di GUIDO ROSSI- sole24ore.com
È notizia di ieri quella di Standard & Poor che declassa, per la prima volta nella storia, il debito statunitense. E quella conseguente della Cina, il maggior creditore del Tesoro americano nel quale ha investito parte del suo incredibile eccesso di liquidità, che chiede (al Governo statunitense) garanzie e non lesina giudizi, bollando come “miope” la decisione congressuale sul debito. La Cina fa ancora di più: chiede agli Stati Uniti la soluzione dei problemi di debito strutturali per garantire la sicurezza dei propri investimenti in dollari.
Nell’intero mondo occidentale insieme con un’economia abbacinata da falsi miti è crollata anche la politica, ormai sua ancella ridotta quasi in condizioni di schiavitù. È difficile sapere se il futuro sarà condizionato più dal disastro politico o da quello economico. Tra quei miti, nel linguaggio, sia comune, sia aulico, siede imperiosa l’onnipotenza dei mercati che spazzano la politica, minacciano e distruggono gli Stati.
La definizione concreta ed esatta di mercato non alberga più in quella di “luogo destinato allo scambio delle merci”, ma si dilegua e svanisce in astratte e opache figure sacerdotali: società di rating, hedge funds, fondi sovrani, banche d’affari e banche ombra e grandi multinazionali, con tutti i loro strumenti e riti esoterici.
I mercati si ergono a Pizia della modernità mentre il capitalismo, dalle Compagnie delle Indie ai nuovi sacerdoti, ha spesso mostrato un lato predominante di arrogante violenza e abusi, dal colonialismo alla schiavitù, alla tratta dei neri, alle selvagge speculazioni finanziarie a danno di popoli e di cittadini deboli.
Non è un caso che anche le democrazie siano in crisi e debbano essere rivisitate, poiché si è aggravato il fatto che sia sempre una minoranza dei cittadini, direttamente o indirettamente i più ricchi, a governare. La forbice fra ricchi e poveri è diventata intollerabile, sicché se un quarto di tutti i redditi e il quaranta per cento della totale ricchezza degli Stati Uniti va all’uno per cento dei percettori di reddito risulta evidente la ragione per cui le scadenti recenti misure decantate da Obama non siano riuscite ad aumentare la tassazione dei ricchi.
L’America, come ha scritto J. Stiglitz, non è più “la terra delle opportunità”. In Italia come nel resto d’Europa parimenti aumenta la disoccupazione e nelle riforme inconsistenti proposte dal premier non v’è alcuna decisione né intenzione di colmare le iniquità economiche e sociali create dalla forbice e colpire seriamente l’evasione e la corruzione.
La politica rimane perciò schiava, come vogliono i mercati, del debito pubblico, della deregolamentazione e delle privatizzazioni ad ogni costo, dimentica della giustizia sociale, degli investimenti pubblici, strumento di un’equità non solo fiscale. La democrazia deliberativa e non limitata a uno spesso inutile esercizio del diritto di voto non sembra essere arrivata con “il vento nuovo” che dichiarava di voler cambiare le arcaiche strutture politiche asimmetriche ingiuste sia nell’America di Barack Obama sia in Italia. Aveva allora ragione Gaetano Salvemini quando scriveva che in queste democrazie comunque “ogni elezione è solo una rivoluzione omeopatica”.
Se dunque anche in Italia la vita politica deve dignitosamente riprendersi per trascinare l’economia nella ripresa, è allora indispensabile ad esempio, che dal basso i cittadini con un referendum cambino la legge elettorale per squinternare una casta che automaticamente si coopta e una classe dirigente che culturalmente non cambia mai. Se questa nostrana speranza può forse risolvere il problema della nostra azzerata credibilità, non è certo ricetta sufficiente ad incidere sulla deriva del capitalismo finanziario globale e dei sistemi di democrazia occidentale.
Stiamo assistendo allo scomposto declino di secoli di civiltà e di predominio occidentale. Ed è allora singolare che nelle ricette, da ogni parte proposte, manchi sempre il “convitato di pietra”: la Cina, che con l’intervento di ieri rivendica legittimamente il proprio ruolo. L’errore dei reali e minacciati default europei sta nel fatto che l’Unione europea sta pagando l’inesistenza di un mercato unitario del debito, spezzettato invece fra vari stati a rischio.
