Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: chi si compra Business Week?

Stando ad alcune indiscrezioni, il gruppo editoriale McGraw-Hill avrebbe preso la decisione di mettere in vendita il settimanale Business Week . Il gruppo avrebbe già affidato alla banca Evercore Partners il compito di cercare nuovi acquirenti. Attualmente, la testata è diffusa in 140 paesi e ha una readership di 4,8 mln di lettori.

La causa della vendita sarebbero le difficoltà economiche in cui verte il giornale, problemi causati dal crollo degli investimenti pubblicitari e dalla concorrenza del web. Infatti, nel primo trimestre 2009 la raccolta pubblicitaria ha subito un calo del 38%. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: le news on line hanno 10 milioni di utenti al giorno.

(fonte: advexpress.it)
Nielsen Online elabora e commenta i dati Audiweb del mese di maggio relativi ai siti di news, in particolare quelli di quotidiani, Tg e canali news dei principali portali. A maggio si rileva una lieve flessione della rete rispetto al mese di aprile: gli utenti medi giornalieri sono circa 10 milioni, il 5% in meno rispetto al mese di aprile.

Lo stesso trend si ritrova restringendo l’analisi alle news online, soprattutto perché il terremoto in Abruzzo del 6 aprile ha fatto registrare dei picchi di utenza in quel mese in quasi tutti i siti di notizie.

Considerando che il mese di maggio non ha avuto fatti di cronaca equiparabili a quel drammatico evento, si può dire che l’utilizzo di questa tipologia di siti è stato intenso anche a maggio. Stabili le prime tre posizioni della categoria. Repubblica.it rileva 930 mila utenti medi giornalieri, circa il 10% di tutti i navigatori attivi, e rimane sostanzialmente stabile rispetto al mese precedente. Ogni utente di Repubblica ha trascorso in media 6 minuti al giorno sul sito, visitando 13 pagine.

Molto simili i consumi medi giornalieri su Corriere della Sera, che però rileva una lieve flessione rispetto ad aprile, attestandosi a circa 790 mila utenti giornalieri. Al terzo posto, stabile a 660 mila utenti, si conferma Libero News. Il tempo medio giornaliero più basso (meno di 5 minuti) e il numero di pagine viste più elevato (17 per persona), confermano una specificità di fruizione dei contenuti, dovuta a notizie più brevi e rapide da consultare.

Mediaset.it TGCom, con oltre 400 mila utenti medi giornalieri e alti consumi del sito, si posiziona alla spalle dei tre grandi. Rispetto al mese di aprile però cede il passo alla Gazzetta dello Sport , che come tutti i siti di informazione sportiva nel mese di maggio rileva un forte incremento, per l’importanza degli eventi sportivi del mese: la fine del campionato italiano di calcio, le finali di Champions League e Coppa Uefa, il Giro d’Italia, l’inizio del Roland Garros oltre a notizie quali la rottura dei rapporti di Ancelotti con il Milan, l’esonero di Ranieri dalla Juventus e le prime voci di calciomercato.

Nonostante il grande incremento di utenza, rimane stabile all’undicesimo posto il sito del Corriere dello Sport mentre guadagna una posizione quello del TuttoSport, che arriva a sfiorare i 100 mila utenti medi giornalieri. Stabili al sesto e settimo posto ANSA e Il Sole 24 Ore, mentre Editrice La Stampa e Virgilio Notizie guadagnano entrambi una posizione ai danni di Yahoo! News , che scivola dall’ottava alla decima posizione.

Le prime evidenze sui dati Audiweb powered by Nielsen Online di giugno confermano il gradimento degli italiani per le notizie online, con ulteriori crescite rispetto ai dati di maggio per la maggior parte dei siti di news. Questo è da imputarsi sicuramente agli eventi del mese, dalle elezioni alla bufera scatenata dalle foto di Villa Certosa, ma è anche il segnale di un crescente apprezzamento per questa tipologia di informazione. Le news in digitale hanno infatti il vantaggio decisivo rispetto agli altri mezzi dell’aggiornamento in tempo reale, la possibilità cioè di verificare assiduamente nel corso della giornata l’evolversi degli avvenimenti rispondendo in tal modo al bisogno immediato di informazione degli utenti, soprattutto in circostanze di forte coinvolgimento. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: “Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.”

