Il sequestro non è mai un gioco
di BARBARA SPINELLI-La Stampa
E’ dagli inizi di marzo che sugli schermi televisivi, in Francia, va in onda un peculiare e ripetuto spettacolo: il sequestro dei manager, ormai comunemente chiamato bossnapping. È accaduto allo stabilimento della Sony e a Caterpillar, a 3M e Continental, a Molex e in una filiale della Peugeot. Il sequestro può durare ore o giorni, e in genere è presentato quasi fosse una fiaba a lieto fine: gli operai che l’hanno organizzato sono soddisfatti per l’aumento di stipendio ottenuto o il licenziamento evitato, il boss esce dalla prigionia sotto i fischi non solo dei sequestratori ma della gente che sta da quelle parti. Poco fiabeschi sono tuttavia i volti dei sequestrati: lo sguardo è sperduto, i capelli spettinati, si vede che la paura li ha abitati e un male è stato commesso.
Per il sequestrato la piccola rivoluzione non è stata un pranzo di gala: fatto di serena cortesia. I sequestratori insistono su questa delicata serenità, si definiscono non maoisti ma pragmatici – volevamo solo esser riconosciuti, non c’era in noi risentimento – ma dal punto di vista del sequestrato il distinguo è insensato.
Dal loro punto di vista la violenza è stata inaudita: se ti chiudono in una stanza per strapparti concessioni non sai come andrà a finire e chi deciderà l’epilogo. La frontiera che separa il gioco dal processo e dall’esecuzione è labilissima. Jean Starobinski racconta come in un attimo si passò, nel ’700, dalle graziose altalene di Fragonard alla ghigliottina.
Questa labile frontiera svanisce, nei racconti dei carcerieri. Marx aveva detto che «la storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa». E i carcerieri pur volendo esser seri usano scientemente il vocabolario della farsa giocosa. Dopo il sequestro di quattro dirigenti alla Scapa, un sindacalista ha dichiarato: «Li abbiamo solo trattenuti, non sequestrati. Il nostro atteggiamento era zen. I sequestrati potevano uscire dalla stanza a fumare, bere il caffè. La mattina gli portavamo il croissant, anche se ovviamente dalla fabbrica non potevano uscire». Ecco il peculiare, nelle rivolte di questi tempi di crisi: sono certo violente – come definire altrimenti una prigionia che esordisce con un cornetto ma non sai come finisce? – e però son presentate addirittura come zen. Nell’epoca di Mao la rivoluzione non era un pranzo di gala o un ricamo, ma un atto di violenza. Oggi è proprio questo: croissant, ricamo cortese. Tutto ciò sarebbe plausibile e non sinistro se non fosse per quei volti visti in televisione, impalliditi. Per loro non è stato ricamo ma violenza illegale, gioco che impaura. Prima ti danno il cornetto poi magari qualcuno perde la pazienza e non gioca. La storia che si ripete in farsa è una delle inanità dette da Marx. La violenza non è meno lesiva se la chiami farsa.
Tuttavia è l’elemento farsesco a esser sottolineato, con effetti insidiosi perché la leggerezza facilita il contagio. Oskar Lafontaine (ex ministro delle Finanze, oggi leader della sinistra radicale tedesca) è giunto fino a sollecitare l’imitazione, il 24 aprile: «Quando i lavoratori francesi in collera sequestrano i padroni, desidererei che accadesse anche qui». Più allarmato, Epifani teme le emulazioni e mette in guardia contro un sindacato che dovesse esser debole come in Francia, e tanto più corrivo. È la corrività diffusa che impressiona in Francia. Corrività estesa ai politici, che sembrano come confortati da quel che accade: non è lo Stato il Leviatano sotto tiro. Il Leviatano è l’astratto, inafferrabile Mercato.
