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Attualità Società e costume

Un barbone a Roma: «Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina».

da ilmessaggero.it
«Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina». Per questo un clochard a Roma ha deciso di scrivere su un cartello appeso al collo: “Sono bulgaro”. Per lui è un modo per ingraziarsi gli automobilisti distratti su via Laurentina «che almeno – spiega – così sanno subito che con i romeni non ho nulla a che fare».

I passanti e gli autombilisti di tanto in tanto gli allungano qualche monetina, più attirati dal cartello che porta appeso al collo che dallo stato di indigenza dell’uomo.

Pantaloni larghi, giaccone blu di almeno tre misure più grande, capellino di lana, il “bulgaro” non parla ma si avvicina discretamente ai finestrini delle macchine e aspetta l’elemosina. Il cartello non è scritto a mano e non è nemmeno di cartone marrone. È di buona fattura: bianco e plastificato, ha la scritta in nero realizzata al computer.

E se gli si chiede perché abbia scelto di indicare solo la sua provenienza e non, l’uomo schivo risponde con un forte accento dell’Est e a bassa voce: «Per noi che veniamo da quelle zone adesso in Italia e soprattutto qui a Roma è tutto più difficile. Pensano che siamo tutti della Romania, che siamo tutti delinquenti, e ci trattano di conseguenza. Ci chiamano stupratori, ci dicono di tornare a casa. Ma tanti di noi sono qui per cercare un lavoro onesto e, se non lo trovano subito, chiedono l’elemosina, come faccio io. Non ho nulla contro i romeni ma devo sopravvivere».

Qualcuno chiude il finestrino, altri fanno finta di non vederlo. Un automobilista gli dà un euro: «È triste – dice – che qualcuno debba pensare di dover mettere in chiaro a quale nazionalità appartiene per avere la carità. La povertà non ha colore o paese». (Beh, buona giornata).

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Attualità

Stupro della Caffarella: la polizia si dimenticò al bar un impermeabile sporco di sangue.

di Luca Lippera da ilmessaggero.it
ROMA (5 marzo) – «Vede? Sta ancora lì, appeso… E non ho mai capito perché la polizia non è più venuta a prenderlo. Eppure io gliel’ho detto che sta qui…». Tra le tante stranezze del caso della Caffarella, la più strana, ma davvero strana, è rimasta pietrificata nel “Simon Bar” di via Crivellucci 6. È l’impermeabile, sporco di sangue e di chissà cos’altro, in cui la vittima dello stupro di San Valentino fu avvolta la sera del 14 febbraio dalla titolare della tavola calda. Sulla fodera interna, ci sono, ben visibili, almeno quattro macchie che potrebbero rivelare, oltre ai liquidi organici della vittima, quelli degli assalitori tuttora sconosciuti. «La ragazzina tremava racconta Alessandra Bruni, 24 anni, contitolare del “Simon Bar” e aveva sangue lungo le gambe. Così la avvolsi nel mio trench. Quando arrivò la polizia, segnalai il fatto, ma l’abito, nella foga, è rimasto qui. Ora non so se chiamare qualcuno, perché non vorrei dare l’impressione di forzare la mano…».

Lo “spolverino”, beige scuro, un modellino tipo Sherlock Holmes, è tuttora appeso insieme ad altri soprabiti accanto all’ingresso della cucina del “Simon Bar”. Il locale, un posto carino e tranquillo, proprio davanti al Parco della Caffarella, è stato il primo approdo dei ragazzini dopo quello che vissero nella boscaglia. «Non mi azzardo neppure a toccarlo continua la Alessandra Bruni, un bel bambino di un anno in braccio, toscana d’origine, poi cresciuta a Milano Non vorrei “inquinare” una cosa che potrebbe tornare utile. Sono passati i giorni. Pensavo che prima o poi gli agenti della polizia sarebbero venuti a prenderlo. Ma non non s’è visto nessuno. Per carità: non voglio assolutamente permettermi di suggerire a chi indaga cosa va fatto. Però non so come comportarmi. Così l’ho lasciato lì. Se è un oggetto utile, prima o poi me lo chiederanno…».

Sentirle, certe parole, e vederlo lì l’impermeabile sporco di sangue fa davvero riflettere. Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, 36, i romeni, sono in Carcere a Regina Coeli accusati di una violenza che ha scosso nel profondo la città per la ferocia e l’età della vittima. Sul corpo della ragazzina seviziata nel giorno di San Valentino non ci sono tracce del loro Dna: perfino il liquido seminale non porta ai due immigrati. Ma sull’attaccapanni di un bar dell’Appio riposa, mentre la Procura e la Questura difendono l’inchiesta, un indumento che magari potrebbe aiutare le indagini in un senso o nell’altro. Sembra però che la cosa non interessi. «Non vorremmo aver rivelato un fatto inopportuno si preoccupa Roberto, 50 anni, contitolare del “Simon Bar” è solo che veramente, specie dopo le ultime notizie che si sono sentite, il Dna e tutte queste storie, non sappiamo cosa fare».

