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I satrapi del neo-liberismo promettono lacrime, sangue e bugie.

Dopo l’eurobailout,di Pino Cabras-megachipdue.info

Chissà perché le borse hanno gioito così tanto, dopo l’annuncio dei 750 miliardi di euro approvati nel pieno dell’emergenza della speculazione.
Chissà perché i titoli delle banche si apprezzavano più degli altri.
Sarà perché le banche avevano ormai qualcuno che si impegnava a comprare i loro crediti inesigibili.

La Banca Centrale Europea è ora disposta a creare moneta dal nulla con regole nuove pur di salvarli, banche e banchetti.
Il crescendo di allarmi sui debiti sovrani ha una base autentica, di certo. Quei debiti abnormi ci sono, perché gli Stati si sono sovraccaricati di compiti spesso contraddittori, insostenibili, gravati da corruzioni e clientele portate a consumare oggi le risorse di domani.

Meno autentico è il momento in cui l’allarme viene esasperato. Sono stati gli speculatori a scegliere i tempi e i modi: le iene assaltavano gli gnu più isolati e più piccoli, rendendo un servizio alle bestie più grandi e malate, ma ancora capaci di nascondere il loro stato. Dosando gli allarmi dove volevano i predatori, i tassi di interesse per i titoli di stato greci dovevano salire vertiginosamente e il loro rating precipitare appena sopra il valore della carta straccia: così era facile comprarli a man bassa, con la convenienza nel medio termine di lucrare interessi doppi o tripli rispetto a pochi mesi fa. Stesso meccanismo contro Portogallo e Spagna: profezie che minacciavano di autoadempiersi, nel fragile gioco della finanza sempre basata sulle aspettative.

A coprire gli azzardi dei corsari globali è stata ora definitivamente trascinata la costruzione europea nel suo insieme.
In teoria la finanza dovrebbe lubrificare l’economia sottostante, avrebbe lì la sua giustificazione residua. Invece l’«economia della truffa» in cui siamo sempre più avvitati ha cambiato da molto tempo ragione sociale. La finanza è totalmente diseconomica, succhia risorse dall’economia reale, tosa oltre l’intollerabile i contribuenti, è una bomba a tempo contro qualsiasi infrastruttura della vita civile di interi popoli. La solita cerchia che comprende Goldman Sachs e altre volpi a guardia del pollaio beneficia di questo ulteriore salto del debito e consolida la sua dittatura sulle linfe finanziarie del mondo.

Gli Stati sono stati spinti negli ultimi due anni verso i limiti estremi della loro capacità d’indebitarsi e di sciupare i bilanci. Negli esempi più vistosi, come il debito USA o quello britannico (proprio a casa di chi ci insulta come PIGS) è evidente che i debiti sono oltre la soglia della possibilità di ripagarli. Si possono inventare avvitamenti della spirale sempre più sofisticati, si può fare ad esempio questo “upgrade” europeo, con la BCE che compra l’inacquistabile, ma qualcuno pagherà. Data la dimensione del debito che va a rivelarsi, si pagherà per decenni.

Intanto che i sistemi politici e i mondi sindacali – poiché non hanno un pensiero alternativo all’altezza – evocheranno a lungo come un mantra il miraggio della crescita, dovranno invece da subito fare i conti con il suo contrario, la decrescita.
La decrescita è già in campo. Per ora è congelata, quel tanto che dà respiro ancora ai predatori finanziari, pronti però ad approfittare fra breve della nuova corsa ai differenziali d’interesse fra economie irrimediabilmente ingolfate ed economie appena più in salute.

Le lacrime e sangue imposte dai banchieri degraderanno la base contributiva e perciò le finanze pubbliche, sempre meno in grado di fronteggiare l’aumento della disoccupazione e della integrazione dei redditi di chi è costretto a sospendere il lavoro.

I 750 miliardi del “bailout” all’euro sono una cifra enorme, decisa in un weekend. Dovrebbe valere la pena stanziarli per un obiettivo in grado di coincidere con interessi profondi dei popoli coinvolti. A ben pensarci, però, questa cifra servirà solo a tenere in piedi un sistema che avrebbe senso se facesse il suo mestiere, cioè dare credito a chi fa impresa, ma che invece ne fa un altro: scremare risorse in favore di un gruppo di criminali legalizzati. Loro, i protagonisti principali della crisi delle finanze private, hanno passato il testimone alle finanze pubbliche. Il sistema bancario ombra non si taglia nulla. Gli Stati taglieranno stipendi e scuole, come già fanno, e molto molto altro.

Ogni tanto un Obama, una Merkel o un Sarkozy promettono sfracelli contro i padroni di Wall Street. Ma dopo un po’ si sbracano e offrono altra liquidità, a botte di centinaia di miliardi. Verranno ripagati con totale ingratitudine da Soros a dagli altri filantropi del suo stampo. Perché questi prima si fanno salvare, poi – autodefinendosi come «i Mercati» – pretenderanno che gli Stati si dimostrino meno cicale e più formiche, con i soliti tagli e le solite ricette da massacro sociale che funzioneranno come le patologie iatrogene, malattie di cui credono di essere la cura. L’erario si assottiglierà fino a fornire il pretesto per rinnovati allarmi-insolvenza.

A quel punto, la cura proposta per il disastro provocato dalle banche e dalle tecnocrazie finanziarie sarà: più banche e più tecnocrazie.

Loro infatti non si espongono e non appariranno. La faccia esposta alla rabbia dei defraudati sarà quella dei Papandreu di turno, dei politici sempre meno votati e meno legittimati (già dilaga l’astensionismo alle urne), mentre le facce di bronzo, le lingue di legno e i culi di pietra dei Goldman Draghi irradieranno il rassicurante tepore della tecnofinanza.

Quei 750 miliardi decisi nel weekend dal Consiglio Economia e Finanza dell’Unione Europea non servono dunque agli interessi profondi dei popoli coinvolti. Per poter servire avrebbero dovuto essere accompagnati da misure drastiche di altro tenore: abolire i derivati, punire con mandati di cattura internazionali chi pratica le tecniche ribassiste, chi usa gli algoritmi per le speculazioni da realizzare in frazioni di secondo e tutto il casinò delle sofisticherie tecnofinanziarie che usurpano la parola «mercati». L’Europa doveva semplicemente ricollocare tutto ciò sotto la fattispecie «truffa».

