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“Troppi giovani che finiscono gli studi con una laurea restano senza lavoro, questo è accaduto anche a Madrid e al Cairo, stiamo attenti a non avere le stesse conseguenze, un’esplosione di proteste”.

di FEDERICO RAMPINI-la Repubblica

“New York rischia la fine del Cairo”, avverte Bloomberg. Il sindaco lo considera un rischio concreto. Teme il ritorno di rivolte violente. L’ultimo precedente risale agli anni Sessanta, quando le tensioni razziali e la guerra del Vietnam trasformarono in campi di battaglia le metropoli americane. “Troppi giovani che finiscono gli studi con una laurea restano senza lavoro – dice Michael Bloomberg – questo è accaduto anche a Madrid e al Cairo, stiamo attenti a non avere le stesse conseguenze, un’esplosione di proteste”. Mentre il sindaco parla alla radio, Wall Street è transennata perché (nonostante il sabato e i mercati chiusi) vi affluiscono i manifestanti del Day of Rage, il “giorno della rabbia”, che denunciano “il dirottamento della democrazia americana da parte della finanza”.

Nelle stesse ore il vertice europeo si tiene in una Breslavia assediata per l’arrivo di 30.000 manifestanti. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del cittadino greco che ha tentato di immolarsi davanti alla banca che non gli aveva concesso una dilazione sul mutuo. Quell’uomo in fiamme spiega l’accostamento che fa Bloomberg tra il disagio sociale in Occidente e la “primavera araba”? In Tunisia la scintilla iniziale della rivolta fu il gesto disperato di un ambulante che si diede fuoco per protestare contro gli abusi della polizia.

Certo nei movimenti che agitano il Nordafrica c’è un altro elemento, la rivolta antiautoritaria. Ma altrettanto importante è l’elevata disoccupazione giovanile, la ragione per cui Bloomberg mette sullo stesso piano gli “indignados” di Madrid e i giovani di Piazza Tahrir. E s’immagina Manhattan trasformata a sua volta in un rogo di proteste. Esagera? Il sindaco di New York non è solito fare dell’allarmismo. E’ un brillante businessman, uno dei capitalisti più ricchi del suo Paese, per avere fondato la maggiore agenzia d’informazioni finanziarie. Politicamente è un indipendente di centro. Quella che intuisce, è una malattia comune a molte nazioni occidentali.

Dalla democrazia più antica del mondo, la Grecia, a quella più potente del mondo, gli Stati Uniti, le basi del consenso sociale vengono disintegrate dalla Grande Contrazione economica, che dura da cinque anni e di cui non si vede la fine. Atene vive una “sospensione” della democrazia: la politica economica viene dettata da tecnocrazie esterne cioè Bce, Commissione europea, Fmi. Forse è vero quel che pensano i tedeschi, che i greci se lo sono meritati con una gestione dissennata e parassitaria delle loro finanze. Resta il fatto che la loro sovranità è stata trasferita a Francoforte, Bruxelles, Washington.

Negli Stati Uniti è in frantumi un contratto sociale che reggeva dal New Deal degli anni Trenta. Più di 46 milioni di americani vivono sotto la soglia della povertà, è un livello record, mai raggiunto da quando esistono questi dati raccolti dal Census Bureau. Perfino più impressionante dei nuovi poveri, è il destino della middle class.

Il reddito annuo mediano per un maschio adulto che lavora a tempo pieno, se misurato in potere d’acquisto reale, è regredito rispetto ai livelli del 1973. Quarant’anni di sviluppo economico cancellati, per il ceto medio è la fine dell’American Dream. Questo tracollo di tenore di vita e di aspettative coincide con una smisurata accumulazione di ricchezze ai vertici della piramide.

L’unico precedente storico è negli anni Venti, la cosiddetta Età dell’Oro che precedette il crac del 1929. Anche allora le diseguaglianze sociali giocarono un ruolo fondamentale nello scatenare la Grande Depressione: la debolezza estrema del potere d’acquisto dei lavoratori fece mancare al capitalismo quel mercato interno che è essenziale per la sua crescita. Ci vollero due grandi riformatori dell’economia di mercato, il presidente Franklin Roosevelt e l’economista inglese John Maynard Keynes, per salvare il capitalismo dalle sue pulsioni autodistruttive, costruendo una società meno duale e meno feroce. La grande differenza tra questa crisi e quella di 70 anni fa, è che nel frattempo grazie al keynesismo e al New Deal rooseveltiano tutto l’Occidente si è dotato di reti di protezione sociale, un Welfare State che attutisce almeno in parte le sofferenze della crisi.