AGCOM E IL GIOCO DELLE TRE CARTE
di Michele Polo-lavoce.info

La relazione annuale dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni sottolinea la fine del duopolio televisivo con il sorpasso di Sky su Mediaset. Ma è un messaggio fuorviante. Perché nasconde l’evoluzione dell’audience tra i principali canali, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di pubblico. E mentre la scomparsa del mondo televisivo tradizionale è ancora lontana, Mediaset conferma la posizione dominante sul mercato pubblicitario, con una quota del 55,1 per cento.

Con qualche giorno di ritardo sulla data dovuta del 30 giugno, l’Autorità di garanzia per le comunicazioni ha presentato la sua Relazione annuale sul settore delle comunicazioni elettroniche e su quello dei media. Su quest’ultimo ci concentreremo, a partire dal messaggio forte che è stato subito ripreso dai giornali: la fine del duopolio, il sorpasso del gruppo Sky rispetto a Mediaset.
Spiace doverlo dire di un’Autorità che ha come compito istituzionale quello della sorveglianza sulla correttezza dell’informazione e sul pluralismo, ma questo messaggio è fuorviante, parziale e omissivo. Vediamo il perché.

I RICAVI E L’AUDIENCE

Il forte peso economico del gruppo Sky non è una novità, e già nella relazione dell’anno scorso lo poneva sostanzialmente alla pari con il gruppo Mediaset: rispettivamente 2.347 e 2.411 milioni di euro, contro i 2.729 della Rai. Con le correzioni apportate nel frattempo, si apprende nella relazione di quest’anno che il sorpasso era già avvenuto nel 2007 (2.422 a 2.411) e si è consolidato durante il 2008 (2.640 e 2.531). Un forte riequilibrio delle risorse tra Rai, Sky e Mediaset è quindi un dato che da almeno tre anni caratterizza il sistema televisivo italiano.
Ma questo messaggio forte ha lasciato in ombra alcuni aspetti che invece risultano importanti nel fare il quadro dell’ultimo anno televisivo. Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.
Ma il secondo dato che non troviamo nella relazione del presidente Calabrò è l’evoluzione della audience tra i principali canali televisivi, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. Il dato sorprendente è che, in una struttura della relazione che ripercorre fedelmente, tabella per tabella, gli stessi indicatori e le medesime analisi quantitative dello scorso anno, il testo si arresta alla descrizione delle quote di mercato nella raccolta pubblicitaria (Mediaset in posizione dominante) e in quella delle offerte televisive a pagamento (Sky superdominante col 91,1 per cento). La tabella successiva, che lo scorso anno riportava l’evoluzione della audience tra i diversi gruppi televisivi, è scomparsa dalla relazione. E bisogna con cura certosina stanare nella nota 22 a pagina 9 della presentazione del presidente Calabrò il dato prezioso: la audience complessiva di Rai, Mediaset e La7, pari al 83,9 per cento (!) ha ceduto nel 2008 una quota del 1,4 per cento di telespettatori al gruppo Sky, che con l’insieme dei suoi canali raggiunge quindi una audience media del 9,5 per cento.
Terminata questa faticosa cernita, possiamo quindi dire che il gruppo Sky si conferma secondo operatore per ricavi, pur rimanendo attestato su una audience sull’insieme dei suoi canali che non raggiunge un quarto di quella di Rai e Mediaset. Quest’ultima, inoltre, è riuscita con successo, grazie alla sua efficiente concessionaria, a contenere l’impatto negativo della crisi sui ricavi pubblicitari, al contrario di quanto avvenuto per la carta stampata e le reti televisive pubbliche.

IL PLURALISMO CHE NON C’È

Restano quindi i problemi che da anni caratterizzano il mercato televisivo italiano. La crescita indubbiamente positiva di un terzo operatore pay, il gruppo Sky, esercita principalmente un impatto sul mercato dei contenuti, dove la concorrenza per i diritti di trasmissione sui principali eventi sportivi, sui film, sui serial di successo e oggi anche per alcuni personaggi del varietà molto popolari, si fa sempre più accesa. Tuttavia, questo operatore, basato su un modello di ricavi (abbonamento da sottoscrizione) complementare a quello di Mediaset (pubblicità) e Rai (canone e pubblicità), riesce a consolidare la propria posizione economica senza la necessità di raggiungere elevati livelli di audience durante la giornata.
Un riequilibrio della audience, d’altra parte, sarebbe quello che potrebbe realmente portare a una maggiore articolazione delle scelte del pubblico, con un beneficio per l’obiettivo del pluralismo. Così, tuttavia, non è. E non lo è per ragioni tante volte commentate su questo sito. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di audience, e che erode selettivamente fasce di pubblico in determinati momenti, su determinati programmi, lasciando, almeno in una prospettiva temporale ancora lunga, gran parte dei telespettatori ai grandi canali generalisti. Le fughe in avanti di quanti vedono nel digitale, e nei molti canali che consente, la fine del mondo televisivo tradizionale non sono giustificate dalle forze economiche che governano il settore dei media né dai dati, se si ha l’accortezza di riportarli.
Per il pluralismo in Italia, anche quest’anno, profondo rosso. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: è utile e fattibile far pagare le news su internet?