Eurobonds, garantiti da tutti gli stati membri sarebbero ben più sicuri di qualunque singolo titolo statale ed essendo l’Europa il più grande mercato mondiale aprirebbe in questo caso notevoli opportunità per gli investimenti cinesi, ora inevitabilmente solo casuali. A che servono, mi chiedo, una Banca centrale europea e altre deboli istituzioni finanziarie se il debito dell’Europa non si presenta unitario per i grandi investitori asiatici e si rivela rischioso in base alle capricciose valutazioni di opache figure sacerdotali? Né si scordi al riguardo che un deciso programma statale di salvataggio ha reso oggi le banche cinesi in assoluto le più grandi del mondo in termini di capitalizzazione e di rendimenti.
C’è però nella cultura occidentale, pur con qualche notevole eccezione, a partire da Adam Smith, una sorta di ostentato snobismo e alterigia nei confronti della millenaria civiltà cinese. Trascurando persino le indubbie tradizioni culturali, si rilevano ora i conflitti sociali, il disprezzo dei diritti umani, il regime politico dittatoriale e un’economia sia pure in grande sviluppo ma spesso basata su una brutale concorrenza sleale con le imprese occidentali.
I barbari, cioè coloro che vivono aldilà dei nostri confini, come già nella cultura greca e in quella cinese antica erano considerati tutti gli stranieri, e nel nostro caso particolare gli occidentali. Oggi sembra valere il contrario nei confronti della Cina. Ma se fossero loro, proprio i cinesi, i barbari della superba poesia di Kostantinos Kavafis: “e ora che sarà di noi senza i barbari? Loro erano comunque una soluzione”. La loro adesione a ciò che rimane e neppure forse può essere distrutto della civiltà politica occidentale, è l’ordinamento liberale internazionale.
Né la Cina, che si sta ponendo come leader anche nei confronti dei paesi emergenti propone un ordine globale illiberale, orientato ad un capitalismo autoritario contrario al libero commercio fra Stati e alla libertà dei mari che pur nella civiltà occidentale hanno avuto il loro grave limite nell’imperialismo e nel colonialismo. In quell’ordine internazionale dell’occidente la Cina è già coinvolta poiché il 40% del suo Pil è composto da esportazioni il cui 25% va verso gli Stati Uniti. Non può dunque permettersi politiche isolazionistiche, protezionistiche o antiinternazionali, come quelle che invece sovente riemergono nel mondo occidentale (anche nostrano) alla stregua di proposta.
L’evidente conclusione è che una maggiore integrazione dell’Europa, attraverso anche un’unità economica debitoria, darebbe un’ulteriore spinta all’inserimento nell’ordinamento liberale internazionale della Cina, spingendo la stessa ad apprezzare anche modelli di democrazia economica che nel mondo, come ha sottolineato Amartya Sen: “non sono ancora universalmente accettati, ma hanno raggiunto uno status generale tale da essere considerati giusti”.
Non è poi un caso che i “più occidentali” del mondo appaiano proprio i cinesi, giunti oggi a proporre una unica moneta mondiale, una sorta di Bancor, come quella avanzata da J.M. Keynes a Bretton Woods, a evitare catastrofi provocate da un solo Paese.
La crisi economica dell’Occidente ha messo definitivamente in risalto le gravi deficienze delle democrazie e le loro degenerazioni. In questa classifica l’Italia non è certo ai vertici. È allora tempo che sia l’economia sia la politica rivedano le loro strutture di base e provvedano celermente a dotarsi di veri strumenti per una crescita di equità e di uguaglianza che cerchi di chiudere la forbice, sempre più pericolosa e dannosa, per riprendere quell’ordine liberale globale allargato soprattutto con la Cina e i Paesi emergenti e depurato dalle storture del capitale finanziario, iniziando forse dalla eliminazione di qualche suo mito e di alcune sue figure sacerdotali.(Beh, buona giornata).