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Attenti, il berlusconismo continua.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

NEL PRESENTARE il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell’esecutivo e ha aggiunto un’osservazione significativa, e perturbante. “Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo”.

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che “concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d’imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l’eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché “stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro” (e non senza asprezza aggiunge: “Spero, che stiano uscendo”) snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l’arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l’emergenza democratica in cui viviamo da quando s’è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ’90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell’idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ’94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l’Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell’età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d’interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell’Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l’insania di Berlusconi e affossando l’accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l’italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: “I fatti dimostreranno” che conflitto d’interessi non c’è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il “potere occulto delle banche”, la “confusione tra politica e affari”) e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c’è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l’elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l’inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l’Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l’acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s’alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: “Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell’abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente”. Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l’avvento di Monti mostra che l’anagrafe non c’entra. Sylos Labini che nel ’94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: “Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall’incantesimo funesto del cerchio” che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L’ironia del premier sull’espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che “sì, assolutamente” usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l’avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l’occasione, il kairòs che se non cogliamo c’inabissa. Per i partiti, è l’occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la “lunga corsa” intrapresa dopo il ’45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall’Annuncio o l’Evento: quell’Evento, dice Giuseppe De Rita, “che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”.

Non c’è un solo partito che abbia idee sull’Europa da completare. Non ce n’è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l’Europa politica non c’è. Monti denunciò a giugno l’eccessiva deferenza fra Stati dell’Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest’uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l’Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di “tritacarne mediatico”, è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell’abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l’aiuto di un’informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.
(Beh, buona giornata)

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“Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l’ultimo atto: si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica, evitando di distruggere il tempio con se stesso.”

Il capolinea Silvio Berlusconi- repubblica.it

SIAMO dunque arrivati alla domanda capitale del tragico quindicennio berlusconiano: può governare un Paese democratico un leader che da giorni è lo zimbello del mondo per i festini con minorenni prostitute, pagate e travestite da infermiere per eccitare il satrapo stanco? Con ogni evidenza no. In qualsiasi Paese normale un premier coinvolto nel ridicolo e nello squallore di questo scandalo si sarebbe già ritirato a vita privata, per difendersi senza coinvolgere lo Stato nella sua vergogna.

La giustizia dirà se ci sono reati con minori e se c’è la concussione, com’è convinta la Procura di Milano. Ma intanto ciò che emerge dalle carte giudiziarie è sufficiente per un giudizio politico di totale inattitudine ad esercitare la leadership governativa e la rappresentanza di una democrazia occidentale. L’incoscienza del limite, la dismisura eretta a regola di vita, la concezione del rapporto tra uomo e donna, uniti insieme danno forma ad un permanente abuso di potere che macchia le istituzioni e offende lo Stato.

Che si tratti di malattia, come denunciava l’ex moglie del premier, o di perdita di controllo, poco importa per il cittadino. Da due anni la politica è prostituita da un primo ministro che teme le rivelazioni sulle sue notti, è vulnerabile dalle sue partner occasionali, è ricattato dalle minorenni, dichiara guerra alle intercettazioni e ai giornali soltanto per difendersi dalla valanga di scandali che lo sovrasta: soprattutto mente e invita le ragazze a mentire.

Tutto è ormai pubblico, tutto è inevitabilmente politico. Anche l’ultimo atto: si dimetta, e vada a difendersi, se può, nel tribunale della Repubblica, evitando di distruggere il tempio con se stesso. (Beh, buona giornata).

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Il berlusconismo: “È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso”.

L’osceno normalizzato di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo sodalizio con la Cupola. Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi.

Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ’92. Dell’Utri, suo braccio destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ’74 che venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere. Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un “uomo di garanzia”.

La sentenza
attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro: ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87 Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il “regalo” a Riina (5 milioni) per “aggiustare la situazione delle antenne televisive” in Sicilia. Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe “finito sotto i ponti o in galera per mafia” (la Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri, in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: “A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera”.

C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che regna – nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi – presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega: “Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu devi essere ricattabile (…) Per fare politica devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti. (…) Il giudice che decide il livello e la soglia di tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale”.

Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito.
Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: “Dopo tanti secoli che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa, ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine genetico senza più gravi controindicazioni”.

In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale – fa capire – potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma: “Se non vi adeguate ve li scateno contro”. Sono lo spauracchio che ieri fu il terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo. Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati, applaudirebbero probabilmente le due donne – Veronica Lario, Mara Carfagna – che hanno denunciato il “ciarpame senza pudore” del Cavaliere, e le “guerre per bande” orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il parlar vero.

Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi. C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il ministro della giustizia Conso prese nel novembre ’92 – condividendo le opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi – di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto.

Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un voto di sfiducia a Berlusconi.

Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe l’effetto di rendere “antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo potere d’influenza”. Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna dire, promettere. Non qualcosa “di sinistra”, ma di ben più essenziale: l’era in cui la Mafia infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana.
Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere riformista, con “vocazione maggioritaria”, ma l’essenza la mancherà. Non sarà il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione, dopo il ’45 e la Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il giornalista Usa che nel novembre ’44, sul mensile Mercurio, scrisse parole indimenticabili sul fascismo: “È un mostro col capo d’idra. Non crediate d’averlo ucciso”. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

La decadenza (a)Mara del berlusconismo.

«Non farò mancare la fiducia a Berlusconi, ma il 15 dicembre rassegnerò le mie dimissioni dal partito. Lascerò anche lo scranno di parlamentare, perché a differenza di altri sono disinteressata e non voglio dare adito a strumentalizzazioni. Mi dimetterò ovviamente anche da ministro visto che il mio contributo pare sia ininfluente» ha detto il ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna in un’intervista al Mattino. Beh, buona giornata.

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Protestano le Regioni. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Il berlusconismo è in crisi?

L’entropia dei conti, di MASSIMO GIANNINI-repubblica.it

L’eroica settimana del “ghe pensi mi” precipita nella prosaica entropia della manovra economica. Berlusconi ha disinnescato la mina Brancher, al prezzo di una penosa rinuncia che ha svelato il patto diabolico tentato sulla pelle delle istituzioni: un ministero ad personam in cambio di un’impunità personale. Ma non riesce a disinnescare la bomba del decretone da 25 miliardi, sul quale si concentrano le tensioni della maggioranza e le pressioni della società. La ragione è semplice. Per un governo non c’è atto politico più costitutivo di una legge finanziaria. E poiché questo governo non ha una proposta politica, non può sperare nel consenso del Paese sulla sua manovra economica.

C’è un’evidente confusione “tecnica”, che in queste ore supera i limiti della decenza. In una manovra già nata male, perché iniqua nella distribuzione dei tagli di spesa e incerta nella quantificazione delle voci di entrata, si stanno moltiplicando emendamenti sulle materie più astruse e disparate. A colpi di “refuso” quotidiano, e di blitz notturni di fugaci peones e audaci relatori, si aggiungono e si sottraggono impreviste stangate sulle assicurazioni e improbabili riforme del processo civile, intollerabili batoste sulle tredicesime e incredibili abbattimenti degli stipendi Rai.

