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E la crisi consumò lo shopping.

Crisi del consumo o crisi del consumismo? di Daniela Ostidich* e Cabirio Cautela*-Il Manifesto

La crisi, ci dicono alcuni ottimisti, non ultimo il nostro Ministro dell’Economia, passerà presto. Sarà anche vero – speriamo – ma l’impressione di chi per professione si confronta quotidianamente con le dinamiche del consumo, è che i riflessi di questa crisi sugli atteggiamenti delle persone non saranno passeggeri. Senza il supporto di particolari ideologie, e trasversalmente per livelli sociali e nazioni diverse, le persone sono state particolarmente colpite (psicologicamente se non finanziariamente) da una crisi che ha messo in evidenza la fragilità di una economia basata sull’acquisto del superfluo, sul precario equilibrio del crescente indebitamento, sulla velocità degli scambi e sull’idea di innovazione e crescita continua.

Ma che relazione esiste tra la crisi – che qualcuno addebita alla “finanziarizzazione” dell’economia reale – e lo shopping, argomento in precedenza bistrattato, oramai entrato nelle aule accademiche sotto domini disciplinari come la sociologia dei consumi, il marketing, l’antropologia culturale? Sicuramente lo shopping – come ci insegnano i sociologi – affascina con molteplici seduzioni le persone, sin dalle origini dell’umanità – nelle sue differenti forme – ma questo momento storico ci offre l’opportunità di analizzarlo in modo più distaccato, fermando il fotogramma e consentendo una riflessione che vada alle radici del suo significato più profondo. È un momento di lutto, insomma, che impone una riflessione seria. Per questo colpisce il modo ancora splendidamente ottimista, quasi fatalistico, e comunque sempre molto – troppo – lontano dalla realtà, con cui certi sociologi guardano al fenomeno del consumo oggi (si veda l’articolo di Vanni Codeluppi su Il Manifesto del 20 marzo 2009).

La nostra convinzione è che lo shopping si configuri come una rete, sia che lo si veda dal punto di vista dello scambio (atto/luogo di acquisto), che della destinazione (i regali, i doni, gli acquisti per altri), che negli aspetti di auto percezione e costruzione della propria identità (rispetto ad una rete sociale esterna), che nella struttura urbanistica del territorio (che diventa tramite le strutture del commercio anche rete di mobilità e direzioni di socialità). La merce è il tramite attraverso cui s’innestano, si sviluppano e si attivano reti di relazione. Attività che viviamo quotidianamente, dal lavoro, alla cura di sé, dallo sport alla mobilità sono universi reticolari di cui le merci costituiscono spesso le infrastrutture, i nodi, la materia che quelle reti abilitano, supportano, condizionano, affermano.

Tutto ciò diventa ancora più fondante in epoche di crisi dove la rete è ancora di salvezza.

In questa visione la “merce” è accesso a reti di relazioni e svela qualcosa del momento storico in quanto ne incarna – almeno in parte – i miti e le preoccupazioni.

La visione più interessante del consumo attuale è quella che lo definisce “liquido”; di merce quindi che appare anch’essa “liquida”, nel senso in cui la intende Zygmunt Bauman: acquista valore per perderlo immediatamente dopo l’acquisto, destino seguito dallo stesso acquirente – “liquido” – che è spinto a livelli di consumo ulteriori dal fatto di spartire con l’oggetto dei suoi desideri – momentanei – la stessa caduca appetibilità.

Se cerchiamo invece le radici più profonde, e quindi più umane, e più vere, delle merci, ci si rende conto come non tutto è riducibile a liquidità. Esistono infatti – ed è impossibile negarlo, se non disegnando una società ben diversa dalla realtà – anche dei consumi “solidi”, con contenuti valoriali ben radicati nelle necessità delle persone: la mela acquistata e mangiata per fame, il regalo fatto o ricevuto da chi si ama – e consumi “gassosi”, che pur non scambiando merci materiali si strutturano su scambi di informazioni, conoscenze, esperienze. Come definire, altrimenti azioni che pur sempre rientrano nella categoria dei consumi come quelli legati alle community e ai social network sul web?

La complessità dello shopping è tale da non poterla semplificare in variabili prospettiche o sottili: è elemento politico – da qualsiasi prospettiva lo si guardi. Insomma, ci sembra di dover lanciare un appello, sfruttando proprio questo momento economico caratterizzato da una straordinaria crisi che riguarda proprio i consumi. Innanzitutto che per la tensione verso l’interpretazione delle tendenze future non si dimentichi l’analisi della bieca realtà, considerando tutte le dimensioni che lo shopping riveste nella quotidianità delle persone.

Lo shopping in quanto attivatore di reti, per il tramite di merci, è oggetto d’analisi poliedrico che richiede un intervento congiunto di quei domini disciplinari che studiano fenomeni reticolari: le scienze sociali, il design dei servizi, l’urbanistica. La dimensione esperienziale è sicuramente importante e rivelatrice ma non può avocare a sé solamente la capacità di dare significato all’atto del consumo.

In secondo luogo che per amore della materia (la sociologia dei consumi) non ci si scordi di chi consumare non può. L’inferno dei consumi esiste – che Codeluppi se ne renda conto: purtroppo, non è una visione apocalittica che fa dire a Censis che il 13% degli italiani (2008) sono sotto la soglia di povertà. Ed è questo il punto cruciale che segna il salto della crisi – da congiunturale a strutturale – come direbbero gli economisti “vecchia maniera”. Il sistema attuale non solo non garantisce a certi strati sociali l’acquisizione materiale di merci; ma a ciò si aggiunge l’impossibilità di attivare, attraverso gli acquisti, quelle reti (sociali, logistiche, commerciali, relazionali) che sono alla base del funzionamento del sistema di scambio capitalistico. Chi non consuma non accede e non attiva reti relazionali, dirette e derivate, che vivono per il tramite delle merci acquistate.E’ compito di chi governa i sistemi economici e di distribuzione dei redditi garantire questo diritto di accesso – definibile anche in termini di dignità della persone – ma è anche compito di chi studia i consumi tener conto che non è eticamente e metodologicamente proponibile proporre una lettura del sociale che partendo dal presupposto che lo shopping sia rivelatore di dinamiche condivise neghi la rilevanza (o non riconosca l’esistenza) anche di coloro che accesso al consumo non hanno.(Beh, buona giornata).

* Co-autori di “Hell-Paradise Shopping”, L’inferno e il paradiso degli acquisti e del consumo, Franco Angeli, 2009

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La “quarta crisi” colpisce ancora.

Dalle stime fornite da Nielsen e relative al 2008 emerge che gli investimenti pubblicitari sulla stampa nel suo complesso sono calati del -7,1% sul 2007. Nel dettaglio, l’adv sui quotidiani a pagamento ha registrato un -7%, mentre sui periodici è stata registrata una flessione del -7,3%. E a inizio 2009 la situazione è tutt’altro che migliorata. Nel primo bimestre, sempre stando ai dati Nielsen, gli investimenti sulla stampa sono calati del -27,4% sul primo bimestre 2008, -29,6% invece per i periodici e -26,4% per i quotidiani a pagamento.

Una conferma della flessione della pubblicità sulla carta stampata viene anche dai dati dell’Osservatorio Stampa Fcp. Dal confronto tra quelli relativi al periodo gennaio-febbraio 2009 e quelli relativi allo stesso periodo del 2008 emerge che il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale ha registrato un calo del -28%. In particolare, il fatturato dei quotidiani ha perso il 26% e gli spazi sono calati del 13%. Segno meno anche per i periodici, che risultano in calo del 31% in termini di fatturato e del 24% in termini di spazi.

Numeri in forte ribasso, che hanno avuto notevoli ripercussioni sui bilanci 2008 e sull’andamento del primo trimestre 2009 dei più importanti gruppi editoriali operanti nel nostro Paese, come appare dal seguente schema che presenta i dati più significativi relativamente a ciascun Gruppo.

RCS MediaGroup: nel 2008 i ricavi netti consolidati si sono attestati a 2.673,9 milioni di euro, ovvero a -1,9% rispetto ai 2.728,2 milioni del 2007. I ricavi pubblicitari si sono attestati invece a 942,1 milioni (-2,1% sui 963,2 milioni del 2007).
Area Quotidiani: ricavi pari a 711,3 milioni (734,6 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -2,7%.
Area Periodici: ricavi pari a 313 milioni (330,7 nell’esercizio 2007); ricavi pubblicitari a -3,4%.
Area Web: ricavi pubblicitari in crescita di oltre il 40%.

Mondadori: nel 2008 fatturato consolidato a 1819, 2 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958,6 milioni di euro del 2007).
Area Periodici Italia: ricavi consolidati a 575,7 milioni di euro (-12,5% rispetto ai 657,8 milioni del 2007); ricavi pubblicitari a -5,3%
Mondadori Pubblicità: ricavi pari a 331 milioni (-5,3% rispetto ai 349,5 milioni di euro del 2007). Sui periodici raccolta a 242,6 milioni (-4,8%)

Gruppo 24Ore: nel 2008 ricavi consolidati a 573 milioni di euro, in linea rispetto ai 572,1 milioni di euro del 2007. La pubblicità mostra un incremento di 7,4 milioni di euro (+3,1%) raggiungendo i 244, 6 milioni di euro, con un’incidenza del 42,7% sui ricavi totali.
Area Editrice: ricavi pari a -11,3% rispetto all’esercizio 2007.
Area System (divisione che svolge l’attività di concessionaria di pubblicità dei principali mezzi del gruppo, a eccezione dell’editoria specializzata): ricavi pari a 204,146 milioni (+2,1% sui 199.992 milioni del 2007).

Cairo Communication: nel 2008 ricavi lordi consolidati pari a 256,6 milioni di euro (265,8 milioni nel 2007). Raccolta pari a 51,8 milioni di euro (-8% rispetto ai 56,5 milioni)

Gruppo Hachette Rusconi: nel 2008 ricavi consolidati pari a 144,2 milioni di euro di cui 100 milioni derivanti dalla raccolta pubblicitaria (-0,5% rispetto al 2007). Area Web: ricavi pubblicitari in crescita del 46% sul 2007. (Beh, buona giornata).

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La pubblicità globale va male.

Interpublic: -5,6%. WPP: -5,8%. Omnicom : -14%. La recessione ha colpito i big della comunicazione mondiale.

Il dato peggiore è quello segnato da Omnicom Group, le cui revenue sono scese del 14% a livello mondiale. Fra le diverse aree, l’advertising (che vale il 44% del business della holding), perde il 12,8%, il Crm il 13%, le relazioni pubbliche segnano un -17,4% e le altre specializzazioni il -20,1%. La conseguenza è una riduzione dei profitti del 21,2% (dai 208 milioni di dollari del primo trimestre 2008 ai 164 milioni di questo primo quarter dell’anno).

-5,6% il calo di fatturato registrato da Interpublic (IPG), con una perdita operativa di 81,9 milioni di dollari, 41,6 dei quali dovuti al costo dei licenziamenti di 2.800 addetti, circa il 6% del totale. La ristrutturazione della forza lavoro ha comunque contribuito a migliorare il margine operativo di IPG, salito dal 3,9% al 6,2% anno su anno.