Editoria on line/ Murdoch lo dice, gli altri lo fanno: il New York Times vuole mettere il suo sito a pagamento-blitzquotidiano.it

Rupert Murdoch l’aveva detto. Il magnate dell’editoria aveva predetto la fine delle notizie on-line gratis. Ora anche il New York Times, dall’alto del suo record di 18 milioni di contatti singoli al mese, sta valutando di far pagare l’accesso al suo sito, unica risposta al crollo dei profitti.

«Stiamo considerando la possibilità di introdurre una tariffa mensile di 5 dollari per accedere ai nostri contenuti, inclusi articoli, blog e multimedia» dice un annuncio pubblicato sull’ edizione cartacea del New York Times.

Non è la prima volta che il New York Times fa questo esperimento. Nel 2005 lanciò il “Times Select”, che introduceva una tariffa per l’ accesso ad alcune opinioni ed editoriali, ma chiuse il programma due anni dopo.

Sulla questione delle news a pagamento su internet si è espressa anche Layla Pavone, presidente della sezione italiana di Iab (Interactive Advertising Bureau). Intervistata dal Corriere della Sera, la Pavone ha affermato: «È troppo tardi per fare pagare le notizie agli utenti, almeno se parliamo di internet, perché per quanto riguarda il mobile il discorso è già molto diverso. Sul web è difficile fare un passo indietro dopo quasi venti anni di notizie free. Personalmente non credo che l’informazione a pagamento possa avere un impatto positivo sui business model delle aziende editoriali».

TAG: giornali on line, iab, internet, layla pavone, new york times, pagamento, rupert murdoch

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

In piena quarta crisi, nasce in Italia un nuovo quotidiano.

di Pino Cabras – Megachip.info

Sta per nascere un nuovo quotidiano, «Il Fatto», e ha già un volume di abbonati potenziali che appare subito significativo perché sembra voler chiamare a raccolta quanto resta dei “ceti medi riflessivi” italiani.

La cosa merita un po’ di domande e alcune valutazioni. L’iniziativa sembra avere il pregio di poter durare. Come si risponde all’emergenza informativa del nostro paese dominato dall’impresario dello spettacolo che vive la sua fase più sguaiata e pericolosa? C’è un modello imprenditoriale in grado di reggere una nuova impresa nel mondo della comunicazione? Quali sono le sponde politiche?

Sono domande molto attuali, che ci poniamo in piena fase di pericolo per la libertà di parola.

Nel momento in cui sarebbe più necessario che mai poter raccontare una grande crisi, maggiore è invece la difficoltà di fare una buona narrazione e trovare gli strumenti. I media più importanti, nonostante quegli strumenti li abbiano, non li usano, essendo essi stessi troppo dentro le cause della crisi. In Italia, per giunta, questi media sono sotto schiaffo di Papi l’Insaziabile, che insiste ormai ogni giorno per indirizzare ‘pro domo sua’ le risorse pubblicitarie, che con la crisi si sono fatte sempre più scarse. Papi in sostanza che fa? Avverte gli imprenditori con tutta la sua “immoral suasion” affinché non osino finanziare i giornali scomodi. L’avvertimento è pronunciato ormai ogni volta che apre bocca in pubblico. Delimita l’area entro cui il mercato mediatico può funzionare. Per gli altri, fuori dal suo perimetro, pretende che la crisi dell’informazione, un fenomeno mondiale, li strazi più che altrove, perché a loro «bisogna chiudere la bocca».

Negli ultimi due anni, proprio durante l’esordio della grande crisi, sono nate tante iniziative fuori da quel perimetro. C’è chi ha imitato maldestramente la già dimessa Current TV di Al Gore, ma in chiave di bollettino di partito. YouDem è uno specchio perfetto della crisi verticale del Partito Democratico. Non conta quasi nulla nemmeno la cugina dalemiana, Red TV. Sono nati nuovi quotidiani a sinistra, «Terra» e «L’Altro», mentre sono stati investiti da forti trasformazioni editoriali altri quotidiani esistenti, «l’Unità» e «Liberazione». Il loro peso nella società italiana, come la capacità di raccontarla, tendono all’irrilevanza, in ciò riflettendo la dissipazione della sinistra novecentesca in Italia: anche questa è una tendenza di cui le ultime elezioni europee hanno rivelato la portata internazionale.