Il tutto accompagnato dall’ennesima celebrazione del conflitto di interessi: l’immancabile norma ad aziendam (questa volta la Mondadori) che pagando un misero obolo del 5% sul dovuto potrà estinguere il suo contenzioso da 400 milioni con il Fisco. Il risultato di questo caos è a somma zero. Nessuno può alterare i saldi finali, come esige il ministro dell’Economia. Ma nessuno capisce più niente, come teme il presidente del Consiglio. Meno male che la riforma del bilancio su base triennale avrebbe dovuto metterci al riparo dagli indecorosi assalti alla diligenza della Prima Repubblica. Le cavallette all’opera nella Seconda Repubblica sono molto peggio.

Ma c’è soprattutto una patente convulsione politica, che in questi giorni mette a nudo i vizi di questo centrodestra in cui la logica irriducibile della monarchia assoluta comincia a patire il parziale squilibrio di una diarchia relativa. Lo scontro con le Regioni è forse il sintomo più inquietante. Il presidente del Consiglio sarebbe pronto ad ascoltare le grida di dolore che arrivano dai governatori, molti dei quali appartengono alla sua maggioranza, uscita già molto provata dalle elezioni amministrative della primavera scorsa. Berlusconi sarebbe pronto a venire incontro alle richieste non solo delle virtuose regioni del Nord di fresca marca leghista, ma anche delle disastrate regioni del Sud di vecchia marca forzista. Ma il suo ministro del Tesoro non può permettersi questo lusso: i tagli pesanti agli enti locali, insieme al salasso dilazionato sul pubblico impiego, sono l’unica certezza di questa manovra scritta sull’acqua. Tremonti non si può permettere di cedere su questo: non può dare ai mercati l’impressione che il governo italiano sia pronto a scendere a patti su una manovra che per il Paese (e per l’Eurozona) rappresenta la linea del Piave da opporre agli attacchi speculativi.

Questo spiega la resistenza del governo ad incontrare i governatori (con la discutibile eccezione dell’udienza “privata” concessa a Palazzo Grazioli agli azzurri Formigoni, Polverini, Caldoro e Scopelliti) e ad ascoltare le proteste delle categorie (con l’inaccettabile eccezione del presidente di Confindustria Marcegaglia, rassicurata personalmente al telefono sull’eliminazione dei nuovi adempimenti fiscali per le imprese). Questo spiega anche l’ennesimo schiaffo della doppia fiducia imposta a Camera e Senato, per blindare un testo che con tutte le sue clamorose storture deve comunque assicurare i 25 miliardi promessi sulla carta. Ma è evidente che, al di là delle smentite di rito, Berlusconi ha un problema serio con Tremonti. Persino più serio di quello che ha con Fini. Per la legge sulle intercettazioni si trova a dover fronteggiare il presidente della Repubblica e il presidente della Camera, dentro una cornice istituzionale difficile ma con un margine interno gestibile. Per la manovra deve fronteggiare il suo ministro del Tesoro che si propone come unico garante della stabilità economica, dentro un quadro di compatibilità politiche aperte ma con un vincolo esterno indisponibile.

Per questo la battaglia sulla manovra è più insidiosa per il premier, che su questo deve fare i conti non tanto e non solo con l’opposizione, ma con la sua constituency politica e, in definitiva, con il Paese. A parte le Regioni, i focolai di conflitto si diffondono con velocità e intensità impressionanti. Protestano i sindacati nel pubblico e nel privato. Protestano i docenti e i ricercatori. Protestano i medici. Protestano le forze dell’ordine. Protestano i generali dell’esercito. Protestano i diplomatici. Protestano i magistrati. E protestano anche i terremotati aquilani. Un dissenso concentrico così vasto non si era mai visto. Meno che mai nei confronti del leader che, più di chiunque altro non solo in Italia ma forse nell’intero Occidente, ha fatto della sua popolarità l’unico metro per misurare la sua politica.

Qui sta il drammatico limite del berlusconismo, che forse per la prima volta assaggia, anche tra la sua gente, il frutto amaro dell’impopolarità. Mai come in questo momento, sulla manovra e non solo su questa, servirebbe un presidente del Consiglio capace di fare una sintesi più avanzata tra le tesi del suo ministro dell’Economia e le antitesi espresse dagli enti locali e dalla società civile. Mai come in questo momento servirebbe una vera politica del fare, e non la solita mistica del potere. E invece, con quel grottesco “ghe pensi mi”, il Cavaliere ci ripropone l’eterno ritorno dell’uguale. Se in campo c’è lui, la politica non serve: Silvio è il messaggio. È stato vero per molto tempo, nell’Italia dell’egemonia sottoculturale televisiva. Ora, forse, non lo è più. (Beh, buona giornata).

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La lunga estate calda del berlusconismo.

La stampa estera su Brancher. “Colpo imbarazzante per Berlusconi”, di MARCO PASQUA-repubblica.it

“Una crisi che scuote il governo di Silvio Berlusconi”, minacciandone “la stabilità”. Un colpo “imbarazzante” per il premier, che deve far fronte alle crescenti “divisioni all’interno della sua maggioranza”, in uno “dei momenti più difficili” da quando il Cavaliere ha vinto le elezioni. La notizia delle dimissioni di Brancher fa il giro del mondo, e in poche ore è sui principali siti di informazione.

Sia il Financial Times 1 che il Wall Street Journal 2, nelle loro edizioni on-line, titolano parlando di un “colpo a Berlusconi”. Il primo, ripercorrendo la vicenda del contestato ministro, “ex manager nel gruppo Fininvest”, evidenzia come la sua nomina sia stata seguita da una “serie di problemi”. Un “colpo imbarazzante al governo di centrodestra”, che è riuscito a “far arrabbiare il principale alleato di Berlusconi, la Lega Nord”, e ha spinto persino il presidente Giorgio Napolitano “a fare un raro intervento”, a proposito della decisione iniziale di Brancher di fare ricorso al legittimo impedimento.

Il Financial Times, che ricorda come queste siano le seconde dimissioni di un ministro nell’arco di due mesi (dopo quelle di Claudio Scajola), cita anche “lo scompiglio all’interno del Partito della Libertà, all’interno del quale il co-fondatore Gianfranco Fini ha dichiaratamente messo in discussione la leadership di Berlusconi”. Fattori questi che stanno alimentando le discussioni circa la possibilità di nuove alleanze e “di elezioni anticipate”. Il Wall Street Journal parlando delle “crescenti divisioni nel governo di centro-destra” e della “difficile fase della premiership di Berlusconi”, si sofferma sulle caratteristiche della legge del legittimo impedimento, cui il premier “ha fatto ricorso in due diversi processi”.