I titolari del bar la sera del 14 febbraio scorso se la ricordano bene. Un racconto, il loro, che apre altri scenari e ulteriori riflessioni. «Ero qui ricorda Roberto e il ragazzino ce l’ho ancora davanti agli occhi. Alessandra li aveva fatti sedere tutti e due. Lui stringeva la mano alla fidanzatina e diceva: “Erano un arabo e uno zingaro, un arabo e uno zingaro…”. L’ha ripetuto non so quante volte. Quella era, a caldo, la sua prima impressione, forse quella più netta. Quando mi hanno convocato in Questura, l’ho ripetuto agli agenti che mi hanno sentito: “Un arabo e uno zingaro”, lui diceva così. Tra l’altro, da quello che ho capito, il ragazzo ci aveva parlato e aveva avuto modo di rendersi conto di chi aveva di fronte. Ci raccontò, insieme alla ragazza, che uno dei violentatori, prima che la situazione precipitasse, si era avvicinato alla panchina chiedendogli una sigaretta. Dunque l’aveva visto in faccia e credo che ne avesse percepito l’accento. Non siamo certo noi a poterlo dire. Ma forse era un dettaglio importante…».
Forse. Come un impermeabilino sporco di sangue che evidentemente non merita attenzione. Tanto, prima del Dna, c’erano i romeni. (Beh, buona giornata).

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Stupro della Caffarella: “La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale.”

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Francamente non so se bisogna benedire o maledire quello che è successo. Sia ben chiaro: la scoperta che i due immigrati romeni accusati di essere i colpevoli dello stupro della Caffarella in realtà non lo sono, è un vero e proprio schiaffo alla nostra coscienza nazionale.

Vogliamo davvero lasciar passare questo episodio come un ennesimo «disguido» delle Istituzioni del nostro Bel Paese, o vogliamo fermarci un attimo a chiederci come sia stato possibile, e chi ne sia responsabile? Perché, prima ancora che si sappia bene quel che è accaduto, una cosa è certa: questo è un tipico caso in cui almeno un responsabile va trovato e deve pagare.

Vediamo intanto perché la vicenda Caffarella si presenta come più grave dei pur molti errori simili. Le indagini italiane non sono un esempio di efficacia. Questa affermazione si fa molto spesso a proposito di iniziative «audaci» da parte di magistrati che indagano sulla politica. In questi casi, c’è un’attenzione quasi parossistica al tema da parte sia dei giornali che del Parlamento.

La verità però è che le indagini italiane sono ampiamente carenti anche quando si tratta di crimini comuni. La prova? La confusione e le lungaggini in cui si sono insabbiati alcuni grandi delitti, quasi tutti dati per altro come «chiariti»: ci trasciniamo ancora fra il pigiama e gli zoccoli di Anna Maria Franzoni nella villetta di Cogne, fra il computer e i pedali della bici di Alberto Stasi, fra le tracce di Amanda e Raffaele sul reggipetto di Meredith. Quasi tutti i maggiori delitti del Paese, anche quelli non politici, periodicamente rigurgitano una nuova prova persa, avvilita, trascurata o smarrita. Ad esempio, Profondo Nero, un recente libro di Giuseppe Bianco e Sandra Rizza (ed. chiarelettere) riapre l’inchiesta sull’assassinio di Pasolini, collegandolo alla morte di Mattei e del giornalista De Mauro, proprio in base a nuove testimonianze.

A differenza dei casi che riguardano la politica, però, gli italiani non sembrano indignarsi troppo degli errori nelle indagini di «nera». Anzi: la confusione è diventata una sorta di nuovo genere di «soap» giornalistica che si sviluppa nel tempo e con grande godimento di tutti.

Lo stupro della Caffarella presenta una forte novità, figlia di questi nostri tempi: è un fatto di violenza, dunque di nera, che assume però una fortissima valenza sociale per il contesto in cui avviene. Un caso «transgender» che scavalca le tradizionali distinzioni fra cronaca e politica.

Della delicatezza della situazione siamo stati consapevoli tutti fin dal primo momento. E ci siamo fidati. Fidati, sì. Perché in Italia, nonostante si ami dilaniarsi su tutto fra Guelfi e Ghibellini, resiste una profonda fiducia nelle nostre istituzioni. Ogni volta è come se fosse la prima, per la nostra opinione pubblica. Ci siamo tanto fidati che quando la polizia ci ha presentato i suoi mirabolanti risultati, nessuno di noi ha sollevato un dubbio. Nonostante le Amande, gli Alberti, le Annamarie e gli Azouz, abbiamo applaudito e gridato al miracolo. Se non è fiducia nelle istituzioni questa!

