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Doppio depistaggio.

Le ragioni della pandemia da Covid-19 sono tutte dentro il sistema economico di sfruttamento delle risorse naturali, della rottura degli equilibri ecologici, dell’inquinamento, del dissesto idrogeologico: come gli uomini che fuggono dalle aree devastate da guerre e carestie, anche i virus emigrano alla ricerca di nuovi ospiti su cui installarsi. Poiché sul pianeta Terra siamo circa 7 miliardi e settecento milioni di umani, siamo gli ospiti ideali, perché siamo numerosi e ovunque. 

Anche perché abbiamo indebolito la sanità pubblica e quindi di massa, a favore delle privatizzazioni che hanno creato valore, quindi profitto, ma non efficienza e prevenzione. 

Dopo la SARS di anni fa avremmo dovuto investire in Ricerca, predisporre misure permanenti di profilassi per i virus che attaccano il sistema respiratorio, e dotarci di un dispositivo immediatamente disponibile per fronteggiare in tempo la diffusione endemica, prima che diventasse epidemia. E sfociasse nella pandemia che oggi dilaga.

“L’intervento è stato precoce perché la Corea del Sud, come anche Hong Kong, Taiwan e il Giappone si erano preparati all’eventualità di un’epidemia da coronavirus, traendo lezione dalla precedente epidemia di SARS. 

Avevano preparato e avevano a disposizione test diagnostici, mascherine e strutture sanitarie adeguate, e soprattutto piani precisi di contromisure da attuare immediatamente. Nei paesi occidentali, compresa l’Italia, non c’era nessuna preparazione e nei primi tempi l’epidemia è stata sottovalutata permettendo la rapida diffusione del virus.”, ci ricorda Gianfranco Pancino, Direttore di ricerca emerito dell’Istituto nazionale di Sanità e di ricerca medica (INSERM) la cui intervista è pubblicata su effimera.org

Ricapitolando: l’epidemia è figlia del sistema economico, il contagio di massa è la diretta conseguenza delle politiche sulla Sanità adottate in Italia, in Europa e negli Usa, secondo la logica neo liberista della privatizzazione di tutti i servizi pubblici.

Per nascondere queste drammatiche verità, si è costruito lo stereotipo della “guerra”, come se il virus fosse un nemico invasore, e fossimo tutti coscritti, abili e arruolati, chiamati alle armi. 

Un vero e proprio depistaggio, cui si sono tuffati sia il sistema politico che i mass media del mainstream, che hanno dato vita a una serie di balle colossali o piccine, ignobili quanto insopportabili, sia dal punto di vista scientifico che da quello sociale. E politico e istituzionale.

Un comodo spauracchio degno degli sciamani della comunicazione politica, che serve a manipolare il consenso. Valga qui ricordare che il personale medico era stato messo alla gogna del “posto fisso”, indicati tra i “furbetti del cartellino”. 

Oggi vengono innalzati a eroi della patria, nascondendo che spesso molti di loro sono dipendenti di cooperative che li pagano poco e male, perché il loro lavoro è in affitto ed è soggetto alla legge della domanda e dell’offerta, cioè delle gare d’appalto al ribasso. 

Ecco un esempio di come il depistaggio intitolato “siamo in guerra” è un’espediente di dubbio gusto. Li hanno chiamati eroi per nascondere che nella maggioranza dei casi non gli sono neanche stati forniti dispositivi di protezione, semplicemente perché in Italia non li produciamo più da anni.

A questo depistaggio, se ne sta aggiungendo un altro, in queste ore. Se la “colpa” della pandemia è del perfido Covid-19, la “colpa” delle difficoltà economiche e finanziarie cui stiamo andando incontro di gran carriera è colpa della Germania. E giù, un continuo e ipocrita “dagli ai crucchi!”. 

Ed eccoci entrati in guerra contro la Germania.

È un depistaggio ancora più grave del primo, ove mai fosse possibile. La Germania è egoista perché non è riconoscente di quando nel 1953 gli furono dimezzati i debiti di guerra? Stiamo manipolando la storia col solito pressapochismo propagandistico.

Innanzitutto eravamo nel pieno della Guerra Fredda e una Germania dell’Ovest più forte era il piano politico cui tutti hanno partecipato, perché questo è l’ordine che veniva dagli Usa: serviva fare della Germania dell’Ovest la prima e pronta sentinella della “Cortina di ferro” contro il blocco sovietico. 

