di Massimo Martinelli da ilmessaggero.it
ROMA (4 marzo) – L’indagine di polizia è come un mosaico: basta entrare in una qualsiasi Questura d’Italia, e lo dicono anche i muri: «Devi raccogliere elementi, frasi, sensazioni; mettere insieme facce, racconti, odori, oggetti. Alla fine, se hai lavorato bene, in fretta, con tempestività e fantasia, con equilibrio e buonsenso, quel mosaico assume un profilo umano».
Quello della persona da cercare. E’ andata esattamente così a Roma, dalla sera del 14 febbraio a quella del 18. Quattro giorni di facce. Su una di queste, la ragazza della Caffarella si è quasi accasciata: «E’ lui, mi ha rovinato la vita. Ti prego mamma, non farmelo vedere mai più». Sembrava fatta.
Ma l’indagine di polizia è anche amore per la verità. Occorrono certezze, riscontri da portare al pm. Soprattutto prove; e ne esistono di scientifiche, inoppugnabili, assolutamente attendibili. Alle quali si deve riconoscere il potere di cambiare una storia che sembrava già scritta.
In Questura lo sanno. L’esame del Dna scagiona in maniera definitiva i due romeni arrestati per lo stupro della Caffarella. E riduce ad un mucchietto di verbali inutili quella gran mole di elementi, frasi e sensazioni raccolte in quattro giorni di indagini senza sosta e senza sonno. «Ho dovuto costringere Vittorio Rizzi a dormire per qualche ora», disse il questore, Pietro Caruso, parlando del capo della Mobile. Ma poche ore, talvolta, possono cambiare un’indagine. E anche una storia professionale.
Perché a riguardarlo bene, il film della sera del 18 febbraio scorso, si scopre che l’unico cono d’ombra di questa indagine riguarda proprio la sessantina di minuti in cui Vittorio Rizzi non era in Questura, la notte del 18 febbraio. E’ il giorno in cui la ragazza ha riconosciuto il biondino in una fotografia scattata due settimane prima al campo nomadi di Torrevecchia: c’era stato lo stupro di Primavalle, il campo nomadi era stato sgomberato, la polizia aveva fotografato tutti quelli che ci abitavano. In Questura la ragazza della Caffarella aveva lavorato per ore con i disegnatori di identikit e ne era venuti fuori due: un biondo slavato, un castano con capelli lunghi. Le hanno fatto vedere dodici foto di biondi slavati somiglianti a quella ricostruzione e lei è quasi svenuta sulla faccia di Loyos Isztoika. Del castano nessuna traccia, nonostante le settecento foto tirate fuori dall’archivio.
Un’ora dopo, Loyos è in Questura. «Strafottente, irridente, quasi al limite della resistenza a pubblico ufficiale», ricorda un agente che lo accompagnava. Il biondino nega, dice che non c’entra, mai stato alla Caffarella. Ci sono anche gli agenti romeni, che avevano fornito indicazioni e supporto all’indagine. C’è fermento. I media assediano il palazzetto di via San Vitale. Attraverso i canali del Viminale la politica vuole risposte rassicuranti per la gente della Caffarella, per Roma. Comincia adesso il maledetto cono d’ombra di questa indagine: il biondino è in camera di sicurezza; si decide di interrogarlo con calma, il giorno dopo, perché la notte potrebbe ammorbidire quel carattere strafottente. Lo lasciano a colloquio con i poliziotti romeni, un’ora appena. Sessanta minuti che sembrano risolutivi, ma che poi si riveleranno avvelenati.
Dopo quattro giorni di caccia serrata, Vittorio Rizzi è appena arrivato a casa quando lo richiamano dalla Questura: Loyos Isztoika vuole parlare. Adesso. Chiamano anche Vincenzo Barba, il pm che segue l’indagine. E pure un tecnico video, perché l’interrogatorio possa essere ripreso. Il biondino canta che è una bellezza: «Fumo le Winston Light» e ci sono cicche del genere sul luogo dello stupro; «Abbiamo rubato i loro cellullari e ne abbiamo buttato uno nel parco, dopo aver estratto la scheda Sim»: ed ecco il telefonino della ragazza dietro una panchina, con la sim accanto. E poi il sangue: «Ne ho perso tanto» dice la vittima. E c’è un pantalone sporco di rosso nella tenda del biondino. Che indica pure il complice: Karol Racz, faccia da pugile. Lo pigliano a Livorno, non ha i capelli lunghi come l’identikit, ma nessuno ci bada; ed è alto un metro e mezzo e non parla italiano.
Due giorni dopo si replica in Procura. Ma il biondino ritratta: «Ho subito pressioni, mi hanno picchiato». Non sembravi picchiato la sera della confessione, gli dice il Pm. «Mi hanno strattonato», si corregge lui. Ma chi? La polizia italiana che si è precipitata a fare il Dna a caccia della prova regina? Difficile da credere: sapevano che la scienza e la genetica avrebbero smascherato qualsiasi trucco. Come avviene: niente Dna dei romeni sulle cicche del parco, niente impronte sui telefonini, niente sangue sui pantaloni. Resta quel cono d’ombra: i sessanta minuti che Loyos trascorse con gli agenti del suo Paese, mentre Rizzi era fuori dalla Questura e il pm Barba era a piazzale Clodio. E resta una frase, «mi hanno strattonato», che apre due ipotesi: o non si sono limitati a quello, oppure Loyos accusa a vanvera. In ogni caso, il Dna gli spalancherà le porte del carcere. (Beh, buona giornata).