E’ proprio questo Welfare State il cui smantellamento viene messo all’ordine del giorno, in Grecia dalle tecnocrazie europee su mandato tedesco, in America dalla destra neoliberista che controlla la Camera. Questo accade mentre in tutti i Paesi sviluppati i sindacati sono in uno stato di debolezza estrema; e la sinistra è sotto assedio nelle poche nazioni dove governa (Washington, Madrid, Atene).

In assenza di meglio, tocca a un miliardario illuminato come Bloomberg lanciare l’allarme sulla lacerazione del tessuto sociale. Perfino due studi circolati nelle banche Citigroup e Morgan Stanley avvertono Wall Street sui danni della “plutonomia”, un sistema politico dominato dal potere del denaro, dove le diseguaglianze hanno oltrepassato i livelli di guardia e la crescita non ha più le basi di massa su cui ripartire. (Beh, buona giornata).

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Crisi: “si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare.”

di GUIDO ROSSI- sole24ore.com

È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.

Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.

La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.

I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.

Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.

L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.

La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.

Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.

Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.

Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.

C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.

I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.

Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.

L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.

Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.

La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).

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La fine della crisi arriva presto, cioè fra dodici mesi. Buon anno!

“Il momento propizio per ritirare le misure di aiuto pubblico all’economia messe in pista per affrontare la crisi dei mesi scorsi potrebbe arrivare presto, gia’ alla fine di quest’anno”. Lo ha detto il candidato commissario alla Concorrenza, Joaquin Almunia, che nella precedente edizione della Commissione guidata da Manuel Barroso era commissario agli Affari economici e monetari. Beh, buona giornata.

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Negli USA e nella UE, la fiducia nella ripresa è disoccupata.

Disoccupazione da record negli Usa nel mese di giugno. Il tasso è infatti salito al 9,5 per cento e sono stati persi 467 mila posti di lavoro. E’ il livello massimo dal 1983. “Ci vorranno ancora mesi per uscire dalla crisi” è stato il commento del presidente Usa Barack Obama. E da Francoforte il presidente della Bce ha confermato: “La ripresa ci sarà solo a metà del 2010”.

Aumento disoccupati anche nell’Ue. La disoccupazione è in aumento anche in Europa. A maggio il tasso nei Paesi di Eurolandia si è attestato al 9,5 per cento secondo i dati Eurostat. La situazione migliore è in Olanda (3,2 per cento) e la peggiore in Estonia (15,6 per cento). L’Italia è sotto la media europea al 7,4 per cento. Per tutta l’Unione europea l’aumento è dell’8,9 per cento rispetto all’8,7 di aprile ed il 6,8 del maggio 2008. In questo caso siamo al livello più alto da giugno 2005. Beh, buona giornata.

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A Obama non piace il capitalismo finanziario.

In un’intervista con il New York Times di oggi, Barack Obama ha detto: “ciò che ritengo fosse un’aberrazione, era una situazione in cui i profitti corporativi del settore finanziario costituivano una parte così consistente della nostra redditività complessiva. Questo, credo, cambierà. È importante comprendere che parte della ricchezza generata nell’ultimo decennio per i benefici delle imprese era puramente illusoria». Beh, buona giornata.

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Una strano Primo Maggio:”Nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione.”

Il Primo Maggio di casa Agnelli di Gabrile Polo-Il Manifesto
Nel settembre 1920, al culmine del «biennio rosso», molte fabbriche italiane erano occupate dagli operai. La rivoluzione bolscevica e la crisi del sistema liberale davano un forte segno politico alle rivendicazioni dei lavoratori che – nello specifico – scioperavano e occupavano perché l’Associazione degli industriali aveva respinto le richieste sindacali di aumentare i salari a fronte dell’aumento dei prezzi e riconoscere i consigli dei delegati.