Il sociologo Carlo Trigilia ha detto cose pertinenti in proposito. Ha scritto che il fenomeno francese deve suscitare più inquietudine vera, e perciò più azioni. Che bisogna riconoscere gli effetti sociali della crisi, esporli con maggiore trasparenza, e dare ai minacciati maggiore giustizia e sicurezza. Gli operai dopo decenni di latitanza tornano a lottare con mezzi illegali, e questo rende i sequestri un evento di grande rilievo (Il Sole-24 Ore, 2 aprile 2009)
Ma c’è qualcosa di più negli eventi francesi, ed è la scherzosa popolarità di cui godono, non solo in Francia, le violenze anti-manager. Specialmente premonitorio è il film Louise-Michel di Kervern e Delépine, adorato anche in Italia. La storia narra di lavoratori che un mattino s’accorgono che la fabbrica è delocalizzata. Sperduti ma battaglieri, decidono che la via a questo punto è una sola: buter le chef, far fuori il capo. Probabilmente ogni azione violenta comincia così, con una freddura buttata lì a casaccio. Tutto è buttato lì a casaccio e si trasforma in comica, nel film. Il killer ingaggiato è un asso di maldestra idiozia, e il pubblico ride: quasi troppo. La violenza è edulcorata, ordinaria: proprio così si fa epidemica.
Due cose colpiscono innanzitutto nei bossnapping, rivelatrici ambedue dello spirito del tempo. In primo luogo: la distinzione che vien fatta tra legale e legittimo. Il sequestro è certo illegale, in Francia è punito severamente. Ma il legale s’appanna, completamente sommerso dalla categoria della legittimità come da quella, dichiarata superiore alle norme, dei valori. Può non esser legale il mio agire, ma il contesto e i valori lo rendono comprensibile e poi giustificato. La distinzione è antica vena francese: le mobilitazioni per Cesare Battisti o altri ex terroristi italiani hanno questa radice.
Il secondo aspetto riguarda la figura del ribelle. È una figura che s’è banalizzata, contaminando la politica oltre all’escluso. Ci sono leader che su tale caratteristica hanno edificato un carisma, meticolosamente coltivato. Sarkozy e Berlusconi si sono costruiti come ribelli, sovrapponendo spesso il legittimo al legale. In qualche modo son figli del ’68 che tanto esecrano, e della cultura Do It Yourself che secondo lo studioso Xavier Crettiez nasce dal ’68. La cultura DIY significa: fai le cose a modo tuo, null’altro ti servirà e tanto meno rispettare le leggi e il «teatro della politica». Quel che è legale, sono io a dirlo. Il mio scopo è realizzarmi, senza badare ad altri. Se sei licenziato trovati qualcosa da fare, dice Berlusconi. Trovati un marito ricco. La chiamano ribellione del futile: fuck off è il suo motto.
La banalizzazione della violenza spinge il politico e gli stessi manager a passarci sopra, illudendosi che la furia si spenga per stanchezza o noia. Quasi nessun sequestrato ha sporto denuncia e Sarkozy, che tiene a esser uomo forte, è imbarazzato. Lo è ancor più perché è sotto influenza dei sondaggi, e questi sono al momento univoci. Il più significativo è quello dell’istituto Csa, all’inizio di aprile. Quasi la metà dei francesi approva i sequestri, e la cosa impressionante è la divisione per età. È la generazione di mezzo – quella del ’68 – che antepone la legittimità alla legalità. I più favorevoli ai sequestri hanno tra 40 e 64 anni (la percentuale più alta, 52 per cento, è fra i 50 e 64. In questa generazione c’è il numero più basso di contrari). Tra i giovanissimi, invece (18-24 anni), i favorevoli ai sequestri sono il 38 per cento, e quelli che li giudicano inaccettabili sono la cifra più alta in tutte le età: 62.
Il nuovo ribelle esprime risentimento ma anche altre passioni. L’uomo in rivolta di Albert Camus lo descrive come qualcuno che in prima linea invoca riconoscimento: «Non difende solo un bene che non possiede e la cui privazione lo frustra. Chiede che sia riconosciuto qualcosa che possiede, e che per lui è più importante di quel che potrebbe invidiare»: il lavoro, uno statuto riconosciuto nella società. Quel che il ribelle moderno dimentica di Camus è il senso della misura che deve correggere il vitalismo ribellista. In Camus è scritto: «Per esser uomo, bisogna rifiutare di essere Dio»: una frase che suscitò l’ira di Sartre e Breton. Sartre ha oggi di nuovo seguaci, ma chi vede lontano resta pur sempre Camus. (Beh, buona giornata).