Le dimissioni di Brancher – sottolinea il WSJ nella sua edizione on-line – rappresentano un nuovo “colpo per Berlusconi, mentre deve fronteggiare un conflitto con il presidente italiano, con il suo alleato chiave e il presidente della Camera Gianfranco Fini”. In Australia, il Sydney Morning Herald, riprende un lancio d’agenzia della Agence France-Presse, e ricorda come la “nomina a ministro” di Brancher “sia stata duramente criticata dall’opposizione, che, dando una rara prova di unità, “ha calendarizzato una mozione di sfiducia un Parlamento”. Una vicenda, spiega la AFP, che ha “aumentato le divisioni nella maggioranza di centrodestra”, tanto che Gianfranco Fini “ha tacitamente minacciato di votare con l’opposizione nella mozione di sfiducia”. Lo stesso lancio della AFP compare anche sul sito del francese Le Figaro 3. L’Irish Times 4, invece, pubblica un lancio della Reuters, e oltre a ricostruire le tappe della vicenda, parla del “calo di popolarità che si trova ad affrontare Berlusconi, alle prese con i conflitti con i suoi alleati”.

Passando alla Germania, la notizia viene riportata dai principali siti dei quotidiani. A partire da quello della Sueddeutsche Zeitung 5, che, citando lo “scandalo giudiziario”, titola: “L’amico di fiducia di Berlusconi deve dimettersi”. “A poche settimane dalla nomina, un ministro italiano si è dimesso per via di uno scandalo giudiziario”, si legge sulla SZ, che ricorda come Brancher abbia irritato lo stesso governo per aver voluto fare ricorso al legittimo impedimento. Soluzione cui “ha dovuto rinunciare, dopo le pressioni ricevute”. Una legge che, scrive la SZ, permette “da mesi a Berlusconi di aggirare appuntamenti in vari processi”. Particolare messo in luce anche dalla versione on-line di “Die Zeit: “A pochi giorni dalla nomina, il ministro aveva cercato di utilizzare una norma sull’immunità per i membri del governo. Norma di cui si è più volte servito Berlusconi”. “La ritirata di Brancher – si legge sul sito tedesco – è un nuovo contraccolpo per il presidente del consiglio Berlusconi. Appena lo scorso mese di maggio, il suo ministro per lo Sviluppo economico, Claudio Scajola, si era dimesso”.

Sempre in Germania, Focus mette in luce il passato di Brancher nel gruppo Fininvest e tutte le critiche che la sua nomina ha provocato, sia nell’opposizione che nella stessa maggioranza. Lo spagnolo El Mundo titola: “Si dimette un ministro di Berlusconi, a due settimane dalla nomina”. “Una nuova crisi scuote il governo di Silvio Berlusconi – è l’incipit del pezzo in spagnolo – Aldo Brancher, amico intimo del Cavaliere, nominato ministro appena 17 giorni fa, si è dimesso questa mattina”. Una nomina, quella di Brancher, che aveva fatto sorgere il sospetto che il ministro volesse usare la sua carica per utilizzare il legittimo impedimento, evitando così di presentarsi di fronte ai giudici. Ma, ricorda El Mundo 6, anche in seguito all’intervento di Napolitano, Brancher “è stato obbligato a rinunciare al legittimo impedimento”, fino alle pressioni di Berlusconi perché si dimettesse.
(Beh, buona giornata)

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Attualità

Meno male che Silvio c’è.

“Il viaggio all’estero è stato un tour de force ma con ottimi risultati” ha detto il premier, Silvio Berlusconi. “Abbiamo portato a casa per il nostro paese quasi un punto di pil di lavori e acquisti di prodotti; direi un vero tonico per l’economia”.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Guardate “Il Grande Fratello”, guardate “L’Isola dei Famosi”, andate nei centri commerciali,litigate per un paio di scarpe firmate, siate gli ultimi della vostra classe, che è più fico che saperne di più. Bravi coglioni: vivete in un Paese in cui chi lavora guadagna meno che nel resto d’Europa, e paga più tasse. Continuate a fòtterneve, non leggete: che tanto quelli fottuti siete voi.

Salari italiani tra i più bassi nella classifica dei Paesi Ocse. L’Italia si colloca per gli stipendi al 23mo posto, con guadagni inferiori al 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi che fanno parte dell’organizzazione di Parigi. Particolarmente penalizzati gli italiani single e senza figli, i cui salari restano ai livelli più bassi tra i paesi Ocse, superati anche dagli stipendi in Spagna e Grecia, mentre l’Italia vanta una pressione fiscale sulle retribuzioni ai livelli più elevati. I dati sono riferiti al 2009 e l’Italia si colloca nella stessa posizione dell’anno precedente. E’ quanto risulta dal Rapporto ‘Taxing Wages’ dell’Ocse.

Il peso di tasse e contributi sui salari, il cosiddetto cuneo fiscale che calcola la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto effettivamente finisce in tasca al lavoratore, è in Italia al 46,5%, rileva ancora il rapporto Ocse. Nella classifica dei maggiori trenta Paesi, aggiornata al 2009, l’Italia è al sesto posto per peso fiscale sugli stipendi, dopo Belgio (55,2%), Ungheria (53,4%), Germania (50,9%), Francia (49,2%), Austria (47,9%). Il peso di tasse e contributi sui salari in Italia è rimasto stabile dal 2008 al 2009, registrando solo un lieve (-0,03%). L’Italia occupa infatti nella classifica Ocse la stessa posizione, la sesta, rispetto all’anno precedente.

In Italia, precisa ancora l’Ocse, hanno un impatto rilevante sulla differenza tra salario lordo e netto anche i cosiddetti ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, rappresentati dal tfr, che aumentano la pressione di un ulteriore 3%. “Aggiungendo questa variabile – spiega un economista dell’ Ocse in un incontro con la stampa – il prelievo obbligatorio sui salari in Italia sale oltre il 49%, portando il Paese a superare la Francia in termini di quota di imposizione”. I ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, secondo la definizione dell’Ocse, sono pagamenti che il lavoratore o il datore di lavoro devono versare per legge, ma non al governo, come i contributi in fondi pensione privati o pagamenti per polizze assicurative. Il loro impatto sui redditi delle famiglie, e sul costo del lavoro, è differente da quello delle imposte tradizionali, dato che spesso si tratta di contribuzioni nominali, che il lavoratore riottiene quando lascia il posto o va in pensione (come, appunto, nel caso del Tfr). Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia

Che cos’è Roberto Saviano, agli occhi di Emilio “lecca-lecca” Fede?

Il berlusconismo di Fede riesuma la guerra al “culturame” di Maio Ajello-ilmessaggareo.it

E’ tornato il «culturame». Il berlusconismo avrebbe potuto prendere tante cose buone dalla tradizione della Dc, e invece ha adottato il suo aspetto meno esaltante: la polemica contro il «culturame» che fu lanciata da Mario Scelba. Che cos’è Roberto Saviano, agli occhi di Emilio Fede? «Non un eroe, ma un rompiscatole» appartenente, a quel ceto di intellettuali vanitosi e sinistresi che Brunetta, Bondi e compagnia mettono continuamente nel mirino della destra. Al punto che si preferisce un coiffeur per rifare gli Uffizi, o un ex dirigente della Mc Donald’s, Mario Resca, per dirigere i Beni Culturali. E se Saviano, già attaccato da Berlusconi, è un «rompiscatole» un po’ come la Guzzanti, un altro esponente del «culturame» – l’economista Marco Biagi, ucciso dalle Br – era un «rompicoglioni», secondo l’appena dimissionato Scajola. Lo Scelba che parlava di «culturame» era anche un politico serio, pure troppo, che intratteneva coversazioni e carteggi di alto livello con don Sturzo. I suoi epigoni si sono accontenati al massimo di qualche chiacchiera con il compianto don Gianni (Baget Bozzo) o di qualche sbirciata ai libri di Tremonti. (Beh, buona giornata).