Nel ‘53 non c’era l’Unione europea, ma la CECA, comunità europea del carbone e dell’acciaio, ne faceva parte la Germania perché le sue miniere e la sua siderurgia erano indispensabili alla ricostruzione postbellica, ma anche per dimostrare, propagandisticamente, la supremazione del modello occidentale in confronto ai paesi del Patto di Varsavia.

Quanto ai nostri politici di oggi tanto critici nel confrondi della Germania, andrebbe ricordato loro che l’Italia fascista ha avuto enormi responsabilità nel secondo conflitto, cui abbiamo partecipato, più insieme che a fianco del Terzo Reich. 

Abbiamo invaso e bombardato la Spagna repubblicana nel ‘36, abbiamo portato morte e distruzione in Eritrea, Etiopia, Libia, in Grecia, in Albania, nel Montenegro e negli altri paesi dei Balcani, abbiamo partecipato all’invasione della Francia meridionale e poi della Russia sovietica. 

Nessuno dei nostri veri e propri crimini di guerra è stata mai davvero giudicato e condannato da un tribunale. Per la stesso motivo della Germania: eravamo un paese di frontiera verso i paesi socialisti, con l’aggravante di un partito comunista forte d’aver animato la Liberazione. I nostri debiti di guerra li abbiamo in parte pagati con cessioni di territori occupati durante la prima guerra mondiale. Per farla breve, consiglierei di lasciar perdere certi argomenti che riguardano la Germania del dopoguerra. 

Questo secondo depistaggio bellicoso è anche un po’ scemo, se fosse possibile usare questo termine in un contesto d’analisi politica. Non si tiene conto del fatto che una fetta consistenze della nostra manifattura -siamo la seconda in Europa- lavora per le aziende tedesche. 

E che molto probabilmente le piccole e medie aziende italiane sperano con tutto il cuore – e il fatturato – che la Germania si riprenda e che le commesse tornino ai livelli della prosperità avuta di recente. Per loro, la Germania non è affatto un nemico: come fornitori, la Repubblica federale è un ottimo cliente.

Ma la ragione di questo secondo goffo depistaggio sta nell’accusare altri di colpe che invece sono endemiche come un virus nella nostra classe dirigente, allevata col mito di “meno stato, più mercato”, virus che è diventato endemico nelle strategie politiche anche del centrosinistra italiano. 

Fatto sta che il sistema industriale italiano fa parte e dipende dalle supply chain globali. Questa linea di condotta economica e finanziaria dura da anni. 

Gli stessi dati ufficiali circa le nostre esportazioni sono poco veritieri: si dovrebbe parlare di esportazioni di prodotti finiti, non di parti di essi, che poi vengono assemblate da altri, per esempio in Germania o da noi, ma con componenti che vengono dalla Cina o dal Vietnam. 

Così come ascrivere alla nostra produzione, prodotti italiani di aziende delocalizzate è un altro espediente, per aggirare il fisco, fare profitti e comprimere il costo del lavoro.

Qui il punto dei due depistaggi consecutivi non sta nelle guerre che avremmo dichiarato al virus o alla signora Merkel, e per le quali instillare l’orgoglio patriottico. 

L’Italia è parte del problema, perché a furia di imitare modelli di sviluppo di stampa neo liberista, l’Italia è diventata nemica di se stessa. Bisognerebbe riunire le energie migliori: nel caso della crisi sanitaria come nella crisi economica, le politiche sociali dovrebbero subire un profondo e strutturale cambiamento. 

Il neoliberismo ha fatto danni seri all’idea di stato sociale, alla democrazia, all’economia, alla coesione sociale, al reddito da lavoro ma anche da capitale. Alla stessa Carta costituzionale, basti pensare all’obbrobrio di aver inserito l’obbligo del pareggio di bilancio, di cui all’art. 81. 

Ecco perché lo Stato deve cambiare radicalmente la sua funzione nell’economia di mercato. “Questa non sarà una crisi ciclica”, ha recentemente ammonito Draghi. Un vero e proprio anatema che si fa finta di non capire, o forse proprio perché non se ne capiscano, al di là delle sue stesse intenzioni, le conseguenze vere delle sue dichiarazioni: non si tratta di rivendicare un prestito a un basso tasso, ma di cambiare subito passo.

Da questa questione non si può sfuggire con l’invenzione di un nemico buono per ogni stagione. Lo scontro tra paesi investiti dalla crisi è uno scontro di visione strategica. 

