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Il capitalismo italiano ha Fiat corto?

di Riccardo Tavani

Fiat ha attribuito il calo del 7,3% di vendite in Europa alla pessima situazione proprio del mercato italiano. Abbiamo in Italia un parco di auto carcasse tra i più rugginosi d’Europa. Il tasso di sostituzione delle vetture è passato dal 6,3% del 2007 al 3,9% del 2012. A Torino sembrano aspettare, per ricominciare a vendere lungo lo Stivale, solo che le auto comincino a perdere pezzi di motore e carrozzeria lungo le autostrade o sulle provinciali battute dalle battone. O che la prostituzione di Stato cominci di nuovo a far vorticare le borsette sui marciapiedi attorno ai Ministeri, con adescamento di incentivi, sgravi e rottamazioni.

Anche se Fiat ha messo, in ogni caso, a segno degli incrementi di vendite in Inghilterra, Spagna e, in tono minore, anche in Francia, essa rappresenta poco più del 4% sul territorio continentale. Il prossimo sbarco della berlina cinese Qoros 3 Sedan sui mercati europei sembra destinato a restringere ancora di più tale quota, almeno per il segmento medio, considerate le prestazioni tecniche e di massima sicurezza che offre.

Non è certo, però, sul territorio nazionale o anche soltanto continentale che Fiat sta cercando di disegnare la sua configurazione strategica globale. Le modalità e il contenuto del recente acquisto del pacchetto di maggioranza del socio americano Chrysler lascia bene intravedere i contorni di questo piano.

Da Furio Colombo – che se ne intende, essendo stato negli anni ’70 Presidente di Fiat Usa – a Maurizio Ladini, Segretario Generale della Fiom, a Vincenzo Miliucci, storico dirigente Cobas, dicono, a conti fatti, anche se con accenti diversi, la stessa cosa. Non è stata Fiat a comprare Chrysler ma il contrario, e l’azienda torinese rimarrà soltanto un tassello periferico di un impero e di una strategia economico-produttiva globale. Adesso vediamo, ci domandiamo subito, però, se il vero nodo della questione sia questo.

Fiat acquista il pacchetto di controllo Chrysler, acquisendo la quota azionaria di Veba Trust, il fondo previdenziale-sanitario gestito dal sindacato dei lavoratori, ammontante al 41,5% delle azioni. Sergio Marchionne, dunque, non va alla conquista dei fatidici Mercati, ovvero dei pacchetti azionari esterni, ma di quelli saldamente già dentro le mura aziendali, dato l’interesse e il coinvolgimento del sindacato americano al buon andamento degli affari aziendali.

Come acquisisce Fiat questa quota decisiva per il controllo totale del gruppo? La acquisisce sì (in grossa parte) cash Pokies, ma con la massa di soldi liquidi corrispondenti agli utili maturati da Chrysler, per la quota spettante a Fiat in quanto socio. È come se Marchionne avesse comprato una casa con i soldi in cassaforte dello stesso venditore della casa. Questa liquidità da utili ammonta a 1.750 milioni di dollari che Fiat versa al fondo previdenziale sindacale. Inoltre Chrysler Group staccherà un dividendo straordinario a tutti i soci che – per la quota spettante a Veba Trust – raggiungerà la cifra di altri 1.900 milioni di dollari. Arriviamo, dunque, alla cifra di 3.650 milioni di dollari che affluiranno nelle casse di Veba Trust.

L’accordo prevede, però, un ulteriore memorandum di intesa con UAW (il sindacato generale americano del settore manifatturiero). Chrysler Group verserà a Veba Trust altri 700 milioni di dollari, in quattro rate annuali, con i quali si raggiunge l’ammontare di 4.350 milioni di dollari nelle casse del fondo sindacale. Attraverso questo esborso aggiuntivo Marchionne vincola, però, il sindacato interno a una fedeltà assoluta alle piattaforme tecnologiche e agli obiettivi di produzione, alla politica del personale, alle strategie economiche sul piano del mercato globale.

Il punto più rivelante appare proprio questo, perché – al di là delle modalità di acquisizione del pacchetto di maggioranza e di chi appartengano veramente i soldi sborsati – quello che viene inaugurato e strutturato nell’accordo è una piattaforma tecnologico-finanziario-sindacale, che sarà la vera nave ammiraglia per la battaglia nelle infestate acque del Mercato mondiale dell’auto.

In termini tecnici l’implementazione produttiva dei lavoratori avverrà tramite il World Class Manufacturing, Wcm, un complesso sistema di organizzazione che prevede piattaforme d’avanguardia e il superamento del modello da catena di montaggio. Inoltre il sindacato generale manifatturiero UAW si impegna a contribuire fattivamente alle “attività di benchmarking collegate all’implementazione di tali programmi in tutti gli stabilimenti Fiat-Chrysler al fine di garantire valutazioni obiettive della performance e la corretta applicazione dei principi del Wcm”.

In questo senso è anche irrilevante se Fiat trasferirà definitivamente la sua sede ufficiale a Detroit o la manterrà a Torino.

Sergio Marchionne
Sergio Marchionne
Anche se Sergio Marchionne e John Elkan, non potranno disfarsi di questi stabilimenti nazionali, per la loro non concreta vendibilità attuale, cercarannno, in maniera sempre più stringente, di diminuirne il peso e di condizionarne la spinosa situazione produttiva-sindacale, attraverso questa nuova configurazione tecno-politica transnazionale senza più confini territoriali. (Beh, buona giornata.)