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democrazia Lavoro Leggi e diritto

L’Italia dell’era Berlusconi: il 60% delle aziende italiane sono fuori legge, 2 milioni e 966 mila lavoratori sono irregolari. Lo dice il ministro del Lavoro, in audizione ufficiale davanti al Parlamento. Scusi, ma lei che ci sta a fare in quel ministero?

Irregolare la Repubblica delle imprese: sei aziende su dieci “fuori legge”-blitzquotidiano.it

Sono il nerbo del paese, la spina dorsale dell’Italia, reggono l’economia. Però si reggono spesso e volentieri sulla bugia, bugia al fisco, all’Inps, alle regole e alle leggi. Fune e colonna vertebrale che sostengono il corpo nazionale, ma anche anima furbetta e impunita. Sono le aziende italiane che vivono e praticano una legalità “altra” da quella ufficiale. Infatti più della metà risultano irregolari ai controlli di Stato peraltro non ossessivi. E, se più della metà applica una legge “altra”, qual è la vera legge, quella dei codici o quella appunto delle aziende? I conti delle aziende “fuori legge” non sono stati ostilmente redatti e tirati da sindacati o consumatori. A “denunciare”, suo malgrado è stato il ministro del lavoro Maurizio Sacconi in audizione ufficiale davanti al Parlamento.

Ispezioni fatte nel 2009: 303.691 le aziende esaminate, di queste 175.144 irregolari, vale a dire circa il 60 per cento. Insomma una Repubblica dell’impresa “fondata sull’eccezione”. Eccezione che in questo caso è la regola.

Ciliegina sulla torta, apposta dallo stesso Sacconi, “a preoccupare è il grado di pericolosità dei luoghi di lavoro, visto che “i dati evidenziano un incremento sostanziale della gravità delle irregolarità riscontrate”.

Tradotti in uomini si parla di 2 milioni e 966 mila i lavoratori irregolari. Non si pensi ad uno stuolo di extracomunitari, però: perché i residenti (italiani e stranieri) sono la componente più rilevante, mentre gli stranieri clandestini rappresentano solo una quota marginale, all’incirca il 12 per cento. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Elezioni regionali: ha vinto l’antiberlusconismo dei berlusconisti.

Silvio Berlusconi giosce dopo il risultato elettorale che ha visto il centrodestra vincere in sei regioni. E non esita a dare la sua lettura del voto: l’attività di governo è stata premiata, ora avanti con le riforme.

Però, fa finta di non capire l’avanzata dello “tsunami Lega” in Veneto, Lombardia e Piemonte: “L’alleanza è garanzia di rinnovamento”, taglia corto il premier. Poi lo slogan degli ultimi mesi: “L’amore ha vinto sull’invidia e sull’odio, gli elettori ci hanno dato ragione”. Invidia e odio? E la finiana Polverini nel Lazio? Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro

Il debito pubblico nell’Italia berlusconiana: millesettecentoottantasettemilaottocentoquarantaesei miliardi di euro.

Bankitalia fa sapere a quanto ammonta il debito pubblico italiano, provate a pronunciarla a voce la cifra, rende meglio l’idea: millesettecentoottantasettemilaottocentoquarantaesei miliardi di euro (1.787.846, se volete divertirvi a tradurlo in vecchie lire moltiplicate per 1936 e spiccioli). Erano 1699 miliardi solo un anno fa: il debito è cresciuto di 88 miliardi in un anno. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia

Cronache del berlusconismo: in Parlamento la maggioranza di centro-destra fischia “una ‘super patata ogm’, geneticamente modificata”.

Santanché, esordio amaro da sottosegretario, salva di fischi dai banchi del Centrodestra-repubblica.it

Un esordio tra i “fischi amici” quello di Daniela Santanché. Il mal di pancia e le battute polemiche che avevano preceduto la sua nomina hanno avuto una coda oggi, alla Camera, quando il neosottosegretario all’Attuazione del programma è entrata in aula e si è accomodata per la prima volta sugli scanni riservati al governo. Il suo ingresso è stato accolto da un’improvvisa salva di fischi partiti non dai banchi dell’opposizione, ma da quelli della maggioranza.

E’ accaduto durante la discussione per la ratifica di un trattato internazionale. Il deputato Franco Narducci del Pd stava svolgendo il suo intervento quando è partita una bordata di fischi dai banchi del centrodestra. A quel punto il parlamentare pd Roberto Giachetti si è alzato, chiedendo l’intervento della presidenza di turno per consentire l’intervento del collega di gruppo. Poco dopo, però, qualcuno si è avvicinato a Giachetti a spiegargli cosa era veramente successo: “Chiedo scusa a tutta l’Aula – ha detto allora Giachetti riprendendo la parola – : pensavo che i fischi fossero rivolti al nostro oratore, invece erano per il sottosegretario Santanchè…”.

La nomina della Santanchè (*) aveva fatto storcere il naso a molti nel Pdl a causa della sua carriera politica che l’ha portata, in tempi non lontani, a schierarsi contro il centrodestra “ufficiale”. Nata a Cuneo il 7 aprile del 1961, laureata in scienze politiche, Daniela Santanché ha fatto l’imprenditrice prima di sbarcare in politica nel 1995 come consigliere provinciale di An a Milano. Con An è stata eletta al Parlamento e nel partito è rimasta fino al 2008 quando ne è uscita, schierandosi con La Destra di Francesco Storace. L’alleanza è finita dopo il fallimento dell’esperienza elettorale del 2008 e Santanchè ha promosso il Movimento per l’Italia, formazione politica che guardava al Pdl. Il 24 febbraio scorso, Santanché ha formalizzato la sua adesione al Pdl e una settimana dopo, il primo marzo, Silvio Berlusconi l’ha nominata sottosegretario al Programma di governo (ministro Rotondi).

La più critica sulla nomina di Daniela Santanchè è sempre stata Alessandra Mussolini: “Oggi leggo su tutti i giornali che si dà il via libera a una ‘super patata ogm’, geneticamente modificata – ha detto la deputata pdl durante un recente intervento alla Camera – . A chi ci riferiamo? A un sottosegretario che ha fatto un programma di Governo contro il presidente Berlusconi…”. (Beh, buona giornata).

(*) La signora Santanché è il presidente di una società pubblicitaria che si occupa, tra l’altro, della raccolta di inserzioni per il quotidiano Il giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi (ndr-beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Dove affondano le radici del decreto- salva liste.

