuovi requisiti patrimoniali per le banche: se Basilea Tre sara´ una stretta rischiamo di affondare. Quindi la concorrenza, le liberalizzazioni: «sentir parlare da parte di professionisti di tariffe minime non ha senso. Allora ci mettiamo anche noi tutti in fila, io voglio una tariffa minima per i tubi, io voglio questo, tu vuoi quello… non è possibile».

Berlusconi ascolta. Se poi c’è stato un confronto con Emma Marcegaglia è stato a quattr’occhi, a margine del pranzo ristretto, dove al tavolo c’erano anche altri industriali ed il ministro Maurizio Sacconi. Poco prima la leader degli industriali aveva chiuso due giorni di confronto a Parma sempre rivolgendosi a Berlusconi: «Dovete dimostrare che siete davvero quel governo della cultura del fare per cui tanti italiani vi hanno dato fiducia. È arrivato il momento». (Beh, buona giornata).

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Anche Confindustria nel suo “piccolo” si incazza per il casino elettorale.

(fonte: AGI)
“Siamo preoccupati e delusi perché l’economia italiana va ancora male ed è necessario e urgente prendere decisioni per tornare a crescere. A pochi giorni dalle elezioni non si sente minimamente parlare di programmi non si sente parlare di crisi, economia, di crescita e dei problemi delle imprese e soprattutto dei lavoratori e dell’occupazione. Noi facciamo un richiamo forte alla politica: quello di concentrarsi su questi temi che sono i temi che veramente interessano alle persone”. Lo ha detto il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia in un’intervista al Tg2. Beh, buona giornata.

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C’è chi fa qualcosa per la crisi economica in Italia.

(fonte: il blog di paolo ferrero):

ARANCIA METALMECCANICA IN TUTTA ITALIA. DOMANI ALLE 10.00 A TORINO A PIAZZA CASTELLO IL PORTAVOCE DELLA FEDERAZIONE PAOLO FERRERO A VENDERE LE ARANCE IL CUI RICAVATO SOSTIENE LE LOTTE DELLE/I LAVORATRICI/ORI
13 Febbraio 2010

Arancia Metalmeccanica continua a svilupparsi in tutta Italia. Da oggi, e per tutta la settimana, si venderanno in molte parti d’Italia 10 mila kg di arance il cui ricavato servirà a sostenere le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.
Arancia Metalmeccanica ha fino ad oggi venduto circa 50 mila kg di arance in tutta Italia per sostenere le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici, per portarle con i banchetti dai presidi delle fabbriche in lotta al centro delle città.
La Federazione della Sinistra ha scelto di essere utile nella crisi e di rimettere al centro la solidarietà tra le/i lavoratrici/ori e tra queste/i ed il territorio, motivo per cui l’iniziativa riscuote successo.
La scorsa settimana a Bergamo e provincia sono stati fatti 12 banchetti vendendo 3000 kg di arance con i lavoratori della Pigna e della Frattini.
Questa settimana i banchetti di Arancia Metalmeccanica saranno in Sicilia per sostenere la lotta dei lavoratori di Termini imerese, in Umbria per sostenere la lotta dei lavoratori della Merloni, nel Lazio a Civitavecchia, a Milano per i lavoratori di MAFLOW (Trezzano sul Naviglio), METALLI PREZIOSI (Paderno Dugnano), LARES (Paterno Dugnano), MARCEGAGLIA (Milano) e OMNIA SERVICE (Milano). in Toscana per i lavoratori di Agile ex Eutelia.
A Brescia per alimentare le casse di resistenza dei lavoratori in lotta.

Domani mattina, a Torino, in p.zza Castello, dalle 10.00 in poi sarà presente il portavoce della Federazione della Sinistra Paolo Ferrero.
Le/i lavoratrici/ori di Agile ex Eutelia e la Federazione della Sinistra oltre ad organizzare l’iniziativa per la vertenza in attto, vogliono ricordare a tutti che non si può morire di lavoro o di non lavoro.

Per questo hanno deciso di dedicare l’iniziativa ad Emanuele, il ragazzo suicidatosi ieri a Torino dopo aver saputo del suo licenziamento.
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi? Non ne siamo ancora usciti.

«Siamo ancora dentro la crisi, e purtroppo il 2010 sarà ancora peggiore del 2009 dal punto di vista dell’occupazione: ci aspettano altri 10-12 mesi di grande sofferenza». Guglielmo Epifani, segretario generale della CGIL dixit. Ben buona giornata.

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro

Fini copre il Governo per mettere fuori gioco l’opposizione sulla nuova legge Finanziaria: dopo il fuori onda, rientra nei ranghi. Più veloce della luce.

In Parlamento si discute di corsa della nuova legge Finanziaria. C’è poco tempo: Berlusconi ha altri problemi. La maggioranza della Commissione bilancio taglia corto sugli emendamenti dell’opposizione.”Il rispetto del regolamento è stato totale”. Gianfranco Fini dixit. Ancora una volta, il futuro leader del centrodestra conferma la sua attitudine all’obbedienza. Con buona pace degli estimatori di una alternativa all’interno dello schieramento di destra: da Almirante a Berlusconi, lui, Fini, non è mai stato fuori linea, semmai fuorionda. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, a maggio il debito pubblico ha raggiunto quota 1.752 miliardi e 188 milioni di euro. Di mese in mese, si macinano nuovi record negativi, che riportano i conti pubblici verso il baratro dei primi anni ’90 quando sfiorammo, allegramente inconsapevoli, la bancarotta argentina.”

di Massimo Giannini-repubblica.it
Corri che ti passa, consiglia il “Wall Street Journal” a chi sente i morsi della crisi, e soprattutto a chi ha perso il lavoro. Ma per gli italiani è un po’ più difficile. Provateci voi, a correre con un fardello di quasi 30 mila euro sulle spalle. Perché a tanto ammonta il debito che ciascun cittadino del Belpaese, suo malgrado, contrae e si porta appresso dalla culla alla bara.

Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, a maggio il debito pubblico ha raggiunto quota 1.752 miliardi e 188 milioni di euro. Di mese in mese, si macinano nuovi record negativi, che riportano i conti pubblici verso il baratro dei primi anni ’90 quando sfiorammo, allegramente inconsapevoli, la bancarotta argentina.

Per un debito che esplode, ci sono le entrate che implodono: anche a maggio l’ennesima contrazione del 3,2 per cento, il che vuol dire che sono andati in fumo, da un anno all’altro, oltre 5 miliardi di euro.

Crisi economica, certamente. Calo dei gettiti derivante dalla contrazione delle attività produttive, senz’altro. Ma anche, ormai è chiaro, aumento dell’evasione fiscale, incentivata da una dissennata politica del doppio binario: bastone minacciato (attraverso improbabili Global Legal Standard e inverificabili chiusure ai paradisi tributari) e carota assicurata (attraverso scudi che nascondono condoni e semplificazioni che si traducono in esenzioni).

E in queste condizioni noi dovremmo correre? Può funzionare in America, forse. Il “Wall Street Journal”, appunto, ha fatto una curiosa inchiesta. Mettendo in parallelo i risultati delle grandi maratone internazionali e gli andamenti dell’economia, ha scoperto che nelle fasi di crisi più acuta, come quella che stiamo vivendo e che è iniziata nel 2008, le performance degli atleti sono state assai migliori che in passato. La tesi è che il disoccupato ha più tempo per allenarsi, e in qualche caso è anche meno stressato del corridore che lavora e deve difendere quotidianamente il posto dalle minacce della recessione.

La tesi è suggestiva, ma per noi tutt’altro che consolatoria. Con questi drastici peggioramenti nei saldi della finanza pubblica e con questi chiari di luna sulla congiuntura, che promette un settembre nero per molte imprese a corto di ordini e di liquidità, la corsa non è una risorsa. Serve un premier che ricominci a occuparsi del governo del Paese, più che dell’organizzazione delle sue nottate. Serve un ministro che ricominci a occuparsi più dell’economia, e un po’ meno della filosofia. “Qualcuno con cui correre” era il titolo di un bellissimo libro di David Grossman di qualche anno fa. Non vorremmmo scoprirci ad essere una moltitudine, nell’autunno caldo che verrà. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Leggi e diritto

Italia,10 giugno 2009:”così muore la giustizia penale”, avvertono i giudici.

La Camera dice sì alla fiducia al ddl intercettazioni: 325 i favorevoli, 246 i contrari, due gli astenuti. Ma intanto è scontro con l’opposizione che, unita, scrive al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Pd, Udc e Idv insieme contestano sia il ricorso al voto di fiducia, sia i contenuti del provvedimento. a ancora più duro è l’attacco al disegno di legge che arriva dall’associazione nazionale magistrati: così, avvertono i giudici, “muore la giustizia penale”. Beh, buona giornata.

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Attualità

Per uscire dall’assedio, Berlusconi pensa a elezioni anticipate?

di CLAUDIO TITO-repubblica.it

Per ora è solo una minaccia. L’arma fine di mondo. Eppure Silvio Berlusconi ha iniziato a sventolarla. Non nelle occasioni ufficiali. Ma nelle riunione informali. Negli ultimi giorni, la “soluzione finale” è stata accennata in più di una circostanza. Quale? Le elezioni anticipate.
Il presidente del consiglio si sente sotto assedio. Stretto tra le inchieste giornalistiche, le indiscrezioni sulle indagini condotte dai magistrati a Napoli e il terrore che altre intercettazioni telefoniche possano improvvisamente riemergere dal silenzio. E allora, ha detto ieri mattina in consiglio dei ministri, “non mi farò piegare”. Davanti ai ministri ha evitato con cura di parlare esplicitamente di ricorso alle urne. Eppure nell’ultima settimana con i fedelissimi non ha affatto nascosto che l’ultima carta da giocare sarebbe proprio questa. “Se ci fosse uno show down – sono state le parole ripetute a diversi esponenti del governo – allora dovremmo ripresentarci davanti agli elettori. Chiedere il loro giudizio. E sono convinto che gli italiani staranno ancora con me”.

Allo stato, il premier non ha ancora deciso di imbracciare concretamente il fucile che possa porre fine alla legislatura. Vuole aspettare il risultato delle europee. Soprattutto vuole capire se il “Noemigate” e le inchieste napoletane sul termovalorizzatore imboccheranno una svolta decisa. Circostanze che lui definisce “scorciatoie” per disarcionarlo. “Ma se qualcuno insegue scorciatoie – ha ammonito – sarò io il primo a prenderle. Si torna al voto”. Uno schema proposto pubblicamente pure dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi: Si cercano armi improprie per far fuori il presidente. Ma gli italiani sono pronti a rivotare”. Ragionamenti che in modo meno esplicito il capo del governo ha fatto anche durante la riunione dell’esecutivo di ieri. “Più mi danno delle botte in testa – ha avvertito – più mi sento forte. Di certo tutte queste bugie, tutti questi attacchi non riusciranno a intimidirmi. Io non mi piegherò”.