Poi le smentite, e infine la certezza dell’errore. E non si sa se benedire il disvelamento, o se maledire la nostra stupidità collettiva. Tutti convinti da parole come «materiale organico» e «Dna», nonché ammiratori del metodo. La polizia ha avuto anche l’impudenza di presentarci (in una conferenza stampa!) il racconto di un’inchiesta esemplare, svolta in collaborazione internazionale con la polizia romena, con foto e pedinamenti, il metodo tradizionale. Approfittando così (tanto per colorare di più la valenza politica del risultato) per dare una bastonata polemica all’uso delle intercettazioni.

Ora, di fronte alle smentite, si dice: «La politica ha messo fretta». Ma non è questo lo scandalo: la politica fa sempre fretta, ha sempre bisogno di presentare, usare, mangiare. Scandalosa è l’incoscienza dei corpi dello Stato che hanno accettato questa fretta. E scandaloso è soprattutto il risultato: l’intero Paese si è visto condurre per il naso verso una direzione che conferma il razzismo più frettoloso e più rozzo. Cui nessuno è riuscito a sottrarsi, nemmeno i democratici più convinti.

Qualcuno dei nostri lettori potrebbe alzare la mano e porre una domanda molto opportuna: ma voi giornalisti? Perché anche voi vi siete accucciati? È un rimprovero giusto. Troppo spesso noi giornalisti facciamo da acritica cassa di risonanza delle indagini. Una responsabilità che ci è stata già rinfacciata. E che ci prendiamo. (Beh, buona giornata).

Ma come dubitare di un teatrino perfetto, come quello messo in piedi dalle nostre istituzioni? Siamo di fronte a una vera e propria frode. Qualcuno deve pagare per il clima che l’episodio lascia in tutto il Paese, di amaro in bocca e di sgomento. (Beh, buona giornata).

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Stupro della Caffarella: gli esami del DNA smentiscono una sentenza già scritta.

di LUCA LIPPERA da ilmessaggero.it

ROMA (3 marzo) – L’inchiesta sullo stupro della Caffarella si complica ulteriormente. La Procura ha ammesso che esistono «discrepanze» tra il Dna dei romeni in carcere per la violenza di San Valentino e le tracce (di saliva, sudore e liquido seminale) individuate sulla vittima. Ma la vera novità sembra un’altra: le impronte sulle carte “sim” dei cellulari rubati ai fidanzatini, tirate fuori dagli aggressori nel parco e buttate nel bosco, sarebbero inservibili in quanto «troppo frammentarie»: potrebbe dunque diventare impossibile collegarle a Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, gli immigrati tuttora in carcere per la feroce violenza che ha scosso la città nel giorno di San Valentino.

I difensori dei romeni, Lorenzo Lamarca, e Giancarlo Di Rosa, convinti che «in uno Stato di diritto contino le prove e non le parole», hanno presentato due istanze al Tribunale del Riesame chiedendo la liberazione degli stranieri. I vertici della Procura, ieri, hanno fatto capire chiaro e tondo che i test del Dna sono negativi per entrambi i romeni. Ma c’è di più. Gli investigatori sembrano convinti che l’esperto della Criminalpol che ha eseguito gli esami possa aver commesso in buona fede un errore. I nuovi accertamenti, fatto non consueto, non verranno eseguiti dalla Polizia Scientifica: il compito è stato affidato a un biologo esterno che già domani potrebbe confermare l’esito del collega o ribaltare tutto. Nel qual caso dovrà spiegare dove e perché vi fu un errore.

È chiaro che la negatività dei primi test peserà. Se non ora, sull’eventuale processo. Il nervosismo tra gli investigatori si avverte ed è palpabile anche il timore di aver preso, magari solo parzialmente, un abbaglio. Non a caso nei prossimi giorni, per scongiurare la possibilità (più teorica che altro, ndr) di una commistione tra il Dna di diverse persone, il fidanzatino della quindicenne seviziata alla Caffarella potrebbe essere sottoposto a un prelievo per stabilirne il profilo genetico. I ragazzi verranno comunque risentiti. Perché, si fa capire in Questura, «ci sono da chiarire alcuni punti oscuri». Quali e quante siano le ombre non è dato, tuttora, sapere.
Ma gli investigatori, dopo la “bomba” sul Dna, ieri hanno manifestato ottimismo. Il capo della Squadra Mobile, Vittorio Rizzi, ha incontrato in Procura, a piazzale Clodio, Vincenzo Barba, il pubblico ministero che coordina l’inchiesta. La Procura giudica «del tutto parziali i test non attribuibili completamente agli indagati». Quello su Racz, in realtà, sarebbe completamente negativo. Quello su Isztoika, il “biondino”, ex pastore in Transilvania, lascerebbe invece qualche margine all’accusa. Il Pm ha confermato di aver «disposto nuovi accertamenti per cancellare i dubbi» convinto che ci siano «a carico dei due elementi pesanti come macigni».

