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La questione sociale.

Oltre le polemiche di queste ore, – comprensibili, tanto prevedibili quanto stucchevoli -, o la questione sociale entra in cima all’agenda del governo o nessuna altra alchimia reggerà fino alle prossime elezioni.

Tra i comportamenti “irresponsabili” andrebbe annoverato anche quello di chi, pur ricevendo la fiducia in Senato, s’inalbera e dà le dimissioni, in un momento molto delicato per l’equilibrio sociale del paese, che la guerra in Ucraina ha appesantito anche sul piano psicologico.

Quindi, diamoci tutti una calmata, la caccia ai colpevoli di una crisi di governo che ancora non è stata certificata dal Parlamento è la vecchia commedia dei fraintendimenti.

Il disagio sociale è un dato di fatto sempre più rilevante, i prossimi mesi raggiungerà livelli insostenibili, lo dicono tutte le rilevazioni: l’aumento delle tariffe energetiche sta incrociando la falce dell’inflazione, con la certezza di diventare la mietitrice del potere di acquisto di redditi gracili.

Salari, stipendi, partite iva e pensioni sono il vero problema che Draghi era chiamato ad affrontare concretamente.

Il M5s lo ha messo sul tavolo. In modo sgangherato, con la solita prosopopea grillina? Oltre la forma, è la sostanza politica che bisogna prendere in considerazione.

Il Pd non può svicolare, perché questo è il punto che i suoi stessi elettori hanno ben presente.

Neanche la Cgil può più fare sofismi, come è successo con quel penoso comunicato di sostegno alla continuità di un governo che finora ha sempre rinviato decisioni che potevano scontentare Confindustria.

Il governo Draghi è stata un’invenzione della politica per gestire il Pnrr, la versione italiana del Next generation Eu. Come giustamente ha scritto Donatella Di Cesare, gli avvenimenti hanno sovrastato l’agenda di Palazzo Chigi. Draghi è andato oggettivamente in difficoltà.

Oltre le polemiche di queste ore, – comprensibili, tanto prevedibili quanto stucchevoli -, o la questione sociale entra in cima all’agenda del governo o nessuna altra alchimia reggerà fino alle prossime elezioni.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Che cosa stanno facendo le banche italiane?

PERCHÉ DRAGHI HA FRUSTATO LE BANCHE
di Marco Onado-lavoce.info

Istituti di credito avversi al rischio o pessimisti sulle prospettive delle imprese italiane? Le banche sono state aiutate ma appaiono restie a svolgere il loro ruolo nei confronti del sistema produttivo in una crisi che è ancora tutta da superare. Siamo ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora può avviarsi la terza, quella della riforma.

L’intervento del Governatore Mario Draghi all’assemblea dell’Abi solleva alcuni problemi delicati, che tolgono molto smalto all’ottimismo di facciata di questi giorni sia per quanto riguarda la situazione italiana, sia per quanto riguarda lo scenario internazionale.
Sul primo fronte, c’è da rilevare che fin dalla relazione di fine maggio, Draghi ha utilizzato toni insolitamente aspri nei confronti delle banche italiane, andando al di là delle abituali esortazioni. Nelle considerazioni finali aveva ammonito contro il rischio che un eccesso di prudenza nella valutazione del rischio di credito determinasse fenomeni di “asfissia finanziaria” in una parte significativa del sistema produttivo italiano. L’8 luglio ha insistito sul tema, mettendo in evidenza che il tasso di crescita del settore privato è ormai negativo (-0,9 per cento a maggio su base annua) contro un tasso medio di crescita del 9,6 nella media dell’ultimo decennio. Una frenata che appare determinata soprattutto dai grandi gruppi e che colpisce le imprese più che le famiglie. Inoltre, anche in termini di costo, cioè di tassi di interesse, si nota “ampliamento del divario nel costo del credito tra piccole e grandi imprese, con effetti negativi per chi oggi ha maggiormente bisogno di accedere al finanziamento bancario”.