Il vecchio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, nel giro di pochi giorni propose due diverse – e opposte – soluzioni a una lotta che bloccava completamente la produzione. Prima ventilò la possibilità di trasformare la Fiat in una cooperativa: se ne discusse un po’, ma l’idea rimase sospesa nell’aria. Poi si recò da Giovanni Giolitti, primo ministro dell’epoca, chiedendogli di liberare in qualche modo la fabbrica: il capo del governo gli rispose che a Torino c’era il «Saluzzo cavalleria» che avrebbe potuto bombardare la Fiat-centro in poche ore. Agnelli si ritrasse spaventato, pensando alla sorte di stabilimento e macchinari. Come finì lo sappiamo: gli operai isolati e sconfitti, Agnelli di nuovo alla sua scrivania, il fascismo alle porte. Nel ’900 la lotta di classe andava così.

Oggi siamo in tutt’altro mondo e il conflitto capitale-lavoro trova altre ipotesi risolutive e altri esiti. Forse meno cruenti, forse più sottilmente velenosi. Così, nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione. Saranno i fondi pensione della United Auto Workers a gestire i licenziamenti e la riduzione del costo del lavoro. Il vecchio Giovanni Agnelli sarebbe andato in brodo di giuggiole.

Curiosamente tutto ciò avviene alla vigilia del Primo Maggio, festa inventata in Europa nel segno della piena occupazione e della giornata lavorativa di otto ore, ma ispirata a un massacro di lavoratori avvenuto negli Stati uniti. Non si può dire che le condizioni di vita, il peso culturale e politico del lavoro abbiano, nel novello secolo, proseguito la «corsa emancipativa» che gli «inventori» dell’odierna Festa immaginavano inarrestabile.

L’accordo Fiat-Chrysler ne è un esempio evidente. Ma per capirlo non serve andare così lontano, basta guardarsi intorno. Come basta non essere ciechi per capire che in quelle condizioni troviamo lo specchio più evidente della vita contemporanea, dei suoi rapporti sociali, del nostro grado di civiltà. La politica se ne cale poco, se non in campagna elettorale. Quelli che – manifestando o festeggiano – scendono in piazza oggi, ben lo sanno. Anche se hanno poca voce, provando a ritrovarla. Anche se considerati maleodoranti dal papi del consiglio che, almeno oggi, non ci sarà. (Beh, buona giornata).

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Chi ci ha messo nella crisi può portarci fuori dalla crisi?

di Pino Cabras – Megachip.info

Il presidente statunitense Barack Obama sembra cercare un punto mediano impossibile, mentre passa fra gli scuotimenti della Grande Crisi, scossoni che richiedono scelte senza precedenti, come vedremo. Ai conservatori le sue parole provocano ribrezzi da rivoluzione. A chi invece vuole una qualche Revolution, Obama appare come un assiduo conservatore. Le fanfare per l’annunciata chiusura di Guantanamo non offuscano il fatto che sia ancora aperta, le parole distensive verso Cuba non sono partite da un ammorbidimento dell’embargo, la condanna della tortura non si estende ai torturatori, i tuoni della Casa Bianca contro gli extraprofitti dei banchieri non si traducono in lampi su Wall Street, dove anzi arriva un fiume di liquidità. Sullo sfondo ci sono sfide estreme.

I toni sono cambiati tanto dai tempi di Bush, ma la forza d’inerzia dei grandi fatti sociali, economici, finanziari, politici e militari dell’ultimo decennio domina ancora la risultante delle forze. Le grandi navi non si fermano subito.

Poteri influenti aspirano a chiudere la parentesi della crisi, innanzitutto nell’informazione, in nome di un qualche ‘status quo ante’ che si vorrebbe dietro l’angolo. Obama prova a cogliere questa impazienza per dare ali alla speranza, e invoca anche lui i futuri «segnali di risalita». Essendo più prudente di altri, prova però a dire che ci saranno ancora molte sofferenze prima di toccare il fondo. Ma gli altri, quelli che vorrebbero che il viaggio riprendesse come prima, quelli della parentesi, loro non sono prudenti, neanche ora. Se i commerci a livello planetario sono in picchiata, per loro è comunque un buon segno che almeno non sia più a caduta libera. Se negli ultimi due mesi è evaporato un quarto dei commerci, magari nei prossimi due si volatilizzerà solo un ottavo ancora.