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Prima rompe con FIOM, poi con Confindustria: dove vuole arrivare la Fiat?

La Fiat si prepara a lasciare l\'Italia?

(Clicka sulla frase in rosso e vedi il commento in video).

L’assemblea dei delegati accoglie la proposta di mobilitazione di gruppo contro il piano industriale del Lingotto e Fabbrica Italia. “Bisogna mandare un segnale che non siamo rassegnati”, dice Airaudo
La manifestazione degli operai di Irisbus, azienda del gruppo Fiat
MILANO – L’assemblea dei delegati Fiom ha accolto la proposta della segreteria per uno sciopero nazionale di 8 ore il 21 ottobre in tutto il gruppo Fiat, approvando all’unanimità il documento. Mobilitazione che sarà estesa alle aziende della componentistica, con una manifestazione nazionale a Roma.

“Fabbrica Italia non esiste” ha tuonato il segretario nazionale Fiom, Giorgio Airaudo che ha aggiunto: “Bisogna mandare un segnale che non siamo rassegnati”. Secondo il rappresentante delle tute blu di Cgil la stessa uscita del Lingotto da Confindustria è una vicenda che “riguarda gli assetti del Paese e le libertà democratiche. Siamo di fronte a un tentativo di costruire un modello sociale diverso, un modello di rappresentanza e di rapporti diversi. E quello che ci viene proposto in Italia non è altro che la coda del fallimento del modello americano”.

Airaudo ha quindi sottolineato il momento difficile della vertenza Fiat, motivo in più per dare un “segnale importante”. Lo sciopero del 21 ottobre e la manifestazione a Roma “sono indispensabili. E’ una risposta a quello che ci viene proposto e serve per non lasciare soli i lavoratori degli stabilimenti della Irisbus di Valle Ufita e di Termini Imerese”.

Sui diritti di rappresentanza e sulle libertà sindacali Fiom realizzerà un libro bianco e proporrà al Parlamento una commissione di inchiesta: “E’ necessario costruire una campagna di denuncia su questi temi”, ha concluso Beh, buona giornata.

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Il caso Fiat: tutto, ma proprio tutto quello che non va dopo il referendum a Mirafiori.

La classe operaia deve tornare in Paradiso, di EUGENIO SCALFARI-la Repubblica.

ANZITUTTO l’aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I “sì” all’accordo sono stati il 54 per cento e i “no” il 46 per cento.
Al netto del voto impiegatizio i “sì” hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l’aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei “sì” ha votato di assai malavoglia e molti l’hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell’accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti – ribadito nell’accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri – la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l’accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno “nominati”
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata “porcellum”, porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La “porcheria” della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di “anime morte” reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti “gialli”?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L’economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi “continenti”: Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l’intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l’economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l’ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall’economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l’elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall’Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c’è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell’involuzione economica in atto nell’Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l’economia classica definì il “risparmio forzato” e cioè l’accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d’ora verso l’alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un’alternativa c’è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un’ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L’ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

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Sì, l’ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che – a detta dello stesso Marchionne – il costo del lavoro dell’automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell’auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c’è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c’è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall’altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c’è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d’una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l’altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell’innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l’imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell’imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l’attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull’evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una “governance” aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell’azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l’intera società nazionale e l’intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell’era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l’avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell’opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell’articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli. (….). (Beh, buona giornata).

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Marchionne, impara come si fa.

(fonte: Finanzaonline.com)
Nel 2010 le vendite di Volkswagen hanno toccato quota 4,5 mln di auto, mettendo a segno un rialzo del 13,9% rispetto a un anno prima. Si tratta di un record per la casa tedesca. L´ottimo dato è frutto di un rialzo delle vendite del 49% in Russia, del 35% in Cina e del 20% negli Stati Uniti. In calo il dato europeo, che mette a segno un -1,2%. Beh, buona giornata.

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Accordo di Mirafiori: alla Fiat tornano i sindacati gialli, urge lo sciopero generale contro i “padroni” e il governo dei “padrini”.

“E’ vero che l’accordo di Mirafiori è storico – dice Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato centrale della Fiom – ha un solo precedente: il 2 ottobre 1925 quando Mussolini, la Confindustria e i sindacati fascisti e nazionalisti sottoscrissero l’abolizione delle commissioni interne. Oggi Marchionne Cisl e Uil aboliscono in Fiat e Mirafiori le Rsu e le elezioni democratiche. E’ un atto di un autoritarismo senza precedenti nella storia della Repubblica: nemmeno negli anni ’50 si tolse ai lavoratori Fiat il diritto a votare per le loro rappresentanze. Per Cisl e Uil è una vergogna assoluta”. Beh, buona giornata.

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“La Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori.”

di Marco Ferri- 3DNews

Omar Thomas, un nero di 34 anni assunto da poco come autista dalla Hartford Distributors di Manchester, in Connecticut (USA), è entrato nello stabilimento in cui lavorava e ha ammazzato a rivoltellate otto persone, poi si è tolto la vita. Lo ha fatto perché temeva di essere licenziato.

Qualche giorno prima, Paolo Iacconi, un italiano di 51 anni, rappresentante di commercio presso la Gifas-Electric di Massarosa, in provincia di Lucca (Italia) è tornato in azienda e ha ucciso a colpi di pistola l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite, poi si è sparato, togliendosi la vita. Era stato licenziato sei mesi fa. Era il 23 luglio di quest’anno.