Ci sono poi le esperienze della Rete. In questi ultimi anni Beppe Grillo ha rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking su temi politici, sociali e ambientali. Qualche volta l’«azienda Grillo» ha inciso sull’agenda della comunicazione, ma è difficile scalfire un modello di consumo comunicativo nel quale il 70% dei cittadini apprende tutto soltanto dalla TV. Daniele Luttazzi aveva liquidato i V-Day grillini come dei flash mob un po’ più articolati. Allo stesso modo dei flash mob, i raduni di Grillo rompevano la quotidianità, ma poi la quotidianità ritornava, e le urne del vasto blocco sociale berlusconiano si riempivano ugualmente di voti nei giorni delle elezioni. Grillo ha segnato tuttavia una tendenza, così che anche altri comunicatori hanno ricreato “modelli di business” sostenibili in cui al centro c’è internet, la grande ostetrica delle nicchie intellettuali. Anche questa è una tendenza che si manifesta su scala mondiale.

D’altronde i media non sono compartimenti stagni.
Beppe Grillo ha guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria caratura di personaggio televisivo, ha integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, lo ha riportato sul terreno di internet, dove ora fa ritornare anche un certo uso della grammatica delle immagini, che descriverei comunque come “televisive” in mancanza di migliori definizioni.

Si può richiamare un altro esempio di interazione fra media diversi. Marco Travaglio assieme a Elio Veltri aveva scritto un libro nel 2001, “L’odore dei soldi”, che rompeva tutti i tabù mediatici sulla biografia di Berlusconi. Un buon libro può influenzare i lettori, crescere e sedimentarsi anche quando questi lettori siano poche migliaia. Può perfino arrivare in TV. Successe anche a quel libro. Travaglio presentò il suo volume in televisione, e la rottura del tabù pervenne a milioni di persone. Il segmento di mercato librario raggiungibile dal più documentato cronista giudiziario italiano si moltiplicò fino ai suoi confini naturali potenziali, tanto che Travaglio in questo decennio è diventato una macchina mediatica in grado di sfornare decine di best-seller, al punto di dare forma a un “genere”, adoperato in varia misura anche da altri scrittori. Nascono nuove collane e perfino nuove case editrici fondate apposta da quelle più grosse per consentire più agilità ai direttori editoriali nello sfruttamento del filone. Sebbene i punti più delicati delle inchieste di Travaglio non passino se non occasionalmente in televisione, la TV è comunque una piattaforma di lancio non secondaria per l’indotto, assieme ai DVD, ai blog e, recentemente, al teatro. Adesso dunque entra in gioco anche un quotidiano.

L’idea che la televisione sia ancora il formato dominante nella comunicazione è stata invece alla base di Pandora TV, il progetto promosso a partire da un appello di noti intellettuali, giornalisti, personalità dello spettacolo, che ha visto anche Megachip spendersi in prima fila nella promozione. Come oggi spiegano i promotori nel documento in cui rilanciano il progetto, le sottoscrizioni materiali sono state finora nettamente inferiori alle attese e al numero dei firmatari. Sebbene sia «stata costruita un’agenda televisiva insolita, che ti dà l’idea di come potrebbe essere potente una TV con più mezzi, che intenda diffondere quel che qualcuno non vuole che tu sappia», si è scontato un problema più esteso, che riguarda Pandora come altre esperienze: «la profonda crisi culturale e democratica del paese, la spaccatura a sinistra tra intellettuali ormai incapaci di trovare un linguaggio comune e comuni obiettivi, un pubblico sempre più annichilito dall’agonia dell’informazione», senza tralasciare il peso della crisi economica, non certo un buon viatico per investire a fondo perduto in un bene pur essenziale come la comunicazione. Oggi stiamo tentando di riproporre il progetto, perché l’emergenza è ancora più forte di prima. Scontiamo tutta la grande difficoltà del compito, ma il terreno televisivo andrà presidiato in qualche modo.