Per WPP, il risultato a perimetro costante è un -5,8%, dovuto anche in questo caso “alla riduzione della spesa da parte dei clienti come reazione alla crisi economica e finanziaria globale”. La holding guidata da Sir Martin Sorrell registra un margine operativo inferiore a quello del 2008, ma in ogni caso superiore alle aspettative: anche per WPP ciò deriva da un taglio dei costi al personale, ridotto di 3.505 unità (il 3,1%). Il gruppo mette inoltre in cantiere la possibilità di ulteriori tagli, affermando che “sul breve periodo continueremo a concentrarci sul mantenere l’equilibrio fra la probabile caduta delle revenue, e i costi e il numero degli addetti”.

L’area più colpita è stata quella degli Stati Uniti. Male anche Spagna, Italia e Danimarca. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi investe anche Caltagirone Editore.

L’assemblea ordinaria degli azionisti della Caltagirone Editore ha approvato il bilancio al 31 dicembre 2008. A livello consolidato il Gruppo ha chiuso l’esercizio con ricavi a 294 milioni di euro (326,8 milioni di euro al 31 dicembre 2007) e un utile netto negativo per 10,9 milioni di euro (era positivo per 61,2 milioni di euro al 31 dicembre 2007).

La raccolta pubblicitari al 31 dicembre 2008 ha segnato un -8% sull’anno precedente. Nel primo trimestre 2009, invece, si registra un calo degli investimenti pubblicitari del 25-30%, in linea con il mercato di riferimento.

A margine dell’assemblea, commentando la difficile situazione del mercato il presidente Francesco Gaetano Caltagirone ha dichiarato: “La situazione dell’editoria e’ ‘di emergenza drammatica’. Dalla crisi ‘uscirà’ completamente modificata la geografia e la sostanza dell’editoria italiana”.

“Nell’editoria – ha proseguito – c’è stato un calo generalizzato, nel nazionale come nel locale. Non ho mai visto una situazione in cui tutto cala, il nostro è un gruppo che si difende per le intuizioni che abbiamo avuto”.

In merito al pesante calo della raccolta pubblicitaria nel primo trimestre, Caltagirone ha dichiarato: “Spero si tratti di un picco, ma se il calo dovesse essere confermato di questa portata anche nel resto del 2009, le perdite sarebbero ‘ben diverse’ rispetto a quelle del 2008”.

Proprio per fronteggiare la crisi, è in programma l’attuazione di un piano di taglio dei costi, per ridurre in particolare il costo del lavoro, portando a un risparmio di 20-25 milioni di euro. Beh, buona giornata.

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Cala la pubblicità, la Rai rischia guai.

Un trimestre nero per la raccolta pubblicitaria Rai. E le previsioni sono tutt’altro che ottimistiche, come ha confermato Mauro Masi, direttore generale Rai, in una audizione in Parlamento, presso la Comminsione Vigilanza.

Nei primi tre mesi del 2009 gli investimenti avrebbero subito un calo importante, facendo registrare una flessione di 27 milioni di euro. Se il trend dovesse essere confermato, la flessione della raccolta pubblicitaria passerà dai 55 milioni di euro previsti a 150 milioni di euro. Ragionando in termini assoluti, si passerà da 1143 milioni a 1048 milioni di euro.

Questo potrebbe significare che le risorse economiche della Rai si avviano a una perdita tendenziale di circa 120 milioni di euro. Beh, buona giornata.

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Il gruppo editoriale Espresso nell’occhio del ciclone della “quarta crisi”.

A Roma il CdA di Gruppo Editoriale L’Espresso ha approvato i risultati consolidati del primo trimestre 2009

Nei primi mesi del 2009 l’ulteriore peggioramento del quadro macro-economico ha determinato una contrazione degli investimenti pubblicitari ancora più accentuata di quella manifestatasi nell’ultima parte del 2008. Secondo i dati pubblicati da Nielsen Media Research, il mercato pubblicitario nel suo complesso ha registrato nel primo bimestre del 2009 una flessione del 19,5% rispetto al 2008.

La contrazione, seppur con diversa intensità, ha riguardato tutti i mezzi ad eccezione di internet, la cui crescita tuttavia ha subito un forte rallentamento. I ricavi netti consolidati del Gruppo nel primo trimestre 2009 ammontano a 215 milioni, registrando una flessione del 18% rispetto al corrispondente periodo dell’esercizio precedente (262,3 milioni ).

I ricavi pubblicitari, pari a 109,3 milioni, mostrano una riduzione complessiva del 26,8%; la stampa quotidiana, in flessione del 22,4%, registra un calo più contenuto rispetto al mercato, grazie alla migliore tenuta dei quotidiani locali. I restanti mezzi mostrano andamenti sostanzialmente in linea con le evoluzioni dei mercati di riferimento. I ricavi diffusionali, esclusi i prodotti opzionali, sono pari a 65,8 milioni (-1,6% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente).

I ricavi dei quotidiani sono in linea con i valori del 2008, mentre i periodici mostrano una leggera flessione. In termini di diffusioni, la Repubblica e L’Espresso hanno registrato flessioni più significative (rispettivamente -21,4% e -24,6%) imputabili, sostanzialmente, alla decisione di sospendere o ridurre alcune formule distributive ad alto contenuto promozionale, scarsamente remunerative. I quotidiani locali, infine, registrano diffusioni in linea con quelle dei primi tre mesi del 2008, confermando la maggior tenuta di questo settore rispetto alla crisi del mercato.

I ricavi dei prodotti opzionali ammontano a 35,8 milioni con un calo di appena il 7,9% in un contesto di mercato in forte contrazione, grazie al buon riscontro di pubblico ottenuto anche dalle nuove iniziative del periodo. Il margine operativo lordo consolidato è pari a 16,7 milioni con una flessione del 53,2% rispetto ai 35,6 milioni del primo trimestre 2008.

Va segnalato che l’impatto sul conto economico della drastica riduzione della raccolta pubblicitaria è stato attenuato dalla riduzione del 12% dei costi operativi, derivante essenzialmente dai piani di azione già messi in atto. Il risultato operativo consolidato è pari a 6 milioni (25,4 milioni nel primo trimestre del 2008) e il risultato netto consolidato registra una perdita di 2,5 milioni (utile di 10,5 milioni nel corrispondente periodo dell’esercizio precedente).

La posizione finanziaria netta consolidata è passata da -278,9 milioni di fine 2008 a -248,8 milioni al 31 marzo 2009 con un avanzo finanziario di 30,1 milioni equivalente a quello generato nel primo trimestre del 2008.

Prevedibile andamento della gestione
L’andamento del trimestre nonché le evidenze a disposizione sul mese di aprile confermano la drastica riduzione degli investimenti pubblicitari e non lasciano intravedere, allo stato attuale, alcun segnale di ripresa in un contesto generale che resta di forte incertezza, favorendo la riduzione degli investimenti o il loro rinvio.

Per far fronte all’evoluzione critica del mercato, e nello specifico del settore editoriale, il Gruppo ha già messo in atto una serie di misure di contenimento dei costi che hanno permesso, sin dal primo trimestre, di compensare in parte gli effetti del crollo della pubblicità. È tuttavia evidente, sulla base dei risultati del primo trimestre, la necessità di realizzare ulteriori azioni di contenimento dei costi, a partire da una semplificazione societaria e organizzativa e da una significativa reingegnerizzazione dei processi.

Parallelamente, il Gruppo mantiene l’impegno nella valorizzazione delle proprie testate e dei brand attraverso lo sviluppo dei propri contenuti sulle nuove piattaforme, con particolare riguardo ai siti web delle testate locali, e all’adozione, senza significativi investimenti, di nuovi miglioramenti qualitativi nella stampa e nella grafica dei propri giornali, tra i quali l’estensione nel corso dell’esercizio del full color alla quasi totalità dei quotidiani locali. Inoltre, il management intende continuare a rafforzare le competenze manageriali del Gruppo, presidiando le aree di maggiore criticità ai fini dello sviluppo. (Beh, buona giornata).

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Togliere la pubblicità dalla tv pubblica non ha aiutato le televisioni francesi a resistere alla “quarta crisi”.

I 3 milioni in più di telespettatori che il 5 gennaio 2009 hanno assistito alla prima serata senza pubblicità sul principale canale pubblico francese, non hanno confermato nel tempo l’interesse verso l’esperimento voluto da Nicolas Sarkozy

La legge per togliere la pubblicità dalla Tv pubblica, fortemente voluta dal presidente francese un anno fa, sembrerebbe non aver giovato all’intero sistema televisivo. Promulgata il 7 marzo scorso, ha visto la sua applicazione con due mesi d’anticipo grazie all’adesione spontanea, suggerita da Sarkozy , delle due reti ammiraglie France2 e France3 che hanno tolto la pubblicità dai loro palinsesti.

Risultato: i dati d’ascolto di France Télévisions, almeno fino ad ora, confermano un’audience in leggero calo: France 3 passa dal 12,9% di dicembre 2008 al 12,1% del febbraio 2009, mentre quella delle reti private Tf1 e M6 è rimasta sostanzialmente invariata, intorno rispettivamente al 26% e all’11%.

Con lo ‘stop’ alla pubblicità sulla tv pubblica dalle ore 20.00 in poi, a guadagnarci è stata soprattutto la tv digitale terrestre, che offre passaggi pubblicitari a tariffe convenienti e vanta una buona fetta d’audience.

A quattro anni dal lancio oltralpe, che ha portato nelle case francesi ben 14 canali gratuiti in aggiunta a quelli analogici, oltre ai 14 a pagamento, l’audience dei canali digitali a febbraio ha toccato quota 14% e secondo NPA Conseil, arriverà al 25% nel 2012, mentre i canali tradizionali si attesteranno al 60% (contro l’attuale 73% e l’89,8% del 2004). Il resto sarà occupato dai canali pay del cavo e del satellite.

Nonostante le premesse, l’esperimento francese non ha prodotto l’ipotizzato dirottamento delle risorse pubblicitarie dal piccolo schermo pubblico a quello privato. Come riportato a firma di Edoardo Segantini sul Corriere della Sera di lunedì 20 aprile, a cambiare destinatario, secondo gli obiettivi del governo, dovevano essere 800 milioni di euro di spot: il grosso, circa 480 mln, sarebbe andato alle reti nazionali private Tf1 (di Martin Bouygues, amico personale del presidente) e M6, del gruppo tedesco Bertelsmann. 160 mln a radio, stampa e affissioni, 80 a Internet e 80 ai canali digitali terrestri .

Che cosa è avvenuto in realtà lo spiega Augusto Preta, di ITMedia Consulting: anziché trasferire su altri media la pubblicità prima pianificata sulle reti pubbliche, dice l’analista, gli inserzionisti hanno semplicemente soppresso gli investimenti. In buona parte per effetto della crisi economica. Particolarmente pesante il bilancio di Tf1, prima rete privata di Francia, che nei primi due mesi del 2009 ha visto i suoi ricavi pubblicitari lordi diminuire del 20,3% rispetto allo stesso periodo del 2008, con una caduta del titolo in Borsa del 50 per cento. Ma anche M6 ha perso il 10% degli incassi da spot.

Secondo Stefano Carli di Affari e Finanza, il problema sta nel fatto che Sarkozy aveva previsto di compensare la perdita dei mancati ricavi pubblicitari di France 2 e 3 con un contributo del 3% sul fatturato pubblicitario, calcolato sull’anno precedente, delle altre Tv e lo 0,9% dei ricavi da banda larga delle telecom. Il resto è a carico dello Stato. Un controsenso dal punto di vista economico: Tf1 ha registrato -20% di spot nel 2008 e M6 -10% e pagheranno per una pubblicità mai arrivata.