Il giorno dopo, nei dintorni di Roma, un assicuratore ammazza a bastonate il suo datore di lavoro. Tornavano in macchina dopo aver visitato alcuni clienti. E’ nato un diverbio. Alla minaccia del licenziamento, è scattata la furia omicida. L’uomo è stato arrestato.

Cosa lega tra loro questi fatti? Una semplice, quanto terribile coincidenza: lo spettro della perdita del lavoro, la disoccupazione. Cosa stride tra la verità narrata dal mainstrem e la realtà delle cose? Un semplice, quanto lampante dato di fatto: governi e finanzieri parlano di segnali di ripresa dell’economia.

Una buona notizia? “Io considero fin troppo probabile che tra due anni la disoccupazione sarà ancora estremamente alta, se possibile addirittura più alta di adesso. Invece di assumersi la responsabilità di porre rimedio a questa situazione, i politici e i funzionari della Fed dichiareranno in uno stesso modo che un’ alta disoccupazione è strutturale, al di là del loro controllo.” Lo ha detto Paul Krugman, economista americano, Nobel 2008, in un articolo pubblicato su Repubblica (c .2010 New York Times News Service, traduzione di Anna Bissanti).

Allora le cose stanno così: la crisi economica globale ha distrutto i risparmi, la ripresa economica sta distruggendo il lavoro. Il Capitale vince due a zero. Se guardiamo le cose di casa nostra, possiamo vedere crescere la disoccupazione , siamo vicini a quota 9 per cento, in linea con quello che succede in Europa. Però, svettiamo a oltre il 29 per cento di disoccupazione giovanile, un gran bel record mondiale.

Senza contare, che sono stati annunciati circa tremila nuovi esuberi da Telecom Italia. Mentre Unicredit, una banca italiana tra le prime in Europa, augura buone vacanze estive 2010 agli italiani, annunciando 4.700 licenziamenti. Un sindacalista della Cisl ha detto che i licenziamenti della banca sono concepiti sul modello di pensiero di Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat: taglio posti di lavoro, porto fuori la produzione, chiudo stabilimenti, rompo le relazioni sindacali, mando all’aria i contratti collettivi di lavoro.

Il Lavoro perde due a zero. Perché il Sindacato tarda a comprendere il cambio di passo nelle relazioni industriali. Perché la Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori. Che ogni tanto, come le formiche nel loro piccolo, si incazzano. (Beh, buona giornata).

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Il Lodo Pomigliano.

I confini del Lingotto, di LUCIANO GALLINO-Repubblica.

A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti. (Beh, buon giornata).

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A Pomigliano lo scontro capitale-lavoro all’epoca della globalizzazione della crisi econimica: “Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.”

A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo, di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n’è una che è d’una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.
Il dopo Cristo per l’amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un’epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l’accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d’un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l’hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell’opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l’apripista d’un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l’alta marea costruendo un muro che blocchi l’oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell’opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l’obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca “prima di Cristo” debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca del “dopo Cristo”. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall’emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l’inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, “buscando el levante por el ponente”, cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

C’è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall’Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all’esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell’Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l’ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l’Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell’Eurozona le seguenti domande: “Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell’Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l’entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell’occhio del ciclone?” (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all’interno dei paesi. Non c’è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell’articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell’urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell’abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l’abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l’intento di stravolgere l’architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all’Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l’ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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A Pomigliano la Fiat tenta di andare a mille contro gli operai. Intanto la 500 la fanno in Polonia.

(fonte: Agenzia Ansa).
”Marchionne la smetta e si vergogni”: cosi’ Giorgio Cremaschi ha replicato all’ad Fiat che aveva attaccato i sindacati. ”Se ci riesce – ha detto il segretario della Fiom – impari a fare l’imprenditore per tutti quegli industriali meno famosi e ricchi di lui che riescono a farlo in Italia rispettando leggi, contratti e Costituzione”. Marchionne aveva detto: ”A Termini Imerese si e’ scioperato perche’ giocava l’Italia e cosi’ si fa a Pomigliano e negli altri stabilimenti”.
Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Natura

Stanno “usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.”

L’alternativa a Marchionne, di Guido Viale – il manifesto.

Non c’è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche);

poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall’autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l’amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l’esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c’è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L’alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell’Alfasud – il «piano B» di Marchionne – e di altri diecimila lavoratori dell’indotto, in un territorio in cui l’unica vera alternativa al lavoro che non c’è è l’affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c’è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c’è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell’auto l’aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi – più prima che poi – la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c’è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all’anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all’anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un’autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L’alternativa in realtà c’è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l’impianto – cosa tutt’altro che scontata – a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell’auto è in irreversibile contrazione; l’auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti – fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch’essi – ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c’è alternativa.

L’alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro – e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate – mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l’inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall’efficienza nell’uso dell’energia.

L’industria meccanica – come quella degli armamenti – può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l’Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l’aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un’industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, g8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né – eventualmente – uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all’età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città.

Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali.

E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l’attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
(Beh, buona giornata).

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La Fiat porta Pomigliano d’Arco in Polonia: localizza la delocalizzazione.

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010

Marchionne e Tremonti, con l’imposizione del “modello Pomigliano”, vogliono dimostrare a tutti i costi (costi pesantissimi, per gli operai) che aveva ragione il vecchio Marx a sostenere che il sistema capitalistico, per massimizzare il profitto, tende a precipitare il salario del lavoratore al minimo necessario per la mera riproduzione fisica della forza-lavoro. Per dirla in soldoni, a salari di fame.

