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È stato previsto l’anno in cui i giornali moriranno.

È stata prevista la morte dei giornali.

In un convegno a Firenze, organizzato tra l’altro dalla Fieg, cioè dall’associazione degli editori dei giornali, è stata presentata una ricerca secondo la quale la morte dei giornali quotidiani sarà definitiva tra il 2030 e il 2040.

È stato anche fatto il calendario del decesso, che avverrebbe con una successione di avvenimenti macabri: i primi a trapassare nel 2017 saranno i giornali stampati negli Usa dove, si sa, la tecnologia è più avanzata.

A noi in Italia il funerale del quotidiano toccherebbe dieci anni dopo, cioè nel 2027. Ci facciamo sempre riconoscere!

Poi, via via la moria della carta stampata si trascinerà, come una dolorosa agonia, fino alla completa estinzione della specie entro il 2040. Tuttavia, precisano i ricercatori non si tratterebbe proprio della morte definitiva, quanto invece di una mutazione generica di tipo digitale. Insomma, è come se il medico vi dicesse che siete destinati a crepare, ma non del tutto, perché poi diventerete robot.

Lo sappiamo che non è la prima volta nella storia dell’evoluzione tecnologica che una nuova scoperta suggestiona l’idea della fine di quella precedente. Salvo verificare che non è mai successo, tanto meno con la precisione del calendario.

La radio non ha ucciso il telegrafo, che è stato invece soppiantato dalle applicazioni gps decenni dopo. Che la tv non ha ucciso la radio, né il cinema, anche se alla fine la radio, la tv e il cinema sono stati ingoiati dal web. Ora, il fatto che secondo la ricerca in questione potrebbe verificarsi è proprio simile a quest’ultimo esempio. Non è infatti difficile immaginare come andranno le cose, perché in realtà stanno giù andando così: i siti internet delle grandi testate giornalistiche hanno visite sul web ormai di gran lunga superiori alle visite in edicola. Oggi internet, anche grazie ai tablet è il luogo più frequentato per chi ama leggere il giornale. Quindi il futuro andrà in questa direzione, non ci possono essere dubbi.

Rimane però una sgradevole sensazione di mutilazione, se immaginiamo che non ci sporcheremo più i polpastrelli di inchiostro sfogliando le pagine del quotidiano. Tuttavia, quello che non dovremmo mai dimenticare è che un giornale non è oggi con le rotative e la carta, né domani con la tecnologia digitale e un supporto elettronico per la lettura semplicemente una cosa da avere tra le mani e sotto gli occhi.

Un giornale è un’idea dell’informazione, un’idea alla quale partecipano quelli che lo scrivono allo stesso modo di quelli che lo leggono. In ultima analisi, un giornale è fatto di persone. Così come non compriamo oggi carta ma un quotidiano, così domani non compreremo un download ma, appunto un giornale: quello che conta è sempre e solo quello che c’è scritto. È sempre lì che casca l’asino. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: clamoroso, Sky batte Mediaset.

(fonte repubblica.it)
Sky supera Mediaset ed è, dietro la Rai, il secondo operatore tv per ricavi. La tv di Stato lo scorso anno ha registrato “ricavi per 2.723 milioni di euro, Sky Italia 2.640 milioni e RTI 2.531 milioni di euro”. Lo rende noto il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Corrado Calabrò nella relazione annuale presentata al Parlamento.

“La Rai è ancora – afferma Calabrò – la principale media company italiana con oltre 2,7 miliardi di euro di ricavi, anche se in decremento rispetto al 2007 a causa della flessione della pubblicità (-3,6%). Sky Italia consolida la sua posizione, divenendo addirittura il secondo gruppo televisivo per ricavi. Il gruppo Mediaset (che scende al terzo posto, con un calo della pubblicità dello 0,3%) vede il rafforzamento della propria offerta a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre (passando da 125 a 199 milioni di euro)”.

Nel 2008, in Italia i ricavi complessivi del settore televisivo hanno raggiunto gli 8,4 miliardi di euro con un +4,1% rispetto al 2007, rileva il garante.
La struttura televisiva è articolata in tre soggetti “con una posizione simmetrica in termini di ricavi complessivi del settore televisivo. All’interno di essa – spiega Calabrò – RTI è leader della pubblicità e nuovo concorrente nelle offerte a pagamento; Sky è di gran lunga leader nella pay tv e nuovo concorrente nella pubblicità; Rai mantiene le classiche posizioni attraverso una quota di rilievo nella pubblicità e prelevando le risorse residue dal canone di abbonamento”. Beh, buona giornata.