Un quarto degli italiani non sa niente di politica. Istat: uomini più attenti delle donne-blitzquotidiano.it

Un quarto della popolazione italiana non si informa mai di politica: il 23,3% degli italiani con più di 14 anni non è interessato alla vita politica del Paese: si tratta, in valori assoluti, di quasi 4 milioni di uomini e di 7 milioni 847 mila donne.

Il dato allarmante è stato diffuso stamane dall’Istat nel rapporto “La partecipazione politica: differenze di genere e territoriali”. L’Istituto di statistica certifica anche che il 60,7% del campione considerato si informa almeno una volta a settimana e il 35,9% ogni giorno. Parla di politica almeno una volta a settimana il 39,4%, ne parla solo occasionalmente il 26,2%, mentre non ne parla mai il 31,9%.

L’ascolto di dibattiti politici è meno diffuso e coinvolge il 23,6% della popolazione: solo 12 milioni di persone dichiarano, infatti, di aver ascoltato dibattiti politici almeno una volta nell’anno.

Le donne sono meno interessate alla politica rispetto agli uomini: solo il 53,6% delle donne si informa settimanalmente contro il 68,5% degli uomini. Inoltre le donne parlano di politica almeno una volta a settimana solo nel 31,3% dei casi contro il 48,1% degli uomini. Ben il 40,1% delle donne non parla di politica e il 29,3% non si informa mai.

Le fasce di età meno interessate alla politica sono giovani e anziani: parla di politica almeno una volta a settimana il 24,5% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni e il 25,2% delle persone con più di 75 anni, mentre a non parlarne mai sono, rispettivamente, il 46,8% e il 54,2%. (Beh, buona giornata).

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democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

In Italia i poveri non hanno avvocati che possono evocare il leggittimo impedimento, chiedere il processo breve, farsi approvare leggi ad personam, andare in tv ad accusare le toghe rosse. I poveri non possono evitare i processi, vanno in carcere. A volte ci crepano, ma non fanno scandalo come per i ricchi: solo quattro righe in cronaca. Alla faccia del principio costituzionale di uguaglianza di fronte alla Legge.

Detenuto morto, assolti 12 medici-corriere.it
Francesco Marrone era entrato in coma per tumore al cervello. I familiari: ritardo nel ricovero al Pertini
ROMA – Sono stati assolti con la formula «perchè il fatto non sussiste» i dodici medici del carcere romano di Rebibbia, tra cui l’allora direttore sanitario Sergio Fazioli, sotto processo per rispondere della morte di Francesco Marrone, detenuto di Petrosino (Trapani), trovato senza vita nel 2004 nel penitenziario capitolino. La sentenza è stata emessa dal giudice monocratico, Gennaro Romano; il pm aveva chiesto condanne comprese tra i nove mesi e i quattro mesi di reclusione per solo sei degli accusati. Omicidio colposo, l’accusa per la quale è stato celebrato il processo.

RICOVERATO AL PERTINI – Francesco Marrone, dopo un periodo di detenzione nel carcere dell’Ucciardone di Palermo, per una condanna a 4 anni e 9 mesi per l’omicidio dei genitori dell’ex compagna, era stato trasferito a Rebibbia. Lo stato di salute del carcerato aveva indotto poi i responsabili dell’istituto di pena a disporne il ricovero all’ospedale Pertini di Roma. Per i familiari dell’uomo, però, la decisione era stata intempestiva; da qui, la denuncia e il successivo processo ai dodici medici, oggi assolti. «Stava male da tempo – raccontò all’epoca il fratello della vittima, ex agente di polizia penitenziaria – eppure le autorità carcerarie ne hanno disposto il trasferimento in ospedale solo dopo che è entrato in coma per un tumore al cervello». Giudizio condiviso dalla procura capitolina che aveva contestato ai medici «di non avere prestato le necessarie cure ed avere certificato che il paziente simulava uno stato di incoscienza» (Fonte Ansa). (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Leggi e diritto

Sentenza Mills: “La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l’efficienza, la mitologia dell’homo faber, l’intero corpo mistico dell’ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell’illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.”

La prova delle menzogne di GIUSEPPE D’AVANZO-repubblica.it
DAVID MILLS è stato corrotto. È quel che conta anche se la manipolazione delle norme sulla prescrizione, che Berlusconi si è affatturato a partita in corso, lo salva dalla condanna e lo obbliga soltanto a risarcire il danno per il pregiudizio arrecato all’immagine dello Stato. Questa è la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Per comprenderla bisogna sapere che la corruzione è un reato “a concorso necessario”: se Mills è corrotto, il presidente del Consiglio è il corruttore.

Per apprezzare la decisione, si deve ricordare che cosa ha detto, nel corso del tempo, Silvio Berlusconi di David Mills e di All Iberian, l’arcipelago di società off-shore creato dall’avvocato inglese. “Ho dichiarato pubblicamente, nella mia qualità di leader politico responsabile quindi di fronte agli elettori, che di questa All Iberian non conosco neppure l’esistenza. Sfido chiunque a dimostrare il contrario” (Ansa, 23 novembre 1999). “Non conosco David Mills, lo giuro sui miei cinque figli. Se fosse vero, mi ritirerei dalla vita politica, lascerei l’Italia” (Ansa, 20 giugno 2008). Bisogna cominciare dalle parole – e dagli impegni pubblici – del capo del governo per intendere il significato della sentenza della Cassazione.

Perché l’interesse pubblico della decisione non è soltanto nella forma giuridica che qualifica gli atti, ma nei fatti che convalida; nella responsabilità che svela; nell’obbligo che oggi incombe sul presidente del Consiglio, se fosse un uomo che tiene fede alle sue promesse.

Dunque, Berlusconi ha conosciuto Mills e, come il processo ha dimostrato e la Cassazione ha confermato (il fatto sussiste e il reato c’è stato), All Iberian è stata sempre nella sua disponibilità. Sono i due punti fermi e fattuali della sentenza (altro è l’aspetto formale, come si è detto).

Da oggi, quindi, il capitolo più importante della storia del presidente del consiglio lo si può raccontare così. Con il coinvolgimento “diretto e personale” del Cavaliere, David Mills dà vita alle “64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest”. Le gestisce per conto e nell’interesse di Berlusconi e, in due occasioni (processi a Craxi e alle “fiamme gialle” corrotte), Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere da quella galassia di cui l’avvocato inglese si attribuisce la paternità ricevendone in cambio “somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali” che lo ricompensano della testimonianza truccata.

Questa conclusione rivela fatti decisivi: chi è Berlusconi; quali sono i suoi metodi; che cosa è stato nascosto dalla testimonianza alterata dell’avvocato inglese. Si comprende definitivamente come è nato, e con quali pratiche, l’impero del Biscione; con quali menzogne Berlusconi ha avvelenato il Paese.

Torniamo agli eventi che oggi la Cassazione autentica. Le società offshore che per brevità chiamiamo All Iberian sono state uno strumento voluto e adoperato dal Cavaliere, il canale oscuro del suo successo e della sua avventura imprenditoriale. Anche qui bisogna rianimare qualche ricordo.