Qualche operaio, che pure si appresta a subire il diktat di Marchionne, ha detto che saranno condizioni di lavoro “da schiavi”. Si sbaglia, ma solo perché in Italia ci sono le condizioni di lavoro-schiavitù di Rosarno. Verso le quali tenderanno comunque le condizioni di tutti i lavoratori salariati, se verrà interiorizzata – come sempre più avviene anche presso coloro che ne sono vittime – la “sovranità della globalizzazione”.

La cui logica è semplice: i capitali, nel senso finanziario e degli impianti, possono spostarsi liberamente, e così anche la forza-lavoro necessaria, ma senza portarsi dietro i diritti e le conquiste, salariali e non, che i lavoratori hanno ottenuto in un paio di secoli di lotte. In questo modo è lapalissiano che le condizioni dell’operaio italiano si avvicineranno progressivamente, e con ritmi che diventano sempre più rapidi, a quelle dell’operaio di Shanghai o bene che vada di Bucarest, visto che il padrone altrimenti trasloca l’intera produzione nei paesi dove il salario è letteralmente da “fame” e i diritti sindacali un miraggio.

Se la “profezia” di Marx risultò clamorosamente sbagliata fu infatti solo perché le lotte dei lavoratori, e dell’opinione pubblica che le appoggiò, portò i governi a imporre camicie di forza al “capitale” e al grado di plusvalore che potesse essere spremuto lecitamente dalla forza lavoro. Le otto ore, per dire, la proibizione del lavoro minorile, e poi le condizioni igieniche, di sicurezza, la tutela dei sindacalisti, fino insomma allo “statuto dei lavoratori”.

Il “modello Pomigliano” di tutto questo fa carta straccia (con gli straordinari ad libitum l’orario vero diventa di oltre nove ore giornaliere). Ma passerà, se continuerà la “guerra tra poveri”, precari contro occupati, disoccupati contro precari, e tutti contro gli immigrati. Perché la ricchezza complessiva in Italia continua a crescere, seppure in modo rallentato, ma cresce a dismisura la sua distribuzione diseguale. Contro questa esplosione del privilegio dovrebbero unirsi le vittime della crisi, anziché ingrassarne i responsabili dividendosi. (Beh, buona giornata).

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“Siamo tutti operai”. Ieri gli operai Fiat a Sanremo, oggi gli operai Alcoa in campo a Cagliari.

(fonte:la nuova sardegna).
Dopo la partecipazione di tre operai della Fiat di Termini Imerese al festival di Sanremo, approda oggi sui campi della serie A la protesta dei lavoratori dell’Alcoa. Prima dell’inizio di Cagliari-Parma, una delegazione degli operai sardi dello stabilimento di Portovesme, impegnati da mesi in una mobilitazione a sostegno della vertenza per il mantenimento della produzione di alluminio della multinazionale americana, ha sfilato per il campo con uno striscione, mentre dalle gradinate altri 200 operai, con il caschetto in testa, cantavano “Non molleremo mai”.

Applausi da tutto lo stadio mentre dalla Curva Nord gli ultras rossoblu, in segno di solidarietà, hanno risposto cantando “Siamo tutti operai”.

I lavoratori dell’Alcoa non sono nuovi a questo tipo di proteste, stavolta autorizzata dal ministro dell’Interno, Roberto Maroni e con la collaborazione del Cagliari Calcio.

Recentemente hanno occupato l’aeroporto di Cagliari, bloccato la Statale 131 in Sardegna e manifestato per le vie di Roma e con presidi sotto Palazzo Chigi in occasione degli incontri nella Capitale per lo sblocco della vertenza. Beh, buona giornata.

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Mentre l’italietta berlusconista si interroga sulle relazioni “piccanti”, la nuova politica industriale di stato del ventunesimo secolo è stata inaugurata con l’accordo Opel-Magna. L’amico Vladimir ha fatto maramao all’amico Silvio.

Opel-Magna, la vittoria politica dell’asse del gas Putin-Schröder -sole24ore.com

La nuova politica industriale di stato del ventunesimo secolo è vicina al suo battesimo. Se l’accordo tra la cordata rappresentata da Magna con Gm e il governo di Berlino andrà a buon fine, sarà il primo grande affare tra governi nell’economia del dopo crisi finanziaria. con un vincitore certo: la Russia di Vladimir Putin. E finanziatori altrettanto certi: la Germania di Angela Merkel e i contribuenti tedeschi.

Si entra in un territorio nuovo, dove i muscoli di stato sostituiscono il mercato. la nuova proposta targata Magna-Sberbank-Gaz presentata ieri non é ancora chiara. Ma ci sono alcuni punti fermi. Magna, produttore canadese di componenti per automobili, ha una buona liquidità in cassa ma soffre parecchio della crisi: nel primo trimestre del 2009, il suo fatturato si é quasi dimezzato. Prenderà il 20 per cento di Opel. Sberbank é la prima banca russa, pubblica, amata dal primo ministro éutin che la sogna come «banca del popolo», ma é in guai anche più seri di quelli delle banche occidentali. Prenderà il 35 per cento di Opel. Gaz, produttore di automobili controllato dall’oligarca oleg Deripaska, sta in un mercato, quello russo, che nel 2009 probabilmente crollerà del 60 per cento. Prenderà lo zero per cento di Opel perché é senza soldi, ma promette di garantire un milione di auto tedesche vendute ogni anno tra Russia e Cina. Il resto delle azioni resterà per il 35 per cento in mano alla Gm americana e per un 10 per cento andrà ai dipendenti della casa automobilistica tedesca».