Nel mainstream perciò non trovano grande spazio certe analisi quantitative che appaiono nei media che invece fanno poche riverenze all’ortodossia del liberismo in rotta. Fra queste analisi circola in particolare quella di Leap/Europe 2020, un sito francese che in questi ultimi anni ha visto lontano. Dai dati a disposizione viene estrapolata una tendenza: la discesa degli USA porta a una depressione senza precedenti, vicina a un punto di insostenibilità che, se varcato – e potrebbe essere molto presto – segnerebbe una rottura storica drammatica, a partire dalla moneta [«Eté 2009: La rupture du système monétaire international se confirme», Europe 2020, 15 aprile 2009].

Gli USA hanno vissuto al di sopra dei propri mezzi grazie all’afflusso di denaro di prestatori esterni, la Cina su tutti. Ora gli USA vorrebbero che anche il salvataggio fosse al di sopra dei propri mezzi, finanziato ancora una volta dalla Cina. Al gigante asiatico infatti non converrebbe far crollare di botto il sistema se per caso volesse uscire dalla trappola del dollaro, visto che ha già incamerato 1400 miliardi di titoli di debito in dollari, sempre più scottanti.
Se consideriamo la dimensione degli “stimulus” e “bailout” messi in campo negli ultimi mesi, l’unica via di uscita ancora “normale” per gli USA è che i risparmiatori cinesi e di qualche altro paese puntino ancora (e questa volta soltanto) sui bond statunitensi, rendendosi ancora più prigionieri del gioco pericoloso.

Solo che – fanno notare gli analisti di Europe 2020 – i prigionieri dedicano i loro pensieri migliori al modo di evadere, magari senza farsi riacciuffare e senza rompersi le gambe. E lo fanno con circospezione. Il 24 marzo 2009 il governatore della Banca centrale di Pechino lanciava un ‘ballon d’essai’. Ipotizzava che il dollaro lasciasse il posto nei commerci a una valuta di riserva internazionale. Sondava e avvertiva insieme, consapevole della forza immensa che i nuovi equilibri spostavano nel mondo (un G20 anziché un esangue G8).

Secondo Europe 2020 tutti i nuovi membri del club del potere mondiale sono pronti a concordare i loro passi con la Cina, quando si renderà necessario. Si è parlato molto degli accordi swap fra Cina e Argentina, ma sono rilevantissimi anche quelli fra Brasile e Argentina, fra Cina e Sud Corea, e così via. Sono una sorta di “baratti” bilaterali che tagliano fuori il dollaro. Ovviamente il club anglosassone prova a resistere ripetendo all’infinito le strade già battute (e qui vediamo le carenze strategiche del progetto obamiano). L’Europa si barcamena e non ha un progetto politico che possa suonare come una sfida a quel che resta della subalternità a Washington.

La Cina c’è, invece. I passi li fa alla chetichella, ma li fa. Il ritmo della fuga, sebbene graduale e attento a non smarrire un suo ruolo stabilizzante, ha numeri impressionanti.

Ogni mese la Cina si sta liberando di 50-100 miliardi di titoli in dollari. La depressione dei prezzi in questo caso favorisce lo shopping pechinese. Sotto lo sguardo benevolo di Hu Jintao i cinesi comprano minerali, metalli industriali, terreni agricoli e risorse energetiche a prezzi bassi. In certi casi ne fanno incetta, e i prezzi risalgono, ma non più di tanto. Se pure i cinesi si tengono lontani dalle azioni nel mercato USA, ne comprano in Europa e Asia. Cercano di tesaurizzare i dollari USA trasformandoli rapidamente in beni non statunitensi più durevoli. Una corsa alla Roba, perché il resto, il dollaro, sarà carta straccia.

Puoi coprire le scarpe da tip tap con tre paia di calze, ma se fai passi come questi farai comunque rumore. Entro settembre 2009 la Cina avrà tolto dalle sue mani 600 miliardi di patate bollenti col simbolo del dollaro. Ma non acquisterà nemmeno quel che gli USA – fra stimoli e salvataggi – saranno costretti a emettere in più dell’ordinario, ossia un ammontare tra i 500 e i 1000 miliardi di nuovi titoli di debito. E chi li compra, allora? Gli USA si troveranno a dover inventare qualcosa per risolvere lo sbilancio. Uno squilibrio che può raggiungere i 1600 miliardi di dollari.