Per ora in Francia sono in corso accese polemiche, mentre in Italia la proposta di Bondi di creare un sistema analogo a quello francese ha trovato a commento un silenzio quasi assoluto. Soltanto i canali digitali terrestri possono brindare visti i ricavi pubblicitari in crescita dell’85%. Ma in ogni caso, dal punto di vista del sistema, si tratta di pochi milioni di euro guadagnati a fronte delle centinaia persi dai maggiori network nazionali. In un mercato depresso, ‘gli inserzionisti stanno tentando di ottimizzare i loro investimenti’, ha spiegato Philippe Nouchi di ZenithOptimédia, centro media affiliato alla holding francese Publicis.

Inizialmente, Tf1 aveva approfittato dell’oscuramento degli spot sulla Tv pubblica per aumentare le proprie tariffe serali. Cosa che chiaramente non è stata ben accolta dal mondo della pubblicità. C’è stato un vero e proprio braccio di ferro con i grossi advertiser, tra cui probabilmente Danone (assente dagli schermi di Tf1 dall’inizio dell’anno) e Colgate .

L’esperienza francese ha dunque trovato un grosso ostacolo proprio nella crisi economica che ha impattato sulla globale crisi del mondo dei media, quella che è stata definita la “quarta crisi”. A cui si vanno ad aggiungere forti resistenze da parte dei network televisivi commerciali, che proprio non si rassegnano all’idea del calo tendenziale della tv nella filiera della comunicazione commerciale. Ad esempio, la contrarietà di Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset alla diminuzione della pubblicità dalle reti pubbliche italiane si spiega nel forte timore che se anche in Italia prendesse il via l’esperimento francese, ciò potrebbe comportare un dirottamento degli investimenti pubblicitari Rai verso Sky, invece che nelle casse del Biscione. Beh, buona giornata.

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La crisi economica sta facendo a pezzi la pubblicità italiana.

Dopo un gennaio nero per l’adv (-18,7% ), prosegue anche a febbraio il trend negativo degli investimenti pubblicitari. Nel complesso, nel bimestre la Televisione presenta una flessione del -16% e la Stampa registra un calo del -27,4%. In diminuzione anche gli investimenti sulla Radio (-27,2%), sull’Outdoor (-36,2%), sul Cinema (-27,1%) e sulle Cards (-52,5%). Solo l’adv on line cresce del +3,9% .

Secondo Nielsen Media Research continua il difficile momento dell’advertising: dopo un gennaio nero (-18,7%), anche a febbraio i risultati non sono positivi e la diminuzione complessiva del primo bimestre 2009 si attesta a -19,5% rispetto al corrispondente periodo del 2008. La contrazione riguarda, con diversa intensità, tutti i mezzi ad eccezione di Internet. Wind, Ferrero e Volkswagen con circa 70 milioni euro di spesa guidano la classifica dei top spender.

Complessivamente le aziende attive in comunicazione sono 6.721 (erano 7.552 a gennaio-febbraio 2008) con un investimento medio di 155 mila euro (-9,3% ).

L’analisi dei mezzi mostra per la Televisione, considerando sia i canali generalisti che quelli satellitari (marchi Sky e Fox), una flessione sul bimestre del -16,0% . Tra i principali settori si evidenzia il calo di Alimentari (-14,7%), Auto (-17,6%), Telecomunicazioni (-2,7%) e l’exploit di Enti/Istituzioni (+39,2%).

La Stampa, nel suo complesso, ha un calo del -27,4%. I Periodici diminuiscono del -29,6% con l’Abbigliamento a -34,6%, la Cura persona a -28,7% e l’Abitazione a -16,8%.

I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -26,4% con l’Auto e l’Abbigliamento , i due settori più importanti, che riducono gli investimenti rispettivamente del -45,3% e del -45,2%. E’ soprattutto la Commerciale Nazionale a frenare con una diminuzione del -33,9%, ma sono in calo anche la Locale (-16,7%) e la Rubricata/Di Servizio (-21,6% ).

In contrazione anche la Free Press (-25,3%). I primi due mesi dell’anno fanno registrare variazioni negative anche per la Radio (-27,2%), per l’Outdoor (-36,2%), per il Cinema (-27,1%) e per le Cards (-52,5% ).

Il Direct mail passa da 101 milioni del gennaio-febbraio 2008 a 79 milioni nel gennaio-febbraio 2009 (-22,0%). Performance, invece, positiva per Internet che cresce del +3,9% superando gli 83 milioni .

Da gennaio, con i dati storici relativi a tutto il 2008, Nielsen rileva un nuovo mezzo, l’Out of home tv, le televisioni degli aeroporti e della metropolitana di Telesia , società controllata da Class Editori. La raccolta nei primi due mesi di quest’anno è stata di circa 1 milione euro con un decremento del -7,9% sul corrispondente periodo del 2008. Beh, buona giornata.

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Spagna: via la pubblicità dalla tv pubblica?

Spagna; Zapatero: “drastica riduzione” pubblicità in Tv di Stato
Roma, 14 apr. (Apcom) – La Spagna come la Francia: Madrid mira a ridurre la pubblicità nella televisione pubblica. E l’annuncio viene dal presidente del governo socialista, José Luis Rodríguez Zapatero, che lo ha detto oggi a deputati e senatori del Psoe riuniti in seduta plenaria per discutere le prossime leggi che l’esecutivo invierà in Parlamento. Il leader socialista ha annunciato che il governo manderà alle Camera una nuova proposta di legge sulla riforma del settore audiovisivo; un precedente testo nella scorsa legislatura si era arenato per mancanza di consenso. Nella nuova legge sarà indicato come obbiettivo proprio quello che chiedevano le televisioni commerciali. Ovvero, come ha detto Zapatero caldamente applaudito dai suoi stessi parlamentari, “una drastica riduzione della pubblicità nella tv di Stato”, i canali della TVE. In novembre, la Unione delle televisioni commerciali (Uteca) aveva ribadito all’esecutivo l’esigenza che la Tve non trasmetta pubblicità e che si finanzi esclusivamente con fondi pubblici, e la richiesta che la tv di Stato si concentri a trasmettere eventi per cui non entri in competizione con le televisioni commerciali. Sotto tiro in particolare il pagamento da parte della Tve di 60 milioni di euro per i diritti di vari campionati di calcio, cifra che secondo l’Uteca è il triplo di quanto avevano precedentemente pagato le tv private. La decisione di Zapatero rischia di ridurre di parecchio il raggio d’azione della tv pubblica, rendendola di fatto dipendente in modo totale dalle sovvenzioni del governo in carica (che, caso raro in Europa, non prevede un canone diretto dei telespettatori). Va ricordato che dopo il ritorno della democrazia, Tve – con un unico canale generalista al quale qualche anno dopo se n’è aggiunto uno regionale – non è mai stata sottoposta a un processo di “lottizzazione”, ma occupata in toto dall’esecutivo al potere. Di fatto, Tve è sempre stata un strumento a disposizione dei governi ma non dei partiti, che hanno alleati più preziosi – e in teoria più al riparo da incertezze elettorali – nei grandi gruppi privati. La legge dovrebbe infatti favorire il potere di acquisto delle televisioni commerciali, le sole a dividersi la torta dei ricavi pubblicitari – relegando Tve ai telegiornali e a format poco costosi, e sperando quindi di ridurre l’entità della spesa totale necessaria al suo finanziamento. Un dibattito simile è avvenuto poche settimane fa in Francia, dove il presidente conservatore Nicolas Sarkozy ha presentato e visto approvare una legge che riduce progressivamente e drasticamente la trasmissione della pubblicità sui canali di France Television, la tv di Stato (peraltro in Francia finanziata anche con il canone). I critici hanno affermato che Sarkozy voleva in primo luogo favorire i proprietari dei canali commerciali e privati, molti dei quali sono suoi amici personali. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi.

E’ un fatto che l’intrattenimento condizioni l’informazione, che la stessa sia “condizionata” dagli introiti pubblicitari, senza i quali le testate giornalistiche rischiano la chiusura. E’ un fatto che la crisi dei consumi riguardi anche il “consumo” di informazioni. E’ un fatto che la comunicazione abbia assunto un ruolo determinante nella politica dei governi, spesso come grande diversivo, per orientare le opinioni pubbliche a favore di scelte e a detrimento di altre, non solo durante le campagne elettorali, ma anche durante l’azione di governo. La crisi che sta attraversando il mondo dei media rischia di mettere in secondo piano la difesa del diritto a una informazione corretta, il diritto a una comunicazione libera. La crisi degli investimenti pubblicitari spinge sempre più a “catturare” l’attenzione verso le marche globali, invece che a “liberare” l’attenzione di molti verso la democrazia della comunicazione, verso la democrazia nella comunicazione.

La realtà ci dice ¬- ci direbbe – che per esempio la crisi ambientale, cui il “20-20-20” dovrebbe porre rimedio è strettamente connessa ad altre due crisi, con un tempismo storico inedito nella storia politica, economica e sociale recente. Questo fenomeno, che qualcuno ha definito “tempesta perfetta” vede la concomitante esplosione di contraddizioni, derivate dalla crisi ambientale, dalla crisi energetica e dalla crisi finanziaria globale, che ha presto violentemente impattato contro l’economia globale, fin dentro le economie nazionali.

Poiché è noto che la crisi ambientale ha implicazioni dirette e fortemente connesse con la crisi energetica e con quella economica e finanziaria, teoricamente una vasta e articolata azione di comunicazione e informazione sulle tematiche ambientali sembrerebbe essere la chiave di volta per approcciare l’opinione pubblica in modo efficace, tanto da poter provocare un vasto consenso attorno a un deciso cambio di passo nel nostro modello di sviluppo e dunque negli stili di vita, come sarebbe, per esempio, aderire con entusiasmo al “20-20-20”: la riconversione industriale migliorerebbe i prodotti, dunque i consumi; lo sviluppo di energie alternative favorirebbe la nascita di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro; le due cose insieme garantirebbero una migliore qualità della vita, più compatibile con la biodiversità, la salvaguardia del patrimonio ambientale che, soprattutto in un paese come l’Italia, potrebbe dare l’abbrivio a ulteriori opportunità di crescita economica e occupazionale. Teoricamente, è bene ribadirlo.
Favorito dai media dominanti, si sta verificando un atteggiamento conservativo e refrattario alle novità, a qualsiasi cambiamento.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha detto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca ha lasciato intendere che la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni avrebbe potuto trasformare, non solo la politica ma la vita quotidiana di milioni di americani, delusi, frustrati e spaventati dalla crisi economica, che ha impoverito la middle class, oltre che la maggioranza dei cittadini.
Tuttavia, le resistenze ai cambiamenti sono forti. Essi sono incardinate nelle politiche “neo-liberiste” che negli ultimi vent’anni hanno caratterizzato i governi occidentali, tra cui l’Italia.

Dice Naomi Klein in “Shock economy” (Rizzoli, 2007), libro che sembra essere stato premonitore della crisi attuale: “E’ assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia, come una compagnia petrolifera pubblica, saldamente in mano statale. E’ parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e ridistribuiscano la ricchezza, cosi che le aspre diseguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.”

