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Comunicazione Cultura

Correva l’anno 1990. E come correva.

Ho incontrato Fritz Tschirren a cena a Milano, “A Santa Lucia”, il suo ristorante abituale. Ho già avuto modo e occasione di dire che Fritz ed io abbiamo piacere a incontrarci e, da oltre trent’anni, parliamo volentieri di libri, di cinema, di vini, cibi, di passioni, di politica, di dettagli buffi della vita, e del lato serio delle cose serie. Ogni tanto parliamo anche di pubblicità.

Mentre mangiavamo “una battuta”, – fettina di carne con olio, aglio, origano e peperoncino, che pare sia stata un’invenzione di Totò e che per questo fu prontamente inserita nel menù- Fritz mi ha ricordato dell’intervista che facemmo a Franco Grignani (1908-1999) per la Hall of Fame dell’Annual 1990 dell’ ADCI, l’Art Directors Club Italiano.

Allora il presidente era Gavino Sanna, il vice Pasquale Barbella. Chi fosse Franco Grignani è per grandi liee descritto nel testo che di seguito potrete leggere. Fu Fritz a proporre al Club di inserire Grignani nella Hall of Fame, perché Fritz ai primordi della sua carriera aveva lavorato per un breve periodo nel suo studio. Dopo essere stato il primo presidente dell’ADCI, nel 1990 Fritz era nel consiglio direttivo.

A quei tempi l’Art Directors Club era ancora una piccola e preziosa organizzazione di singole volontà e talenti che promuovevano, divulgavano e producevano cultura professionale, per spingere verso la qualità del lavoro e l’innovazione dei contenuti nhaella pubblicità italiana. L’ADCI aveva rilevanza proprio perché svolgeva questo ruolo formativo. Era un Club esclusivo, ci si poteva entrare su presentazione. Sì, eravamo rilevanti, facevamo bene alla creatività, tutta, pure quella che non era specificatamente pubblicitaria.

Poi le cose sono cambiate, si è pensato che la rilevanza fosse avere più peso specifico in termini di iscritti e di relazioni con il mondo della comunicazione d’impresa. L’ADCI si è mimetizzato e confuso nel “settore”. Non so: la tecnica ha preso il posto della cultura? L’autoreferenzialità quello dell’autorevolezza? Essere creativi non più ha più ambìto a essere una militanza professionale e dunque culturale, ma uno status aziendale? Fate voi.

Nel frattempo, ecco di che cosa sapeva parlare l’Art Directors Club Italiano al mondo della professione. Correva l’anno 1990. E come correva.

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”L’area operativa della pubblicità sta diventando sempre più vasta e lo sforzo creativo di specialisti non riesce ormai a produrre, per due prodotti similari, quanto basta per differenziarli. ln questo mondo di immagini, che sta raggiungendo valori ipertrofici, si impone la ricerca di nuovi valori segnici, fisici e costruttivi”. (Franco Grignani)

La sera del 23 ottobre del 1965 si chiudono all’Università di Carbondale negli USA i lavori di “Vision 65”, il primo congresso mondiale sulla comunicazione fra gli uomini. ”lo appartengo al professionismo grafico. Ogni giorno uno spazio bianco su di un foglio aspetta l’invenzione di un segno. Dietro di me il peso dì una imposizione commerciale preme sulle deviazioni verso tentativi dl ricerca di nuovi linguaggi. ll mio compito, come quello di altri grafici, è quello di analizzare e convogliare, attraverso filtri intuitivi, le nuove figurazioni per adeguarle alle tecniche in continua evoluzione”. È Franco Grignani il dissidente, l’autodidatta, il dilettante, come dice spesso di sé. Queste paroie gli valgono il plauso dei partecipanti e l’amicizia di Marshall McLuhan.”Tutte le volte che ci incontravamo mi diceva: che bella tua figlia, sembra un Modigliani”.

Franco Grignani, il maratoneta del “nuovo a tutti i costi” come se avesse attraversato a piedi otto decimi del XX secolo, lasciandovi le sue impronte, esplorando nella pittura, nella grafica, nella tipografia, nel design, nella ceramica. E nella pubblicità. “La pubblicità è una macchina enorme, pensata per costruire e produrre comunicazione ai fini d’interesse. Ma se tale è la sua sola funzione noi dovremmo un giorno elencare i suoi sottoprodotti in lusinghe, affermazioni errate, tranelli promessi da oligarchie di specialisti.

Anzi, il ripetuto uso di tali sistemi in certe forme pubblicitarie ha fatto nascere purtroppo, nei più sensibili, la diffidenza e il sospetto”. È il dibattito di oggi, ma Grignani queste parole le ha dette quel giorno di del 1965 a Carbondale.

Classe 1908, pavese, una laurea in architettura. Nel ’27 aderisce al secondo Futurismo. “La mia scelta mi poneva già in un atteggiamento e in una predisposizione alla curiosità e all’avventura”.

