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Il decreto Ilva non va contro la Costituzione.

Tutti i cittadini hanno il diritto al lavoro e la Repubblica ha il compito di rendere effettivo questo diritto costituzionale

di Cesare Salvi da avvenirelavoratori.eu

Il decreto Ilva è stato contestato sul piano della legittimità costituzionale da esponenti di Confindustria e del centrodestra (Brunetta, Sacconi). La tesi avanzata è che il decreto violerebbe le garanzie costituzionali della proprietà e della libertà di iniziativa economica. Si prospetta di sollevare la questione in sede di esame parlamentare. La vicenda è emblematica, al di là del merito del decreto. Si fronteggiano infatti due concezioni dei principi fondamentali della nostra Costituzione economica.

Fino a non molto tempo fa, questa controversia sarebbe stata impensabile. La Costituzione, infatti, prevede espressamente che la libera iniziativa economica privata non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art.41); nonché il principio della funzione sociale della proprietà privata, che attribuisce alla legge il compito di determinarne i “modi di godimento e i limiti” (art.42). Ma l’attacco contro questi principi è in corso da tempo.

Del resto, il centro destra ha presentato nella passata legislatura disegni di legge costituzionali per eliminarli e le corti di giustizia europee ripropongono il primato della libertà economica e dei diritti proprietari. E le idee liberiste rischiano di diventare senso comune.

Basti pensare che la questione Ilva è stata fin qui presentata come un conflitto tra tutela del lavoro e tutela della salute e dell’ambiente; laddove il vero conflitto è fra la libertà economica, da un lato, e dall’altro, appunto, i diritti dei lavoratori e dei cittadini. E questo conflitto è previsto e risolto in via di principio, a favore dei secondi, dalle norme costituzionali prima ricordate.

Tali norme si collegano ai principi fondamentali contenuti all’inizio della Costituzione: l’eguaglianza sostanziale, il diritto al lavoro, la tutela della salute come diritto del cittadino e interesse collettivo.

Sono questi principi, di straordinaria attualità nell’Italia e nel mondo di oggi, che inducono molti a dire la tanto criticata frase per la quale “la Costituzione italiana è la più bella del mondo”. Ma sarebbe sbagliato chiudersi in una sorta di concorso di bellezza nella nostra Carta fondamentale.

Anche la costituzione di Weimar era molto bella e ha fatto la fine che ha fatto. Il problema è se quei principi vengono presi sul serio, se ci crediamo ancora. Non solo l’Ilva: Indesit, Terni, gli oltre 500.000 licenziati nell’industria (anche se si preferisce dire “esuberi”), quello che è emerso nel processo Eternit: tutto ciò ci dice che quelle norme costituzionali è come se non esistessero.

Si discuta dunque degli aggiornamenti ritenuti necessari per la seconda parte della Costituzione; ma intanto si operi per l’attuazione della prima parte. A cominciare dalle norme che riconoscono a tutti i cittadini il diritto al lavoro e attribuiscono alla Repubblica il compito di promuovere le condizioni che rendano effettivo, e al lavoratore il diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa. Libertà, dignità, diritto al lavoro.

Se non si riparte da questi principi, è difficile pensare a un futuro migliore per l’Italia. (Beh, buona giornata).

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Le ragioni del Teatro Valle sono a monte.

Succede di aver talmente ragione da capitombolare dalla parte del torto. E’ successo a Goffredo Fofi che sulle pagine de l’Unità ha accusato gli occupanti del teatro Valle di Roma di essere nostalgici dell’assistenzialismo culturale. A quelli non è andata giù, e a ragione.

Perché i motivi dell’occupazione del teatro sono più grandi delle clientele, mafiette e greppie che hanno caratterizzato la produzione cinematografica e teatrale italiana, col risultato di dare vita a sprechi di danaro pubblico e a insulse e dimenticabili opere artistiche. Sono anche più grandi del conformismo di sempre della sinistra parlamentare, ma anche del suo rinato attivismo di questi giorni, tutto imperniato a far sopravvivere il teatro Valle, col coinvolgimento finanziario degli enti locali. Guardano l’albero, ma non vedono la foresta.