È uno scenario che diventerà ancora più drammatico, una volta giunto al ‘redde rationem’. Il governatore della Federal reserve Ben Bernanke sarà forzato ad acquistare i suoi stessi Buoni del Tesoro.
Questo si chiama: stampare dollari.
La cosa non è nuova. Quando Bernanke dichiara in pratica che la Fed è pronta a oliare la zecca, i T-bond crollano del 10% in un solo giorno.
Il momento X della prossima estate, con un simile scenario, segnerebbe anche una perdita secca di centinaia e centinaia di miliardi per i cinesi. Ma per loro sarebbe il male minore. Perché a quel punto l’insolvenza USA sarebbe conclamata e la salvezza starebbe nell’essersi posizionati meglio nel frattempo.

Siamo davvero alla vigilia di una tale insolvenza? Secondo Europe 2020 i dati dicono proprio questo. La spesa pubblica è esplosa per tenere a galla Wall Street (+41%) e si associa a un crollo mai visto prima degli introiti tributari (-28%). Soltanto nel mese di marzo 2009 il deficit federale ha toccato quota 200 miliardi di dollari, poco meno della metà del deficit di tutto il 2008, che Bush aveva comunque portato troppo fuori misura. Le cose non vanno meglio a livello degli Stati, a partire dalla California di Schwarzenegger, giù “per li rami” fino ai livelli di governo locale. Non c’è verso per fermare la spirale, per ora. Le professioni di ottimismo nella ripresa sono solo parole.
Il Fondo Monetario Internazionale ha rifatto i conti delle perdite che sono e saranno determinate dal collasso finanziario in corso: non più 2.200 miliardi di dollari, bensì 4.100 miliardi. Sono oltre 600 dollari di perdite pro capite a livello mondiale, inclusi i neonati della Nuova Guinea, i vecchietti degli ospizi, e gli evasori totali. Chi pagherà? Andrebbe richiesto a quelli che «i segnali di ripresina» e a quelli che «il peggio è ormai alle spalle».

Insomma, inevitabile che dopo la fase 1 arrivi la fase 2. La Cina sarà costretta a non misurare i passi come prima e a trovare una soluzione diversa. Secondo gli studiosi francesi sono plausibili diversi scenari.
Uno di questi potrebbe essere lo yuan renminbi che diventa valuta di riserva internazionale al posto del dollaro, in compagnia dell’euro, dello yen e di altre monete. Oppure si può accelerare l’istituzione di una nuova valuta di riserva che risiederà su un paniere di monete che lascia da parte il club anglosassone.
Inutilmente sarà lubrificata la zecca di Bernanke, il dollaro non dominerà più.

In alternativa a questi due scenari, che comunque presuppongono uno scheletro di globalizzazione ancora presente, ce n’è un altro: una dislocazione geopolitica globale, imperniata su blocchi economici continentali, che basano ciascuno i propri scambi su una diversa moneta di riserva “regionale”. Da noi l’euro, altrove nuove monete con funzioni simili. Il WTO diventerebbe una voce morta delle enciclopedie. Una soluzione a suo modo ben accomodata, ma proprio per questo più improbabile, perché le convulsioni attese non sono affatto ordinate.

Europe 2020 punta la sua attenzione sulla riunione di New York del G20, nel Settembre 2009, a ridosso dell’Assemblea generale dell’ONU. I dati sin qui esposti addensano intorno a quel periodo l’ora X delle rotture monetarie. Il summit assisterà alla gravità della crisi che starà martoriando gli Stati Uniti, un paese in cui già oggi un cittadino su due sostiene di essere ad appena due stipendi di distanza dalla bancarotta), all’interno di una tendenza già in atto che vede la crescita drammatica della violenza urbana e degli omicidi.

Sarebbe uno scenario di ‘default’ degli Stati Uniti. Un tracollo alla massima potenza. Che a sua volta innescherebbe tante reazioni. Quali? Difficile dirlo, e capire le interazioni.