Nel ’34 la prima mostra alla Galleria delle tre Arti di Milano, presente Marinetti. La mostra fa il giro di molte città italiane, prima di finire in Germania e lì andare persa in un incendio. Le prime opere grafiche sono del ’37 e vengono esposte in una collettiva al Padiglione italiano dell’Esposizione di Parigi. Ufficiale sotto le armi nel ’40, viene assegnato alla Scuola di Avvistamento: “Pensi che fortuna, dovevo insegnare al soldati come si fa a guardare e e riconoscere la forma di aeroplano, che poi altro non era che la ricerca della grafica.” Grignani l’entusiasta.

Negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, attraverso l’allestimento architettonico di mostre, entra in contatto con imprenditori che sempre più spesso gli chiedono un’idea pe fare avvisi pubblicitari. Grignani è irrequieto , vuole sperimentare, si trasforma in un ricercatore di segni. Gli sta stretto il Bauhaus, comincia a indagare tra la Gestaltpsychologie. Si sente un esule della pittura, un apolide della grafica, si addentra nella fascia ancora smilitarizzata in Italia del graphic design.

Questa specie di furore educato al segno lo avrebbe portato ad essere poi riconosciuto come uno dei principali influenzatori delle correnti “op” (optical art) della grafica mondiale. Del suo lavoro, Giulio Carlo Argan ha scritto che rappresenta, in tanti anni di ricerca metodica, un importantissimo materiale artistico di valore scientifico. “Il graphic design è una specializzazione tuttora poco conosciuta in Italia e il più delle volte viene confuso con la pubblicità, ma vi assicuro che è un lavoro difficile e faticoso, specialmente se fatto in tempi che non fornivano attrezzature né collaborazioni. Ad esempio, il fotografo non conosceva il fotogramma astratto e pur sapendo fare i ritratti si trovava in difficoltà davanti allo scatto di una bottiglia; perciò il graphic designer ha dovuto sostituirsi al fotografo, al tecnico di stampa e di camera oscura e all’esperto di comunicazione. Tale professione ha sempre avuto alle costole il pungolo di una committenza esigente nel chiedere una continua e alta creatività, aggravata e infastidita dalla richiesta di solerzia di esecuzione.” Grignani il caparbio.

Nel ’54 vince il premio nazionale della pubblicità, nel ’59 la “Palma d’oro” della pubblicità in Italia. Per la campagna Alfieri & Lacroix produrrà negli anni 163 bozzetti (oggi li chiameremo soggetti); per ventisette anni disegna le copertine di “Pubblicità in Italia”. C’è chi riconosce la sua mano nel marchio Pura Lana Vergine. È sua la campagna Ducotone. Disegna un nuovo carattere tipografico, il Magnetic. Ormai nel pieno degli anni sessanta, per il suo studio passano decine di clienti importanti. “Avevo scoperto che se presentavo al cliente due sole proposte, lui rimaneva perplesso e io facevo fatica a convincerlo. Allora ne preparavo cinque o sei. Così il cliente doveva chiedere a me quale fosse la migliore, e io riuscivo a far uscire il bozzetto più bello”.

La partecipazione al convegno di Carbondale nel ’65 lo fa conoscere negli Stati Unito: diventa membro onorario della Society Typographic Arts di Chicago e dell’International Center of Typographic Art di New York. Le riviste specializzate di tutto il mondo pubblicano i suoi lavori: la svizzera Graphis, la tedesca Gebrauchsgraphik, le giapponesi Design e Idea, l’inglese Typography. È membro dell’Alliance Graphique Internationale. In Europa, Giappone, Stati Uniti, Sud America, Australia si espongolo i suoi lavoro, le sue opere entrano a far parte delle collezioni dei più importanti musei.

Oggi, a 82 anni, non ha nessuna intenzione di starsene tranquillo nell’indice degli autori dell’Enciclopedia Treccani e della Larousse. Disegna, dipinge, fotografa, inventa. Ma libero, a casa sua, senza clienti alle costole. “Il ditale, sapete cos’è un ditale? È una piccola cosa che la donna mette al dito per cucire. Ma per me il ditale è un vaso. E dato che è piccolo deve avere dei fiori che devono essere piccoli. Sono andata in piazza qui vicino. Sono andato cercare fiori piccolissimi. Li ho messi dentro è ho fatto una fotografia. Dunque, secondo me l’immagine ha una grande dimensione anche se è piccola piccola. C’è uno sforzo ottico, ci costringe a una valutazione, per poterla capire, per essere al suo livello: per comprenderla diventiamo piccoli anche noi”. Franco Grignani è sempre più alto del suo metro e ottantatré.
(Fritz Tschirren e Marco Ferri)

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

I furbetti del lay-out-tino.

La scorsa domenica, Eugenio Scalfari ha scritto che il problema del cinema italiano è la perdita di un linguaggio comune e condivisibile. L’affermazione ha la sua importanza, poiché cade durante il festival di Venezia. Ma il suo ragionamento è estendibile a altri settori della comunicazione, come si definiscono oggi tutte le discipline, i mestieri, le professioni che hanno a che fare col comunicare un idea, un pensiero, un punto di vista.