Non un gran punto di partenza, bisogna dire. la cordata, però, ha sì debolezze ma ha anche un grande punto di forza. È amata, da prima ancora che si sapesse cosa voleva fare, da gran parte della politica tedesca, soprattutto dai socialdemocratici che stanno al governo come partner dell’Unione Cdu-Csu della signora Merkel, e dai forti sindacati della germania. È difficile dire come sia esploso all’improvviso questo amore, visto che la proposta Magna- Sberbank-Gaz é molto onerosa e rischiosa per la germania. Una risposta, però, c’é. si chiama Gerhard Schröder.

L’ex cancelliere, dopo avere perso le elezioni del 2005, é diventato un grande mediatore di affari internazionali che fonda la sua forza su un rapporto strettissimo con Putin e sulla rete di relazioni eccezionali che ha in Germania e in occidente. È presidente del comitato degli azionisti del Nord Stream, il controverso gasdotto controllato dalla moscovita Gazprom che collegherà Russia e Germania e irrita molti paesi europei. Ha un ruolo da ago della bilancia nel consiglio di amministrazione della litigiosissima joint-venture petrolifera bp-tnk tra il gruppo britannico e un gruppo di investitori russi. Media affari in Iran. e sul caso Opel ha ispirato – secondo le informazioni che circolano a Berlino – la cordata Magna-sberbank-Gaz. Ha capito che la crisi Opel era un’opportunità per Putin di mettere un piede in un gruppo ad alta tecnologia occidentale e ha pensato a una soluzione.

Magna – nel cui consiglio di sorveglianza siede Franz Vranitzky, ex cancelliere austriaco e socialdemocratico – funziona da volto accettabile per l’opinione pubblica tedesca e nell’affare Opel di suo rischia poco. Dietro, stanno le armate russe: senza soldi, ma che si sono assicurate una promessa di prestito da quattro miliardi da Commerzbank, banca tedesca in cui il governo di Berlino ha da poco preso una quota del 25 per cento. sulla base del suo nome, poi, Schröder ha galvanizzato l’esercito socialdemocratico tedesco che ha subito alzato la bandiera Magna- Sberbank-Gaz: dai sindacati a Frank Walter Steinmeier, leader della Spd e suo ex capo di gabinetto quando era cancelliere. un capolavoro. Angela merkel? Riesce a non nazionalizzare Opel, come in un primo momento voleva la Spd, e a non rompere troppo gli equilibri nel suo governo di grande coalizione. Nei prossimi giorni, però, avrà parecchi guai.

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Fiat-Opel, Marchionne scopre difficoltà politiche: “Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta.”

Fiat, Opel e l’auto europea. Una occasione perduta sul calcolo elettorale
di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

Sergio Marchionne, dopo avere risollevato la Fiat dall’abisso in cui era precipitata alcuni anni fa (come sempre la sconfitta è orfana) ha giocato due carte ambiziose e coerenti con un ragionamento strategico semplice e fondamentale: un’azienda che produce poco più di un milione di auto all’anno e perde quote di anche nel suo mercato di casa non può andare molto distante.

L’idea non è nuova, perché la perseguì il grande risanatore (in condizioni politico – ambientali molto peggiori di Marchionne) della Fiat, Vittorio Ghidella. Quella volta il discorso era con la Ford. Finì male, per le divergenze tra i vertici della Fiat che si manifestarono allora. Ma il concetto è sempre quello.

Marchionne ha giocato con coraggio, abilità e una durezza poco italiane. Con una carta, quella americana, ha vinto; con l’altra, quella tedesca, appare di ora in ora sempre meno probabile che ce la faccia. Lo stesso Marchionne ha cominciato realisticamente a ricooscere le difficoltà del percorso che ha davanti.

Non c’è nulla che sorprenda nella divergente evoluzione sui due lati dell’Atlantico, anzi, in un certo senso, sono speculari nelle ragioni che ne sono alla base. In entrmbi i casi, c’è da dire, che i governi americano e tedesco hanno agito secondo una pura logica elettorale, del tipo: navigazione a vista, senza alcun riguardo per l’interesse di più lungo respiro dell’industria dell’auto nei due continenti.

Il presidente americano Barack Obama ha scelto Fiat come partner per Chrysler per le stesse ragioni per le quali qalla fine i politici tedeschi sceglieranno Magna: perchè le due scelte sono quelle che costano meno in termini occupazionali. Obama include nella sua base elettorale i lavoratori dell’auto, che si era parzialmente alienato all’inizio della vicenda General Motors e Chrysler per l’approccio troppo in stile Wall Street dei suoi interventi pubblici in materia. La logica industriale, l’interesse di lungo periodo dell’America portavano a una fusione tra GM e Chrysler, con la nascita di un gigante americano capace di competere da pari con i giapponesi. Ha scelto gli italiani, perché limitate, al di là dei discorsi, sono le sinergie possibili, soprattutto quelle che possono portare a tagli di occupazione a Detroit e dintorni. Questo in futuro potrebbe portare a interrogarsi, parlando in italiano, sulla convenienza per Fiat dell’operazione senza gli altri elementi del puzzle disegnato da Marchionne.

Obama avrebbe forse potuto seguire un’altra linea, quella di compensare i tagli all’occupazione derivanti dal colosso dell’auto all- american con interventi di aiuto sociale, versione americana della casaa integrazione o del prepensionamento. Ci sono i precedenti. Quando agli inizi degli anni ‘80 i giornali passarono alle nuove tecnologie di composizione “a freddo”, ottennero il consenso alla drastica riduzione di organici che ne conseguiva garantendo l’impiego a vita ai lavoratori in esubero. Ma i giornali lo fecero con i propri denari, scommettendo sullo sviluppo che ne sarebbe venuto.