Il fatto è che le classi dirigenti attualmente in carica nei governi europei sono tutte provenienti da ceti politici e sociali che hanno profondamente creduto al neoliberismo, per quelle politiche hanno vinto le elezioni, per l’attuazione di quei programmi elettorali siedono in maggioranza nei Parlamenti e nei governi. Questo stato mentale dei governanti europei è stata ben sintetizzato dallo slogan di Green Peace, durante il vertice economico di Berlino: “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.
Zigmunt Bauman ha detto: “La reazione (dei governi, ndr) finora per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria, per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita: il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e mantenersi indebitato potrebbe tornare alla “normalità”. Il “welfare state” per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina, dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega, per evitare invidiosi paragoni.”

Se i governi appaiono frastornati, a maggior ragione disorientate sono le opinioni pubbliche. Alla crisi ambientale, alla crisi energetica e alla crisi economica, si è aggiunta una quarta crisi: è la crisi dell’informazione. Il mondo dei mass media è in crisi in tutto il mondo. E con i mass media è di conseguenza andata in crisi la pubblicità.
Sir Martin Sorrell fondatore e Ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale sostiene che “nel giro di un paio d’anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva”.

Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte. Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal, divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009. In Italia c’è stata la messa in stato di crisi nel gruppo Rcs. Il Gruppo Espresso registra cali di diffusione pari al 9,6 per La Repubblica, del 6 per L’espresso (dati ADS relativi al 2008)

E’ fosco lo scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.
Secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di decrescita mondiale: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.

Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.

Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.
Secondo Nielsen Media Research, in Italia gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa, mentre la Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.

Giovanni Valentini, ex direttore de L’Espresso ha detto: ”giornali e i giornalisti sono chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Con nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, bisogna incrementare l’offerta di un servizio.”

“Tutto questo non basta” dice Hans-Rudolf Suter, il capo di STZ in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: “la faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura – continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale?) o chiudere l’Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo.” E conclude: “Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali.” Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.

I giornali sono il luogo dell’informazione per eccellenza, tuttavia perdono lettori, diffusione, raccolta pubblicitaria. Si parla di messa in stato di crisi di più di un gruppo editoriale. La nascita e lo sviluppo logaritmico della tv commerciale in Italia ha dato il via a un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l’intrattenimento attira pubblicità più dell’informazione.
E’ stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non ha permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare la tv di pubblicità.
Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani “i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole”.

“La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti”, ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi di Upa, l’associazione degli inserzionisti pubblicitari italiani. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. “E’ un fatto assodato che la gente non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario”, ha detto una volta Howard Luck Gossage, grande copy writer americano.

Il punto della questione è: come si fa concretamente a ristabilire un equilibrio tra informazione e pubblicità? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale: dalla stampa al web, fino al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv.
Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, è forse oggi il miglior “marchio” di servizi online al mondo.

La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacciate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani, tra cui spiccano i giornali nazionali e locali.

Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.
Se il ruolo e il valore economico della pubblicità sono diventati ormai imprescindibili per la sopravvivenza dell’informazione italiana (e non solo italiana) è giusto, forse a maggior ragione, pretendere che i contenuti della pubblicità siano quantomeno corretti, belli, sani e divertenti. Mai invasivi delle prerogative del diritto a una informazione democratica. (Beh, buona giornata)

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Bondi vuole fare il furbo con la pubblicità.

MA CHI CI GUADAGNA DA UNA RAI SENZA SPOT?
di Augusto Preta da lavoce.info

Il ministro Bondi ha avanzato l’ipotesi di una Rai senza pubblicità, sull’onda di una recente riforma francese. Ma in Francia ci si proponeva almeno di redistribuire le risorse pubblicitarie tolte al servizio pubblico a canali privati, radio, stampa e nuovi media. Un progetto fallito per l’insorgere della crisi. E che ora si trasforma in un impoverimento di tutti i media, pubblici e privati. In Italia, le perdite per la tv pubblica sarebbero ben più consistenti e avrebbero conseguenze ancora più negative sull’intero sistema televisivo nazionale.

Mettere mano alla televisione è un’aspirazione che accomuna i vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Nei casi più recenti, quando si è tentato di affrontare il tema chiave delle risorse economiche, dal disegno di legge Gentiloni fino alla recente proposta Bondi, emerge comunque una comune forte impronta dirigista, volta a regolare le dinamiche di mercato, spostando risorse per legge o decreto, e magari cercando di favorire più o meno consapevolmente una delle due parti in causa (l’idea dei nostri politici è che ci sia ancora un duopolio), con risultati che, se realizzati, sarebbero estremamente negativi per tutto il sistema.

PUBBLICO SENZA PUBBLICITÀ

Nelle scorse settimane, il ministro Bondi ha avanzato l’ipotesi di un servizio pubblico senza pubblicità, sull’onda della recente riforma francese. Da quel momento, il tema è entrato nel dibattito nazionale, ma come spesso avviene nel nostro paese, prescindendo totalmente dai dati di fatto e dall’analisi del caso concreto.
La nuova legge sulla televisione in Francia è stata promulgata il 7 marzo scorso, dopo un iter di oltre un anno, iniziato nel gennaio del 2008 con una dichiarazione pubblica del presidente Sarkozy. Gli effetti della sua applicazione non sono ancora visibili, salvo l’articolo che riguarda la soppressione della pubblicità sulle reti del servizio pubblico dalle 20 alle 6, in vigore dal 5 gennaio scorso. (1)
L’applicazione definitiva della legge provocherà la perdita di 800 milioni di euro di pubblicità sulla televisione del servizio pubblico, che il governo pensava di recuperare attraverso una tassa supplementare sul fatturato dei principali operatori commerciali concorrenti: 3 per cento per le reti private storiche nazionali; tra l’1,5 e il 2,5 per cento per le nuove reti digitali; 0,9 per cento sul fatturato proveniente dai ricavi da servizi di accesso a larga banda per operatori di rete fissa e Umts.
Secondo le intenzioni del governo, il servizio pubblico e gli utenti si sarebbero liberati dal giogo della pubblicità, e le risorse prima destinate alla tv pubblica si sarebbero trasferite sugli altri media: 480 milioni sulle reti private nazionali concorrenti Tf1 e M6, 160 milioni su radio, stampa e affissioni, 80 milioni su internet e new media e 80 milioni sulle altre televisioni, principalmente i canali del digitale terrestre.
I risultati per il momento sono di tutt’altro tenore. A causa della crisi economica, gli inserzionisti anziché investire sugli altri media, hanno semplicemente soppresso gli investimenti in pubblicità.
In termini di fatturato lordo:

– Tf1, la principale tv privata, vede i suoi investimenti pubblicitari lordi diminuire del 20,3 per cento nei primi due mesi rispetto al periodo equivalente dell’anno scorso, secondo quanto dichiarato dai dirigenti della rete il 9 marzo scorso, e ha perso dal 1 gennaio 2009 il 50 per cento del suo valore in borsa.
– M6, il canale privato concorrente, perde oltre il 10 per cento di ricavi pubblicitari
– solo le reti Dtt vedono gli investimenti lordi sui primi due mesi dell’anno aumentare dell’85 per cento rispetto a gennaio-febbraio dell’anno scorso, ma è soprattutto il risultato dei notevoli progressi in termini di audience di queste reti. In ogni caso, si tratta di pochi milioni di euro contro le centinaia perse dai network nazionali.

L’audience della televisione pubblica, nonostante l’assenza di pubblicità, è leggermente diminuita dal primo gennaio scorso, mentre quella di Tf1 e M6 non ha subito sostanziali cambiamenti.
Ne consegue che a tutt’oggi gli 800 milioni di finanziamento del servizio pubblico che prima provenivano dalla pubblicità, non sono garantiti. Lo Stato, quindi il contribuente, dovrà pagarne una parte.
Anche le altre fonti non sono garantite, dal momento che le reti private dovranno versare una tassa supplementare su un fatturato pubblicitario che per il 2009, e forse anche per il 2010, sarà in forte diminuzione.
Gli operatori di telecomunicazione, che hanno fatto ricorso davanti alla Commissione europea, trasferiranno la tassa sul costo degli abbonamenti ai loro servizi. Per il momento, la legge provoca un impoverimento dei media dal momento che gli inserzionisti, vittime della crisi economica, hanno soppresso la quasi totalità delle somme precedentemente investite sulla televisione pubblica, anziché investirle negli altri mezzi.
Le reti pubbliche di France Télévisions, in previsione della futura diminuzione degli introiti, hanno già ridotto gli investimenti dedicati agli acquisti di programmi, fiction e altri, tanto che già a dicembre, l’associazione dei produttori inglesi ha inviato un rapporto all’ambasciatore francese a Londra per protestare contro il varo della legge.

LEZIONE CHIARA

In conclusione, dalla vicenda francese emergono alcuni insegnamenti molto chiari.
Il primo è che la pubblicità sui grandi canali generalisti non è ormai più vista come un fattore in grado di spostare ascolti: gli spettatori scelgono quel programma indipendentemente dalla presenza dei break pubblicitari. In altri termini, non vi è elasticità della domanda di visione dei programmi dalla riduzione o abolizione della pubblicità.
Il secondo è che la redistribuzione delle risorse in seguito a uno shock di mercato, come l’eliminazione immediata di centinaia di milioni di risorse economiche, non è facilmente indirizzabile verso canali ritenuti sostituti. Innanzitutto, perché la congiuntura economica, che determina in prima battuta la disponibilità di risorse che le imprese investono in pubblicità più ancora dell’attrattività dei programmi tv, può sempre incidere in maniera inattesa, come sta avvenendo ora.
Inoltre, la visione che sottende alla legge è che ci troviamo di fronte a un mercato statico, dove gli investimenti rimangono stabili sulle reti tradizionali, per cui la porzione della torta che viene sottratta a un soggetto viene poi ripartita tra i restanti, che pagano una tassa per finanziare chi è rimasto senza boccone. La realtà è invece molto più dinamica e registra in tutta Europa una chiara saturazione del mercato della tv tradizionale, a vantaggio dei canali tematici, che sottraggono importanti quote di mercato in termini d’ascolti e di ricavi. Nel caso della Francia, ciò significherebbe minori introiti indiretti dalla tassa sul fatturato dei canali commerciali, che non compenserebbero in ogni caso le perdite derivanti dalla pubblicità.
Nel caso dell’Italia, dove non è chiaro neppure se vi sia la volontà di ribilanciare le perdite ben più consistenti che il servizio pubblico subirebbe, 1,1 miliardi di euro, la soluzione alla francese appare economicamente meno sostenibile e dunque in grado di produrre conseguenze ancora più negative per l’intero sistema televisivo nazionale. (Beh, buona giornata).

(1) A causa dei ritardi nel varo della legge, è stato il consiglio di amministrazione di France Télévisions a prendere la decisione di eliminare la pubblicità in quella fascia oraria dall’inizio dell’anno. Dal 7 marzo 2009 è la legge che proibisce la diffusione di messaggi pubblicitari dalle 20 alle 6. La soppressione per il resto della giornata interverrà con lo spegnimento definitivo della diffusione analogica a fine 2011.

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La crisi fa male anche al Biscione.