Non sarebbe stato uno scandalo nazionalizzare le banche. E anziché promettere in caso di necessità l’acquisto dei bond dalle banche, gli Stati avrebbero dovuto dotarsi della possibilità di acquistarli direttamente. Il boss della Goldman Sachs, il signor Lloyd Blankfein, avrebbe così abbassato la cresta, specie se gli fosse arrivato anche un simpatico avviso che gli spiegasse di non mettere piede in Europa per i prossimi 50 anni.

La globalizzazione avrebbe avuto una svolta equilibratrice. Così però non è stato.

Il re neoliberista è nudo. E dobbiamo urlarlo con forza. Le sue ricette non hanno legittimità, né possono più proclamarci che “There Is No Alternative”. La TINA è finita. Prima la politica lo capirà, meglio sarà. I partiti che in questi anni hanno solo provato a temperare con retorica compassionevole l’agenda neoliberista non l’hanno ancora capito. Ma in giro si muovono altri spettri, che parlano di un’altra politica e un’altra economia. (Beh, buona giornata).

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Come fa chi ha provocato la crisi a farci uscire dalla crisi? Semplice: ci tolgono i soldi dalle tasche, ci tolgono il futuro del futuro dei figli. E’ il neo-liberismo, bellezza!

E’ cominciata: tutta l’Europa per sopravvivere “mette le mani nelle tasche” dei suoi cittadini-blitzquotidiano.it

Piaccia o no ai governi dei singoli Stati, l’Europa per sopravvivere e non fare bancarotta “metterà le mani nelle tasche” di greci, spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi, inglesi, italiani…I governi di tutta Europa se lo sono reciprocamente promesso, non avevano alternative. Si sono però “dimenticati” di dirlo con chiarezza ai rispettivi governati. Per questa “omissione” hanno una sola robusta ma insufficiente attenuante: i cittadini di ogni paese fanno fatica a capire prima ancora che a digerire. E quindi, poichè non c’è “miglior sordo di chi non vuol sentire”, i governi mormorano, borbottano ma non parlano chiaro. Ogni giorni i cittadini d’Europa leggono o sentono in tv: 700 e passa miliardi stanziati come scudo per la crisi finanziaria. Oppure: la Bce compra i titoli di Stato dei paesi in forte deficit. I cittadini leggono, sentono e archiviano il letto e il sentito nel “cestino” di ciò che non li riguarda direttamente, di ciò che non tocca le loro tasche. I cittadini pensano, ostinatamente vogliono pensare che quei miliardi e quei soldi siano soldi di “altri”, soldi degli Stati e delle Banche Centrali. Così non è, presto i cittadini d’Europa vedranno che sono soldi “loro” perchè i soldi degli “altri” non esistono se non nella fantasia.

E’ fresca d’inchiostro la nuova ipotesi di “Patto economico” elaborata dalla Commissione Europea che i governi nazionali dovranno sottoscrivere la prossima settimana. C’è scritto che bisogna “prevenire” i casi di eccessivo defcit e debito pubblici. Che tutti i paesi devono sottostare ad esame e verifiche semestrali di quanto spendono, che chi sfora incassa “sanzioni automatiche”, che le sanzioni sono di fatto multe in denaro che finiscono in “depositi fruttiferi” che i songoli governi non amministrano più. C’è scritto insomma che la politica economica e finanziaria dei singoli paesi deve essere “coerente” con quella di tutti gli altri Stati. C’è scritto che italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, greci e tutti gli altri devono reciprocamente rendersi conto di come spendono i loro euro. Diminuzione di sovranità per ogni paese? Certamente sì. Ma, se non piace, Barroso, presidente della Commissione Europea, parla chiaro: “Se i governo non vogliono l’unione economica, tanto vale dimenticarsi dell’unione monetaria e rinunciarvi”. Se non piace, addio euro, ciascun per sè e dio per tutti. I paesi deboli svaluteranno la moneta e avranno la maxi inflazione, i paesi debolissimi avranno default e bancarotta, quelli forti si faranno male ma sopravviveranno.

Vale la pena di “tradurre” cosa significhi il nuovo “Patto economico”, quello senza il quale l’Europa si scioglie e l’euro si squaglia e ciascuno resta solo con i suoi debiti. Significa che entro il 2012/2013 tutti i paesi d’Europa devono avere un deficit annuo rispetto al Pil intorno al tre per cento (l’Italia è sopra il cinque, la Grecia intorno al 15, Gran Bretagna e Spagna intorno al dieci…). Significa anche che chi ha un debito pubblico pari o superiore al cento per cento del Pil, qui purtroppo l’Italia guida la classifica dei debitori, deve smetterla di accumulare debito. Deve smetterla se vuole che dei suoi debiti rispondano e siano garanti anche gli altri Stati, governi e cittadini europei.

In Spagna Zapatero ha già “tradotto”: meno cinque per cento di stipendio ai dipendenti pubblici. Ha “tradotto” a denti stretti Zapatero, ma non poteva non “tradurre”. “Traduzione” portoghese: meno sei per cento sugli stipendi pubblici e privatizzazione di grandi compagnie pubbliche, cioè meno soldi per i dipendenti e meno dipendenti. Traduzione francese: meno dieci per cento complerssivo della spesa pubblica, regola del pensioni due e assumi uno nella Pubblica amministrazione, cancellazione di 500 esenzioni e agevolazioni fiscali per le aziende private. Traduzione tedesca: addio al calo delle tasse promesso in campagna elettorale. Traduzione greca: via la tredicesima e la quattordicesima per i pubblici dipendenti, stipendi congelati per i dipendenti privati, aumento dell’Iva. La traduzione inglese ancora non c’è, Cameron si è appena insediato ma tutti sanno che i Conservatori taglieranno le spese per il Welfare britannico, nè i laburisti avrebbero potuto fare diversamente se avessero vinto le elezioni.

E la “traduzione” italiana qual è? Per ora suona come 26 miliardi di minor spesa in due anni, per ora. Due miliardi in meno tra Sanità e spesa farmaceutica, circa dieci miliardi in meno di spesa tra ministeri ed Enti locali, probabile blocco dei contratti, cioè niente aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici. E niente calo delle tasse, neanche a parlarne. Forse addirittura un rinvio del federalismo se federalismo dovesse significare maggior spesa immediata prima dei vantaggi futuri.

