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Per un 25 Aprile senza retorica.

È una festa nazionale, il 25 Aprile celebra la Liberazione dell’occupazione nazista, la sconfitta del governo fantoccio di Salò, la fine della Seconda Guerra mondiale in Italia. Ci sono, dunque, tre validi motivi per aderire ai festaggiamenti. Tuttavia, la retorica è fuori luogo: agli attacchi contro la memoria storica non bisognerebbe mai rispondere con la nostalglia dei tempi che furono. 

Sono nato dieci anno dopo la seconda guerra mondiale e ho conosciuto molti ex partigiani, tra i quali mio padre. Avevano la riservatezza e la dignità umana e politica di chi sentiva di aver fatto la cosa giusta, dalla parte giusta. Ma non si sentivano nel passato, guardavano, parlavano, credevano in un mondo migliore. Come se la guerra partigiana fosse stato un montento, importante, pericoloso, decisisivo di un percorso ancora lungo da compiere: dalla Liberazione del territorio nazionale, alla liberazione dalle ingiustizie sociali, dallo sfruttamento, dalla sudditanza di larga parte della popolazione dalla schiavitù prodotta da un sistema economico che distribuisce in modo diseguale la ricchezza, che discrimina le persone, che ostacola, quando addirittura non nega apertamente, i diritti.

Questi uomini e donne, posate le armi con cui sconfissero il nazifascismo, si rimboccarono le maniche per ricostruire un paese devastato non solo dalle bombe, dalle carestie, dalle angherie e le stragi degli occupanti e dei loro collaborazionisti italiani, ma per rimettere insieme pezzi di un senso dell’esistenza, di un preciso punto di vista etico, morale, civile. Hanno sconfitto il fascimo prima, hanno fatto un Italia migliore poi.

La ricostruzione non fu solo di case e strade e fabbriche, ma anche dei sentimenti, della cultura, della vita di tutti giorni. 

Tra la ricostruzione di corretti rapporti umani e sociali, vorrei ricordare importanti passi verso il superamento delle differenze di genere. I combattenti antifascisti in Italia furono 300 mila. 54 mila furono uccisi: 17 mila erano militari, 37 mila civili, il 70 per cento dei quali militanti comunisti.

Le donne combattenti furono 35 mila, 70 mila delle quali appartenenti ai Gruppi di difesa delle donne, GDD. La prima donna presidente della Camera dei Deputati, l’on. Nilde Iotti, aveva fatto parte dei GDD.

Durante quei lunghi venti mesi, che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, furono arrestate e torturate 4.653 donne; 2.750 furono deportate in Germania; 2.812 furono fucilare o impiccate; 1.070 caddero in combattimento.

Dopo il 25 aprile del 1945, 19 donne furono decorate con con la medaglia d’oro al valor militare; mentre 21 furono le donne che parteciparono all’Assemblea Costituiente. Quando si parla di “padri costituenti”, non dimentichiamoci le “madri costituenti”. Se lo sono conquistato.

Le donne votaroro in Italia per la prima volta nel 1946, in occasione del Referendum col quale il paese scelse di diventare una Repubblica, che poi la Costituente descrisse come democratica e fondata sul lavoro, come recita, appunto, l’art.1.

La Resistenza, dunque, ha scritto pagine indimenticabili per la nostra vita collettiva, ha prefigurato una nuova visione del mondo, ha tracciato un discrimine invalicabile tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non si tratta di memoria, ma della Storia, con la consapevolezza della quale dobbiamo guardare all’oggi, e saperci orientare tra le contraddizioni, le difficoltà, e sapere immaginare e poi mettere in pratica nuovi strumenti per capire la realtà. Per cambiarla, come riuscirono a cambiarla i partigiani.

La Resistenza fu il momento delle scelte decisive, sia individuali che collettive. Concentriamoci sulle scelte fatte e quelle da fare. Non c’è tempo per la retorica che celebra il passato. Perché qui ci vuole un nuovo 25 Aprile.

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