Sta di fatto, che il sospetto di una macchinazione per assestargli una “spallata” è andato via via crescendo nell’ultimo mese. Il fantasma del “ribaltone” guidato nel 1995 da Lamberto Dini è tornato a materializzarsi dalle parti di Via del Plebiscito. Lo spettro di un governo istituzionale magari per realizzare una parte di riforme istituzionali o una nuova legge elettorale aleggia sui tetti di Palazzo Chigi. Le mosse compiute da settori della finanza e dell’industria lo hanno innervosito. Sospetta che anche in quegli ambienti si stia creando una sponda “ribaltonista”. Il Cavaliere vuole subito spazzare via tutti i dubbi. Che in una certa misura ha manifestato anche al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ma soprattutto li ha espressi con veemenza agli alleati. E già, perché dai partner di maggioranza avrebbe voluto più solidarietà dopo la richiesta di divorzio di Veronica, dopo le polemiche sulla famiglia Letizia e dopo la sentenza Mills. Tant’è che ancora in consiglio dei ministri ha protestato per come è stato difeso l’altro ieri nel corso della trasmissione “Porta a porta”. Lì, a rappresentare il centrodestra, c’era Ignazio La Russa. “La prossima volta – lo ha rimproverato – chiamami e ti spiego come sono andate le cose”. Del resto si è lamentato anche con il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Ieri i due sono tornati a parlarsi dopo un bel po’ di tempo. Il Cavaliere si è lasciato andare ad un lungo e appassionato sfogo. Non a caso da Montecitorio è uscita una sola indiscrezione sul pranzo: “solidarietà umana all’amico Silvio”. Una formula, usata anche dal capo dello Stato, che non ha convinto del tutto il premier. Poi, certo, il capo del governo e il presidente della Camera hanno concordato i prossimi passi da compiere per ridurre il numero dei parlamentari e per le nomine Rai. Ma il cuore dell’incontro sono state le vicissitudini del Cavaliere.

La carta del voto anticipato resta comunque una “extrema ratio”. Berlusconi ha fatto sapere di volersi buttare a capofitto nella campagna elettorale. “Le volgarità di Franceschini sono un tonico per me”. Adesso considera la frase del segretario democratico sull’educazione dei figli il suo cavallo di battaglia. Secondo il premier, anche il sondaggio recapitato ieri pomeriggio a Via del Plebiscito dimostrerebbe che il passo falso di Franceschini sta penalizzando il Pd. Sebbene sia cresciuta pure l’astensione di centrodestra. “Se poi c’è lo show down…”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Scuola

I soldi finti del governo: la scuola.

di SALVO INTRAVAIA-repubblica.it

Per salvare la scuola pubblica dalla bancarotta i genitori devono mettere mano al portafogli. Più di 250 dirigenti scolastici dell’Asal (l’Associazione scuole autonome del Lazio) hanno consegnato ai genitori una lettera sulla “grave situazione finanziaria”. Faremo “di tutto per garantire il diritto allo studio e, nello stesso tempo, il contenimento della spesa – scrivono – Ma nelle attuali condizioni le due cose non sono più conciliabili e diventa indispensabile il versamento del contributo deliberato dal Consiglio d’istituto per contribuire alla sopravvivenza”. Insomma: senza l’intervento dei genitori la scuola pubblica si ferma. “Non è una situazione nuova – spiega Paolo Mazzoli, presidente dell’Asal – ma ora è diventata grave e, per il prossimo anno, è giusto che l’opinione pubblica conosca la realtà”.

La situazione è critica ovunque. Le scuole italiane, in questi cinque mesi del 2009, non hanno ricevuto neppure un centesimo per le cosiddette spese di Funzionamento didattico-amministrativo (toner, fotocopie, cancelleria, detersivi), i fondi per le supplenze sono stati ridotti del 40 per cento e per le visite fiscali, obbligatorie col decreto Brunetta anche per un giorno d’assenza, non ci sono fondi. Mancano, inoltre, i soldi per i corsi di recupero estivi nella scuola superiore che coinvolgeranno mezzo milione di studenti. Finora, gli istituti hanno tamponato con i cosiddetti residui di bilancio che sono presto svaniti. “Le scuole – segnala Francesco Scrima, leader della Cisl scuola – vantano un credito nei confronti dello Stato per un miliardo di euro”. Dal 2007 il budget per le supplenze è stato ridotto di 250 milioni. E da ottobre le scuole sono costrette ad richiedere, e pagare, alle Asl le visite fiscali anche per un solo giorno di malattia.