Tutti dunque “metteranno le mani nelle tasche” dei loro cittadini. E lo faranno perchè altrimenti quelle tasche si “sfondano” o restano piene di soldi svalutati o di debiti impossibili da garantire. Sarà dura, amara, inevitabile e sarà meglio di ogni possibile alternativa. Sarebbe anche meglio che ce lo dicessero, con coraggio politico e civile. Più ce lo nascondono e più allevano una reazione isterica delle pubbliche opinioni, quella reazione che vogliono evitare. (Beh, buona giornata).

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“Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea.”

Perché Wall Street si scopre euro-entusiasta-http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Nelle prime reazioni di mercati, politici ed esperti Usa al piano europeo. quasi tutte positive, traspare l’idea che lo scatto di decisionismo dell’Eurozona è per molti aspetti “made in Usa”:

1) Gli americani vedono nel combinato tra il maxifondo Ue da 700 miliardi e l’intervento della Bce ad acquistare titoli di Stato una replica perfetta del loro “piano Tarp”: il fondo da 700 miliardi (di dollari) che nell’ottobre 2008 l’allora ministro del Tesoro Paulson fece approvare al Congresso con il decisivo aiuto esterno di Obama (allora candidato). Perciò qui battezzano il piano europeo “Le Tarp”, aggiungendoci un tocco francese. Naturalmente il Tarp serviva a salvare dalla bancarotta la finanza privata, “Le Tarp” deve salvare dalla bancarotta gli Stati sovrani.

2) Il piano Paulson traduceva nel campo della finanza la “dottrina Powell”: in guerra devi andarci solo quando puoi mettere in campo forze smisuratamente superiori all’avversario. Quindi per impressionare i mercati niente mezze misure.

3) Il piano Paulson ottenne l’obiettivo immediato (il collasso del sistema bancario è stato evitato) però ha lasciato in eredità all’America problemi enormi di deficit, debito.

4) Lo stesso vale per il parallelo tra la Bce e la Fed. Anche la banca centrale americana fu costretta a una serie di strappi alle regole, interventi inusuali per dare liquidità alle banche ed anche comprare titoli di Stato Usa. Le resta in eredità una politica monetaria “drogata” che in futuro può rilanciare l’inflazione. Per gli americani il piano europeo ha le stesse caratteristiche: efficacia immediata, rinvio del conto da pagare.

5) Infine Obama si conferma come il “quarto uomo” o arbitro fuori campo che contribuisce alla cabina di regìa dell’Unione europea: ancora domenica si sono segnalate le sue telefonate a Merkel e Sarkozy. Ormai sembra quasi normale che un presidente americano intervenga regolarmente nel corso dei vertici europei per “aiutarli” a raggiungere il risultato desiderato.
(Beh, buona giornata).

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Il maxi piano salva- euro e un piccolo pianista da piano bar.

Angela Merkel, una delle vere protagoniste del vertice di emergenza della Eu ha detto: “Il maxi-piano è necessario per garantire il futuro dell’euro. E’ necessario attaccare i problemi alla radice e combattere realmente le cause delle tensioni che pesano sulla moneta unica”.

Il ministro francese delle Finanze Cristine Lagarde ha evitato di attribuire meriti al proprio Paese: “Abbiamo serrato le file per salvare l’euro”.

“L’eurozona sta certamente riguadagnando fiducia. I nostri fondamentali sono buoni”, sostiene il presidente della commissione Ue, Jose Manuel Barroso.

Dopo il piano “la Bce si aspetta ora una politica di rigore nei bilanci pubblici dai governi europei”, ribadisce il presidente della Bce Jean Claude Trichet. “Per noi – ha spiegato riferendosi alla richiesta fatta dall’Ecofin a Spagna e Portogallo – questo impegno è stato assolutamente decisivo”. Silenzio sulla portata degli interventi: “E’ la Bce che decide”.

E poi, ecco il perepèperepè, paraponzi ponzi pù: “Un impulso fondamentale allo sblocco dei serrati negoziati sul piano di salvataggio dell’euro ieri all’Ecofin l’ha dato il presidente Berlusconi quando, poco prima dell’1 di notte, ha chiamato al telefono il cancelliere Merkel”, recita un comunicato di Palazzo Chigi. Pitipitù, pitipitù, paaaa! Meno male che Silvio c’é, come i supplì, al telefono. Beh, buona giornata.

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Che sta succedendo all’economia europea/9.

CRISI FISCALE, CONTAGIO E FUTURO DELL’EURO, di Marco Pagano-lavoce.info

Cerchiamo di capire il terremoto finanziario che sta scuotendo Eurolandia. Perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Crisi fiscale, contagio, collasso della moneta unica: potrebbe diventare uno tsunami ben peggiore di quello dei mutui subprime. Ma il modo per arginarlo c’è, rafforzando le strutture comunitarie e sovranazionali. Trasformando la crisi in un’occasione storica per l’Europa.

Crisi fiscale, contagio, collasso dell’euro … Cerchiamo di capire cosa sta succedendo, perché gli scenari paventati da giornali e televisione si stanno susseguendo in modo così tumultuoso che non è facile seguirne la logica. Invece è proprio in situazioni di emergenza come questa che è importante fare chiarezza, proprio per evitare che si realizzino gli scenari peggiori e individuare la via di uscita.
Punto primo. Quando uno stato sovrano accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restuire capitale e interessi generando avanzi di bilancio in futuro (cioè un gettito fiscale superiore alla spesa pubblica). In questo caso, chiedono tassi di interesse maggiori per acquistare nuovo debito pubblico, poiché vogliono essere compensati per il rischio di insolvenza. Ciò in realtà aggrava il pericolo di insolvenza, perché appesantisce i conti pubblici, per cui alla fine arriva il momento in cui non c’è più un tasso di interesse capace di compensarli del rischio di insolvenza: allora essi smettono di sottoscrivere il debito pubblico. Questa è la crisi fiscale, e ha solo due esiti possibili, che fra l’altro non si escludono tra loro: 1) l’insolvenza da parte dello stato, con conseguente ristrutturazione del debito (come ha fatto l’Argentina); 2) la “monetizzazione” del debito, che viene acquistato dalla banca centrale immettendo moneta nell’economia e quindi causando inflazione e deprezzamento del tasso di cambio.