Lungo i sentieri del “group B very discreet della Fininvest” transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che ricompensano Bettino Craxi per l’approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi mentre, in parlamento, è in discussione la legge Mammì. In quelle società è occultata la proprietà abusiva di Tele+ (viola le norme antitrust italiane, per nasconderla furono corrotte le “fiamme gialle”); il controllo illegale dell’86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l’acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche.

Da quelle società si muovono le risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma (assicurano al Cavaliere il controllo della Mondadori); gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favoriscono le scalate a Standa e Rinascente. Dunque, l’atto conclusivo del processo Mills documenta che, al fondo della fortuna del premier, ci sono evasione fiscale e bilanci taroccati, c’è la corruzione della politica, delle burocrazie della sicurezza, di giudici e testimoni; la manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio in Italia e in Europa.

La sentenza conferma non solo che Berlusconi è stato il corruttore di Mills, ma che la sua imprenditorialità, l’efficienza, la mitologia dell’homo faber, l’intero corpo mistico dell’ideologia berlusconiana ha il suo fondamento nel malaffare, nell’illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.

E’ la connessione con il peggiore passato della nostra storia recente che, durante gli interminabili dibattimenti del processo Mills, il capo del governo deve recidere. La radice del suo magnificato talento non può allungarsi in quel fondo fangoso perché, nell’ideologia del premier, è il suo trionfo personale che gli assegna il diritto di governare il Paese. Le sue ricchezze sono la garanzia del patto con gli elettori e dell’infallibilità della sua politica; il canone ineliminabile della “società dell’incanto” che lo beatifica.

Per scavare un solco tra sé e il suo passato e farsi alfiere credibile e antipolitico del nuovo, deve allontanare da sé l’ombra di quell’avvocato inglese, il peso di All Iberian. È la scommessa che Berlusconi decide di giocare in pubblico. Così intreccia in un unico nodo il suo futuro di leader politico, responsabile di fronte agli elettori, e il suo passato di imprenditore di successo.

Se quel passato risulta opaco perché legato a All Iberian, di cui non conosce l’esistenza, o di David Mills, che non ha mai incontrato, egli è disposto a lasciare la politica e addirittura il Paese. Oggi dovrebbe farlo davvero perché la decisione della Cassazione conferma che ha corrotto Mills (lo conosceva) per nascondere il dominio diretto su quella macchina d’illegalità e abusi che è stata All Iberian (la governava).

Il capo del governo non lo farà, naturalmente, aggrappandosi come un naufrago al legno della prescrizione che egli stesso si è approvato. Non lascerà l’Italia, ma l’affliggerà con nuove leggi ad personam (processo breve, legittimo impedimento), utili forse a metterlo al sicuro da una sentenza, ma non dal giudizio degli italiani che da oggi potranno giudicarlo corruttore, bugiardo, spergiuro anche quando fa voto della “testa dei suoi figli”.

© Riproduzione riservata (26 febbraio 2010). Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Leggi e diritto Media e tecnologia

Italia Spa.

L’ideologia del fare di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

È l’era del “fare”. I fatti contrapposti alle parole. Quelli che “fanno” opposti a quelli che “dicono”. E perdono tempo a discutere, controllare, verificare. È un argomento caro al premier. Ripreso, in questi giorni, con particolare insistenza per replicare alle polemiche.

Polemiche sollevate dalle inchieste della magistratura sull’opera della Protezione civile, in Abruzzo dopo il terremoto e alla Maddalena, in vista del G8 (in seguito spostato a L’Aquila). E, ancor più, contro le critiche al progetto di trasformare la Protezione civile in Spa per meglio affrontare ogni emergenza. Allargando il campo dell’emergenza fino a comprendere ogni evento speciale e straordinario. Per visibilità e risorse investite. Oltre alle celebrazioni del 150enario dell’Unità d’Italia: i giochi del Mediterraneo e i Mondiali di nuoto; l’Anno giubilare paolino, l’esposizione delle spoglie di San Giuseppe da Cupertino, e i viaggi del Papa in provincia (perché non quelli del presidente della Repubblica e del premier?). Insomma, tutto quanto fa spettacolo e richiede grandi quantità di mezzi. Affidato alla logica della “corsia preferenziale”, superando i vincoli imposti dalle regole, dalle procedure. Dagli organismi di controllo istituzionali. Per sottrarsi ai tempi e alle fatiche della democrazia.

Che spesso delude i cittadini. E impedisce al governo di produrre risultati da esibire, come misura dell’efficacia della propria azione.

La mitologia del “fare” è alla radice del successo politico di Silvio Berlusconi. Il sogno italiano. L’imprenditore che si è “fatto” da sé. Dal nulla ha costruito un impero. In diversi settori. Da quello immobiliare a quello editoriale. A quello mediatico. Anche nello sport, ovviamente. Ha sempre vinto. Dovunque. E ha imparato che, se vuoi “fare”, le regole, le leggi e, peggio ancora, i controlli a volte sono un impedimento. I giudici e i magistrati, per questo, possono rappresentare un ostacolo. Perché non sono interessati ai risultati, ma alle procedure. Alla legittimità e non alla produttività. Anche se nell’era di Tangentopoli i giudici erano celebrati da tutti (o quasi). Tuttavia, allora apparivano non i garanti della giustizia, ma i “giustizieri” di una democrazia malata. Bloccata e soprattutto improduttiva. Ostile ai cittadini e agli imprenditori.

Sul mito del “fare” si basa l’affermazione del politico-imprenditore alla guida di un partito-impresa, che gestisce la politica come marketing e promette di governare il paese come un’azienda. Anzi: di guidare l’azienda-paese. In aperta polemica con il professionista politico e il partito di apparato.

Si delinea, così, un modello neo-presidenziale di fatto. Realizzato su basi pragmatiche ed economiche. Quindi, molto più libero da regole e controlli rispetto ai sistemi presidenziali e semi-presidenziali effettivamente vigenti nelle democrazie occidentali.

L’evoluzione della Protezione civile è coerente con questo modello. Ne è il prodotto di bandiera, ma anche il modello esemplare. In fondo, Bertolaso anticipa e mostra quel che Berlusconi vorrebbe diventare (e costruire). È il suo Avatar. Affronta emergenze “visibili” e produce per questo risultati “visibili”. In tempi rapidi. Puntualmente riprodotti dai media. Napoli. Sepolta dall’immondizia. L’Aquila devastata. Poi, arriva Bertolaso. L’immondizia scompare. Le prime case vengono consegnate a tempo di record. Sotto i riflettori dei media. Che narrano il dolore, l’emozione. E i successi conseguiti dal premier-imprenditore attraverso il suo Avatar. Aggirando vincoli e procedure. Perché nelle calamità, come in guerra, vige lo Stato di emergenza, che non rispetta i tempi della democrazia e della politica. Da ciò la tentazione di estendere i confini dell’emergenza fino a comprendere i “grandi eventi”. Cioè: tutto quel che mobilita grandi investimenti, grandi emozioni e grande attenzione.