È vero che la Germania vuole il ruolo di “locomotiva”, e pensa alla Ue semplicemente come un insieme di vagoni, da caricare o scaricare a seconda della velocità della propria economia. 

È vero che l’Olanda si arrocca al ruolo, comodo e gratificante, di quasi paradiso fiscale, di cui però stanno beneficiando anche grosse aziende a capitale italiano, tra cui FCA, ma anche Mediaset (facile fare “beneficienza” personale agli ospedali in tempo di emergenza, quando poi non si pagano le tasse in Italia, con le quali finanziare un sistema sanitario pubblico, efficiente, accogliente e, soprattutto, attrezzato.) 

Ma bisogna dire chiaro che sia la pandemia che la crisi imminente stanno svelando una verità che nessun depistaggio può più ormai confondere: i paesi europei non sono alleati fra loro, sono clienti e fornitori. I clienti si trattano bene finché sono profittevoli. 

Quando la redditività di un paese-cliente scende troppo, si sceglie un altro paese-fornitore, col criterio del ribasso. 

Al massimo e se tutto andrà bene – come con tenera ingenuità si vede scritto sui balconi – la Ue diventerà un’ATI, associazione temporanea di imprese, con la Germania capofila. Niente di più, il professor Prodi se ne faccia una ragione.

Tuttavia, prima che le contraddizioni si ricompongano, che si scatenino piccoli e grandi corporativismi, ad uso e consumo delle élite e delle oligarchie, capaci di utilizzare lo shock sanitario come opportunità per speculazioni finanziarie vantaggiose, si possono sfruttare le crepe che l’emergenza sanitaria prima e l’imminente crisi poi, stanno aprendo nel sistema di produzione dei valori economici, nel sistema politico, nella classe dirigente. 

Come? Parlando chiaro a chi ha più da rimetterci, offrendogli la concreta possibilità di organizzarsi in componente attiva e combattiva di un cambiamento sociale profondo, che li sottragga a chi invece ingaggia le contraddizioni per sospingerle verso chimere autoritarie e sovraniste, magari al sapore di gulash.

I depistaggi dalle verità sul virus e sui rapporti con la Germania sono funzionali alla forte tentazione di utilizzare le menti come carne da macello di guerre inventate per confondere la verità della condizione materiali di milioni di europei. 

Si vuole annacquare, distogliere ed evitare la consapevolezza che la crisi tocca a tutti. 

Il mito sovranista diventerà non più “prima gli italiani”, ma nei fatti “prima o poi agli italiani, o ai tedeschi, o ai francesi, ecc..”. In altri termini la crisi si sta abbattendo sugli occupati, i disoccupati, i precari, gli artigiani, i piccoli imprenditori dei 27 paesi di una Unione guidata da una classe dirigente, da un insieme di partiti profondamente intrisi delle stesse superstizioni liberiste, le cui logiche politiche sono la causa scatenante dell’impreparazione al Covid -19 e di conseguenza della crisi che sta per colpire i più deboli, cioè la stragrande maggioranza, e continuare ad arricchire la ristretta cerchia dei più forti.

Una via d’uscita potrebbe essere il ritorno a forme estese di welfare state. 

Ma qualcuno si ostina a far finta di non vedere il crescente malcontento tra i lavoratori. E tenta il doppio depistaggio di una guerra in atto che chiederebbe a tutti ancora sacrifici. “Quando c’è guerra, la classe lavoratrice può chiedere molto. In tempo di pace può ottenere di più”. 

Questo non lo diceva John Maynard Keynes. No. Lo diceva Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin.

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Finanza - Economia - Lavoro

Che sta succedendo all’economia europea/6.

Vertice salva-euro in bilico ,Dopo lo stop di Londra arrivano i dubbi di Berlino,di Fabio Grattagliano-sole24ore.com

La Germania ha proposto un piano di aiuti finaziari per i paesi della zona euro in difficoltà pari a una cifra di 600 miliardi di euro, con la partecipazione del Fondo monetario internazionale. Lo si apprende a margine della riunione dell’Ecofin

I ministri dell’economia e delle finanze dei 27 paesi Ue riuniti a Bruxelles per trovare una soluzione in grado di salvare in maniera strutturale l’euro e i paesi sotto minaccia della speculazione hanno preso una pausa. La riunione dell’Ecofin è stata al momento sospesa per consentire i lavori del Comitato economico e finanziario della Ue, l’organismo dedicato ad affrontare le modalità più tecniche del piano che sta cercando una sintesi in grado di accontentare tutte le posizioni espresse al tavolo dei ministri.