DALLA GRECIA ALL’ITALIA

Punto secondo. Nel caso della Grecia, la seconda strada – quella della monetizzazione – era esclusa dalla sua appartenenza all’area dell’euro: il governo greco non poteva imporre alla Banca centrale europea (Bce) di acquistare i propri titoli del debito pubblico, per cui la sola strada aperta era quella dell’insolvenza e della ristrutturazione del debito, a meno di non ottenere prestiti da altri paesi a tassi inferiori a quelli richiesti dal mercato. Ma perché i paesi dell’area dell’euro hanno deciso di fare questo sacrificio? Come si è visto in questi giorni, dopo non poche indecisioni lo hanno fatto soprattutto per timore del “contagio”. Ma cos’è questo contagio? Qui veniamo alla parte più interessante della storia.
Punto terzo: il contagio. Ammaestrati dalla crisi della Grecia, gli investitori hanno cominciato a sospettare che altri paesi con elevato debito pubblico – Portogallo, Spagna, Italia – possano trovarsi in una situazione simile. Perché? Come i governi di questi paesi si sono affrettati a spiegare, i loro conti pubblici non sono nello stato drammatico di quelli greci. Allora perché gli investitori sono preoccupati? Perché rischiano i propri soldi in una scommessa perdente? Perché, come dicono gli economisti, in questa partita tra Stati sovrani e investitori ci possono essere “equilibri multipli” (1): anche quando uno Stato non è molto indebitato, gli investitori possono cominciare a temere che, non volendo alzare la pressione fiscale oltre un certo livello “politicamente sostenibile”, in futuro esso potrà voler ricorrere alla ristruttrazione o alla monetizzazione del debito, o a entrambe. Nel timore che questo accada, essi spingono i tassi a livello talmente alto che “la loro profezia si autoavvera”: a quei tassi, lo stato che altrimenti avrebbe fatto fronte ai suoi debiti finisce davvero per dover davvero ristrutturare o monetizzare il debito, cioè per non ripagarlo interamente.
Quindi tutto dipende dalla “fiducia” degli investitori: se e fin quando la fiducia c’è, si resta nell’“equilibrio buono” con tassi di interesse moderati e mercati tranquilli; quando la fiducia scompare, si salta all’“equilibrio cattivo”, quello in cui c’è la crisi fiscale. Il “contagio” che la crisi greca ha scatenato è stato proprio questo: ha indebolito la fiducia degli investitori anche verso stati che avrebbero potuto continuare a navigare in acque tranquille se avessero continuato a godere della loro fiducia. Si noti fra l’altro che l’onere stesso del salvataggio della Grecia sta appesantendo i conti pubblici di Portogallo, Spagna e Italia, e anche questo ha contribuito a indebolire la fiducia nella loro solidità di debitori.

LA BORSA E LA SPECULAZIONE

Punto quarto: il rifinanziamento del debito pubblico. I paesi in questione sono esposti alla crisi fiscale (l’“equilibrio cattivo”) nella misura in cui sono costretti a ricorrere ai mercati per il rifinanziamento del debito pubblico, e quindi a seconda di quanto debito pubblico scadrà nei prossimi mesi. Ciò a sua volta dipende dalla scadenza media del debito pubblico: se il debito pubblico è per lo più a lunga scadenza, la quantità di debito da rifinanziare in un dato intervallo di tempo è piccola, e anche doverlo fare a tassi elevati è un costo sopportabile. In questo caso, il rischio di crisi fiscale è escluso. Se invece il debito è per lo più a breve termine, cosicché la quantità di debito da rifinanziare è elevata, il rischio di crisi fiscale esiste, come dimostrato da Giavazzi e Pagano (1990). (2) L’argomentazione è simile quella usata nel valutare la solvibilità delle imprese delle banche, in cui il “rollover risk” derivante dall’indebitamento a breve è uno dei fattori che determina il rischio di fallimento.
Punto quinto: il deprezzamento dell’euro. Perché l’euro si sta deprezzando? Una possibile risposta è che man mano che la crisi si allarga ad altri grandi paesi dell’area dell’euro, il rischio di monetizzazione del debito pubblico da remoto si fa più concreto. Se la Grecia può essere salvata (forse) dagli altri paesi dell’area euro, questo non può certo valere per l’imponente debito pubblico di Italia, Spagna e Portogallo. A quel punto, il rischio che la Bce debba monetizzarlo esiste, e i timori di inflazione che ne derivano potrebbero spiegare il deprezzamento dell’euro. Ma poiché ciò metterebbe a repentaglio la stabilità dei prezzi nell’area dell’euro, e rappresenterebbe un imponente trasferimento di risorse dai paesi forti dell’euro a quelli deboli, è uno scenario poco probabile.
Una spiegazione alternativa del deprezzamento dell’euro è il timore della rottura dell’eurosistema, uno scenario fino a poco tempo fa impensabile: proprio per non essere chiamati a contribuire alle finanze dei paesi deboli dell’area dell’euro con la monetizzazione del debito, i paesi forti potrebbero spingere quelli deboli al di fuori dell’eurosistema. Ovviamente questo è uno scenario drammatico, in quanto la ridefinizione dei confini della moneta unica difficilmente potrebbe avvenire senza impressionanti scossoni. E inoltre nel frattempo la crisi fiscale potrebbe tradursi nell’insolvenza sul debito pubblico di vari paesi dell’area dell’euro, con effetti globali devastanti: considerato che il debito pubblico di questi paesi è massicciamente presente nei bilanci di banche e assicurazioni di tutto il mondo, e soprattutto dell’area dell’euro, potrebbero determinarsi catastrofiche reazioni a catena in tutto il sistema finanziario. Il “contagio” diventerebbe davvero globale. Al confronto, la crisi innescata dai mutui “subprime” diventerebbe un pallido ricordo.
Ciò spiega perché le borse stanno crollando, e perché i governanti siano molto preoccupati, su entrambe le sponde dell’Atlantico. Tuttavia, le invettive dei governi contro gli “speculatori” e i “mercati” sono infantili. La parola “speculatore” nasce dal latino specula (vedetta), e indica chi cerca di “guardare lontano”, e quindi metaforicamente “prevedere il futuro”. Nel momento in cui un qualsiasi risparmiatore decide se sottoscrivere i titoli del debito pubblico, anch’egli cerca di “guardare lontano”, e in questo senso in qualche misura siamo tutti speculatori. E tutti contribuiamo a determinare l’andamento dei mercati, perfino quando decidiamo di non servircene. Sta ai governi dimostrare che in questo momento speculatori e mercati stanno sbagliando previsioni e scommesse.