Il fatto è che i tagli alla cultura operati nell’ultima manovra finanziaria del governo altro non sono che tagli della parte residua dei tagli precedenti. Il che autorizza a pensare e dunque a dire con chiarezza che chiudere i rubinetti alla cultura italiana è una strategia, prima ancora che una necessità di bilancio. La qual cosa è straordinariamente in sincronia con i tagli di bilancio al finanziamento della scuola, dell’università e della ricerca.

Questa strategia è stata annunciata dal ministro dell’Economia, l’uomo delle forbici, circa un anno fa. “Certi diritti non possiamo più permetterceli”, ebbe a dire Tremonti, molto prima dell’emergenza speculativa internazionale che si è abbattuta sul Paese, proprio grazie alle politiche del governo Berlusconi, cosa, sia detto per inciso, che non è una tesi del dibattito, ma è un fatto accertato e certificato dai mercati internazionali.

Sostenere che l’attuale governo non si può permettere di finanziare certi diritti è la confessione sincera di colpevolezza, al di la di ogni ragionevole dubbio. Perché i diritti non sono merci che a un certo punto esauriscono sullo scaffale del supermarket. La Costituzione non è un menù sul quale un asterisco ci avverte che questo o quel diritto potrebbe essere congelato.

Da questo punto di vista, contrariamente a quanto dice Fofi, si ha l’impressione che gli occupanti del Valle abbiamo le idee chiare. Tanto che la risonanza che sta avendo l’occupazione è un motore mentale che è in grado di produrre idee nuove , quelle stesse di cui Fofi lamenta la mancanza. La verità è che la lotta è una eccellente palestra di ingegni, e il Valle sembra un piccola, ma incandescente fucina. Fosse solo per questo, l’occupazione del Valle andrebbe difesa, propagandata, aiutata con tutti i mezzi.

La piattaforma di lotta non è così chiara come la vorrebbe qualcuno? Sempre succede che chi comincia ha ragioni che le parole ancora non sanno spiegare. Cionondimeno, dall’occupazione del Valle di Roma arriva, sottoforma di metalinguaggio, forte e chiaro un bel messaggio: l’Italia non solo bisogno di una alternativa di governo, l’Italia ha forte consapevolezza di un’alternativa politica, economica, sociale e culturale. L’occupazione del teatro Valle, nella sua specificità, che sembrerebbe riguardare attori, autori, registi e maestranze è in realtà un tassello di un mosaico che rappresenta il cambiamento in atto, tassello che va a collocarsi accanto alle novità espresse dalle amministrative di Milano e Napoli, accanto allo straordinario pronunciamento di massa su i referendum, accanto alla protesta No tav.

Al Valle c’è entusiasmo collettivo, proprio quello che servirebbe per contagiare di nuovo il Paese intero. C’è anche forte il senso di una consapevole autonomia dalle politiche culturali del centrosinistra, contro le quali le parole di Fofi sono sacrosante. Ma il bello delle lotte è che, qualunque risultato immediato ottengano, esse fanno bene alla salute democratica di un Paese.

Per l’attuale ministro della Cultura, che viene dal management di Publitalia,e che ha detto che per quanto allegra l’occupazione del Valle è pur sempre abusiva, evidentemente gli attori servono solo a fare i testimonial pubblicitari. Se da protagonisti delle fiction diventano attori della realtà, bisogna mandargli la polizia? Beh, buona giornata.

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Il Lodo Pomigliano.

I confini del Lingotto, di LUCIANO GALLINO-Repubblica.

A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti. (Beh, buon giornata).