Per Europe 2020 il default potrebbe avverarsi secondo quattro diversi modi, o con una combinazione di essi. Due scenari implicano vie d’uscita ordinate, gli altri due avvengono nel caos:

1) il Fondo Monetario Internazionale fa per la prima volta agli USA quello che ha fatto centinaia di volte agli altri stati: prende in carico il budget federale e prescrive severi tagli al bilancio (da tagliare ce n’è: l’immane spesa militare, ma anche i programmi sociali). È uno sbocco quasi insostenibile dal punto di vista politico, in presenza di un complesso militare-industriale che incorpora riserve di golpismo, e di una società che non saprebbe metabolizzare le rinunce, perché politici e pubblicità le hanno lisciato il pelo per decenni dicendo al mondo che “il tenore di vita americano non è negoziabile”;

2) il Dipartimento del Tesoro decide di emettere buoni del Tesoro in altre monete invece che in dollari. Ripeterebbe un atto di circa trent’anni fa, su scala più piccola, ossia un’emissione di yen e marchi decisa nel corso di una crisi minore del dollaro. Il difetto di questo esito è che i bond emessi sarebbero così tanti da mettere nei guai gli altri paesi coinvolti. Non si dimentichi ad esempio che in un solo anno il Fondo monetario Internazionale prevede che il debito pubblico italiano passerà dal 106% al 121% del PIL.

3) il dollaro dimezza di colpo il suo valore in rapporto alle altre valute. L’amministrazione Obama darebbe respiro finanziario al bilancio federale e ai bond posseduti dagli stranieri con dollari deprezzati. Una soluzione unilaterale che aumenterebbe però il disordine globale .

4) poiché vendere ai soliti investitori esteri i bond del Tesoro risulta sempre più difficoltoso, la Federal Reserve è costretta a incrementare il programma TARP (Troubled Asset Relief Program), così che si innesca la svalutazione del dollaro, che risulta a quel punto meno desiderato da chi investe su beni in dollari. È il canovaccio in parte già intrapreso. Come si combinerà questa dinamica con gli altri sbocchi?

Per capire quanto le evocazioni di una “ripresina” siano solo pensieri illusori, basti considerare che negli USA i principali istituti di credito beneficiati dai massicci aiuti pubblici, a febbraio 2009 hanno diminuito del 23% i finanziamenti concessi in rapporto a ottobre 2008, quando il Tesoro avviò il sostegno alle banche attraverso il TARP. Segno che anche l’economia reale precipita.

In questo quadro di crisi gli analisti francesi, nonostante l’afasia dell’Europa, vedono in essa un’area «meno esposta ai fattori destrutturanti», perché meno dipendente – con l’eccezione del Regno Unito – dal «dollaro-debito» e perché la sovranità degli Stati membri della UE è molto più forte dei singoli Stati che compongono gli USA (dove non a caso si affaccia nel dibattito politico lo spettro della secessione). La Germania considererà di vitale importanza avere intorno a sé un’area di integrazione che sia ancora il mercato di riferimento per la sua industria. Forzando il senso dell’analisi, il default degli USA ha più possibilità di verificarsi della disgregazione della UE.

Un default, o comunque una crisi che si avvita, non sarà un evento come tanti. Sono tempi eccezionali. Europe 2020 arriva a consigliare di preoccuparsi dei paesi in cui circolano troppe armi da fuoco, nonché a prepararsi a una interruzione dei pubblici servizi essenziali, quelli sostenuti da organizzazioni vaste, per affidarsi invece nei giorni o settimane dell’emergenza alle reti comunitarie e familiari a corto raggio. E consiglia di fare in un certo senso come la Cina: usare come riserva di valore non il denaro ma metalli preziosi e beni fisici di facile scambio, utilizzabili anche nell’ipotesi che le banche restino chiuse nei giorni del crollo.

Quando il rapporto è uscito non era ancora nota la proiezione del FMI sul debito pubblico italiano che sfonda gli argini (come quello di altri paesi, del resto). Ma le previsioni per i risparmi erano già in linea con questa realtà. Il che implicherà pensioni integrative a lungo impoverite e pressioni più forti sui risparmiatori (dove ancora ce ne sono, non certo in USA) per ripagare la bolla del debito pubblico, l’ultima bolla. E questo senza considerare ancora la possibile grande ripresa dell’inflazione, una volta che la banchisa della liquidità si scongelerà.