LO STRANO REGALO DELLA BCE

In questo quadro indubbiamente preoccupante, si inserisce un autentico giallo: la Bce ha deciso a giugno un ulteriore, eccezionale rifinanziamento per 442 miliardi di euro al tasso dell’1 per cento. Molti, fra cui Willem Buiter, hanno ritenuto l’operazione un autentico “regalo” al sistema bancario di Eurolandia (dell’ordine di almeno 7 miliardi); altri hanno con cinico realismo osservato che tutto serve purché il credito al settore privato riprenda. Alla bella festa organizzata a Francoforte sono infatti accorsi numerosi: ben 1121 controparti, secondo il dato comunicato da Draghi: sembra di vedere gli invitati che sgomitano al tavolo del buffet. Le banche italiane si sono invece tenute in disparte e hanno utilizzato solo il 3 per cento dei fondi. Perché? Il Governatore, deviando dal testo scritto, ha detto di non avere una risposta e se non ce l’ha lui, figuriamoci un povero commentatore esterno. Ma rimane un interrogativo inquietante: cosa sta succedendo alle banche italiane? Non hanno problemi patrimoniali, perché Draghi ce lo dice continuamente e proprio all’Abi ha annunciato i risultati, sostanzialmente favorevoli, dello stress test condotto in questi giorni. Non hanno un problema di liquidità perché ricorrono in misura largamente inferiore alle altre di Eurolandia ad operazioni straordinarie per importo e convenienza. Ma hanno anche bisogno sia di consolidare i rapporti con la parte migliore del settore produttivo, sia di aumentare i ricavi e in particolare quelli da interessi.

TROPPA PRUDENZA?

E’ ovvio che la crisi determini un aumento del rischio di credito e dunque una doverosa prudenza. In effetti, ha ricordato Draghi, nel primo trimestre 2009 gli accantonamenti per perdite su crediti dei maggiori gruppi sono più che raddoppiati, assorbendo metà del risultato di gestione. Ma delle due l’una: o le banche sono diventate eccezionalmente avverse al rischio e stanno mettendo in atto un razionamento senza precedenti. Oppure valutano in modo estremamente pessimistico la situazione prospettica delle imprese (anche perché giustamente lavorano sui dati ufficiali, cioè quelli inquinati dal lieto passatempo dell’evasione fiscale così ben praticato nel nostro paese). Nel primo caso, le misure di concertazione proposte dal Ministro del Tesoro sempre all’Assemblea dell’Abi possono risultare insufficienti, nonostante l’entusiasmo iniziale delle parti coinvolte. Nel secondo caso, bisogna almeno concludere che i “verdi germogli” della ripresa sono ancora una speranza e che il rischio, sollevato dall’Ocse, che la crisi porti una distruzione di capacità produttiva e dunque una riduzione del potenziale di crescita italiano (già molto bassa nel confronto internazionale) è tutt’altro che remoto.

MA LA CRISI NON E’ FINITA

La domanda cruciale è quindi se la crisi è davvero finita o no. Le parole di Draghi non autorizzano a rispondere affermativamente e, quello che è peggio, la relazione della Banca dei regolamenti internazionali pubblicata a fine di giugno dà una risposta sostanzialmente negativa. In sostanza, afferma l’autorevole istituzione di Basilea, la crisi è ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora puٍò avviarsi la terza, cioè quella della riforma. Tre “R” nella versione inglese: rescue, recovery, reform. La colpa del mancato accertamento dello stato di salute delle banche non è certo italiana: da ultimo sono stati i tedeschi a stendere cortine fumogene sulle loro banche, ma comunque anche sul nostro paese ricade il rischio di una situazione che il Giappone ha sperimentato per oltre un decennio; banche con bilanci zoppicanti, che sopravvivono solo per la colpevole indulgenza delle autorità nazionali: le famigerate “zombie banks”. Anzi, proprio perché il sistema produttivo italiano è oggettivamente più frammentato e stava attraversando un delicato periodo di ristrutturazione, i rischi di un’involuzione alla giapponese sono ancora più forti.
In tutto questo, c’è da rallegrarsi che siano stati approvati a L’Aquila i global legal standards, principi generalissimi che l’Ocse tradurrà in principi più stringenti, nella speranza che i singoli paesi lo traducano nelle rispettive legislazioni in modo omogeneo e completo. Ma le decisioni concrete sul sistema bancario internazionale che possono consentire di chiudere la fase della prima “R” (rescue, cioè puro salvataggio) sono ancora da venire. E la seconda “R” della ripresa, dice la Bri che non risulta ancora inquinata da cieco furore antigovernativo, è ancora lontana. (Beh, buona giornata).

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La crisi: la questione si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Esattamente quello che non fanno i provedimenti di Tremonti.

Una manovra da tre soldi che non salva il Paese di EUGENIO SCALFARI-Republica.