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Libertà, giustizia, uguaglianza: “Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato.”

di Eric Hobsbawm – «The Guardian»- megachip.info

Qualunque logotipo ideologico adottiamo, lo spostamento dal mercato libero all’azione pubblica dovrà essere molto maggiore di quanto i politici immaginano.

Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere così difficile come sembra, dato che l’idea fondamentale che ha dominato l’economia e la politica nel secolo scorso è scomparsa, chiaramente, nel tubo di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le moderne economie industriali -in realtà tutte le economie-, in termini di due opposti che si escludevano reciprocamente: capitalismo o socialismo.

Abbiamo vissuto due tentativi pratici di realizzare entrambi i sistemi nella loro forma pura: da un lato le economie a pianificazione statale, centralizzate, di tipo sovietico; dall’altro l’economia capitalista a mercato libero esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni ’80, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni ’30 ad oggi. Per certi versi è una crisi più profonda di quella, nella misura in cui la globalizzazione dell’economia non era a quei tempi così sviluppata come oggi e la crisi non colpì l’economia pianificata dell’Unione Sovietica. Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell’epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

L’impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese; sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste dove il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati in un modo o nell’altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare a quelli di sinistra.

Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico, non solo per le loro carenze politiche ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie, anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative. D’altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l’anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e moderati di sinistra dei Paesi del capitalismo del Nord e dell’Australasia si erano impegnati sempre di più nel successo del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell’URSS ad oggi non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come una cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il nuovo laburismo britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all’ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito Democratico degli Stati Uniti.

L’idea fondamentale del nuovo Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si poteva aver fiducia che il sistema capitalista facesse fiorire e generare più ricchezza di qualsiasi altro sistema. I socialisti non dovevano fare altro che garantire una distribuzione egualitaria. Ma a partire dal 1970 la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Partito Laburista britannico, e per la verità alle politiche di aiuto e sostegno di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ‘80, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco, cosa che era una possibilità reale, dovesse mettersi al passo con i tempi.

Ma non fu così. Sotto l’impatto di quello che vedeva come la rivitalizzazione economica thatcherista, il New Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l’ideologia, o piuttosto la teologia, del fondamentalismo del mercato libero globale. Il Regno Unito deregolamentò i suoi mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l’esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla sua trasformazione in centro mondiale dei servizi finanziari, e di conseguenza in paradiso dei riciclatori multimilionari di denaro. Così l’impatto attuale della crisi mondiale sulla sterlina e l’economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello su ogni altra economia occidentale e questo renderà la guarigione più difficile.

E’ possibile affermare che ormai tutto questo è acqua passata. Che siamo liberi di tornare all’economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione -compresa la nazionalizzazione-, così che non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo questi attrezzi che il New Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Comunque questa idea fa pensare che sappiamo come usare questi attrezzi. Non è così.

Da un lato non sappiamo come superare l’attuale crisi. Non c’è nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: tutti questi sono come un cieco che cercasse di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con bastoni di ogni tipo nella speranza di trovare la via d’uscita.

Dall’altro lato sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere gli hanno regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l’impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore e più efficace di fare le cose? O che l’organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero essere i modelli anche per la funzione pubblica, l’educazione e la ricerca? O che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempre che tutti gli altri -eccetto una minoranza di poveri- stiano un po’ meglio? O che quello di cui ha bisogno un Paese, in qualsiasi caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che abbiano superato tutto questo.

Comunque una politica progressista richiede qualcosa in più di una rottura più netta con i principi economici e morali degli ultimi 30 anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l’abbondanza che comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone.

Prendiamo il caso di Londra. E’ evidente che a tutti noi importa che l’economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell’enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del PIL britannico, ma come questo ha influito sulle vite dei milioni di persone che vivono e lavorano lì. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere lì? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o nella realtà un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti da tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle. Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non si compensa con il fatto che le Università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.