L’industria dell’auto americana, però, è in fallimento e non può quindi finanziare garanzie ai lavoratori; né lo può lo Stato, perché i soldi, e sono tanti, servono anche per altre emergenze e l’emergenza più grossa, secondo il governo americano, è garantire la salvezza del sistema bancario. Di qui la necessità per Obama di trovare qualcuno che, per un complesso di ragioni, anche industrali, potesse prestarsi al gioco.

Le stesse identiche ragioni sono quelle che muovono Angela Merkel, cancelliere tedesco, e i suoi colleghi, di destra come di sinistra. La crisi è profonda, c’è da rimettere in moto tutta l’industria tedesca, a cominciare dall’ex Germania dell’est che è un po’ come il Meridione per l’Italia del dopoguerra, non ci sono soldi per garantire il posto di lavoro ai lavoratori dell’auto, che sono certamente una minioranza privilegiata nella classe operaia tedesca. Con l’aggravante che, mentre Obama è di sinistra e interventi di tipo sociale possono trovare collocazione nella sua ideologia, la Merkel è anche di destra e fin dall’inizio della crisi Opel, mesi fa, ha sempre detto che a salvare la casa automobilistica non ci pensava nemmeno (salvare la Opel con intervento pubblico avrebbe avuto poi un’altra conseguenza: quella di aiutare un azionista americano, essendo Opel posseduta da GM).

Nel caso di Opel, la strada proposta da Marchionne era quella giusta, se si voleva ragionare in termini di interesse europeo complessivo: sarebbe nato un colossetto dell’auto, che avrebbe fatto fare ad entrambe le case quel salto di dimensione di cui hanno disperatamente bisogno). Certo ci sarebbero stati forti tagli all’occupazione e infatti i primi in Germania a schierarsi contro la proposta Fiat sono stati i sindacati.

Poi i dubbi hanno guadagnato momento in Italia come in Germania. Data la situazione delle finanze pubbliche dei due paesi, non si poteva nemmeno pensare, non parlare, di contributi o interventi sociali. E poi ci sono le elezioni: e non a caso ai sindacati tedeschi si sono accodati i politici, in Germania tutti, in Italia quelli al governo. Finalmente anche i sindacati italiani, prima troppo impegnati a fare politica e a scimmiottare Berlusconi sul palcoscenico dell’Abruzzo, hanno parlato.

E qui viene una considerazione: senza volere ridurre il valore di Marchionne, nessuno che fosse in età adulta e consapevole negli anni di piombo, prima della svolta impressa alla Fiat e all’Italia dalla gestione di Ghidella, può ignorare le diverse condizioni ambientali in cui operò il management Fiat negli anni ‘70 e quelle in cui opera adesso (vero è che nei vent’anni dopo Ghidella, pur operando in una condizione di strapotere rispetto al sindacato, la gestione della Fiat non impedì che l’azienda scivolasse nel precipizio).

In Italia, però, la posizione di politici e sindacati può essere solo difensiva. Il pallino in mano ce l’hanno i tedeschi: il Governo centrale, le varie regioni che pesano molto più che da noi, essendo la Germania un vero stato federale fin dal 1870, e i sindacati, il cui peso è maggiore che in Italia perché sono organici alla gestione delle imprese.

E qui entra in scena Magna, l’alternativa a Fiat: è un’azienda di componentistica, non produce auto, le sinergie possibili sono minime. Ai politici interessa il consenso, perché il consenso si traduce in voti; e i politici tedeschi non fanno eccezione. La loro scelta era scritta nel muro. Marchionne ha combattuto a testa bassa, con la determinazione di chi crede, con ragione, alla bontà del suo progetto. Ma venerdì sera ha cominciato a guardare in faccia la realtà, riconoscendo che si tratta di una partita complessa e che in Germania ci sono le elezioni, che possono influire sulle scelte. L’onestà di queste parole fa onore a Marchionne. Forse ci avrebbe pensato prima, se non fosse stato un po’ troppo coccolato dal silenzio e dalla acquiescenza di politici e sindacati italiani. Morale, la mancanza di dissenso fa male, non solo alla democrazia. Fa proprio male e basta. (Beh, buona giornata).

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Accordo Fiat-Opel: si chiude Termini Imerese e si apre in Serbia?

di Diodato Pirone-ilmessaggero.it
«Non è la possibile fusione Fiat-Opel a sconvolgere il mercato dell’auto. E’ la crisi mondiale che sta scuotendo tutto. Opel ha perso quasi 1,5 miliardi nei primi tre mesi del 2009 e se persino Toyota vende un milone di auto in meno nel mondo vuol dire che chi sta fermo è perduto». Parla così una fonte vicina alla trattativa Fiat-Opel per tentare di diradare un po’ del polverone che avvolge il parto travagliato del nuovo polo europeo dell’auto.