E’ stato Fedele Confalonieri presidente Mediaset, ad aprire i lavori all’incontro con gli analisti finanziari organizzato il 18 marzo, a Cologno Monzese, per presentare il bilancio 2008 del Gruppo.

Dopo una riflessione generale sulla crisi che ha investito il mercato nel corso del 2008, Confalonieri ha affermato: “Noi di Mediaset questo momento storico lo viviamo in quanto soggetto economico, ma anche come editori. Ciò significa che ci sentiamo responsabili di come viene vissuta e percepita la crisi dagli italiani. Le notizie vanno date. Ma il catastrofismo, che tanto attrae il mondo dell’informazione e che una cattiva politica usa strumentalmente senza tanti problemi, è un moltiplicatore di crisi. Noi abbiamo fiducia nelle imprese italiane. Viviamo di pubblicità e sappiamo che da una crisi si esce sempre e si esce più forti di prima. Per questo chiediamo ai nostri clienti di investire: farlo oggi significa difendere le quote di mercato e farsi trovare più competitivi al momento della ripresa. E noi abbiamo molta fiducia anche nel sistema Italia. Abbiamo investito ad oggi oltre 1 miliardo e 700 milioni di euro nel digitale terrestre. Abbiamo con questo enorme sforzo modernizzato il Paese nel settore strategico della comunicazione, facendo dell’Italia un esempio guida in Europa”.

In merito alla strategia del Gruppo per il futuro, il presidente l’ha sintetizzata in tre punti. Il primo è ‘continuare a investire nel core business’, rappresentato dalla televisione generalista. Il secondo è ‘continuare a investire in asset strategici per il futuro’, come ad esempio il digitale terrestre: “Mediaset Premium ci ha fatto entrare in un mercato molto interessante – ha spiegato Confalonieri – stimato a ritmi di crescita del 20% l’anno. La risposta alla nostra offerta pay è molto positiva e non sembra risentire della crisi economica”. Infine Mediaset si propone di ‘mantenere una solida struttura finanziaria’: “L’attuale esposizione finanziaria del Gruppo ci tiene al riparo dalla crisi finanziaria e l’indebitamento di Mediaset è fisiologico ed è significativamente minore rispetto all’indebitamento medio dei concorrenti europei. Non sottostimiamio la crisi – ha detto il presidente – Però non sottostimiamo neanche le nostre risorse”.

Interrogato dai giornalisti presenti in merito alla nuova piattaforma Tivù Sat, Confalonieri ha affermato: “Non nasce dalla volontà di fare la guerra a Sky ma semplicemente dall’incontro di due necessità: quella della Rai che, in quanto servizio pubblico, nel passaggio dall’analogico al digitale deve coprire tutto il territorio italiano; e quella di Mediaset che, in quanto servizio commerciale, ha il dovere di garantire a Publitalia e agli investitori il maggior numero di contatti possibile”.

Niente guerra, dunque, anche se sta di fatto che Sky continua a lanciare sfide ai canali generalisti attingendo a piene mani dal loro bacino di volti noti. Dopo Fiorello, il 9 aprile debutterà su Sky Vivo Lorella Cuccarini con lo show ‘Vuoi ballare con me?’ e pare siano in corso trattative anche con Panariello .

La concorrenza della tv di Murdoch però non sembra spaventare Mediaset: “Non basta certo il ‘trasferimento’ di Fiorello e della Cuccarini per dare vita a un’altra tv generalista!”, ha detto Confalonieri, che ha risposto in modo colorito anche a chi gli ha chiesto un parere sulla proposta del ministro per i Beni Culturali, Sandro Bondi, di dare vita a una rete Rai priva di spot pubblicitari: “A pelle direi che è una cavolata – ha dichiarato Confalonieri – In Francia è stato inutile, non ha portato nulla in più alle altre emittenti. Penso che succederebbe la stessa cosa anche in Italia”.

Dunque nessun cambiamento di strategia in vista per Mediaset. Il gruppo non smetterà di investire nel core business, la tv generalista, anche dopo lo switch-off al digitale terrestre. “La sfida – ha spiegato Confalonieri – è trasferire la nostra supremazia in termini di ascolti e raccolta pubblicitaria in un mondo popolato da centinaia di canali tv, free e pay. Per fare questo occorre controllare i contenuti tv. Ideare e realizzare contenuti e costruire palinsesti è un mestiere per pochi operatori, noi lo facciamo da sempre, con un certo successo”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi colpisce anche Mondadori.

Il Consiglio di Amministrazione di Arnoldo Mondadori Editore, riunitosi oggi, 25 marzo, sotto la presidenza di Marina Berlusconi , ha esaminato e approvato il progetto di bilancio e il bilancio consolidato al 31 dicembre 2008 presentati dal vice presidente e amministratore delegato Maurizio Costa .

Come noto il quadro macroeconomico ha subìto nell’ultimo trimestre dell’esercizio 2008 un ulteriore peggioramento, di entità superiore alle già pessimistiche previsioni: la crisi che ha investito il settore finanziario a livello internazionale ha prodotto gravi effetti sui settori produttivi, sui livelli di impiego e sui consumi nei Paesi industrializzati, frenando la crescita anche dei Paesi in via di sviluppo.

Per quanto riguarda Mondadori e i suoi mercati di riferimento, si evidenziano i seguenti fenomeni:
– in Italia la contrazione delle diffusioni e dei prodotti collaterali non ha avuto particolari accelerazioni e in questo contesto la quota di mercato del Gruppo Mondadori è rimasta sostanzialmente invariata; sul fronte pubblicitario, gli investimenti hanno registrato una decisa flessione nell’ultima parte dell’esercizio. In sostanziale tenuta il volume d’affari nel settore libri, in cui il Gruppo Mondadori ha consolidato la propria posizione di leadership;
– in Francia è proseguita la tendenza alla riduzione degli investimenti pubblicitari, mentre la diffusione dei periodici in edicola e in abbonamento è risultata in linea con l’anno precedente.

Il fatturato consolidato nell’anno è stato di 1.819,2 milioni di euro (-7,1% rispetto ai 1.958,6 milioni di euro del 2007). A perimetro omogeneo la flessione è del 6%; al netto anche dell’attività sui collaterali, il giro d’affari ha registrato un decremento del 2,5%. Il margine operativo lordo consolidato è risultato di 249,2 milioni di euro (-7,3% rispetto ai 268,9 milioni di euro dell’esercizio precedente).

L’incidenza sul fatturato è stata del 13,7%, in linea rispetto al 2007. Escludendo il risultato dell’attività di Mondadori Printing, di cui, come già comunicato al mercato nell’ottobre 2008, Mondadori ha ceduto l’80% del capitale al Gruppo Pozzoni, il differenziale del margine operativo è negativo per 2,7 milioni di euro (-1,2%), per effetto essenzialmente di: buon andamento dei business (+6,5 milioni di euro); minore attività sui prodotti collaterali (-13,3 milioni di euro); maggiori investimenti per business in sviluppo (-7,9 milioni di euro); maggiori costi di ristrutturazione organizzativa (-4,7 milioni di euro) e maggiori plusvalenze (+16,7 milioni di euro).

Il risultato operativo consolidato nel 2008 è stato di 203,5 milioni di euro (-9,6% rispetto ai 225,2 milioni di euro del 2007). L’utile netto consolidato al 31 dicembre 2008 è risultato di 97,1 milioni di euro (-13,8% rispetto ai 112,6 milioni di euro dell’esercizio precedente). Il cash flow lordo è stato di 142,8 milioni di euro rispetto ai 156,3 milioni di euro del 2007.

La posizione finanziaria netta è passata da -535,3 milioni di euro di fine 2007 a -490,3 milioni di euro al 31 dicembre 2008.

Libri
In un quadro economico generale di contrazione dei consumi, l’andamento del comparto trade del mercato librario italiano nel 2008 è stato sostanzialmente in linea rispetto al 2007 (-0,6% a valore, relativo alle librerie medio-grandi: fonte Nielsen Bookscan). In questo contesto la Divisione Libri Mondadori ha ampiamente confermato la propria leadership, con una quota di mercato del 28,8%; i ricavi complessivi sono stati di 434,3 milioni di euro (-2,4% rispetto ai 445 milioni dell’esercizio precedente).

Tra le case editrici del Gruppo, Edizioni Mondadori ha registrato nel 2008 ricavi per 144 milioni di euro (+4,7% rispetto ai 137,6 milioni di euro all’anno precedente). Einaudi ha registrato nell’anno ricavi netti per 51,7 milioni di euro, in crescita del 3,6% rispetto ai 49,9 milioni di euro del 2007. Tale incremento è stato determinato dall’ottimo andamento delle vendite nei 3 canali libreria e grande distribuzione, grazie all’esito molto positivo di numerosi libri a media e alta tiratura. Con il 13,4% di quota di mercato, Mondadori Education ha mantenuto nel 2008 una posizione di rilievo nel mercato scolastico e la leadership nel settore dell’editoria per la scuola primaria: i ricavi netti di vendita realizzati dalla casa editrice nel periodo sono stati di 86,1 milioni di euro (-1,1% rispetto agli 87,1 milioni di euro dell’esercizio precedente).

Periodici
La Divisione Periodici ha registrato nel 2008 ricavi consolidati per 949,8 milioni di euro (-9,3% rispetto ai 1.047,7 milioni di euro del 2007).
Italia
Mondadori ha mantenuto nel 2008 la propria posizione di preminenza, registrando in Italia un fatturato di 575,7 milioni di euro (-12,5% rispetto ai 657,8 milioni di euro del 2007); al netto delle vendite congiunte il calo è stato del 4,4%. L’andamento dell’esercizio è stato caratterizzato dai seguenti fenomeni: ricavi diffusionali in riduzione del 5,1%, in linea con il mercato di riferimento; ricavi da vendite congiunte in forte flessione (-28,6%), in linea con il settore, ma con buoni livelli di redditività; ricavi pubblicitari in calo del 5,3%, in un mercato in flessione del 7,1%: si tratta di un decremento fortemente accentuatosi nel secondo semestre dell’anno.

Tra i femminili, Donna Moderna ha consolidato la propria leadership; nel settore dei newsmagazine, Economy ha incrementato in modo significativo i propri ricavi da edicola. Per quanto riguarda il settore dei televisivi, interessato da un calo diffusionale generalizzato, TV Sorrisi e Canzoni si è contraddistinto per aver mantenuto vendite settimanali superiori al milione di copie. Nell’area delle testate dedicate all’entertainment, Chi si è confermato il magazine più vivace con ricavi in linea con il 2007. L’area dell’up market femminile, in cui operano Grazia e Flair, ha registrato diffusioni più limitate ma in linea con l’anno precedente e con una forte penetrazione pubblicitaria; buoni, infine, gli andamenti dei periodici di cucina e dell’area design.

Francia
Nel 2008 Mondadori France ha conseguito un fatturato complessivo di 374,1 milioni di euro (-4,1% rispetto ai 389,9 milioni di euro del corrispondente periodo del 2007). I ricavi da diffusione di Mondadori France, che rappresentano circa il 70% del totale, si sono confermati sui livelli del precedente esercizio (+0,6% a perimetro omogeneo, al netto della cessione delle testate specializzate del polo Sport e Loisirs), grazie anche al buon andamento delle testate leader, tra cui Closer che ha confermato la propria leadership nel comparto.