La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non solo importa l’aumento del reddito e del consumo dei privati ma l’ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen, delle capabilities -capacità- di tutti per mezzo dell’azione collettiva. Ma questo significa -deve significare- iniziativa pubblica senza fini di profitto, neanche se fosse solo per redistribuire l’accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale.

In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell’ambiente. Qualsiasi logotipo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all’azione pubblica, un cambiamento più grande di quello proposto dal governo britannico.

E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte. (Beh, buona giornata).

Tradotto per Senzasoste da Andrea Grillo

Eric Hobsbawm (1917), storico e accademico britannico. È presidente del Birbeck College dell’Università di Londra, e autore di numerose opere di storia contemporanea, la prima delle quali è stata Primitive Rebels: studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries (1962). E, tra le altre,The Age of Revolution: Europe 1789-1848, The Age of Capital: 1848-1875, The age of extremes 1914-1991, etc. La sua pubblicazione più recente è On Empire: America, War, and Global Supremacy (2008). [da «MicroMega»].

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Una strano Primo Maggio:”Nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione.”

Il Primo Maggio di casa Agnelli di Gabrile Polo-Il Manifesto
Nel settembre 1920, al culmine del «biennio rosso», molte fabbriche italiane erano occupate dagli operai. La rivoluzione bolscevica e la crisi del sistema liberale davano un forte segno politico alle rivendicazioni dei lavoratori che – nello specifico – scioperavano e occupavano perché l’Associazione degli industriali aveva respinto le richieste sindacali di aumentare i salari a fronte dell’aumento dei prezzi e riconoscere i consigli dei delegati.

Il vecchio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, nel giro di pochi giorni propose due diverse – e opposte – soluzioni a una lotta che bloccava completamente la produzione. Prima ventilò la possibilità di trasformare la Fiat in una cooperativa: se ne discusse un po’, ma l’idea rimase sospesa nell’aria. Poi si recò da Giovanni Giolitti, primo ministro dell’epoca, chiedendogli di liberare in qualche modo la fabbrica: il capo del governo gli rispose che a Torino c’era il «Saluzzo cavalleria» che avrebbe potuto bombardare la Fiat-centro in poche ore. Agnelli si ritrasse spaventato, pensando alla sorte di stabilimento e macchinari. Come finì lo sappiamo: gli operai isolati e sconfitti, Agnelli di nuovo alla sua scrivania, il fascismo alle porte. Nel ’900 la lotta di classe andava così.

Oggi siamo in tutt’altro mondo e il conflitto capitale-lavoro trova altre ipotesi risolutive e altri esiti. Forse meno cruenti, forse più sottilmente velenosi. Così, nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione. Saranno i fondi pensione della United Auto Workers a gestire i licenziamenti e la riduzione del costo del lavoro. Il vecchio Giovanni Agnelli sarebbe andato in brodo di giuggiole.

Curiosamente tutto ciò avviene alla vigilia del Primo Maggio, festa inventata in Europa nel segno della piena occupazione e della giornata lavorativa di otto ore, ma ispirata a un massacro di lavoratori avvenuto negli Stati uniti. Non si può dire che le condizioni di vita, il peso culturale e politico del lavoro abbiano, nel novello secolo, proseguito la «corsa emancipativa» che gli «inventori» dell’odierna Festa immaginavano inarrestabile.

L’accordo Fiat-Chrysler ne è un esempio evidente. Ma per capirlo non serve andare così lontano, basta guardarsi intorno. Come basta non essere ciechi per capire che in quelle condizioni troviamo lo specchio più evidente della vita contemporanea, dei suoi rapporti sociali, del nostro grado di civiltà. La politica se ne cale poco, se non in campagna elettorale. Quelli che – manifestando o festeggiano – scendono in piazza oggi, ben lo sanno. Anche se hanno poca voce, provando a ritrovarla. Anche se considerati maleodoranti dal papi del consiglio che, almeno oggi, non ci sarà. (Beh, buona giornata).

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