Obama ha insomma una bella gatta da pelare.
Il 70% degli scambi di moneta avviene presso centri finanziari ricompresi nella sfera d’influenza del dollaro, a Londra, New York, Tokio: «Sono americane o inglesi 8 banche delle 10 più grandi per scambio di valute che sono scomparse dal panorama economico, come Lehman Brothers, o che sono a un passo dalla bancarotta o dalla nazionalizzazione, come Citigroup o Royal Bank of Scotland.» L’epicentro è lì.
Nel dicembre 2008 il Pentagono ha ricevuto un rapporto di Nathan P. Freier dell’Istituto di studi strategici dello US Army War College, nel quale viene descritto il rischio di disgregazione del territorio USA e dei suoi confini per effetto della crisi.
Obama non ha fatto rotolare alcuna testa nell’apparato della Difesa, nonostante abbia vinto le elezioni proclamando di voler cambiare profondamente la strategia militare del predecessore. Le forze armate potrebbero essere chiamate a garantire l’integrità territoriale USA e la continuità di governo, suggerisce Freier.

Questi scenari previsionali si fermano lì. Bastano già le previsioni infondate degli ottimisti a oltranza per dover speculare più oltre.

Possiamo dire tuttavia che questi sono scenari di guerra, e che chi gioca con il facile ottimismo è un’irresponsabile. In perfetta continuità con l’irresponsabilità beota degli anni che ci hanno portato al disastro.
Dovremo essere pronti a non accettare nessuna scorciatoia: guerre all’Iran, ossessioni antiterroristiche alimentate a bella posta, poteri speciali, il catalogo è vasto. Obama si mostra ancora come il punto d’equilibrio in cui si intrecciano insieme fili di credibilità e di speranza. Ma una volta che quell’equilibrio si spezzerà saremo tutti in pericolo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Per uscire dalla crisi ci vogliono ancora 4.000 miliardi di dollari. Chi li paga?

da blitzquotidiano.it

Fmi presenta il conto della crisi: quattromila miliardi
Altro che crisi finita e ripresa all’orizzonte, per ora l’unica cosa che arriva è il conto: quattromila miliardi. Pagarlo questo conto sarà lungo e doloroso, lungo fino a tutto il 2010, se basta. E doloroso per banche, istituzioni finanziarie, imprese, famiglie, governi e forse anche Stati. Il conto lo sbatte sul tavolo il Fondo Monetario Internazionale. Nota a margine del conto: l’Italia nel 2010 potrebbe avere un debito pubblico del 121 per cento del Pil, una voragine, un “buco nero” economico che inghiottirà tasse e produrrà inflazione. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Crisi globale: sta arrivando la resa dei conti?

di Richard C. Cook (*) – «Global Research» da megachip.info

Il presidente Barack Obama ha mostrato un sacco di audacia nell’affrontare il Congresso la notte scorsa al momento di pronunciare il suo primo discorso alle camere riunite. Tutti i fronzoli del potere erano in mostra quando i membri della Camera e del Senato, della Corte suprema, i capi di stato maggiore riuniti, il gabinetto, e gli ospiti VIP si abbracciavano e si stringevano le mani, raggianti nei loro abiti su misura, appena due notti dopo che le star di Hollywood avevano allestito il loro show nella notte degli Oscar.

Peccato che né il presidente né il vicepresidente Joe Biden e la Speaker della Camera Nancy Pelosi che applaudivano sul podio dietro di lui, né i festanti democratici con la loro solida maggioranza, né gli scontrosi repubblicani che ciondolavano in minoranza lungo il corridoio, sappiano che cosa stiano facendo ora che l’estinzione economica fissa da vicino il volto degli Stati Uniti d’America.

Sì, va proprio così male. Il giorno dopo il discorso il Dow-Jones è sceso a 7.271, quasi il 50 per cento rispetto al picco di ottobre 2007, senza che il fondo sia in vista. Secondo il «Washington Post», le tre grandi case automobilistiche stanno ora per affrontare un crollo dal basso verso l’alto delle loro di linee di fornitura di componenti se la loro vasta rete di fornitori non riceverà nuovi prestiti federali entro una settimana. Anche nel mondo la situazione è altrettanto grave. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ONU comunica:

«Quella che all’inizio era una crisi dei mercati finanziari è rapidamente diventata una crisi occupazionale globale. La disoccupazione è in aumento. Il numero di lavoratori poveri è in aumento. Le aziende stanno andando sotto.»