I ricavi di Mondadori France derivanti dalla vendita di spazi pubblicitari hanno evidenziato nel 2008 un decremento del 14,5%, in linea con un mercato pubblicitario in forte difficoltà; a perimetro omogeneo la flessione è del 12,3%. La società, penalizzata anche dalla scarsa presenza nell’alto di gamma, unico settore in crescita rispetto all’anno precedente, ha comunque salvaguardato la propria quota di mercato.

A livello reddituale Mondadori France ha mostrato nel 2008 un’incidenza del margine operativo lordo sul fatturato del 10,5% (12,5% al netto delle vendite congiunte), grazie anche a una costante attività di controllo e riduzione costi che ha garantito economie sui costi industriali, di distribuzione e del personale.

Attività internazionali
Il 2008 è stato caratterizzato da un’intensa attività di lancio delle testate del Gruppo Mondadori sui mercati esteri, tra i quali Flair in Austria, Casaviva in Grecia, Bulgaria e Serbia, Sale e Pepe in Romania, Grazia Casa in Croazia. Il network di Grazia si è arricchito nel periodo di nuove edizioni in India e Australia, che hanno conseguito risultati molto positivi fin dai primi mesi.

Nel corso dell’esercizio sono inoltre state poste le basi per i lanci di Grazia in Cina e di Casaviva in India, avvenuti nel primo trimestre del 2009. Complessivamente, a fine esercizio, le edizioni dei periodici Mondadori presenti nel mondo hanno raggiunto le 19 unità, con ricavi da licensing e da commissioni derivanti dalla vendita di spazi delle testate in licenza in crescita del 30% rispetto al 2007. Positivi i risultati della consociata Attica, leader in Grecia nelle diffusioni e nella raccolta pubblicitaria, con una buona presenza anche in Romania e Bulgaria.

Pubblicità
Mondadori Pubblicità ha chiuso l’anno con ricavi per 331 milioni di euro (-5,3% rispetto ai 349,5 milioni di euro del 2007). Grazie al buon andamento del primo semestre, la società è riuscita a contenere almeno parzialmente il forte rallentamento manifestatosi sul mercato nella seconda parte dell’anno. In particolare, in un mercato dei periodici che ha perso il 7,3%, la concessionaria ha registrato una raccolta sul proprio portafoglio testate di 242,6 milioni di euro (-4,8%). Per quanto riguarda invece il mercato radiofonico che ha segnato un +2,3% a livello complessivo, R101 ha registrato ricavi pubblicitari in aumento del 23,9%. Significativo anche l’incremento registrato sui siti del Gruppo (+27%), in un mercato cresciuto del 13,9%.

Direct marketing
Nel 2008 Cemit Interactive Media ha registrato un fatturato di 22,3 milioni di euro, in calo del 6,7% rispetto ai 23,9 milioni di euro del precedente esercizio, mantenendo comunque un ottimo livello di redditività (+18,4%).

Retail
Il fatturato complessivo della Divisione Retail nel 2008 è stato di 194,5 milioni di euro (+6,2% rispetto ai 183,2 milioni di euro del 2007). Nel periodo la rete di negozi del Gruppo ha raggiunto le 434 unità diventando per numero di punti vendita il network di prodotti editoriali più esteso in Italia. Mondadori Retail ha conseguito nel 2008 un fatturato di 128 milioni di euro (+2,7% rispetto ai 124,6 milioni di euro del 2007).

Radio
Nel 2008 R101 ha registrato un fatturato netto di 14,8 milioni di euro (+ 31% rispetto agli 11,3 milioni di euro nel 2007), corrispondente a ricavi pubblicitari lordi per 21,8 milioni di euro (+23,9% rispetto ai 16 milioni di euro del 2007), a fronte di un mercato cresciuto del 2,3%. Sul fronte degli ascolti, la radio del Gruppo Mondadori ha raggiunto quota 2,1 milioni nel giorno medio, incrementando del 7% la propria audience, confermandosi tra le prime sei radio commerciali italiane, con circa 8,4 milioni di ascoltatori nei 7 giorni.

Il bilancio della Capogruppo Arnoldo Mondadori Editore al 31 dicembre 2008 presenta un utile netto pari a 66,2 milioni di euro (90 milioni al 31 dicembre 2007).

Evoluzione prevedibile della gestione
Come è noto i dati relativi ai consumi dei primi mesi dell’anno in corso mostrano, in tutti i principali settori dell’economia, valori in ulteriore riduzione rispetto alla fine del 2008. Il Gruppo Mondadori, a fronte di un 2009 già pesantemente influenzato dalle conseguenze della situazione generale sul settore editoriale e dalle accelerazioni imposte dalle discontinuità tecnologiche, proseguirà nel taglio dei costi, nella semplificazione organizzativa e nella reingegnerizzazione dei processi, anche con una specifica allocazione di investimenti dedicati.

L’andamento dei volumi di fatturato dei primi mesi dell’anno e l’oggettiva difficoltà di previsione degli scenari e dell’evoluzione dei consumi e degli investimenti, soprattutto pubblicitari, nei prossimi mesi, suggeriscono prudenza nella stima delle performance reddituali per il 2009, che non si prevedono comunque al livello dello scorso esercizio. (Beh, buona giornata),

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: “Dopo una lunga battaglia con pubblicità in declino, età anagrafica dei lettori troppo avanzata, concorrenza di Internet, sconsiderati livelli di indebitamento, costi inflessibili, ambizioni esagerate e crisi di nervi, l’industria dei giornali è passata a miglior vita”

da repubblica.it
Il necrologio è sormontato da due date: 1764-2009. “Dopo una lunga battaglia con pubblicità in declino, età anagrafica dei lettori troppo avanzata, concorrenza di Internet, sconsiderati livelli di indebitamento, costi inflessibili, ambizioni esagerate e crisi di nervi, l’industria dei giornali è passata a miglior vita”, annuncia il testo. Humour nero, specie se stampato su un giornale: il Financial Times, che ieri ha aperto a questo modo un’inchiesta sulla crisi dell’informazione quotidiana. Dal New York Times alle gazzette di provincia, la carta stampata è in declino: alla sua crisi strutturale, provocata dall’avvento del web, si è aggiunta la mazzata della crisi ciclica, la peggiore recessione economica a memoria d’uomo. Negli Stati Uniti, grandi giornali vanno in bancarotta uno dopo l’altro; ovunque, tutti perdono copie e profitti, e cercano di sopravvivere riducendo le spese.

Eppure la stampa quotidiana non ha mai avuto tanti lettori come oggi: grazie alle edizioni online, che tuttavia nella maggior parte dei casi sono gratuite e generano entrate pubblicitarie ancora troppo basse. “Dacci oggi il nostro giornale quotidiano”, continuano a dire i cittadini del mondo, però si sono abituati a leggerlo sullo schermo di un computer o di un telefonino, senza sborsare un soldo.

Ma è proprio vero che il quotidiano è morto, come suggerisce l’articolo del Financial Times (2,5 per cento di copie in meno, rispetto a un anno fa)? Il New York Times ha venduto la nuova sede, disegnata da Renzo Piano, per pagare i debiti; il Philadelphia Enquirer, 180 anni di vita, è fallito; il San Francisco Chronicle è sull’orlo della chiusura; il Los Angeles Times ha ridotto i giornalisti da 1.300 a 700. E nel vecchio continente la musica non è diversa. Il paradosso, osserva Timothy Egan, esperto di media dell’Herald Tribune (l’edizione internazionale del New York Times), è che la crisi dei giornali arriva mentre la loro audience globale sta crescendo più velocemente che mai.

I siti dei quotidiani americani hanno attirato nell’ultimo trimestre del 2008 più di 66 milioni di visitatori, un record e un aumento del 12 per cento sull’anno precedente. Il 40 per cento di coloro che navigano su Internet si trovano sul sito di un giornale. In Europa, la tendenza è simile. “È in crisi il formato dei quotidiani, non la sostanza”, avverte Egan.
“Occorre solo aspettare che emerga un nuovo modello”.
Purché non si debba attendere troppo. Due economisti di Yale, David Swensen e Michael Schmidt, osservano che la libertà di informazione è un bene troppo importante per lasciarlo alla mercé del mercato: perciò propongono che siano filantropi illuminati a salvare i giornali.

Il Nieman Journalism Lab di Harvard ha calcolato quanto ci vorrebbe, soltanto per i quotidiani americani: 114 miliardi di dollari. Un po’ tanto, anche per i filantropi, e non tutti i giornalisti si fiderebbero di avere poi mano libera. In Francia, di questo si fa parzialmente carico lo Stato, che ha iniettato 600 milioni di euro in tre anni nella carta stampata, raddoppiando la pubblicità messa sui giornali. Ma non tutti gli Stati sarebbero disposti a farlo, e non è detto che basti. Una diversa proposta viene da Walter Isaacson, ex-direttore del settimanale Time, il quale dice che continuare a dare gratis informazioni agli utenti, su Internet, è una scelta suicida per i giornali.
Una soluzione è offrire abbonamenti digitali, come fanno in tanti, ma i guadagni così ottenuti sono stati finora modesti. Isaacson pensa a un altro sistema: un metodo di “micropagamenti”, di semplice uso, per permettere di scaricare sull’esempio di iTunes non l’intero giornale ma anche un solo articolo. “Viviamo in un mondo in cui qualunque adolescente non ci pensa due volte a pagare per inviare un messaggino”, ragiona l’ex-direttore di Time, “non dovrebbe essere tecnologicamente e psicologicamente impossibile convincere la gente a pagare 10 centesimi per ricevere informazioni”.

Nella fase di transizione che stiamo vivendo tra vecchio e nuovo (qualunque sarà) modello di giornale, Isaacson prevede che alcuni quotidiani abbandoneranno del tutto la carta, passando in blocco al digitale, altri usciranno in edicola solo il sabato o la domenica, come ha fatto il Christian Science Monitor di Boston, altri ancora tenteranno semplicemente di contenere i costi. Ma su questo punto la discussione si infervora. “Non si produce buon giornalismo a basso prezzo”, s’arrabbia Bill Keller, premio Pulitzer e direttore del New York Times, “non troverete tanti blogger che vanno per proprio conto ad aprire un ufficio di corrispondenza a Bagdad”. Non tutti i media, ovviamente, hanno e continueranno ad avere i mezzi per mantenere uffici di corrispondenza in mezzo mondo, e più in generale per spendere i soldi necessari a dare un’informazione ricca e approfondita.
“Ma se diminuisci il valore del tuo prodotto, diminuisci le tue possibilità di avere successo, nel giornalismo online come in quello cartaceo”, ammonisce John Morton, un altro analista di media. “Nel lungo termine, questo danneggia il brand di un giornale, che è la cosa più importante che un giornale ha. È un circolo vizioso: i giornali soffrono per calo delle copie e della pubblicità, rispondono offrendo ai lettori un giornale più povero per tagliare i costi e cercare di mantenere margini di profitto irrealistici, e in tal modo accelerano il processo di declino. È una strategia di graduale chiusura”.