“Abbiamo calcolato – spiega Mazzoli – che la spesa complessiva nazionale per pagare i medici di controllo si aggira attorno ai 100 milioni”. Ma non è dato sapere se il calo delle assenze di questi mesi compensa questa spesa aggiuntiva. Così le scuole sono costrette a richiedere “contributi volontari” alle famiglie che oscillano tra i 20 ai 120 euro l’anno. Il ministero sa perfettamente che la scuola sta per crollare sotto il peso dei debiti. Basta vedere le tante interpellanze presentate in aula e in commissione. Le ultime sono del 21 e del 12 maggio, dell’8 aprile e del 5 marzo. Il grido d’allarme arriva dalle scuole di Parma, Piacenza, Settimo milanese, Crema, Bologna, Firenze, Palermo. E qualche settimana prima da Lecco, Ancona, Bergamo e dalla Sardegna. “Istituti costretti ad elemosinare la carta igienica, alunni che restano senza docente per molte ore, forte riduzione del recupero scolastico, annullamento dell’ora alternativa alla Religione, aule chiuse perché inagibili e aumento del rischio”. “Le misure di contenimento della spesa – ha risposto due giorni fa il sottosegretario all’Istruzione, Giuseppe Pizza – hanno comportato, come in altri settori pubblici, una riduzione delle risorse finanziarie determinando le note difficoltà”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il capo del governo dice che la crisi sta passando, la presidente di Confindustria dice che non è vero.

Marcegaglia spegne gli entusiasmi “Uscita da crisi? Lunga e dolorosa” Per gli industriali la crisi non può essere l’alibi per non fare riforme necessarie di ROBERTO MANIA-repubblica.it

La parola “depressione” per definire questa crisi economica, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria non l’aveva ancora usata. Forse in Italia non l’aveva pronunciata ancora nessuno. Ma questo è l’umore degli industriali a quattro giorni dall’Assemblea generale della Confindustria. D’altra parte è ancora fresco di inchiostro l’ultimo crollo del Pil con il timbro dell’Istat: -5,9%, il peggiore dal 1980. “Siamo in una crisi molto profonda, inedita e senza paragoni”, ha detto ieri il presidente di Viale dell’Astronomia. E poi: “E’ la peggiore dalla depressione del 1929 a oggi”. Con una differenza fondamentale rispetto a quella degli anni Trenta: l’intervento sufficientemente tempestivo dei governi a chiudere le falle. Dunque “anche se il peggio è alle spalle – ha detto Marcegaglia – la nostra percezione è che la strada per l’uscita dalla crisi sarà lunga, complicata e dolorosa per arrivare di nuovo ad un livello accettabile”. Crisi a L, direbbero gli esperti: con un Pil destinato a essere per lungo tempo stabile, ma fiacco, dopo aver toccato il fondo. Proprio come durante la Grande Depressione.

Così dell’analisi tendenzialmente rassicurante della coppia Berlusconi-Tremonti la Confindustria condivide di certo solo un aspetto: che il peggio è alle spalle, probabilmente. Bisogna riconoscere che non è molto. E lo si vedrà giovedì all’Auditorium di Renzo Piano a Roma all’appuntamento annuale più importante degli industriali: Marcegaglia chiederà al governo di cambiare registro. Perché non è vero che una volta usciti dalla crisi saremo più forti. Anzi. Se un ragionevole uso della leva finanziaria ci ha salvaguardati dal tracollo andato in onda in altri paesi, dagli anglo-sassoni alla Spagna, e se l’imprenditoria diffusa è ancora un fattore di forza per la nostra economia, senza il “coraggio” delle riforme strutturali rischiamo di andare (o rimanere) in serie B. Non ci si può scordare – è la tesi degli industriali – che da anni – ben prima della crisi dei subprime – l’economia italiana cresceva a tassi inferiori a tutti i suoi concorrenti.

Riforme, allora, per ridurre il peso della spesa pubblica (già oltre il 50 per cento del nostro Pil), fluidificare i processi decisionali, ammodernare le istituzioni, chiudere la stagione dello statalismo municipale e far fare un passo indietro all’invadenza della politica. Insomma, previdenza e liberalizzazioni sono in cima alla lista confindustriale. Questo – secondo Marcegaglia – è il momento di sfidare l’impopolarità, l’ostracismo e i veti delle lobby. Anziché fissare costantemente l’asticella del termometro del consenso. “E’ il momento di fare”, dirà la Marcegaglia proprio a Berlusconi. Il che non vuol dire – spiegano a Viale dell’Astronomia gli uomini dello staff che stanno limando il discorso del presidente – una bocciatura dell’azione di governo: vuol dire che bisogna fare di più. Molto di più. Perché la crisi non deve rappresentare l’alibi dell’immobilismo sulle pensioni, sugli sprechi nella sanità (soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno), sulle carenze infrastrutturali, sulle politiche ambientali ed energetiche. Non sarà una bocciatura, ma nemmeno una promozione per il primo anno di legislatura del governo Pdl-Lega.

La Confindustria, insomma, si aspettava di più.
Intanto chiede alla pubblica amministrazione di pagare subito i crediti alle imprese (in particolare quelle di piccole dimensioni) che continuano ad avere difficoltà ad accedere ai finanziamenti bancari. All’appello – secondo le stime degli imprenditori – mancano dai 60 ai 70 miliardi, mentre Tremonti è disposto a non andare oltre 30 miliardi di euro. Perché con un Pil che non sale e una spesa che non scende anche il controllo del deficit è molto a rischio. E non basta l’ottimismo. (Beh,buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione.

di VITTORIO LONGHI-repubblica.it
La svolta nella gestione dell’immigrazione e degli arrivi via mare, secondo il ministro dell’Interno Maroni, starebbe in un nuovo modello, tutto italiano, fondato su quello che lui stesso ha definito “il principio del respingimento”. Ma, quando riguarda richiedenti asilo, non è ancora chiaro a quali leggi o convenzioni faccia riferimento.