– Non voglio commentare l’intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d’Italia e dei giornali “sovversivi” che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L’ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole “Minacce e disperazione”.
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all’appello della Confindustria, dei sindacati e dell’opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che – come ha detto la Marcegaglia – l’intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l’organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell’organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L’architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un “bonus” alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell’Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell’Istat, dell’Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio “almeno fino al prossimo settembre”.
“Zittire le Cassandre”, questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

* * *

Il “bonus” alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l’ammontare e la relativa copertura e c’è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell’invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell’erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d’un ravvedimento utile. Se il “bonus” sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l’erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l’esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l’ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l’ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l’esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C’è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all’investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l’esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l’operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c’è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di “swap”, sulla cartolarizzazione d’una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell’avanzo di bilancio, l’aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l’esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero “per scongiurare il precipizio” non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c’è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c’era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall’opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L’ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L’operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l’udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col “bonus” e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

* * *

Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d’una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l’ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l’aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l’economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d’Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
CUna manovra da tre soldi che non salva il Paese
di EUGENIO SCALFARI

– Non voglio commentare l’intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d’Italia e dei giornali “sovversivi” che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L’ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole “Minacce e disperazione”.
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all’appello della Confindustria, dei sindacati e dell’opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che – come ha detto la Marcegaglia – l’intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l’organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell’organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L’architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un “bonus” alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell’Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell’Istat, dell’Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio “almeno fino al prossimo settembre”.
“Zittire le Cassandre”, questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

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Il “bonus” alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l’ammontare e la relativa copertura e c’è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell’invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell’erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d’un ravvedimento utile. Se il “bonus” sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l’erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l’esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l’ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l’ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l’esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C’è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all’investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l’esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l’operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c’è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di “swap”, sulla cartolarizzazione d’una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell’avanzo di bilancio, l’aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l’esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero “per scongiurare il precipizio” non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c’è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c’era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall’opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L’ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L’operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l’udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col “bonus” e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

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Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d’una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l’ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l’aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l’economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d’Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
La questione dunque si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c’è ed è ancora ben lontana dall’esser stata superata.

Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c’è ed è ancora ben lontana dall’esser stata superata. (****) Beh. buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Duemilioni di lavoratori senza tutele: “Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”.

Welfare, le bugie del governo, senza tutele 2 milioni di lavoratori di MASSIMO GIANNINI-Repubblica.it

NELL’archetipo berlusconiano, il “principio della realtà immaginata” è il cuore della politica. La propaganda non lascia spazio alla verità e alla responsabilità. Neanche su una frontiera dolorosa, come la vita agra dei disoccupati e dei precari.

Tutto si gioca sempre e soltanto sulla manipolazione semantica del reale e nella rimozione psicologica dei fatti. Nella “realtà immaginata” dal Cavaliere, dunque, l’Italia è il Paese che “resiste meglio di tutti gli altri alla crisi”. E’ la patria dell’equità sociale, dove un magnifico Welfare “copre tutti quelli che ne hanno bisogno” e dove un governo magnanimo “non lascia indietro nessuno”.

Da almeno due giorni Silvio Berlusconi va ripetendo queste clamorose bugie dai microfoni del servizio pubblico radiotelevisivo. Aveva cominciato due sere fa nel solito salotto di Bruno Vespa, smerciando agli italiani le “meraviglie” del nostro sistema di ammortizzatori sociali, debitamente rimpinguati dal centrodestra, al punto di garantire “a tutti, ma proprio a tutti”, una degna protezione.

Ha continuato ieri mattina nel felpato studio di “Radio anch’io”, smentendo il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, “colpevole” di aver sostenuto l’esatto contrario solo sette giorni fa. “La sua informazione sui precari – lo ha accusato – non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana”. Un concetto un po’ oscuro nella forma, ma chiarissimo nella sostanza: non credete alla realtà empirica descritta da Draghi, europessimista e antitaliano, ma credete alla “realtà immaginata” che vi racconto io, superottimista e salvatore della Patria.

Solo una settimana fa il premier, compiaciuto, aveva definito “berlusconiane” le “Considerazioni finali” del governatore. Se le aveva lette, mentiva allora. Se non le ha lette, sta mentendo adesso. Basta ricostruire i fatti, per svelare la frottola scandalosa pronunciata sulla pelle dei veri “invisibili” (i reietti del lavoro) e per far cadere ancora una volta la maschera circense indossata dal Cavaliere (qui, come sul Casoria-gate o sul dopo-terremoto).