Qualcosa d’altra parte bisogna pur fare, quando calano copie e pubblicità, e nessuno nega che ci siano aree dove è possibile, anzi necessario, tagliare i costi. Una è la necessità di ridurre il debito accumulato, un debito che si porta via ogni anno un’ingente quota di ricavi.
Uno studio dell’agenzia Moody ha scoperto che il debito della Gannett, catena di decine di giornali americani, è quattro volte superiore ai guadagni, prima di interessi, tasse, deprezzamento e ammortizzazione. Quello della Tribune, un’altra catena, è dodici volte più alto. Le cure variano e alcune sono forse ancora da scoprire, ma si potrebbe concludere, parafrasando Mark Twain, che le notizie sulla morte dei quotidiani sono esageratamente premature.

“Per me i giornali”, afferma Timothy Egan, il columnist dell’Herald Tribune, “restano il migliore diario quotidiano per informare e interpretare la realtà che ci circonda, uno strumento che sarà sempre più necessario in un mondo in cui l’economia della conoscenza diventa sempre più importante per decidere chi guadagna e chi ha il potere nel mondo”. Perciò, a suo parere, rimane valida la massima di Thomas Jefferson: “Se spettasse a me decidere tra avere un governo senza giornali e giornali senza un governo, non esiterei un secondo a preferire la seconda opzione”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Di che cosa parliamo quando parliamo di “quarta crisi”.

Editoria, pubblicità e informazione:
un matrimonio in crisi

di Marco Ferri da ilmessaggero.it
ROMA (23 marzo) – Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente di Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, a conclusione del Summit della pubblicità che si è svolto a Roma recentemente, ha detto «La comunicazione è e resta driver competitivo, posto di lavoro per talenti, stimolo all’innovazione e libertà di scelta per il consumatore».

Editoria e pubblicità, rapporto in crisi. Se c’è un merito che va riconosciuto a Upa è di aver messo al centro dell’attenzione del mondo dei media e della pubblicità la grave crisi di quel rapporto che ha costruito il successo di molte marche commerciali e ha fatto la fortuna di molte testate giornalistiche. In realtà, come per le altre tre crisi (ambientale, energetica e finanziario-economica) la crisi dell’informazione viene prima della “tempesta perfetta”: tanto che non ha saputo prevederla. Schiacciata dall’insorgenza dei new media (internet in testa) e dalla invadenza della tv (sia generalista che tematica, vale a dire sia analogica che digitale) la stampa ha perso colpi, per poi perdere copie, diffusione, lettori e pubblicità.

Come se non bastassero la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria, che ha subito tracimato sulla crisi economica, ecco allora la quarta crisi: la crisi dell’informazione sta attraversando tutto il mondo occidentale. A prima vista sembrerebbe che la crisi dei giornali sia la diretta conseguenza della crisi della pubblicità, che da anni foraggia tutti i mass media. In realtà, come per le altre tre crisi (ambientale, energetica e finanziario-economica) la crisi dell’informazione viene prima della “tempesta perfetta”: tanto che non ha saputo prevederla. Schiacciata dall’insorgenza dei new media (internet in testa) e dalla invadenza della tv (sia generalista che tematica, vale a dire sia analogica che digitale) la stampa ha perso colpi, per poi perdere copie, diffusione, lettori e pubblicità.

Futuro difficile da prevedere. Difficile immaginare cosa accadrà nel prossimo futuro, in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa. Sono preoccupanti le previsioni per i grandi giornali, dal New York Times (che, per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo, disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York), per non parlare del Wall Street Journal (che ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti): questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana. Anche il Washington Post ha annunciato di tagliare dal prossimo 30 Marzo l’inserto dedicato al business, compresa le pagine quotidiane dedicate ai listini di Borsa.

Comunque, l’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media è fosco. Per Martin Sorrell, capo di uno dei più grandi colossi della comunicazione globale nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, si vedrà anche qui una riduzione al 20-25%. Insomma, giornali e riviste saranno i più esposti alla concorrenza dei media via internet. Un fatto è certo: il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni, secondo dati di Nielsen Media Research, azienda specializzata nel monitoraggio degli investimenti pubblicitari. Il che ha spinto gli operatori della comunicazione commerciale a interrogarsi, alla ricerca di soluzioni possibili e realizzabili nei prossimi anni. Dice ancora Lorenzo Sassoli di Upa: «La sfida è quella di riuscire a cogliere umori e valori dei consumatori per realizzare l’incrocio perfetto tra esposizione ai mezzi e consumi, nella consapevolezza che oggi la stessa persona che guarda uno spot, scrive della mia marca su un blog e riceve un mio invito sul cellulare».

L’incognita web. Eccola, allora tutta intera l’esplicitazione della “quarta crisi”, quella che lega pubblicità e informazione: la spasmodica ricerca di un nuovo paradigma tra informazione e pubblicità che perpetui la società dei consumi, oltre la crisi dei consumi. Se questo è il pensiero di chi spende i soldi per la pubblicità nell’informazione, emblematica è la sinergia del ragionamento con chi sta sperimentando, per altro con successo, forme alternative di informazione sul web. Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, attualmente il sito più famoso d’America, lei, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti, partecipando al Summit della pubblicità, organizzato appunto da Upa ha tracciato tre tendenze in atto: a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti. In particolare, secondo Arianna Huffington, intervistata da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda.

La domanda è: è pronto il mercato italiano a questo profondo cambiamento? «Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria», ha detto Marco Benedetto, che ha appena fondato blitzquotidiano.it, sito emulo di Haffington Post.
Forse la quarta crisi è solo un momento di transizione verso la convergenza di stampa, tv e internet. Oppure, come per la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziario-economica, anche la crisi del rapporto tra pubblicità e informazione è una crisi strutturale, che rimanda alle contraddizioni della società dei consumi.

Per dirla come la dice Zygmunt Bauman «in veste di compratori siamo stati adeguatamente preparati dagli uomini di marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo di soggetto: finzione vissuta come verità di vita, parte recitata come “vita reale” che col passare del tempo spinge da parte la vera vita reale, privandola di ogni possibilità di ritorno» (“Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Roma-Bari 2009). Il che fa pensare che dalla “quarta crisi” non si esce solo riorganizzando il sistema dei media, perché sia più flessibile alle esigenze della comunicazione commerciale. Ma ripensando il ruolo del cittadino-consumatore, nei nuovi scenari sociali nei quali ci troveremo a vivere, quando le crisi attuali avranno portato a termine l’opera di sconvolgimento che stanno provocando. «Assistiamo alla selezione della specie – ha detto Enrico Finzi, presidente di Astra Ricerche, una delle più importanti aziende italiane di ricerche di mercato -. Ma la crisi comporta anche la nascita di una società parzialmente nuova dove ci saranno più professionalità, integrazione, e una comunicazione più veritiera e creativa». E’ probabile che all’interno delle aziende, il marketing ingloberà la comunicazione perché produzione, ricerca, distribuzione, comunicazione e politiche di prezzo saranno più variegati e avranno una regia centralizzata. Dice ancora Finzi: «Avremo quindi “markettari” con una forte competenza di comunicazione, ma non avremo più due funzioni distaccate. La regia dei registi sarà all’interno dell’azienda, la regia della realizzazione esternalizzata, ma con forte controllo dell’azienda».
E’ probabile che le cose vadano così, vale a dire che alla fine le aziende saranno più forti e decisioniste nei processi di comunicazione commerciale e che di conseguenza i media diventeranno perfettamente compatibili a queste nuove regole. Fosse questa la via d’uscita, significherebbe rimandare ancora la madre di tutte le questioni: chi è al centro del processo di comunicazione, l’azienda che produce o il cittadino che consuma?

Si dovrà per forza di cose verificare l’amara profezia di Zygmunt Bauman, secondo cui «consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza dei nostri desideri. E’ una guerra silenziosa, e la stiamo perdendo?». (“Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Roma-Bari 2009).
Ai “posters” l’ardua sentenza, come ha detto una volta Pasquale Barbella, uno dei più brillanti copywriter della pubblicità italiana. (Beh, buona giornata).

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La brutta stagione della carta stampata.

da blitzquitidiano.it
Sembra ormai un bollettino di ospedale durante un’epidemia. In America chiudono giornali importanti, il New York Times prevede ancora chiusure, alcuni hanno abbandonato la carta, optando per l’on line only.

Leggendo dell’America, e non solo per i giornali, bisogna fare attenzione alle abissali differenze, sia nella flessibilità della forza lavoro, cioè la possibilità di licenziamento; sia nella crisi, che da loro ha preso una piega molto più brutta, ameno per ora, che da noi.

Molti dei giornali che chiudono sono giornali della sera, travolti non solo dal crollo della pubblicità ma anche dal cambiamento delle abitudini di vita degli americani che vivono fuori dei grandi centri urbani (causa la smisurata offerta tv degli ultimi anni); da noi i giornali della sera hanno chiuso da decenni.

Ora c’è anche chi parla di affidare i giornali in fondazioni. L’ex direttore del Wall Street Journal, Paul Steiger, ha trovato finanziatori per un suo sito dedicato al reporting investigativo, uno dei tipi di giornalismo messi più a rischio dal crollo dei ricavi e quindi delle disponibilità economiche dei giornali per investire nel prodotto.

Sono idee molto affascinanti. C’è da dubitare che in Italia possano funzionare delle fondazioni che controllano dei giornali, specie se il capitale è pubblico o si tratta di una fondazione con diversi finanziatori.

In Europa c’è un modello che funziona, quello della fondazione che controlla il quotidiano inglese the Guardian. Ma la fondazione, costituita negli anni trenta da un ricco industriale di Manchester per impedire che i suoi eredi vendessero il giornale, con tutti i vantaggi fiscali connessi, è un’istituzione privatissima, dove comandano solo i discendenti del fondatore, non entrano altri padroni e meno che mai i partiti.

In Italia una legge speciale per l’editoria prevede particolari vantaggi per fondazioni che posseggano giornali. Ma non si tratta di iniziative destinate a stare sul mercato, bensì a far affluire soldi pubblici in modo diverso. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
new york times
the american

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il mainstream e la quarta crisi.

di Pino Cabras – Megachip.info

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi – che però ancora facevano massa critica – per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali – molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l’analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All’opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato – gradualmente ma inesorabilmente – la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l’altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira – quella vera, non gli sfottò – che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L’esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un’impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l’impresa e la libertà d’intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l’insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un’idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E’ un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell’ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l’ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l’unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall’impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Informazione, la quarta crisi.

di Marco Ferri- Il Manifesto

Come se non bastassero la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria, che ha subito tracimato sulla crisi economica, ecco la quarta crisi: la crisi dell’informazione sta attraversando tutto il mondo occidentale.
A prima vista sembrerebbe che la crisi dei giornali sia la diretta conseguenza della crisi della pubblicità, che da anni foraggia tutti i mass media. In realtà, come per le altre tre crisi
(ambientale, energetica e finanziario-economica) la crisidell’informazione viene prima della “tempesta perfetta”: tanto che non ha saputo prevederla. Schiacciata dall’insorgenza dei new media
(internet in testa) e dalla invadenza della tv (sia generalista che
tematica, vale a dire sia analogica che digitale) la stampa ha perso colpi, per poi perdere copie, diffusione, lettori e pubblicità.

Sir Martin Sorrell fondatore e ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale ha sentenziato che nel giro di un paio d’ anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri .
Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva.