Ma che cosa comporta la Grande Ristrutturazione Globale sul fronte del lavoro? Marchionne lo ha scritto nel Piano Fenice alla base del progetto di fusione Fiat-Opel: la capacità produttiva va ridotta del 22% perché tenere aperte linee di produzione inutilizzate fa esplodere i costi. Per questo da anni l’amministratore delegato di Fiat predica la creazione di grandi stabilimenti da 4-500 mila auto annue. L’ultimo tentativo per costruirne uno nuovo in Italia è fallito a inizio 2008 quando Marchionne si arrese di fronte all’impossibilità (perché bisognava costruire un porto e per mille intoppi politici, sindacali e burocratici) di raddoppiare la fabbrica di Termini Imerese, in Sicilia. E così la nuova auto per Termini, la Topolino con motore bicilindrico, con ogni probabilità sarà battezzata in Serbia dove Fiat, con fondi del governo di Belgrado, sta costruendo una fabbrica extra-large.

Poi è arrivata la Grande Crisi e la cassa integrazione a valanga. Da ottobre i 1.600 operai di Termini (e i 400 dell’indotto) sono stati fermi per 5 mesi. Nel 2008 hanno fabbricato oltre 150 mila Lancia Ypsilon contro le 70-80 mila previste per quest’anno: Termini assomiglia, di fatto, a un morto che cammina anche se fabbricherà Ypsilon fino a tutto il 2010.

E dopo? Il Piano Fenice ne ipotizza la riconversione nella produzione di componenti. Così come riconversioni o chiusure – anche se gli uomini di Marchionne giurano di non aver mai scritto questo termine – toccheranno in tutt’Europa gli anelli più deboli della catena Opel: Luton, in Gran Bretagna, da cui fino al 2012 usciranno furgoni ”cofirmati” da Renault; Graz, in Austria che fa trasmissioni; Anversa, in Belgio, troppo vecchio; Kaiserslautern, in Germania, meno efficiente nella motoristica rispetto all’impianto polacco di Bielsko-Biala che Fiat e Opel già condividono.

In questo quadro anche l’Italia paga un prezzo: di Termini s’è detto. Poi non è definita la missione dell’enorme fabbrica di Pomigliano (350 mila metri quadri coperti) che prima della crisi assemblava 250 mila Alfa Romeo ridotte a meno di 100 mila quest’anno. Resta da capire chi farà (e dove) la ricerca e qui anche Torino rischia di perdere qualche pennacchio.

L’incredibile è che se Fiat-Opel non dovesse nascere le cose potrebbero andare anche peggio. In questo caso lo scheletro dell’industria automobilistica europeo potrebbe fratturarsi in più punti. Per questo ieri Karl-Theodor zu Guttenberg, il giovane ministro dello Sviluppo Economico della Germania, ha ripetuto pari pari una frase cara a Sergio Marchionne: «E’ l’Europa che deve risolvere il problema Opel». (Beh, buona giornata).

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Dopo l’accordo Fiat- Chrysler, che fine faranno i Suv?

Fiat-Chrysler, un’alleanza nel solco dei fuoristrada
di Mario Cianflone-sole24ore.com

Fiat e Chrysler sono pronte ad allearsi e a formare una galassia di marchi tra le due sponde dell’Atlantico. La casa americana che ha già un matrimonio europeo alle spalle, quello celebrato nel 1988 con Daimler Benz e fallito nel 2007, è dopo Gm la seconda malata – quasi terminale – di Detroit, con una crisi generata da una costante emorragia di vendite dovuta a una gamma composta da modelli di scarso appeal tra le due sponde dell’atlantico e al conseguente dissesto di finanziario, iniziato ben prima dell’attuale crisi economica.
Chrysler Llc controlla, oltre al proprio brand, marchi che hanno fatto la storia dell’auto a stelle e strisce come Dodge, dove spicca la super sportiva Viper, uno dei pochi successo della casa anche in Europa, e soprattutto Jeep. Quest’ultima, icona e sinonimo stesso del concetto di fuoristrada: è un marchio leggenda con modelli di grande e grandissimo successo come Cherokee o Wrangler.
Al gruppo Fiat, la dote Jeep potrebbe fare non poco comodo per espandere, grazie a Jeep, l’offerta in quella che, volenti o nolenti, rappresenta un settore imporante dell’industria dell’automobile: quello dei Suv e dei fuoristrada. Una area di mercato dove il Lingotto esibisce un vuoto pressoché pneumatico visto che schiera solo la Sedici, clone della Suzuki SX e ulteriore figlio del matrimonio fallito con Gm, nonché l’Iveco Campagnola che però è più un veicolo militare e un fuoristrada puro che un Suv. E il mercato chiede, si veda il successo della Nissan Qashqai o della Ford Kuga, sempre più sport utility di taglia urbana e prezzo accessibile come il recente Peugeot 3008.

Fiat invece porterebbe in “dono” alla decotta Chrysler tecnologie evolute nei motori diesel di piccola cubatura, come i MultiJet, e innovazione recenti come il MultiAir, un sistema di gestione delle valvole che permette di ottimizzare il rendimento dei motori a benzina, anche di piccola cilindrata apportando anche un risparmio industriale non indifferente: l’utilizzo di un solo albero di distribuzione anziché due.
Al di là delle singole tecnologie, il gruppo Fiat può contribuire globalmente alla rinascita tecnica del gigante americano che ha in listino molti modelli datati per stile, cifra tecnica e finiture. E Chrysler ha decisamente bisogno di una ventata di innovazione per svecchiarsi con inediti prodotti e nuove idee.

Certo non può andare avanti continuando a proporre auto “datate” come la Pt Cruiser.
Inoltre, a Chrysler, anche nel’offerta europea fanno decisamente comodo i poderosi turbodiesel (soprattutto quelli derivati dal 1.910cc che anche Opel utilizza, persino sulla nuova Insignia) visto che per motorizzare la Compass è dovuta ricorrere alla banca degli organi di Volkswagen. La semi-suv americana monta, infatti, una non recentissima unità tedesca con iniettori pompa, derivata da quella delle vecchie Golf/Passat, per intenderci.