RECUPERARE LA FIDUCIA DEI MERCATI

Ma esiste un modo di recuperare la fiducia dei mercati? Poiché l’origine del problema è nella politica fiscale, il modo di recuperarla è sul fronte del fisco: occorre dare segnali forti e coordinati che gli stati deboli dell’area dell’euro sono capaci di “mettere a posto” i propri conti pubblici, accettando un monitoraggio e una disciplina comunitaria molto forte sulle proprie finanze.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea. (Beh, buona giornata).

(1) Si veda ad esempio Guillermo Calvo, “Servicing the Public Debt: The Role of Expectations,” American Economic Review, September 1988.
(2) Francesco Giavazzi e Marco Pagano, “The Management of Public Debt and Financial Markets,” in High Public Debt: the Italian Experience, edited by L. Spaventa and F. Giavazzi, Cambridge University Press, Cambridge, 1988.

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Che sta succedendo all’economia europea/8.

Come far piangere gli speculatori, di LUIGI SPAVENTA-repubblica.it

IN CHE COSA consiste la speculazione? In un’imponente concentrazione di mezzi finanziari atta a provocare un esito che, pur se non altrimenti giustificato, fa vincere la scommessa. La speculazione si batte non con le deprecazioni né mandando i marines, ma facendo piangere chi ci ha provato: le lacrime di chi ci ha provato sono i soldi che gli si fanno perdere. Per far perdere i soldi alla speculazione, le autorità devono essere decise e dimenticare per un momento le regole del galateo.

I ribassisti ne fanno di tutte; dispongono dei mezzi tecnici più sofisticati; operano con una leva gigantesca, senza impegnare soldi propri. Se la pressione cresce (otto giorni fa al mercato dei derivati di Chicago si contavano 103.400 contratti al ribasso sull’euro, pari a quattro volte le posizioni lunghe, per un valore di quasi 17 miliardi di dollari) che cosa dovrebbero fare le autorità che tutelano la nostra stabilità? Consultare il manuale di buone maniere di Monsignor della Casa e reagire senza dare prova di maleducazione? Oppure togliersi i guanti e picchiare?

Nell’agosto del 1998, in esito alla crisi finanziaria del Sud-Est asiatico, quando finirono al tappeto le economie più dinamiche dell’area, la speculazione prese di mira con pesanti bordate la valuta e il mercato azionario di Hong Kong. Poiché i consueti strumenti di difesa (aumento dei tassi) non bastavano, l’autorità monetaria del territorio buttò alle ortiche l’ortodossia e decise di presentarsi in borsa come compratore di ultima istanza, in contropartita dei venditori a pronti e a termine, e acquistò azioni – azioni, si badi, non casti titoli di Stato – per 15 miliardi di dollari. Questa operazione (battezzata doppio slam, double whammy) inflisse gravissime perdite ai ribassisti, che dovettero abbandonare il terreno con gravi perdite. Vi fu anche un lieto fine: l’autorità monetaria rivendette gradualmente le azioni acquistate lucrando un profitto di 4 miliardi per le casse pubbliche (così come la banca centrale americana sta facendo profitti, rivendendo i titoli acquistati durante la crisi per sostenere le banche).

Non suoni eresia: la sola entità che possiede più mezzi di qualsiasi diabolico speculatore è una banca centrale che abbia il potere di emettere moneta. Solo quella banca centrale può essere compratore di ultima istanza di qualsiasi attività finanziaria che sia oggetto di un attacco speculativo ribassista, a condizione che quella attività sia denominata nella valuta che essa emette (per la Bce un titolo in euro, per la Federal Reserve un titolo in dollari).

Naturalmente questo è un rimedio estremo per mali estremi: per metterlo in opera si deve essere convinti che il valore mirato dalla speculazione non sia quello “giusto”; che senza turbolenze si potrebbe raggiungere un valore diverso e mettere in opera procedure più ordinate. Mi pare evidente che queste condizioni ricorrano oggi: occorre tempo per verificare il funzionamento del piano messo su per la Grecia; Spagna e Portogallo non meritano le frustate ad essi inflitte dai mercati solo per bastonare l’euro; il funzionamento dell’euro dovrà essere ripensato, ma non in un’affannosa emergenza. La Banca centrale europea è chiamata a fare la sua parte (“tutte le istituzioni… convengono di ricorrere a tutta la gamma di strumenti disponibili per garantire la stabilità”, recita il comunicato del Consiglio europeo di venerdì).

L’art. 123 del Trattato di Lisbona vieta esplicitamente alla Bce l’acquisto diretto di titoli di debito emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico, ma non ne impedisce l’acquisto sul mercato, con operazioni che un tempo venivano definite di mercato aperto. Le dissertazioni sull'”azzardo morale” (nozione cara agli economisti) e sul rischio di inflazione non hanno pregio: lasciar prevalere i ribassisti quando si ritengano ingiustificati i loro obiettivi, quello sì è offrire occasione di azzardo morale; sappiamo che la massa monetaria creata occasionalmente (e quanta se ne creò per finanziare le banche!) può essere agevolmente riassorbita, anche liquidando nel tempo i titoli immessi nell’attivo anche con operazioni di acquisto. Altri espedienti sono opportuni, ma non sufficienti a battere la speculazione.

Un fondo di assistenza di qualche decina di miliardi? Ottimo, ma complicato da mettere in opera; soprattutto si indica alla speculazione che essa vince se riesce a mobilitare (magari solo sulla carta) una cifra maggiore. Più soldi resi disponibili dalla Bce alle banche? A poco servirebbero, posto che al momento le banche, di nuovo diffidenti l’una dell’altra, stanno depositando liquidità a Francoforte. È il momento del coraggio: si può riuscire a farli piangere gli speculatori, ma non con le chiacchiere di chi, come avrebbe detto Krusciov, non ha divisioni da mandare in combattimento. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/6.