Il testo unico
Forse si tratta del Testo unico sull’immigrazione del 1998, che all’articolo 10 parla espressamente del respingimento e recita: “La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Lo stesso articolo, però, dice anche che le norme “non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Perciò il Testo unico nazionale rimanda al principio universale del “non respingimento” dei richiedenti asilo, proprio l’opposto di quello invocato da Maroni e contemplato invece dal diritto europeo e internazionale.

Le convenzioni internazionali
A vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo sono gli obblighi internazionali che nascono, nello specifico, dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani.
Il ministro leghista ha detto che “il respingimento alle frontiere è previsto dalle normative europee” senza precisare quali e senza considerare che tutto il sistema normativo europeo in materia d’asilo si basa sulla convenzione di Ginevra. Quindi, di nuovo, sul principio del non respingimento. Tra l’altro, la convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. E neanche si può circoscrivere la questione alle acque di competenza. L’obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica – secondo le convenzioni – e si applica a tutti gli agenti statali nell’esercizio delle loro funzioni all’interno o all’esterno del territorio nazionale.
A questo proposito, il diritto è ancora più preciso: nel caso di richiedenti asilo che affrontano un viaggio via mare, il non-respingimento si applica all’interno delle 12 miglia di acque territoriali, così come nelle acque contigue, in mare aperto e nelle acque costiere di paesi terzi. Praticamente senza limitazioni.

L’accordo con la Libia
Inoltre, il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l’unica forma di respingimento. Anche il rinvio indiretto verso un paese terzo – la Libia in questo caso – che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sarebbero ritenuti responsabili, cioè sia la Libia che l’Italia. E non risulta che nell’accordo bilaterale con il governo libico l’Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani, compreso il diritto d’asilo, per le persone che vengono riportate a Tripoli in seguito al pattugliamento delle coste libiche.

Tutto questo dimostrerebbe che il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione. Pertanto non potrebbe essere applicato per rimandare indietro quei migranti che arrivano via mare e che, nel 75 per cento dei casi, sono richiedenti asilo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

L’Italia e la crisi economica:”nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere.”

Bersani, ecco le domande che nessuno fa mai alla destra di Bianca Di Giovanni -l’Unità
«E’ un governo più impegnato ad accrescere consensi che a risolvere i problemi veri. Passa per il governo del fare? Certo, nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere». Pier Luigi Bersani dà un giudizio senza appello sul primo anno del governo Berlusconi quater. Detto in due parole: racconta favole. Evidentemente, però, le racconta bene, visto che la popolarità è in aumento (dicono). «Certo, questo è un governo nato per accrescere consenso: è la sua prima missione», spiega Bersani.

Quali sono le domande non fatte?

«Per esempio nessuno ha chiesto a Giulio Tremonti e colleghi come mai l’Europa parla di un milione di disoccupati in più in Italia per quest’anno (nelle previsioni di primavera, ndr) che non compaiono nella sua Relazione unificata. Gran parte di quei nuovi disoccupati è costituita da precari, a cui non è stato dato nulla. Altro che governo del fare. Nella stessa Relazione si stima che gli investimenti diminuiranno di 5 miliardi in un anno. E tutte le chiacchiere sulle infrastrutture e le promesse sul Ponte?».

Altre domande?

«Ci aspettiamo qualche risposta per esempio sulle garanzie date dal Tesoro sull’operazione Alitalia, in cui sono rimasti intrappolati piccoli azionisti e obbligazionisti che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ancora: c’è qualcuno che ricordi a Tremonti che abbiamo speso 1,7 miliardi per coprire i “buchi” delle sue cartolarizzazioni? È più di quanto è costato il bonus famiglie. E qualcun altro che rammenti le perdite della finanza locale, avviata grazie a una circolare del Tesoro dell’altro governo Berlusconi? Nessuno ricorda nulla. D’altro canto questo governo è una macchina del consenso, per cui bisogna ogni giorno attivare un meccanismo di rappresentazione di nuove “conquiste”, che poi si perdono».

Cosa si è perso?

«Dov’è finito il maestro unico, su cui si scatenò all’inizio una guerra di religione? Dov’è l’esercito nelle strade? Dove sono i Tremonti bond? Lo sa la gente che li ha richiesti solo in una banca, il banco popolare? Cosa fanno esattamente i prefetti sul credito? Nessuno lo sa e nessuno vuole saperlo».

Insomma, con la crisi che morde, i problemi sociali, gli italiani crederebbero alle favole?

«Dopo gli ultimi fatti di cronaca su Veronica, consentitemi di dire che ci raccontano cose inverosimili e vogliono farcele credere. Non voglio parlare di divorzi, ma si sentono delle tesi sulle feste, l’arrivo all’ultimo minuto, il gioiello ritrovato per caso, che in altri paesi ci si vergognerebbe pure a raccontarle».

Resta il fatto che di fronte alla crisi (che è reale) il centrodestra non perde consensi.