L’ultima bozza che circola
Se accolto dagli stati membri, il piano di aiuti finanziari sarebbe senza precedenti nella storia dei salvataggi. I 600 miliardi, l’ultima cifra che circola assieme alle bozze dei tecnici al lavoro, sarebbero così composti: 60 miliardi di garanzie dalla Commissione dell’Ue, 440 miliardi di garanzie dagli stati membri e 100 miliardi di euro di linee di credito messe a disposizione – se necessario – dal Fondo monetario internazionale. Nelle conversazioni telefoniche intercorse oggi tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, sono servite – riferiscono fonti diplomatiche – a rafforzare l’asse con Washington per la partecipazione del Fmi. Il modello che verrebbe seguito per le garanzie degli stati membri sarebbe lo stesso usato per il caso Grecia. Germania e Olanda però si sono opposte al sistema di garanzie che era stato individuato nella proposta della Commissione. «È un’arma formidabile contro la speculazione», commentano fonti diplomatiche. «Se Francia e Germania sono unite e determinate è impossibile che la speculazione attacchi paesi come la Spagna o il Portogallo».

Il rifiuto di Londra. La ricerca di un meccanismo condiviso di stabilizzazione della moneta unica ha ricevuto un pesante stop dopo il rifiuto della Gran Bretagna a contribuire alla creazione del fondo. Anche la Germania starebbe creando qualche difficoltà sul fondo e in maniera particolare sul meccanismo di garanzie dei prestiti. «Voglio essere chiaro – ha detto il cancelliere dello scacchiere Allistair Darling – la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo. Quello che non faremo e non potremo è dare sostegno all’euro. La responsabilità di sostenere l’euro deve essere in capo ai membri dell’eurogruppo». Il rifiuto di Londra – che riguarderebbe solo la disponibilità di risorse al fondo e non uno stop politico alla creazione dello stesso – potrebbe spingere l’Ecofin verso l’ipotesi di limitare il meccanismo di prestiti garantiti ai soli 16 paesi della zona dell’euro.

Piano di salvataggio. Secondo le indiscrezioni le garanzie sul tavolo dovrebbero ammontare a 60/70 miliardi di euro: una cifra in grado di mobilitare sui mercati prestiti per almeno 600 miliardi. Se avere un fondo a 27 o a 16 «è una questione ancora in discussione», sottolineano fonti a Bruxelles. «Mai dire mai» ha detto il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, arrivando alla riunione, mentre la collega spagnola Elena Salgado, ministro dell’Economia e delle Finanze e presidente di turno dell’Ecofin ha detto che «La Spagna non si prepara a ricorrere a nessun fondo» rispondendo alla domanda se Madrid si stesse accingendo ad usufruire del piano salva-Stati allo studio dei ministri della Ue.

Le opzioni sul tavolo. Tra le opzioni in gioco, una prevede che l’Ecofin approvi la costituzione di un Fondo di stabilizzazione sul modello già utilizzato in passato per gli aiuti a paesi non dell’eurozona (Lettonia, Ungheria e Romania): a intervenire in questi casi è l’articolo 143 del Trattato Ue in caso di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Si tratterebbe di estendere anche ai paesi dell’eurozona la possibilità di ricevere supporto finanziario allargando l’ipotesi anche per difficoltà di approvvigionamento sui mercati per finanziare il debito sovrano. Fondendo le somme disponibili per i due strumenti si arriverebbe a una dotazione di oltre 100 miliardi di euro. Il problema è che l’articolo 143 è applicabile solo agli Stati dell’eurozona. La soluzione potrebbe arrivare grazie all’articolo 122 del trattato Ue, che prevede che il Consiglio dei 27 in caso di circostanze eccezionali possa decidere a maggioranza qualificata di concedere assistenza finanziaria a uno stato in difficoltà. L’ipotesi, in un primo momento osteggiata dal governo di Londra perché in questa evenienza la Gran Bretagna riteneva di poter essere “costretta” a fornire la propria quota di finanziamento, è ora valutata da Londra con maggior favore.

Banchieri riuniti. A Basilea i banchieri centrali della Bce attendono di capire quale ruolo sarà loro attribuito dall’Ecofin nella gestione del piano di difesa dell’euro e in special modo sulle modalità di acquisto di titoli di Stato in cambio di impegni precisi dei paesi sul risanamento dei bilanci. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro

Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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