La Protezione civile diventa, così, modello e laboratorio per governare l’Italia come un’azienda. Dove il presidente-imprenditore può agire e decidere “in deroga” alle regole e alle norme. Perché lo richiede questo Stato (di emergenza diffusa e perenne). Dove il consenso popolare è misurato dai sondaggi. Dove, per (di) mostrare i “fatti”, invece che al Parlamento ci si rivolge direttamente ai cittadini. O meglio, al “pubblico”. Attraverso la tivù. Dove anche la corruzione diventa sopportabile. Meno “scandalosa”, quando urge “fare” – e in fretta.

Di fronte a questa prospettiva – o forse: deriva – ci limitiamo a due osservazioni
La prima: la democrazia rappresentativa non si può separare dalle regole. Perché la democrazia, ha sottolineato Bobbio, è un “metodo per prendere decisioni collettive”. Dove le procedure e le regole sono importanti quanto i risultati. Perché garantiscono dagli eccessi, dalle distorsioni, dalle degenerazioni. Come rammenta Montesquieu (nel 1748): “ogni uomo di potere è indotto ad abusarne. Per cui bisogna limitarne la virtù”. Bilanciandone il potere con altri poteri. Perché, aggiunge un altro padre del pensiero liberale, Benjamin Constant (nel 1829): “ogni buona costituzione è un atto di sfiducia”. Nella natura umana e del potere.

La seconda osservazione riguarda il fondamento del “fare”, cui si appella il premier. In effetti, coincide con il “dire”. Meglio ancora: con l’apparire. Perché i “fatti” – a cui si appella Berlusconi – esistono in quanto “immagini”. Proposte oppure nascoste dai media. Secondo necessità. Come i “dati” dell’economia e del lavoro. Come i disoccupati o i cassintegrati e i morti sul lavoro. Che appaiono e – preferibilmente – scompaiono sui media. A tele-comando. Perché il pessimismo e la sfiducia minano la fiducia dei consumatori e dei cittadini. Meglio: del cittadino-consumatore. O viceversa.

È la retorica del “fare”. Narrazione e al tempo stesso ideologia di successo. Per costruire e proteggere l’Italia spa.

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Attualità

E levete a camisella, a camisella gnornò, gnornò.

L’esponente del Pdl Nicola Cosentino ha ritirato le dimissioni da sottosegratario all’Economia e da coordinatore regionale del Pdl in Campania dopo che le stesse sono state respinte dal premier Silvio Berlusconi nel corso di un colloquio avuto nel pomeriggio. Lo affermano ambienti vicini al sottosegretario Cosentino, che ha ritirato anche le dimissioni da coordinatore. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Leggi e diritto Pubblicità e mass media

Il governo Berlusconi vara una legge contro la corruzione? Ci avevate creduto, eh!?

Gira a vuoto la vite anti corruzione, la nuova legge dura lo spazio di un mattino, di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Berlusconi annuncia, i giornali registrano: pene più severe per corrotti e corruttori Poi il Consiglio dei ministri riflette, esamina, studia una “bozza” E l’operazione “Liste Pulite” prevede eccezioni, deciderà una commissione interna del Pdl caso per caso e le dimissioni, politiche e non giudiziarie, di Cosentino sono respinte dal premier

Al mattino, alle prime ore del mattino di venerdì 19 febbraio, anno 2010, diciotto anni dopo il “febbraio che inaugurò Tangentopoli”, i giornali, tutti i giornali, raccontano di una grande e significativa “svolta”. La Stampa titola: “Giro di vite sulla corruzione” e specifica: “Pene più dure e fuori dalle liste elettorali chi ha commesso reati”. A decidere e comunicare la “svolta” è stato nel pomeriggio del giovedì precedente il presidente del Consiglio.

Infatti la Stampa accompagna e sostiene l’importante notizia con un commento dal titolo: “Il Cavaliere formato Di Pietro”. L’autore, Michele Brambilla, coglie e sottolinea: “Mai ci saremmo aspettati di vederlo vestito con i panni del giustizialista… il protocollo che intende introdurre nel Pdl somiglia molto a quello screening che è uno dei pilastri portanti dell’Idv: un esame preventivo della moralità giudiziaria dei candidati… ce ne ha dato notizia Libero con due articoli i cui titoli parlano da soli: Esame di onestà per i candidati del Pdl e Il coraggio di far fuori le mele marce…”. Brambilla registra, segnala e spiega: “Berlusconi è uomo di sondaggi, qualcosa deve aver fiutato, sa che alle inchieste non si può sempre rispondere parlando di toghe rosse. Qualche volta forse sì, ma non sempre”.

Esagerati è un po’ ridondanti la lettura e il racconto della realtà da parte de La Stampa? Nelle stesse ore di primo mattino il prudente e compassato quotidiano della Confindustria, il Sole 240re titola: “Berlusconi: ai corrotti pene più alte“. E resoconta: “Il Consiglio dei ministri approverà oggi un disegno di legge sull’inasprimento delle pene, lo ha deciso il premier”. Repubblica annuncia la stessa cosa, con un pizzico di malizia titola: “Berlusconi scopre la corruzione“. Il Fatto Quotidiano la notizia della nuova, imminente legge per dare più galera ai corrotti e corruttori in prima pagina non la dà. A dimostrazione di quanto sia una “notizia” buona per Berlusconi e scomoda per i suoi avversari. Insomma Berlusconi che esclude dalle liste elettorali del Pdl gli indagati e il varo pronto-sforno di una legge con pene più dure per i reati tipici dei “colletti bianchi” è uomo che morde cane. Stampa, Sole 24ore e Corriere della Sera (titolo in prima: “Il premier annuncia misure anti corruzione”) stupiscono e quasi trasalgono, Repubblica incassa e comunica a denti stretti, il Fatto, il giornale più giustizialista che c’è, stranamente ma non tanto si distrae ed omette. Questa la situazione, questa la realtà, fedelmente riportata, sia pure con vari umori, di primo mattino, alle prime ore del mattino.

Ma dura, appunto, lo spazio di un mattino. A mezzogiorno il governo riunito comunica: “Avviato l’esame… fatta una sorta di ricognizione di esame preventivo… il testo è solo una bozza“. Questo è quel che è rimasto della legge-fulmine contro la corruzione. Il ministro Brunetta va in conferenza stampa e chiarisce: “Dobbiamo marginalizzare i fenomeni corruttivi, farli diventare fisiologici”. Chiaro, no? Per gli incontentabili pignoli che aspettavano la legge annunciata Brunetta ha la risposta: “Mettere le procedure on line”. Panico tra i corrotti e i corruttori.

Casini commenta: “Come il piano casa, non si è vista una casa…”. Ma Casini è dell’opposizione, ci si può fidare del suo scetticismo? Certo, la legge e le pene più dure sono rimandate a “più attento esame”. Il governo l’aveva annunciata come legge già fatta, sarà stato frettoloso. Resta comunque l’operazione “Liste Pulite” proclamata dal Pdl. Si legge poi tra le righe che l’esclusione dalle liste di chi è in odor di corruzione sarà “decisa caso per caso” e demandata ad “apposita commissione interna”. Insomma “tolleranza zero” però andiamoci piano, riparliamone anche qui, caso per caso. E Nicola Cosentino che si è dimesso da tutto non è forse la prova, la prima e forte prova della “nuova pulizia”? A voler leggere si apprende che Cosentino ha sbattuto la porta del Pdl e del governo per dissenso politico sulla gestione delle presenti alleanze e futuro potere in Campania. L’insostenibilità morale o giudiziaria dei suoi incarichi nulla c’entra con le sue dimissioni, ci mancherebbe altro. Ad ogni buon conto dimissioni che Berlusconi ha respinto.