«La loro tesi è che la crisi viene da altrove, che noi siamo solo delle vittime e dobbiamo resistere e dunque che non si può fare molto. Su questo comunque io andrei a contare i voti reali dopo le elezioni. Se si fa questo esercizio ci si accorge che Berlusconi non ha mai sfondato nell’altro campo. Quello che è riuscito a fare è rendere utilizzabile tutto il voto di destra del paese. Quando il centrosinistra si è unito, è riuscito a batterlo, ma poi si è visto che l’unità era una composizione piuttosto che una sintesi. Questo è il problema».

Non c’entra nulla la poca credibilità dell’opposizione?

«Anche noi ci abbiamo messo del nostro, rimanendo poco credibili sul come si costruisce un’alternativa. Dobbiamo lavorare a costruire e rilanciare un progetto».

Lei è ancora candidato alla segreteria?

«Su questo ho già parlato e non voglio aggiungere altro. Ora pensiamo alle elezioni, poi si vedrà».

Sul centrosinistra resta forte l’accusa di non saper leggere la realtà. Il Corsera scrive che ha bisogno di alfabetizzarsi per parlare alle partite Iva e alle piccole imprese.

«Le piccole imprese sono arrabbiatissime anche con la destra, che non le aiuta a superare la crisi. Mi pare che lo scriva proprio il Corsera. Dunque non mi pare che sia un fatto di alfabetizzazione. La verità è quella che il centrosinistra ripete ormai da mesi: noi siamo l’unico Paese che non ha fatto nulla di espansivo per fronteggiare l’emergenza, ma si è limitato a spostare fondi da una voce all’altra, per di più senza avere la cassa. Si impacchettano nuove voci di spesa, per l’Abruzzo o per la sicurezza, ma in cassa non c’è un euro».

Le preoccupazioni di Tremonti per il debito sono sacrosante.

«E lo dice a noi che abbiamo sempre rimediato al debito della destra? Ma correggere il debito vuol dire anche far crescere il Pil».

Questo lo dicevano loro quando facevano ancora i liberisti.

«Sì, ma loro giocavano con i numeri. Spargevano ottimismo e scrivevano una crescita del 3% quando il Pil era a 1. Noi proponiamo misure concrete per un punto di Pil e un percorso di rientro in due anni. Se non si sa come reperire mezzo punto di Pil in un anno, significa che non si sa governare. Il governo Prodi ha corretto il deficit dal 4,5% al 2,7% erogando anche il cuneo fiscale. Per rientrare di mezzo punto basta diminuire la circolazione del contante rendendo tracciabili i pagamenti e controllare meglio la spesa corrente».

Perché il centrosinistra ha proposto il prelievo sull’Irpef dei ricchi (che sono più poveri comunque degli evasori) e nulla sulle rendite?

«La proposta era di un contributo straordinario per la povertà estrema, e prevedeva anche misure contro l’evasione. Quanto alle rendite, abbiamo contrastato la seconda operazione Ici, dicendo chiaramente che non andava fatta». (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Se il dopo-terremoto in Abruzzo procede come i Mondiali di nuoto 2009, gli abruzzesi stanno freschi.

(fonte: l’Espresso)
Guido Bertolaso promette entro ottobre 3 mila appartamenti per L’Aquila. Le esperienze passate con i Mondiali di nuoto del 2009 non sono confortanti.

Nel dicembre 2005 Bertolaso chiede e ottiene da Berlusconi i poteri straordinari, promettendo di costruire per luglio 2009 le strutture. Dopo tre anni e mezzo la struttura commissariale guidata prima da Angelo Balducci e poi da Claudio Rinaldi, ha fallito. Nonostante gli appalti assegnati con urgenza per ben 110 milioni di euro, gli uomini di Bertolaso non hanno concluso nemmeno una nuova opera. Il museo dello Sport (21 milioni), il polo di Ostia (15 milioni), le piscine di San Paolo (13 milioni) e il palazzetto del Foro Italico (30 milioni) non saranno pronti. E ora alla figuraccia si aggiungono le indagini.

La Procura di Roma ha acquisito le carte su un circolo sportivo. Il Salaria Village, come raccontato da “L’espresso” a gennaio, ha potuto ampliare le sue strutture a ridosso del Tevere grazie alle deroghe urbanistiche concesse dalla struttura del commissario Claudio Rinaldi. Ora i pm vogliono vederci chiaro anche perché la società che ha usufruito di queste deroghe (e dei finanziamenti speciali) vantava tra i soci il figlio del precedente commissario dei mondiali, Angelo Balducci, e Diego Anemone, della famiglia omonima, asso pigliatutto degli appalti assegnati con procedure di urgenza sia per il G8 che per i Mondiali. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

In campagna elettorale, Berlusconi si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. Dopo tutto, un popolo spaventato si governa meglio.