Ma anche la Casa Usa, può dare il suo contributo: alcuni modelli di nicchia come la Chrysler 300 C, berlina e wagon, che anche da noi hanno avuto un riscontro positivo, potrebbero contribuire ad ampliare l’offerta del Lingotto che sul fronte delle vetture grandi e di prestigio è deficitaria (schierava fino a poche settimane solo la poco fortunata Thesis, ora scomparsa senza clamore e rimpianti dal listino Lancia). Inoltre sinergie sono possibili anche sul fronte dei grossi monovolume.
L’alleanza potrebbe anche sancire il ritorno di Alfa Romeo negli Stati Uniti grazie a una rete di dealer in grado di supportare le vendite del biscione. Più difficile è invece ipotizzare la commercializzazione di modelli italiani come la 500, decisamente troppo compatta, mentre la Bravo potrebbe fronteggiare vetture piccole, per gli standard Usa, come la Ford Focus, ma si tratta di tipologie di macchine non troppo gradite agli automobilisti americani che prediligono, anche per una questione di corporatura media, vetture ampie e spaziose. (Beh, buona giornata).

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Una strano Primo Maggio:”Nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione.”

Il Primo Maggio di casa Agnelli di Gabrile Polo-Il Manifesto
Nel settembre 1920, al culmine del «biennio rosso», molte fabbriche italiane erano occupate dagli operai. La rivoluzione bolscevica e la crisi del sistema liberale davano un forte segno politico alle rivendicazioni dei lavoratori che – nello specifico – scioperavano e occupavano perché l’Associazione degli industriali aveva respinto le richieste sindacali di aumentare i salari a fronte dell’aumento dei prezzi e riconoscere i consigli dei delegati.

Il vecchio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, nel giro di pochi giorni propose due diverse – e opposte – soluzioni a una lotta che bloccava completamente la produzione. Prima ventilò la possibilità di trasformare la Fiat in una cooperativa: se ne discusse un po’, ma l’idea rimase sospesa nell’aria. Poi si recò da Giovanni Giolitti, primo ministro dell’epoca, chiedendogli di liberare in qualche modo la fabbrica: il capo del governo gli rispose che a Torino c’era il «Saluzzo cavalleria» che avrebbe potuto bombardare la Fiat-centro in poche ore. Agnelli si ritrasse spaventato, pensando alla sorte di stabilimento e macchinari. Come finì lo sappiamo: gli operai isolati e sconfitti, Agnelli di nuovo alla sua scrivania, il fascismo alle porte. Nel ’900 la lotta di classe andava così.

Oggi siamo in tutt’altro mondo e il conflitto capitale-lavoro trova altre ipotesi risolutive e altri esiti. Forse meno cruenti, forse più sottilmente velenosi. Così, nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione. Saranno i fondi pensione della United Auto Workers a gestire i licenziamenti e la riduzione del costo del lavoro. Il vecchio Giovanni Agnelli sarebbe andato in brodo di giuggiole.

Curiosamente tutto ciò avviene alla vigilia del Primo Maggio, festa inventata in Europa nel segno della piena occupazione e della giornata lavorativa di otto ore, ma ispirata a un massacro di lavoratori avvenuto negli Stati uniti. Non si può dire che le condizioni di vita, il peso culturale e politico del lavoro abbiano, nel novello secolo, proseguito la «corsa emancipativa» che gli «inventori» dell’odierna Festa immaginavano inarrestabile.

L’accordo Fiat-Chrysler ne è un esempio evidente. Ma per capirlo non serve andare così lontano, basta guardarsi intorno. Come basta non essere ciechi per capire che in quelle condizioni troviamo lo specchio più evidente della vita contemporanea, dei suoi rapporti sociali, del nostro grado di civiltà. La politica se ne cale poco, se non in campagna elettorale. Quelli che – manifestando o festeggiano – scendono in piazza oggi, ben lo sanno. Anche se hanno poca voce, provando a ritrovarla. Anche se considerati maleodoranti dal papi del consiglio che, almeno oggi, non ci sarà. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Il nuovo progetto deve portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro.”

La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa

E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).

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Lavoro

I fotogrammi mancanti dallo spot Fiat.

Marchionne, amministratore delegato di Fiat Auto si è vantano di essere stato artefice e creativo dello spot pubblicitario per il lancio della nuova 500.

E’ stata un’occasione per suggellare il rilancio di tutta l’azienda automobilistica italiana.

Tutto bene se non avessimo appreso che la nuova 500 viene prodotta in Polonia e in Slovenia. Se non avessimo appreso che gli operai polacchi e sloveni guadagno 380 euro al mese. E che se volessero comprare una delle vetture che sono il nuovo orgoglio del made in Italy dovrebbero lavorare due anni e mezzo (trenta mesi in totale apnea, cioè senza spendere un euro di quello che guadagnano).

“Appartiene a tutti noi”, dice lo spot di Marchionne. Mai la pubblicità fu più veriteria: a tutti noi appartiene una stile di vita e di consumi che ci fa apprezzare il frutto del basso costo del lavoro degli altri, gli alti profitti dei più forti.

Mentre ci sgrugnamo su pensioni e scaloni, scopriamo che un metalmeccanico polacco o sloveno prende meno della più bassa delle nostre pensioni sociali.

Viva l’euro, viva l’Europa: “appartiene a tutti noi”. Beh, buona giornata.

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