Difficile però immaginare cosa accadrà in particolare alla carta stampata, soprattutto negli Usa dove le previsioni dei grandi giornali, dal New York Times (che, per ripianare i bilanci in rosso ha
dovuto vendere il grattacielo, disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York), per non parlare del Wall Street Journal (divenuto di proprietà di Ruppert Murdoch, ha annunciato tagli e
licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti): questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della
stampa americana. Anche il Washington Post ha annunciato di tagliare dal prossimo 30 Marzo l’inserto dedicato al business, compresa le pagine quotidiane dedicate ai listini di Borsa.

L’ipotesi di uno scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media è fosco. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’ attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%.
Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’ essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, si vedrà anche qui una riduzione al 20-25%. Insomma, giornali e riviste saranno i più esposti alla concorrenza dei media via internet.

E’ un fatto che l’intrattenimento condizioni l’informazione, che la stessa sia “condizionata” dagli introiti pubblicitari, senza i quali le testate giornalistiche rischiano la chiusura. E’ un fatto che la
crisi dei consumi riguardi anche il “consumo” di informazioni. E’un fatto che la comunicazione abbia assunto un ruolo determinante nella politica dei governi, spesso come grande diversivo, per orientare le
opinioni pubbliche a favore di scelte e a detrimento di altre, non solo durante le campagne elettorali, ma anche durante l’azione di governo.

La crisi che sta attraversando il mondo dei media rischia di mettere in secondo piano la difesa del diritto a una informazione corretta, il diritto a una comunicazione libera. La crisi degli investimenti pubblicitari spinge sempre più a “catturare “ l’attenzione verso le marche globali, invece che a “liberare” l’attenzione di molti verso la democrazia della comunicazione, verso la democrazia nella comunicazione. Per dirla come la dice Zygmunt Bauman “in veste di compratori siamo stati adeguatamente preparati dagli uomini di
marketing e dai copywriter pubblicitari a svolgere il ruolo disoggetto: finzione vissuta come verità di vita, parte recitata come vita reale’ che col passare del tempo spinge da parte la vera vita
reale, privandola di ogni possibilità di ritorno” (“Consumo, dunque sono”, Editori Laterza, Roma-Bari 2009).

Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente di Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, a conclusione del Summit della pubblicità che si è svolto a Roma giorni fa, ha detto “La comunicazione è e resta
driver competitivo, posto di lavoro per talenti, stimolo all’innovazione e libertà di scelta per il consumatore”. Eccola, allora tutta intera l’esplicitazione della “quarta crisi”, quella che
lega pubblicità e informazione: la spasmodica ricerca di un nuovo paradigma tra informazione e pubblicità che perpetui la società dei consumi. Se questo è il pensiero di chi spende i soldi per la
pubblicità nell’informazione, emblematica è la sinergia del ragionamento con chi sta sperimentando, per altro con successo, forme alternative di informazione sul web. Arianna Huffington, co-fondatrice ed editrice dell’Huffington Post, attualmente il sito più famoso d’America, lei, indicata da Time tra i 100 personaggi più influenti degli Stati Uniti, partecipando al Summit della pubblicità, organizzato appunto da Upa ha tracciato tre tendenze in atto: a) i giovani vivono online; b) di crescente importanza è la fase d’ascolto
del proprio pubblico da parte di ogni testata giornalistica; c) centrali i contenuti generati dagli utenti.
In particolare, secondo Arianna Huffington, intervistata da Kara Swisher del Wall Street Journal, il futuro vedrà giornali, TV e internet alimentarsi a vicenda. L’ Huffington Post ha circa 20milioni
di visitatori mensili che sempre più desiderano interagire con informazione. Il mese scorso sono stati un milione i commenti al celebre sito. Tutto ciò senza un dollaro di marketing, ma solo attraverso il passaparola.
Nonostante le dimensioni del fenomeno internet – soprattutto negli USA – e la misurabilità dei risultati grazie ai click, vi sono ancora inspiegabili resistenze da parte delle aziende a investire in questo mezzo. Negli Usa, figuriamoci in Italia.

“Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria”, ha detto al Sole 24 Ore Marco Benedetto, vicepresidente del Gruppo Espresso, una vita spesa a creare prodotti editoriali di successo, che ha appena fondato blitzquotidiano.it, sito emulo di Haffington Post.

Forse la quarta crisi è solo un momento di transizione verso la convergenza di stampa, tv e internet. Oppure, come per la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziario-economica, anche la crisi del rapporto tra pubblicità e informazione è una crisi strutturale, che rimanda alle contraddizioni della società dei consumi: “consumiamo ogni giorno senza pensare, senza accorgerci che il consumo sta consumando noi e la sostanza del nostro desiderio. E’ una guerra silenziosa e la stiamo perdendo” (Z.Bauman). Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

“Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale.”

di MARCO LILLO -L’espresso

Nel pieno della crisi peggiore degli ultimi settant’anni, Silvio Berlusconi predica ottimismo: “Nessun dramma”. Effettivamente il Cavaliere ha le sue ragioni per vedere rosa. Il gruppo del presidente del Consiglio può vantarsi di essere riuscito ad aumentare (di poco) la raccolta pubblicitaria (pari a 3 miliardi e 35 milioni di euro) nel 2008. Lo dicono le stime di Nielsen Media che ‘L’espresso’ pubblica in esclusiva. Secondo questi dati, anche nell’anno in corso la corazzata Mediaset reggerà l’onda della recessione meglio dei competitori. Nonostante l’Auditel in ribasso e la crescita del concorrente Sky, la concessionaria Publitalia, guidata da Giuliano Adreani, riesce ancora a condire di spot i programmi delle reti guidate da Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri.

I grandi clienti, come Wind, Infostrada, Barilla, Telecom Italia e Fiat non resistono all’appeal delle reti Fininvest. Nel primo anno del governo Berlusconi i primi 15 inserzionisti del nostro mercato hanno aumentato i loro investimenti su Mediaset di 30 milioni di euro mentre la Rai è rimasta al palo. Eppure le reti Mediaset hanno perso telespettatori sia nel prime time che nell’intera giornata. Proprio quando Mediaset perde colpi, più della Rai, il gruppo del presidente del Consiglio aumenta le quote di pubblicità rispetto a viale Mazzini e agli altri media. La stessa situazione si pose nel 2002 e allora l’opposizione, sulla base di stime parziali, gridò al ‘conflitto di interessi’. ‘L’espresso’ ha provato a ricostruire l’andamento della raccolta pubblicitaria per capire se davvero le aziende del presidente del Consiglio hanno beneficiato di una particolare attenzione delle imprese.

Nielsen: Publitalia aumenta
Il punto di partenza sono i dati contenuti nel monitoraggio effettuato quotidianamente da Nielsen Media, la principale società di ricerche del settore. Nielsen rileva le inserzioni pubblicate o trasmesse per poi ricostruire (in base al listino) il valore dell’investimento del cliente. Le stime fotografano in tempo reale lo stato di salute del mercato pubblicitario e quindi dell’editoria e della televisione.

Cosa dicono i dati? Per i giornali e, in misura minore, per radio, tv e Internet è in corso una gelata senza precedenti. Solo Mediaset e pochi altri (come le radio del Centro-Sud) sembrano beneficiare dell’ultimo scampolo di primavera. Il totale degli introiti derivanti dalla pubblicità commerciale in Italia scende nel 2008 da 8 miliardi e 172 milioni di euro a 7 miliardi e 978 milioni. E invece Publitalia sale, anche se di poco: 3 milioni. La concessionaria del Cavaliere riesce ad aumentare la sua quota di un punto percentuale fino al 38 per cento. La Rai invece sembra vittima di un paradosso opposto. Sipra, la società del gruppo che raccoglie la pubblicità per viale Mazzini lascia sul campo ben 53 milioni di euro.

Il crollo della Rai
Le ragioni di questa Caporetto vanno ricercate in tre fenomeni: lo spostamento di pubblicità da Rai a Mediaset da parte di alcuni grandi investitori; l’incremento maggiore della quota riservata al network berlusconiano e infine l’aumento della pubblicità ‘amica’, che comprende quella che proviene dall’imprenditore Berlusconi (Medusa, Mondadori e Mediolanum) e quella che viene invece dalle aziende e dalle istituzioni controllate dal governo: ministeri, Poste, Eni ed Enel (vedi scheda a pagina 35).

L’effetto di questi tre fattori è ben descritto dai grafici della Nielsen, che raccontano un’Italia nella quale la pubblicità si concentra sempre di più nelle reti radiotelevisive e si focalizza su un solo gruppo. Quello del presidente del Consiglio. Apparentemente stiamo parlando di merendine e automobili, in realtà è in ballo qualcosa di più importante. La pubblicità è la principale fonte di sostentamento non solo delle radio e tv, ma anche dei giornali. Solo chi raccoglie pubblicità oggi ha i mezzi per produrre buona informazione, che costa.

La concentrazione del 38 per cento delle risorse nelle mani del colosso televisivo del premier, il contestuale indebolimento della tv pubblica e della carta stampata non incidono solo sul mercato, ma anche sulla quantità e sulla qualità delle fonti alle quali può attingere l’opinione pubblica per informarsi. Ovviamente le aziende inserzioniste non pensano a tutto questo quando pagano per pubblicare o trasmettere uno spot. Pianificano le loro campagne cercando solo di massimizzare il ritorno. Non è colpa loro se in Italia esiste una situazione paradossale determinata dall’oligopolio televisivo e dal conflitto di interessi. Non è colpa loro se devono fare i conti con un presidente del Consiglio che nell’ottobre scorso arriva a dire a un gruppo di imprenditori: “Non capisco come fate ad accettare che i vostri prodotti siano pubblicizzati dalla Rai”.(Beh, buona giornata).

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Pubblicità e mass media

Un’idea di marketing per le banche in tempi di crisi.

di Hans Suter
robert waldmann insegna economia a roma, oggi ha sul suo blog un idea che mi piace: dice che le banche taglino i loro budget di marketing, visto che servono solo per rubare clienti l’un l’altro. Aiuterebbe loro ad aumentare la redditività e fa l’esempio delle sigarette che una volta finita di far pubblicità han cominciata a guadaganere veramente bene.

http://rjwaldmann.blogspot.com/2009/03/kevin-drum-writes-banks-marketing.html
Kevin Drum Writes

“the bank’s marketing budget — which no one in their right mind thinks should be shut down during a recession”

Guess I’m not in my right mind. I’d say it would be a good idea to impose a temporary regulation that no entity with a banking license is allowed to spend money on marketing. I will stipulate that banks have chosen profit maximizing marketing budgets. This does not mean that the Citibank marketing budget maximizes Bank of America profits. I’d guess that banks’ marketing mainly serves to win clients from each other not to increase total demand for banking services.

Consider the ban on TV advertizing of cigarettes. This was followed by a huge increase in the profits of cigarette companies. They were no longer spending money to steal customers from each other.

Now, I don’t want to ban marketing and adverstising in general. Hell no, then I’d have to pay to read Kevin Drum’s blog. But banks need cash right now. I think it would be good if other sectors picked up the budget for free to the user content.

So I think a good way to prop up banks is to ban marketing by banks (also lobbying of course).

Just to make my proposal clear. I do not propose banning marketing only by troubled banks which have received public money. I think it would be a bad thing if banks with strong balance sheets were allowed to market and banks with weak balance sheets were not allowed to market. I propose a (temporary) regulation which applies to all banks. Oh except maybe for the temporary part. (Beh, buona giornata).

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