Si è fatto pomeriggio dello stesso venerdì di febbraio: la legge più severa con i corrotti e corruttori non c’è, l’operazione “Liste Pulite” prevederà, se del caso, eccezioni, le dimissioni di Cosentino sono tanto “irrevocabili” quanto non operative. Tranquilli dunque, la notizia vera era: cane morde uomo. Berlusconi non adotta il “metodo Di Pietro”. Era probabilmente vero che è preoccupato da qualche sondaggio. Ed ha reagito con il “metodo Berlusconi”. Un grande e deciso annuncio, l’annuncio di una legge a tambur battente come si conviene al “governo del fare”. Poi, tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. (Beh, buona giornata).

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Ecco come la Destra in Italia ha avvelenato i cuori e inquinato le coscienze dei giovani. Pessimo il futuro che ci attende.

(da repubblica.it)
Quasi la metà dei giovani italiani è razzista, diffidente nei confronti degli stranieri mentre solo il 40 per cento si dichiara “aperto” alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro Paese. E’ lo sconfortante ritratto offerto dall’indagine “Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti” da cui emerge che il razzismo è un fenomeno tutt’altro che sradicato tra i ragazzi. Presentato oggi alla Camera, alla presenza del presidente, Gianfranco Fini, lo studio è promosso dalla Conferenza delle assemblee delle Regioni nell’ambito delle iniziative dell’Osservatorio della Camera sui fenomeni di xenofobia e razzismo, ed è stato realizzato da Swg su duemila giovani.

Chiusure e fobie. L’area tendenzialmente fobica e xenofoba è del 45,8 per cento, con diverse sfumature al suo interno. Lo studio indica tre agglomerati. Il primo è quello dei Romeno-rom-albanese fobici, pari al 15,3 per cento del totale degli interpellati, e manifesta la propria intolleranza soprattutto verso questi popoli. E’ l’unico gruppo la cui maggioranza (56 per cento) è costituita da donne. Il secondo riunisce soggetti con comportamenti improntati al razzismo. E’ il più esiguo, perché rappresenta il 10,7 per cento dei giovani, ma il più estremo, perché in sostanza rifiuta e manifesta fastidio per tutti, tranne europei e italiani. Ci sono poi gli xenofobi per elezione (20 per cento): non esprime forme di odio violente, quel che conta è che le altre etnie se ne stiano lontane, possibilmente fuori dall’Italia.

Aperture e tolleranze. La fetta di quanti hanno invece un atteggiamento aperto è del 39,6 per cento. All’interno si riconoscono gli
inclusivi (19,4 per cento) con un’apertura totale e serena (55,3 per cento); i tolleranti (14,7 per cento), un po’ più freddi rispetto ai precedenti e gli aperturisti tiepidi (5,5 per cento), ossia giovani decisamente antirazzisti, ma con forme più caute e trattenute, minore interazione con le altre etnie e un riconoscimento più ridotto dell’amore omosessuale. Al centro lo studio posiziona i mixofobici (14,5 per cento), giovani che non sono del tutto proiettati verso la chiusura, ma neppure verso il suo opposto e che vivono un sentimento di fastidio verso ciò che li allontana dalla loro identità.

Rom, sinti e romeni i meno graditi. I giovani italiani tra i 18 e i 29 anni giudicano ‘simpatici’ gli europei in genere con un voto pari a 8,2 su una scala da 1 a 10, gli italiani del Sud (7,8) e gli americani (7,7), mentre ritengono antipatici e da tenere a distanza soprattutto Rom e Sinti (4,1), romeni (5,0) e albanesi (5,2). Attraverso un’indagine è stato chiesto ai giovani di rispondere come si sarebbero comportati in determinate situazioni. Ecco le risposte.

Scegliere con chi andare a cena. I giovani hanno messo in testa le persone disagiate economicamente, giudicano “accettabile” una cena con un ebreo, un omosessuale o con un extra-comunitario. Accettato, ma con freddezza un musulmano. Impensabile pasteggiare con un tossicodipendente o un rom.

Il vicino di casa. Verrebbero accettati tranquillamente omosessuali, ebrei e poveri. No invece a zingari e a chi utilizza sostanze stupefacenti e zingari.

Se un figlio si fidanza. I giovani italiani riterrebbero accettabile avere un figlio che ha un partner o una partner di religione ebraica, ma anche qualcuno con evidenti disagi economici. Meglio comunque se a ritrovarsi in questa situazione è il maschio: per la figlia femmina, infatti, c’è qualche resistenza in più. Scarso entusiasmo se la coppia si formasse con un o una extra-comunitaria o con una persona musulmana. Assai più difficile convivere con l’omosessualità di un figlio. Ma l’incubo peggiore è la possibilità che uno dei propri figli faccia coppia con un tossicodipendente o un rom, situazione considerata inaccettabile.

Identikit del giovane razzista. Il profilo più estremo del razzismo tra i giovani, così come emerge dall’indagine presentata alla Camera, descrive una persona che ostenta superiorità e persistente bisogno di potenza. Ha atteggiamenti apertamente omofobici, spinte antisemitiche, convinzione dell’inferiorità delle donne. E non accetta nessuna razza o etnia diversa dalla propria. Un profilo che riguarda il 10,7 per cento dei giovani, ma estremamente preoccupante. L’indagine definisce questa tipologia come quella dei soggetti “improntati al razzismo”.

Un clan che si espande online. Questo clan, rileva la ricerca, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Si tratta di un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, e il proprio megafono. Questo clan ha, anche se per ora non in modo uniforme e unificato, una propria strategia di “espansione”, per creare nuovi fan, per sviluppare e far crescere i propri adepti, di ingrossare le proprie fila.

Su Facebook oltre mille gruppi xenofobi. Dalla ricerca emerge inoltre che sono oltre un migliaio i gruppi razzisti e xenofobi che si trovano su Facebook. “Nel nostro studio sul razzismo e i giovani – ha spiegato il direttore di Swg, Enzo Risso, – abbiamo condotto un’indagine su Facebook, una sorta di censimento sui gruppi xenofobi, effettuato tra ottobre e novembre. Ne abbiamo contato un centinaio anti musulmani, 350 anti immigrati alcuni con punte di 7 mila iscritti, 400 anti terroni e napoletani e 300 anti zingari, anche qui con fino a 7mila iscritti”. Risso ha spiegato che questa parte dell’indagine “non può essere considerata un censimento vero e proprio perché quella di internet è una realtà che varia continuamente, ma ha un valore indicativo”. (Beh, buona giornata).

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