Vertice salva-euro in bilico ,Dopo lo stop di Londra arrivano i dubbi di Berlino,di Fabio Grattagliano-sole24ore.com

La Germania ha proposto un piano di aiuti finaziari per i paesi della zona euro in difficoltà pari a una cifra di 600 miliardi di euro, con la partecipazione del Fondo monetario internazionale. Lo si apprende a margine della riunione dell’Ecofin

I ministri dell’economia e delle finanze dei 27 paesi Ue riuniti a Bruxelles per trovare una soluzione in grado di salvare in maniera strutturale l’euro e i paesi sotto minaccia della speculazione hanno preso una pausa. La riunione dell’Ecofin è stata al momento sospesa per consentire i lavori del Comitato economico e finanziario della Ue, l’organismo dedicato ad affrontare le modalità più tecniche del piano che sta cercando una sintesi in grado di accontentare tutte le posizioni espresse al tavolo dei ministri.

L’ultima bozza che circola
Se accolto dagli stati membri, il piano di aiuti finanziari sarebbe senza precedenti nella storia dei salvataggi. I 600 miliardi, l’ultima cifra che circola assieme alle bozze dei tecnici al lavoro, sarebbero così composti: 60 miliardi di garanzie dalla Commissione dell’Ue, 440 miliardi di garanzie dagli stati membri e 100 miliardi di euro di linee di credito messe a disposizione – se necessario – dal Fondo monetario internazionale. Nelle conversazioni telefoniche intercorse oggi tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il cancelliere tedesco, Angela Merkel, e il presidente francese Nicolas Sarkozy, sono servite – riferiscono fonti diplomatiche – a rafforzare l’asse con Washington per la partecipazione del Fmi. Il modello che verrebbe seguito per le garanzie degli stati membri sarebbe lo stesso usato per il caso Grecia. Germania e Olanda però si sono opposte al sistema di garanzie che era stato individuato nella proposta della Commissione. «È un’arma formidabile contro la speculazione», commentano fonti diplomatiche. «Se Francia e Germania sono unite e determinate è impossibile che la speculazione attacchi paesi come la Spagna o il Portogallo».

Il rifiuto di Londra. La ricerca di un meccanismo condiviso di stabilizzazione della moneta unica ha ricevuto un pesante stop dopo il rifiuto della Gran Bretagna a contribuire alla creazione del fondo. Anche la Germania starebbe creando qualche difficoltà sul fondo e in maniera particolare sul meccanismo di garanzie dei prestiti. «Voglio essere chiaro – ha detto il cancelliere dello scacchiere Allistair Darling – la proposta di creare un fondo per la stabilità dell’euro è una faccenda che riguarda i paesi dell’Eurogruppo. Quello che non faremo e non potremo è dare sostegno all’euro. La responsabilità di sostenere l’euro deve essere in capo ai membri dell’eurogruppo». Il rifiuto di Londra – che riguarderebbe solo la disponibilità di risorse al fondo e non uno stop politico alla creazione dello stesso – potrebbe spingere l’Ecofin verso l’ipotesi di limitare il meccanismo di prestiti garantiti ai soli 16 paesi della zona dell’euro.

Piano di salvataggio. Secondo le indiscrezioni le garanzie sul tavolo dovrebbero ammontare a 60/70 miliardi di euro: una cifra in grado di mobilitare sui mercati prestiti per almeno 600 miliardi. Se avere un fondo a 27 o a 16 «è una questione ancora in discussione», sottolineano fonti a Bruxelles. «Mai dire mai» ha detto il ministro dell’Economia francese, Christine Lagarde, arrivando alla riunione, mentre la collega spagnola Elena Salgado, ministro dell’Economia e delle Finanze e presidente di turno dell’Ecofin ha detto che «La Spagna non si prepara a ricorrere a nessun fondo» rispondendo alla domanda se Madrid si stesse accingendo ad usufruire del piano salva-Stati allo studio dei ministri della Ue.

Le opzioni sul tavolo. Tra le opzioni in gioco, una prevede che l’Ecofin approvi la costituzione di un Fondo di stabilizzazione sul modello già utilizzato in passato per gli aiuti a paesi non dell’eurozona (Lettonia, Ungheria e Romania): a intervenire in questi casi è l’articolo 143 del Trattato Ue in caso di grave minaccia di difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Si tratterebbe di estendere anche ai paesi dell’eurozona la possibilità di ricevere supporto finanziario allargando l’ipotesi anche per difficoltà di approvvigionamento sui mercati per finanziare il debito sovrano. Fondendo le somme disponibili per i due strumenti si arriverebbe a una dotazione di oltre 100 miliardi di euro. Il problema è che l’articolo 143 è applicabile solo agli Stati dell’eurozona. La soluzione potrebbe arrivare grazie all’articolo 122 del trattato Ue, che prevede che il Consiglio dei 27 in caso di circostanze eccezionali possa decidere a maggioranza qualificata di concedere assistenza finanziaria a uno stato in difficoltà. L’ipotesi, in un primo momento osteggiata dal governo di Londra perché in questa evenienza la Gran Bretagna riteneva di poter essere “costretta” a fornire la propria quota di finanziamento, è ora valutata da Londra con maggior favore.

Banchieri riuniti. A Basilea i banchieri centrali della Bce attendono di capire quale ruolo sarà loro attribuito dall’Ecofin nella gestione del piano di difesa dell’euro e in special modo sulle modalità di acquisto di titoli di Stato in cambio di impegni precisi dei paesi sul risanamento dei bilanci. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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L’attacco all’euro è colpa degli speculatori?

http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=hpblog

Ora la caccia allo speculatore è in cima alle preoccupazioni dei governi dell’Eurozona. Questo purtroppo conferma la debolezza della risposta europea a questa crisi. Quando s’invocano le oscure forze del capitale è un brutto segno.

La speculazione esiste, ha mezzi consistenti, io stesso ho raccontato le “cene segrete” di Wall Street tra gli hedge fund, sulle quali la magistratura e la Sec hanno aperto un’indagine per capire se ci fu collusione nell’organizzare gli attacchi all’euro.