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Leggi e diritto Media e tecnologia

“Per difendere l’industria del contenuto, si preparano fili spinati e pene assurde: querele per i blogger, cause per chi scarica un film, sospensioni della connessione Internet.”

di VITTORIO ZAMBARDINO- Scene digitali- repubblica.it

E’ una sentenza molto “mainstream”, quella che oggi condanna i gestori di The Pirate Bay a varie pene detentive e a un forte risarcimento verso quelle Major dell’intrattenimento che avevano fatto richieste  anche più ingenti. E’ una brutta sentenza: che si “incastra” bene con le intenzioni punitive del governo francese, di quello inglese, e di quello italiano. Ed è un errore.

A pochi minuti dalla decisione del tribunale di Stoccolma, la blogosfera comincia a commentare, ma ci vorrà del tempo prima che un’opinione prenda forma. Non è difficile prevedere che sarà negativa. Intanto ecco TechDirt (in inglese) che sostiene che quella è “un’occasione perduta per l’industria dell’intrattenimento”. Vedremo cosa significa: intanto TechDirt in questi giorni sta riproponendo un tema importante: che la capacità delle macchine digitali e della rete di riprodurre e copiare indefinitamente hanno introdotto nella rete il concetto di “zero”. Hanno cioè smontato in modo irreversibile il conseguimento del profitto sulle opere dell’ingegno.

Sembra di sognare, eppure questo dato, che è chiaro, elementare, percepibile a chiunque guardi oltre l’orizzonte della propria scrivania, non viene colto dall’establishment industriale e politico.

La creatività e l’industria – Per essere chiari e onesti fino in fondo, il male che affligge la musica e il cinema, è lo stesso, anche se i sintomi sono diversi, che ha preso i giornali e in parte la tv. La riproducibilità totale del contenuto punta a distruggere il modello produttivo che finora ha presieduto all’attività di quelle industrie. Che per il momento studiano solo reazioni giudiziarie e/o politiche, invece di dedicarsi a nuove stretegie commerciali. I loro responsabili profetizzano la morte delle creatività e delle professioni che quelle industrie reggono: fare il musicista, il regista, il giornalista. Che è una bella sovrapposizione: il mondo avrà sempre bisogno di chi suona, racconta e informa. Il punto è in quali forme, canali, supporti.

Non facciamola lunga – l’argomento sarà ripreso – ma vale davvero assai poco produrre informazione terroristica, come ha fatto l’industria cinematografica italiana in un rapporto diffuso ieri: bambini che non sanno disegnare, cinema che chiudono, film che non si fanno più. O come fanno i nostri politici, di maggioranza e qualche volta di opposizione, quando parlano di social network come luoghi di abominio, magari con la consulenza degli industriali del cinema seduti accanto a loro, preoccupati perché le loro fiction finiscono su YouTube – a pezzi, niente paura.

Il rischio vero di guardare indietro – Questa cattiva informazione produce un rischio politico gravissimo. Devono saperlo tutti coloro che danno qualche importanza alla parola libertà.

Perché per difendere l’industria del contenuto, si preparano fili spinati e pene assurde: querele per i blogger, cause per chi scarica un film, sospensioni della connessione internet. In Francia, dove sono meno ipocriti, si ipotizza che gli utenti internet debbano, in un futuro non lontano, navigare solo all’interno di liste note di siti e quindi “autorizzati”. Noti all’autorità. In un articolo del nostro decreto sicurezza si conferisce al governo, cioè all’autorità politica, il diritto di decidere se una pagina viola le legge e chiudere magari tutto il sito. Cioè il governo decide cos’è reato in una manifestazione della libertà d’espressione.

Un piccolo passo grave – No non siamo noi che facciamo confusione fra argomenti: è proprio così, passare dal blocco del “pirata” ai controlli di massa e alla repressione della libertà di espressione, è un passo nella direzione più catastrofica. Un piccolo passo grave.

E’ il potere – che da noi è particolarmente intrecciato e confuso tra industria e politica – che fa volutamente confusione.

La ricerca creativa del nuovo – Allora via libera al “pirata”? Sono molte le cose che si potrebbero fare. Una rilfessione sui modelli di business ha portato Steve Jobs a creare con iTunes un meccanismo virtuoso di distribuzione della musica. Miliardi di brani venduti. Venduti.

Se non si fa il passo e non si riesce a capire che il “pirata” siamo moi, i nostri figli e che pirateria è il nuovo mercato, la nuova società, si rimane fermi al palo del delirio reazionario e repressivo. Bisogna inventare nuovi business, nuovi modi di vendere, nuove professioni. Perfino la repressione va ripensata per distinguere tra repressione del contrabbando e consumi personali…

Tanto non guarirete un’industria malata. Riuscirete solo a produrre una solida, diffusa, cultura autoritaria. (Beh, buona giornata).

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