Al mercato della paura
di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

ORMAI è impossibile affrontare il tema della “sicurezza” nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un’altra volta. Eppure è difficile non tornare sull’argomento. Perché l’argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla “sicurezza” (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove “leggi razziali”. Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l’imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come “annuncio”. Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell’Interni e della Lega, di respingere l’invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l’argomento della paura dell’altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. In aperta polemica con la “sinistra, che ha aperto le porte a tutti”. (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all’integrazione. Senza, tuttavia, spiegare “come” realizzarla. Si appella all’indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la “sicurezza” sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La “fabbrica della sicurezza” (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d’altronde, si scontra con il “mercato della paura”. Il quale non limita la sua offerta all’ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all’in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di “vita vera e vissuta”, nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un’aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle “scene del crimine”. 24 ore su 24 dedicate alla “paura”.
E’ significativa l’evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent’anni fa, fino al “ministro della paura” (accanto al “sottosegretario all’angoscia”) esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All’esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d’ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all’insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l’offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L’insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del “bene comune”. Ispirati da una fede o almeno da un’ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l’angoscia sia con noi. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“La strategia del governo di fronte alla crisi ci consegnerà un paese con squilibri ancora più stridenti di quelli che già avevamo.”

LE CONSEGUENZE DELL’IMMOBILISMO
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi da lavoce.info

Finalmente abbiamo la Relazione unificata sull’economia e la finanza. Era un documento atteso e importante per capire come è evoluta la strategia di politica economica del governo dopo l’aggravarsi della crisi e per avere un quadro più preciso sullo stato dei conti pubblici. Certifica le conseguenze dell’immobilismo di fronte alla crisi. La spesa pubblica aumenta accentuando il suo squilibrio a favore di pensioni e dipendenti pubblici, mentre disavanzo e debito peggiorano in modo consistente. E le stime potrebbero essere troppo ottimistiche sul lato delle entrate.

LA PEGGIORE RECESSIONE DEL DOPOGUERRA
È molto, molto difficile fare previsioni nel mezzo di una crisi così profonda. Il governo con la Relazione unificata sull’economia e la finanza (Ruef) mostra sostanzialmente di condividere le previsioni del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, rese pubbliche una settimana prima della pubblicazione della Ruef, per quanto riguarda l’andamento dell’economia nel 2009. Il prodotto interno lordo cala, secondo le previsioni, del 4,2 per cento (contro il meno 4,4 per cento delle previsioni del Fondo e della Commissione Europea). Se così fosse, sarà la peggior recessione del Dopoguerra. La Ruef prevede un peggioramento di ben due punti percentuali del disavanzo: l’indebitamento in rapporto al Pil passerà dal 2,7 per cento al 4,6 per cento. Il peggioramento è dovuto interamente a un incremento delle spese, che dovrebbero aumentare di tre punti in rapporto al prodotto interno lordo, mentre le entrate dovrebbero aumentare di un punto percentuale rispetto al Pil.

LA CAVALCATA DELLE PENSIONI E DELLA SPESA PER I DIPENDENTI PUBBLICI
È normale che la spesa pubblica in recessione aumenti. In quasi tutti i paesi avanzati, con il peggiorare della crisi, stiamo assistendo a un forte incremento della spesa pubblica in percentuale al Pil. Èun fenomeno legato all’operato dei cosiddetti “stabilizzatori automatici”, quelle spese che crescono in recessione per poi ridursi quando le cose vanno meglio, come le risorse per pagare i sussidi di disoccupazione. In Italia la crescita della spesa ha una natura diversa dagli altri paesi perché riguarda spese destinate a durare nel corso del tempo, ben oltre la recessione. Accentueranno gli squilibri della nostra spesa pubblica a favore di pensioni e pubblico impiego e a svantaggio di misure di contrasto alla povertà e disoccupazione. Secondo la Ruef, il 93 per cento degli incrementi della spesa sono “discrezionali”, anziché legati ad automatismi (p. 58). Se fosse vero, si tratterebbe di una massiccia operazione di redistribuzione di risorse a favore del pubblico impiego e dei percettori di pensioni.
Questa recessione verrà ricordata per un ulteriore aumento della spesa pensionistica in rapporto al Pil e per un incremento dei redditi dei dipendenti pubblici. In valore assoluto la spesa corrente nel 2009 aumenterà di 22 miliardi di euro. La metà circa dell’aumento (approssimativamente 10 miliardi) è dovuto alla spesa per pensioni: cresceranno nel 2009 del 4 per cento, pur in presenza di un calo del prodotto interno lordo superiore al 4 per cento. Questo provocherà un forte spostamento di risorse verso la previdenza, che in rapporto al Pil passa da 14,2 a 15,2 per cento. Ogni recessione in Italia provoca un ulteriore incremento degli squilibri nella nostra spesa sociale. Come documentato dalla Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pensionistica sul Pil è destinata a crescere da qui al 2013 in presenza di tassi di crescita annuali della nostra economia inferiori all’1,8 per cento. Come dire che se la recessione dovesse continuare, rischieremmo di trovarci con pensioni che ammontano al 20 per cento del prodotto nazionale, assorbendo quasi la metà della spesa corrente. Non solo non si è intervenuti per ridurre questo spostamento delle risorse pubbliche, ma addirittura lo si è rafforzato con provvedimenti come la rimozione del divieto di cumulo fra pensioni e redditi da lavoro (che vale circa 500 milioni).
Anche i dipendenti pubblici vedranno un aumento di due punti percentuali delle risorse pubbliche loro destinate pur in presenza di una recessione così profonda. Da notare che i dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, i maggiori beneficiari degli aumenti, non corrono alcun rischio di perdita del posto di lavoro. Il totale della spesa per retribuzioni registra così un ulteriore incremento (fino all’11,4 per cento) della quota delle risorse nazionali destinate, il tutto rigorosamente in nome della battaglia per ridurre i costi del pubblico impiego.