Ma prendersela con la speculazione è come voler rompere il termometro perché ci dice che abbiamo la febbre alta.

Ricordiamo l’attacco guidato da George Soros nel 1992 contro lira e sterlina: fu possibile per l’altissimo debito pubblico dei due paesi, e l’insostenibilità della loro appartenenza al regime dei cambi quasi-fissi (allora lo Sme).

Soros precipitò il crollo della lira, l’uscita dallo Sme, ma così facendo costrinse l’Italia ad accettare un risanamento dei conti pubblici (Amato) che era necessario in quanto tale: eravamo avviati su una china distruttiva, per comportamenti irresponsabili delle nostre classi dirigenti.

Oggi la situazione non è diversa: dalla corruzione dei passati governi greci, all’ostinazione della Germania nel rifiutare un governo europeo dell’economia, ogni nazione è messa di fronte al conto degli errori accumulati in molti anni.

La speculazione ci si arricchisce sopra. Ma nessuno denunciava la speculazione quando era di segno opposto: rafforzava l’euro, consentiva alle banche europee di rimpinguarsi i bilanci con finanziamenti a tasso zero. C

‘è un’attenzione asimmetrica ai danni degli speculatori. Li si scopre malvagi e distruttivi solo quando le loro scommesse disturbano uno status quo consolidato.

L’ultima grande crisi che ebbe come suo epicentro l’Asia, quella del 1997, fu l’occasione anche là di alte grida contro il complotto della finanza occidentale. Il premier malese Mahatir divenne famoso per le sue denunce contro le congiure degli speculatori angloamericani.

Da allora però l’Asia, più che prendersela con gli speculatori, ha imparato una lezione diversa. Oggi le nazioni orientali hanno le finanze pubbliche più in ordine del mondo, i conti con l’estero in attivo, ricche riserve valutarie per consentire alle banche centrali di difendere le rispettive monete. E dietro tutto questo, ci sono delle economie reali con i “fondamentali” in ordine: a cominciare dalla competitività.

Questo andrebbe ricordato, perché se l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sulla “caccia all’untore”, è un comodo diversivo per i nostri governi e banchieri centrali, ma è pseudo-economia. (Beh, buona giornata).

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Che succede all’economia europea/4.

Potesse la Grecia fare la svalutazione…di Paul Krugman-sole24ore.com

C’è ancora qualcosa da dire sulla crisi del debito greca? Secondo me, sì. Molti osservatori sottolineano che difficilmente la Grecia riuscirà ad applicare le misure di risanamento prescritte dal piano di salvataggio. Come dice senza giri di parole Charles Wyplosz, del Graduate Institute of International Studies di Ginevra, «il piano non funzionerà».
È il caso di osservare, però, che anche una ristrutturazione del debito non sarebbe granché utile per alleviare il fardello che pesa sul governo di Atene.

Per capire perché, immaginiamo che cosa succederebbe se la Grecia smettesse semplicemente di pagare il suo debito. A quel punto, tutto quello che dovrebbe fare sarebbe tenere a zero il disavanzo primario: in altre parole, dovrebbe incassare, attraverso le tasse, tanto quanto spende (dove per spesa si intende tutto quello che non sono gli interessi sul debito).
Ma ricordiamo che la Grecia in questo momento presenta un disavanzo primario enorme, pari complessivamente, nel 2009, all’8,5 per cento del prodotto interno lordo. Perciò, anche se il Governo greco dichiarasse la totale insolvenza sul suo debito, sarebbe comunque tenuto a imporre misure di austerità.
Ne consegue, dunque, che una ristrutturazione del debito servirebbe a poco, a meno di non pensare (cosa che sembra inverosimile) che ottenendo il condono del debito esistente il Paese ellenico sia in grado di accedere a nuovi e consistenti prestiti. L’unica strada per alleviare in modo significativo le pene della Grecia sarebbe quella di trovare un modo per limitare i costi dell’austerità di bilancio, e in questo senso la ristrutturazione non sarebbe utile.

Sarebbe utile invece una svalutazione. Ma uno studio (ormai diventato un classico) realizzato nel 2007 da Barry Eichengreen di Berkeley, che ha fortemente influenzato le mie opinioni sull’euro, descrive in dettaglio i motivi che rendono pericolosa una svalutazione. Eichengreen sostiene che qualsiasi tentativo di lasciare la zona euro esige tempo e preparazione, e che nel periodo di transizione vi sarebbero assalti agli sportelli dagli effetti devastanti.
In questi giorni, tuttavia, sto riconsiderando la faccenda. Più nello specifico, mi sembra probabile che la Grecia sia destinata a precipitare in una crisi politica interna, oltre che economica. La sua situazione attuale è simile a quella dell’Argentina nel 2001. Allora, l’Argentina aveva introdotto un piano di convertibilità (che nelle intenzioni avrebbe dovuto ancorare in via permanente il peso al dollaro) che sembrava irreversibile per le stesse ragioni per cui oggi sembra irreversibile l’euro. Le autorità temevano che per abrogare quel provvedimento sarebbe stato necessario un prolungato dibattito legislativo, e che un dibattito del genere avrebbe innescato devastanti assalti agli sportelli. Vi ricorda qualcosa?

Ma alla fine del 2001, l’economia argentina era allo sfascio. Il governo impose misure d’emergenza nel tentativo di contenere la situazione, fra cui una serie di restrizioni sui prelievi bancari. La conseguenza fu che la tesi contraria all’abrogazione del cambio fisso con il dollaro perse di validità, e nel 2002 l’Argentina passò a un tasso di cambio fluttuante.
È davvero impossibile che qualcosa di simile possa succedere in Grecia? E se accadesse, non si rischierebbe di mettere in discussione l’appartenenza alla zona euro anche di altri Paesi?
Questo dramma è ancora lontano dalla conclusione.

Il 2 maggio, l’Unione Europea ha approvato il pacchetto di aiuti da 110 miliardi di euro che punta a impedire il default greco. Gli Stati membri della zona euro hanno accettato di contribuire con 80 miliardi di euro, mentre il resto verrà dal Fondo monetario internazionale.
Il Governo tedesco, che aveva manifestato grande riluttanza ad accorrere in aiuto della Grecia, ha accettato di mettere a disposizione 22 miliardi di euro. In una dichiarazione al parlamento, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto che il piano di salvataggio rappresenta «niente di meno che il futuro dell’Europa e il futuro della Germania in Europa», aggiungendo che la Germania aveva «una responsabilità speciale per l’Europa e oggi l’eserciterà».