Il discorso del Presidente Obama è stato lungo quanto a determinazione, ma breve quanto a sostanza. Ha promesso alla nazione:
«Ricostruiremo, risaneremo, e gli Stati Uniti d’America riemergeranno più forti di prima.»
Ma giungere a un tale risultato dipende interamente da una cosa: una più elevata spesa federale in deficit da far funzionare come il motore economico di un’economia in cui i prestiti bancari si sono prosciugati perché le imprese ei consumatori non possono più rimborsare i loro prestiti.

Purtroppo, il disavanzo si sta avvicinando al punto di rottura.
Durante l’anno fiscale 2009 il Tesoro USA è sulla via di pagare più di 500 miliardi di dollari solo nel remunerare gli interessi per finanziare il debito già esistente. Il nuovo debito quest’anno probabilmente supererà il trilione di dollari. Il carico totale degli oneri del debito per l’economia nel suo complesso potrebbe arrivare a 70 trilioni di dollari entro il 2010, con un livello di pagamenti di interessi annuali per i singoli individui, le famiglie, le imprese, e tutti i livelli di governo che raggiungerebbe verosimilmente 3 trilioni di dollari su un PIL da 14 trilioni ora in brusco calo.

Il finanziamento del deficit continua a dipendere dal fatto che la Cina acquisti ancora le obbligazioni del Tesoro. Questo è il motivo per cui il Segretario di Stato di Hillary Clinton ha detto in tutta franchezza, durante l’ultima il viaggio della scorsa settimana in Cina: «Noi contiamo sul fatto che il governo cinese continui ad acquistare il nostro debito».
Ma almeno il presidente Obama ci sta provando. Sa che l’economia può recuperare solo se la crescita viene ravvivata. Pertanto si concentra su una creazione di posti di lavoro che si traduca in autentici redditi da lavoro. Ma può invertire una generazione di outsourcing del lavoro e di stagnazione dei redditi? Non conosco nessuno che ritenga che ce la possa fare. Potrebbe farcela la panacea repubblicana dei tagli delle imposte e della spesa? Non scherziamo. Non quando la disoccupazione si sta avvicinando ai livelli della Grande Depressione.

Ma né il Presidente Obama, né i suoi sostenitori democratici né gli antagonisti repubblicani, dovrebbero dispiacersi di ciò che sta accadendo. Questo è dovuto al fatto che il sistema che è stato loro fornito e attraverso cui operare è stato progettato per fallire. Agli Stati Uniti è stata molto tempo fa caricata la soma di un sistema monetario basato sul debito, in virtù del quale l’unico modo in cui il denaro può essere messo in circolazione è attraverso i prestiti bancari. È stato il sistema istituito nel 1913, quando il Congresso ha abdicato al suo potere costituzionale sulla creazione di moneta a favore dell’industria bancaria privata con l’approvazione del Federal Reserve Act.

Fu allora che la catastrofe cui ora ci troviamo di fronte divenne inevitabile. Ci è voluto quasi un secolo per arrivare fin qui, ma alla fine è accaduta. Avremmo dovuto saperlo che stava per arrivare quando le bolle coniate dalla Federal Reserve hanno sostituito la crescita economica della nostra scomparente industria pesante, a partire dalla recessione del 1979-83. Avremmo potuto vederla arrivare al momento in cui scoppiava la bolla della New Economy nel 2000-2001, e il presidente della Federal Reserve Alan Greenspan lavorava con l’amministrazione di George W. Bush per sostituire la bolla immobiliare a un reale risanamento.
È arrivata la resa dei conti. Quindi non si preoccupi, signor presidente. Non è colpa sua. Quando il crollo ha luogo i banchieri internazionali, che prenderanno il sopravvento potrebbero perfino lasciarle mantenere il suo lavoro. (Beh, buona giornata).

(*)Richard C. Cook è un ex analista del governo federale USA. Il suo libro sulla riforma monetaria, We Hold These Truths: The Hope of Monetary Reform (Noi ci teniamo queste verità: La speranza della riforma monetaria), è ora disponibile su www.amazon.com. È anche l’autore di Challenger Revealed: An Insider’s Account of How the Reagan Administration Caused the Greatest Tragedy of the Space Age. Può essere contattato attraverso il suo sito web all’indirizzo www.richardccook.com.

Articolo originale: The U.S. Economy: Designed to Fail.
Traduzione di Pino Cabras per Megachip

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