L’OTTIMISMO SULLE ENTRATE
Pur concordando con il Fondo monetario internazionale sulla profondità della recessione, la Ruef è decisamente più ottimista del Fmi nelle stime del disavanzo e del debito pubblico (vedi tabella qui sopra) in virtù di un miglioramento delle entrate.
A cosa si deve l’ottimismo del governo sulle entrate? Leggendo fra le righe della Relazione si scopre che il governo ritiene che il calo del gettito sia già stato anticipato dalle famiglie nell’autotassazione di novembre. Può darsi. Ma cosa accadrà al gettito dell’autotassazione del 2009? Se le previsioni del governo sull’andamento dell’economia sono corrette, ci dovrebbe essere un effetto di trascinamento, con una forte riduzione delle entrate nel 2009. Fatto sta che alla forte revisione al ribasso delle stime sul Pil 2009 (-2,2 per cento rispetto alla nota di aggiornamento del Programma di Stabilità) si accompagna una più modesta revisione delle stime sulle entrate (-1,7 per cento). E questo nonostante i dati sul primo trimestre 2009 segnalino un forte calo delle entrate tributarie, diminuite di circa il 7 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il governo assume che nel 2009 ci sarà un aumento della pressione fiscale, dal 42,8 al 43,5 per cento. Il che significa che le entrate caleranno proporzionalmente meno del prodotto interno lordo. Normalmente, in fasi recessive le entrate calano proporzionalmente più del prodotto interno lordo.
Insomma la Ruef dimostra che la strategia del governo di fronte alla crisi – il suo scegliere di non scegliere – ci consegnerà un paese con squilibri nell’allocazione delle risorse pubbliche ancora più stridenti di quelli che già avevamo. Non sarà neppure servita a contenere la crescita del debito pubblico, avviato a tornare sui massimi storici, come previsto dal Fondo monetario internazionale, forse con più realismo di quello mostrato dal nostro governo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Il terremoto in Abruzzo e il “Decreto Abracadabra”: propaganda elettorale sulle disgrazie dei terremotati?

I trucchi del “decreto abracadabra”ricostruzione diluita in 23 anni di MASSIMO GIANNINI-la Repubblica.

Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c’è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il “Decreto Abracadabra”. Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell’Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest’anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di “non aver messo le mani nelle tasche degli italiani”. Il ministro dell’Economia si è fregiato di aver reperito le risorse “senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all’altra del bilancio”.

Il “Decreto Abracadabra” non aiuta a capire. Il capitolo “Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria” dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 12, intitolato “Norme di carattere fiscale in materia di giochi”) è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall’indizione di “nuove lotterie ad estrazione istantanea”, “ulteriori modalità di gioco del Lotto”, nuove forme di “scommesse a distanza a quota fissa”. E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un “gioco” che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: “La previsione di una crescita del volume di entrate per l’anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi – si legge nella relazione tecnica al decreto – potrebbe risultare in qualche modo problematica”.

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l’articolo 14, intitolato “Ulteriori disposizioni finanziarie”) è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell’Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per “garantire l’acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer”) al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell’articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle “maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi”. Insomma, entrate scritte sull’acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l’erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel “Pacchetto Ricostruzione”. A parte gli interventi d’emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l’edificazione delle case provvisorie (“a durevole utilizzazione”, secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest’anno, 300 l’anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a “Porta a Porta” di due giorni fa, fa pensare che l’impegno di una “casetta” a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato “un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica”.

Basterà presentare le fatture relative all’opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d’imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell’Umbria e del Friuli, i terremotati d’Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come “limite massimo” dell’erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l’impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell’appartamento da riedificare.

Nel “Decreto Abracadabra”, per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i “soliti comunisti-sfascisti” dell’opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l’esecutivo di trattare gli aquilani come “terremotati di serie B”), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l’altro ieri a L’Aquila ha ripetuto “qui servono soldi veri”. C’è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L’epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

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Attualità Salute e benessere

Influenza suina: il governo italiano prima dice “non c’è nessun pericolo”, adesso ammette la “diffusione del virus della nuova influenza, che comunque si presenta in forma molto blanda, con sintomi molto leggeri, «è inevitabile».

«Allo stato attuale non c’è nessun pericolo»: Silvio Berlusconi dixit il 28 aprile. Oggi 2 maggio, secondo il sottosegretario alla Salute Ferruccio Fazio, la diffusione del virus della nuova influenza, che comunque si presenta in forma molto blanda, con sintomi molto leggeri, «è inevitabile».

Fazio ha spiegato che in Italia fino ad ora sono stati riscontrati 21 casi sospetti, 9 dei quali esaminati ad oggi dall’Iss: di questi uno, il caso di Massa, è risultato positivo e otto sono risultati negativi, 4 dei quali totalmente negativi e 4 (2 provenienti dalla California e 2 da New York) hanno riscontrato la presenza di un virus di influenza stagionale.
Ancora, 13 casi sono attualmente sotto osservazione: le persone resteranno a casa per 7 giorni attentamente monitorate e l’Iss ha in atto i controlli necessari. Una «hostess» con «tutto l’equipaggio» di un «volo da Cancun» sono «sotto osservazione», ha aggiunto Fazio, sottolineando che si registrerà «una progressiva diffusione del virus fino all’estate». (Beh, buona giornata).

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