In cambio, la Grecia ha accettato di applicare una serie di rigide misure di austerità, che includono l’obbligo di ridurre il disavanzo nell’ordine dell’11 per cento del prodotto interno lordo, l’aumento delle tasse, la stabilizzazione del debito pubblico e drastici tagli al settore pubblico, compresi tagli alle pensioni e l’eliminazione delle gratifiche per i dipendenti pubblici.
I tagli hanno scatenato la rabbia in tutta la Grecia, dove un cittadino su tre lavora per lo Stato. Il 4 maggio, i dipendenti pubblici, inclusi gli insegnanti e il personale ospedaliero, sono scesi in sciopero, e da quel momento sono seguiti altri scioperi e manifestazioni. Il 5 maggio, i disordini sono sfociati in tragedia con la morte di tre persone ad Atene a seguito dell’incendio appiccato a una banca dai manifestanti.

Le turbolenze politiche hanno prodotto ripercussioni sui mercati finanziari, unitamente alla paura degli investitori di un allargamento del contagio ad altri Paesi della zona euro, in particolare la Spagna e il Portogallo. Il 5 maggio, l’euro ha toccato il livello minimo sul dollaro negli ultimi 12 mesi, attestandosi a 1,2886 dollari.

© 2010 NYT – distribuito da The NYT Syndicate

(Traduzione di Fabio Galimberti)

(Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/2.

Potere e mercati, la prova verità, di SERGIO ROMANO-corriere.it

Le grandi crisi non bastano purtroppo a rinsavire quelli che ne sono direttamente o indirettamente responsabili. Ma hanno l’effetto positivo di rendere evidenti alcune verità che prima della crisi apparivano poco convincenti o erano addirittura negate. Abbiamo sempre saputo che la mancanza di un governo europeo dell’economia avrebbe reso l’unione monetaria incompiuta e vulnerabile. Sapevamo che i divieti e le punizioni inseriti su pressioni tedesche nel Trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità non avrebbero mai impedito a un Paese di commettere errori e soprattutto avrebbero convinto la speculazione che il Paese in pericolo non sarebbe stato salvato. Sapevamo che i compiti assegnati alla Banca centrale europea erano troppo rigidamente limitati e che fare da sentinella all’inflazione può essere in alcuni casi una politica insufficiente, se non dannosa. E sapevamo infine che gli aiuti, quando sono tardivi e vengono decisi soltanto dopo penose discussioni inconcludenti, sono sempre più costosi di quanto sarebbero stati se concessi tempestivamente. La Germania ha frenato gli altri maggiori Paesi della zona euro perché temeva che gli aiuti alla Grecia avrebbero mal disposto gli elettori del Nord Reno Westfalia verso la coalizione di governo.
Ebbene, il pacchetto è stato varato dal Bundestag alla vigilia del voto. I tempi, per Angela Merkel, non potevano essere peggiori. Ma di questo non può che rimproverare se stessa.

La crisi, dunque, ha sgombrato il terreno da alcune false verità. Resta da capire se i Paesi dell’eurozona sapranno correggere gli errori. La giornata di avant’ieri, potrebbe essere, in questa prospettiva, memorabile. Il presidente del Consiglio italiano e il presidente francese sembrano essersi accordati sulla necessità di un fondo monetario europeo a cui attingere per aiutare un Paese in crisi. Il presidente della Commissione ha detto che occorre rafforzare Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) e fornirgli gli strumenti per accertare la verità dei conti pubblici degli Stati membri. La Banca centrale europea potrebbe prendere in garanzia, per i suoi prestiti, anche le obbligazioni deprezzate del governo greco e acquistare titoli di Stato per stabilizzare i mercati. Un’agenzia di rating europea potrebbe ridurre l’ingiustificata influenza delle agenzie americane. L’eurogruppo, infine, potrebbe assumere maggiori responsabilità e diventare la prefigurazione di un governo europeo dell’economia.

Molto dipende da tre importanti riunioni che si terranno oggi, prima dell’apertura dei mercati: il consiglio dei governatori della Bce, l’Ecofin, e un G7 dell’ultima ora in teleconferenza.
Ma se verranno adottate, queste misure avranno alcuni punti in comune: rafforzeranno le istituzioni europee a scapito delle sovranità nazionali, saranno un passo verso il completamento dell’Unione monetaria e l’integrazione europea. Faranno capire ai mercati che l’Europa non intende farsi ricattare dalla speculazione. E avranno l’effetto di ridare all’Italia uno spazio europeo che aveva finora trascurato. Tanto più se gli aiuti alla Grecia saranno votati sia dalla maggioranza sia dall’opposizione.
So che molto dipende dalle reazioni dei mercati, domani. C’è troppo denaro in giro per il mondo che è alla ricerca di selvaggina e si comporta come zavorra mal collocata sul fondo di una nave in tempesta. Ma qualche speranza, oggi, è possibile. (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/1.

I giorni terribili dell’attacco all’euro di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l’errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l’ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell’Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell’affondamento dell’euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C’è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei “se” e dei “ma” doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all’altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell’Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.
La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall’ipnosi e li costringerà a reagire?

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La novità delle ultime quarantott’ore è questa: i governi hanno capito che l’attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L’obiettivo è assai più alto, il dissesto dell’economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l’euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L’aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l’ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C’erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell’opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l’Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell’Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l’area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano – attraverso la domanda e l’offerta – le aspettative di un’immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l’aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati “debiti sovrani” e “fondi sovrani” sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L’uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l’operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l’inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l’assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell’Unione europea, la crisi si è concentrata su quell’obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell’Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell’Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l’insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell’organizzazione del “welfare”. I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l’Europa è ancora lontanissima dall’essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell’Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell’Unione verso un assetto federale. L’ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell’Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell’attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all’altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all’Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l’abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l’evidenza e l’urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un’opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un’opinione personale, credo che l’attacco in corso contro l’attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
(Beh, buona giornata).

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