Il capo della Mobile, rispondendo a un cronista dell’Ansa, ha anche parlato del giallo dei telefonini. I cellulari personali di Isztoika e Racz, all’ora dello stupro, sabato 14 febbraio, ore 18,30 circa, non erano agganciati ai ripetitori nella zona Caffarella. Rizzi ha definito il fatto «una fantasia giornalistica». I dati effettivamente non sono nel fascicolo dell’inchiesta, fascicolo che per ora nessuno (neanche la difesa) ha visto. È il comprensibile gioco delle parti tra chi raccoglie elementi d’accusa e chi si difende. La polizia sapeva, fin dai primi giorni dopo la violenza, che gli apparecchi erano altrove. La cosa può voler dire tutto e nulla: non è detto che un rapinatore porti sempre con sé il telefonino sapendo di poter essere “tracciato”. Così gli inquirenti hanno sorvolato.

Ora ci si concentra anche sulla successione di colloqui che ha portato la vittima a indicare Isztoika, il “biondino”, come uno degli stupratori. La ragazzina fu sentita una prima volta appena uscita dall’ospedale. Erano le 00,20 del 15 febbraio. La vittima parlò subito di un «giovane coi capelli chiari». Il pomeriggio dello stesso giorno, alle 16,30, con l’aiuto di una psicologa dell’associazione “Differenza Donna”, la quindicenne cominciò a far tracciare negli uffici della Mobile un primo fotokit dell’aggressore. Quattro ore dopo riconobbe, tra quelle che le venivano mostrate dalla polizia, la foto del romeno. Il giorno dopo la Mobile e il Questore di Roma potevano annunciare gli arresti. «Bravissimi o fortunatissimi disse Rizzi alla settima foto la vittima ha detto: “Ecco, è lui!”». Ma il bosco della Caffarella forse si è tenuto qualche lupo e molti misteri.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

La sicurezza, le ronde e le “facce da romeni”.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it

Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli – e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro – la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti – noi che facciamo informazione – a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto

Sicurezza: “Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.”

C’è clamore – Giochiamo alla ronda. da alessandrorobecchi.it

Ha ragione Roberto Maroni: le ronde faranno diminuire gli stupri. Centinaia di mariti fuori a fare le ronde, significa centinaia di mogli a casa da sole, dunque meno esposte a pestaggi e violenze sessuali.

E’ una mera notazione statistica, non se la prendano gli indagati per istigazione all’odio razziale che militano nello stesso partito del ministro degli Interni. Ha ragione anche Silvio Berlusconi: gli stupri sono diminuiti, ma le ronde si fanno lo stesso perché su questa faccenda c’è “clamore”. Ma che razza di bastardi sono quelli che fanno “clamore” su stupri e violenza? Non saranno mica i proprietari di televisioni che aprono con la cronaca nera ogni edizione del telegiornale! Tanto per gradire (fonte: Centro d’Ascolto sull’Informazione Radiotelevisiva), ecco qualche numero. Nel 2007 hanno aperto il loro notiziario con la cronaca nera, creando apprensione e paura nel paese, i seguenti telegiornali. Tg1, 36 volte, Tg2, 62 volte, Tg3 32 volte, Tg4 70 volte, Tg5 64 volte e Studio Aperto (record! Il tg tette&culi non delude mai) 197 volte.

Se ne deduce che durante la scorsa campagna elettorale le televisioni di proprietà del candidato Silvio Berlusconi hanno pompato sulla paura molto più delle altre (insieme al fedele Tg2). E’ un dato di fatto. Impaurito a dovere il paese, creato quel “clamore” che oggi si denuncia, si è passati all’incasso vincendo le elezioni e preparando il terreno per il razzismo applicato e la pulizia etnica di questi giorni. Ora la situazione è più complessa: lo statista Berlusconi deve dire (per forza!) che i reati sono calati, ma ricorre alla decretazione d’urgenza a causa del “clamore”.

In sostanza a causa della propaganda delle sue televisioni. Quanto alle ronde, si vorrebbe far credere che nascono per impedire la furia del popolo che vuole farsi giustizia da sé. In italiano tutto questo ha una sola definizione: la faccia come il culo. Resta da chiedersi, quando cominceremo noi a dire a questi ceffi: tolleranza zero? (Beh, buona giornata)

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