A “Porta a porta” Berlusconi ha dichiarato: “Oggi come mai i cittadini pensano che lo Stato è vicino. Non ho notizia di qualcuno che dica “abbiamo fame”… Abbiamo, ed è già operativo, accorciato le pratiche per la cassa integrazione, e tutti coloro che perdono il lavoro hanno il sostegno dello Stato. Copriamo fino all’80% dell’ultimo stipendio, ma la gente che segue anche dei corsi può arrivare quasi al 100% dell’ultimo stipendio… I “co. co. pro.” possono avere una percentuale rispetto a quello che hanno introitato rispetto all’anno precedente… Ne ho parlato con il ministro Sacconi, ed è tutto già operativo”.

Delle due l’una. O il presidente del Consiglio non sa di cosa parla. O specula politicamente sulla vita della povera gente. E non lo dicono i pericolosi “bolscevichi” del Pd. Lo ha detto, appunto, il governatore di Bankitalia: “Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% dei nostri partner. Il nostro sistema di protezione sociale rimane frammentato. Lavoratori identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800 mila, l’8% dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore ai 500 euro al mese… La Cassa integrazione ordinaria è stata diffusamente usata… la sua copertura potenziale è tuttavia limitata – interessa un terzo dell’occupazione dipendente privata – e fornisce al lavoratore un’indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione media dell’industria… Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest’anno. Più del 40% è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico. Il 38% è nel Mezzogiorno”.

Così stanno le cose nel Paese reale, fuori dal mondo virtuale immaginato da Berlusconi. Perché non è poi così difficile stabilire chi stia mentendo, tra un premier che alla vigilia del voto europeo chiede al “suo” popolo di rinnovare e rafforzare il plebiscito, e un’istituzione neutrale e autorevole come la Banca d’Italia che non chiede niente a nessuno ma esige solo ascolto e rispetto.

Per averne conferma basta interrogare un po’ più a fondo il ministro del Welfare. Chi ha ragione, tra Berlusconi e Draghi? “A modo loro – è la sorprendente risposta di Maurizio Sacconi – possono avere detto tutti e due una cosa vera. Noi abbiamo esteso a tutti i lavoratori subordinati, “potenzialmente”, quella protezione del reddito che oggi, in assenza di queste misure straordinarie, sarebbe limitata solo a una parte dei lavoratori dipendenti: a quelli delle industrie sopra i 15 dipendenti, a una piccola parte del terziario. E questa operazione, da 32 milioni di euro nel biennio 2009-2010, “potenzialmente” copre tutti i lavoratori subordinati, anche quelli con contratti a termine, apprendisti o lavoratori interinali…”.

Il problema è capire cosa significhi quel “potenzialmente”, ripetuto due volte dal ministro. “Si tratta di vedere se il lavoratore ha maturato i requisiti di accesso – è la sua risposta – non si può accedere ai sussidi avendo lavorato solo un giorno. Da sempre, con unanime consenso delle forze politiche e sociali, il sussidio dev’essere responsabilmente gestito sulla base di un periodo già lavorato. Non a caso noi non proteggiamo un giovane in attesa della prima occupazione. Dobbiamo dargli servizi, opportunità di apprendimento, di congiunzione tra la scuola e lavoro, non certo un salario garantito…”. E dunque, per quanti lavoratori la coperta del nostro Welfare sarà inevitabilmente corta, tanto da lasciarli del tutto scoperti? “E’ impossibile dirlo”, conclude Sacconi.

Detto altrimenti: nell’irrealtà berlusconiana tutti sono “potenzialmente” coperti. Nel realtà italiana molti sono “concretamente” scoperti. Quanti siano gli uni e gli altri, in ogni caso, il governo non lo sa. Sacconi, che è persona onesta, ha almeno il coraggio di riconoscerlo. Il Cavaliere, cui manca il pregio minimo della “dissimulazione onesta”, spergiura il suo “tutti”, e la chiude lì. Lo dice Lui, dunque va creduto a prescindere.

Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”. Ma ancora una volta, in quelle “dependance” mass-mediatiche di Palazzo Grazioli è risuonato solo il Verbo del Cavaliere. L'”irresponsabilità delle parole”, secondo Max Weber, coniugata all'”inverificabilità degli eventi”, secondo Karl Popper. (Beh, buona giornata).

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