Non è una caso, che Eugenio Scalari citi il giornale di cui è stato il fondatore come un esempio di innovazione del linguaggio della carta stampata.

Le riflessioni di Scalfari hanno provocato un piccolo ragionamento sul linguaggio della pubblicità italiana. Il ragionamento è questo.

1) La pubblicità italiana è tra le più mediocri del mondo occidentale, dal punto di vista creativo: lo dicono tutti i più importanti appuntamenti di confronto tra le diverse culture della comunicazione commerciale;

2) la pubblicità italiana è tra le più eccellenti del mondo occidentale dal punto di vista economico, con particolare riferimento alla pubblicità televisiva: chi possiede un network televisivo fa e disfa a suo piacimento;

3) la pubblicità italiana è la più politica del mondo occidentale: il sistema televisivo, mezzo principe in Italia è regolato da alchimie di tipo politico, dunque anche l’accesso a budget di questa o quella azienda si muove rispetto a queste regole. Basti pensare all’equazione tra il maggiore partito rappresentato in Parlamento, sia pur attualmente all’opposizione e il maggiore network televisivo commerciale, attualmente maggioritario nella raccolta pubblicitaria;

4) la pubblicità italiana oggi non ha un linguaggio culturale, ma economicista, lobbysta, spartitorio, furbastro: basta leggere i comunicati stampa che si vantano di questa o quella acquisizione di budget pubblicitari, di cui sono pieni i news-magazine del settore, ogni giorno.

Non c’è un linguaggio unitario, condivisibile, formativo, innovatore della creatività italiana per il semplice motivo che le idee sono l’ultima ruota del carro, nella santa processione del business della pubblicità italiana.

A questo contribuiscono, in piena flagranza del reato di eccesso colposo di buona volontà molti creativi pubblicitari italiani. Tra loro c’è chi eccelle nel cinismo della loro mediocrità, professionale e culturale. Di quella umana, boh!

Sono coloro che furono allievi di grandi maestri dell’advertising italiano, ma che del loro maestro hanno creduto di imitare gli aspetti esteriori, non quelli intrinseci, che ne hanno fatto, giustamente, punti di riferimento professionali per più di una generazione di creativi. Anzi, candidandosi ad esserne epigoni, dicono in giro del loro disturbo psicanalitico: uccidi il padre è il loro leit-motive.

Ben presto dimentichi degli insegnamento più preziosi, tra cui l’onestà intellettuale che accompagna ogni minuto la creazione di una campagna pubblicitaria, per il semplice fatto che va sotto gli occhi di milioni di persone, i nostri furbetti del lay-out-ino inanellano sciocchezze: si vantano di una campagna scema e già vista, non distinguono il buono dal marcio, ascoltano il suono delle loro parolette e si credono di alta statura professionale, scambiando il sistema metrico decimale con lo spessore professionale.

Ai tempi dell’odiato Gavino Sanna, che li apostrofava con la dicitura “piscia-letto”, nascosti tra la piccola folla del popolo dei creativi fischiavano in platea i suoi successi.

Oggi che “il popolo dei creativi”, come Pirella definì la moltitudine di copy e art che negli Ottanta entrarono nel mondo della pubblicità italiana, attirati, appunto da quel linguaggio che oggi non sembra più esserci, ecco che i furbetti del lay-out-ino sono feroci come caporali napoleonici, al tempo di Sant’Elena.

I furbetti del lay-out-tino non rispettando i loro maestri, non rispettano il loro lavoro, quindi non sanno del rispetto verso i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori.

In ultima analisi, essi non sanno nulla del rispetto che si deve al committente, alla disciplina umana e professionale che si deve a chi paga il conto della creatività. Li prendono in giro con la loro prosopopea e con l’altisonanza dei titoli sui biglietti da visita, magari, come bagarini, con la promessa di un posto comodo per godersi la partita.

I furbetti del lay-out-ino sono come cavallette che distruggono, per via della loro ingordigia, dell’ansia di fama, del loro ego, magari di un bonus di fine anno, che distruggono reputazioni delle persone prima e delle marche poi, con il sorriso ammiccante dalla fotina che per piaggeria campeggia sull’articoletto del giornaletto di settore.

Ignari, o forse cinicamente noncuranti, addirittura consapevoli, che tanto di questa o quella testata non gliene frega un bel niente, gli si può raccontare ogni fandonia, che tanto quelli la pubblicano, che se no, magari, gli togliamo l’abbonamento. E così si chiude il circolo vizioso della mancanza di rispetto del lavoro degli altri.

Lo sappiamo tutti che la fretta (di apparire) passa, ma la merda (di certi comportamenti) rimane. Ma a loro che gliene importa. Sono i furbetti del lay-out-ino. Beh, buona giornata.

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