Intanto, non trasmette ancora Europa 7, la TV generalista di Francesco Di Stefano bloccata per anni dal sistema politico italiano in barba alle leggi con accanimento bipartisan. L’ultima beffa del 2009 è stato concederle un sistema di frequenze che copre solo una minima parte del territorio nazionale. A queste condizioni, se Europa 7 partisse ora fallirebbe in sei mesi. Per la TV – medium ancora dominante – non ci sono di fatto spazi per grandi operazioni se non con disponibilità economiche immense su nuove piattaforme (Murdoch) o con operazioni “corsare” che osino informare e intrattenere rompendo gli schemi (Pandora se avesse risorse).

In questo quadro politico e mediatico nasce dunque l’iniziativa imprenditoriale denominata «Il Fatto Quotidiano», imperniata sulla diretta partecipazione nella compagine sociale di due giornalisti, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, rispettivamente con il 22% e l’11% delle azioni, nonché di un soggetto editoriale forte, la casa editrice Chiarelettere (con il 22%), che appartiene interamente al terzo gruppo dell’editoria libraria italiana, le Messaggerie Italiane, un gruppo relativamente poco noto con questa denominazione, mentre sono molto conosciute le tante case editrici che controlla. Oltre a Chiarelettere, sono controllate infatti dalle Messaggerie anche Bompiani, Garzanti, Salani-Ponte alle Grazie, Longanesi, Vallardi, TEA, Guanda, e altre ancora, tra cui l’ultima acquisita, nel luglio 2009, la Bollati Boringhieri. Il fatturato consolidato del gruppo supera il mezzo miliardo di euro. Le copie stampate sono circa dieci milioni all’anno. L’utile registrato negli ultimi bilanci è sempre stato di poco inferiore ai sette milioni di euro. Del gruppo fa parte anche Internet Bookshop Italia (IBS), la più nota piattaforma italiana di vendita di libri on line. Si tratta dunque di un soggetto che, in base a questi e altri parametri, potrebbe ipoteticamente offrire ampie garanzie, fideiussioni e “collaterals” in grado di ridurre drasticamente il rischio d’impresa per una sua nuova iniziativa in fase di “start up”.

Nel quadro dell’operazione è stata lanciata anche una campagna di disponibilità ad abbonarsi al nuovo quotidiano, con 40mila aderenti finora persuasi dalla promessa che «non avrà padroni». È un segno di un possibile successo fra i lettori, anche se questo non dice nulla in merito alla sostenibilità del business una volta che si dovranno fare i conti con la pubblicità e i costi di distribuzione, le note dolentissime dell’attuale crisi dei quotidiani cartacei.

Un quotidiano costa e costerebbe ancora di più senza editori a reggerlo. Senza editori si hanno le mani libere e si rende conto solo ai propri sostenitori e lettori, ma si è troppo esposti ai rovesci. L’elenco dei quotidiani italiani falliti su queste premesse è lunghissimo. «Il Manifesto» è un’eccezione che sopravvive camminando sempre su un filo sottilissimo, pronto a spezzarsi.

L’operazione «Il Fatto», come abbiamo visto, è meno avventata di altre. L’editore industriale c’è.

E c’è anche l’identificazione di una missione politica ed editoriale che ha alcuni margini di espansione, una missione che vede convergere diversi soggetti.

La crisi del Partito Democratico ha concesso estese praterie elettorali all’Italia dei Valori, il partito fondato e dominato da Antonio Di Pietro. Un elettorato numeroso e smarrito osserva con avvilimento la triste parabola dei partiti che normalmente votava, e oscilla tra l’astensione e lo sguardo rivolto a progetti politici diversi (dal partito in cui detta legge Di Pietro fino a Beppe Grillo e alla spinta laica post-girotondina). Sul numero 4/2009 di «Micromega», Paolo Flores d’Arcais fa notare che tra le elezioni politiche del 2008 e quelle europee del 2009 il PD ha perso diecimila voti al giorno, mentre Italia dei Valori ne guadagnava quattromila al giorno. E la sinistra ha confermato l’incapacità di superare i quorum. Su vari candidati dipietristi è arrivato un robusto ‘endorsement’ da parte di testimonial un tempo restii a dare indicazioni di voto: ancora Grillo, ancora Travaglio. E poi il netto schierarsi di «Micromega» e altre riviste e movimenti.

Pura constatazione: si sta formando una galassia di “intellettuali organici” a un progetto, che trova sempre più stabili occasioni di convergenza e luoghi di interazione. La definizione gramsciana di “intellettuale organico”, dal punto di vista metodologico, parte dal fatto che ogni intellettuale è militante; legato in modo “organico” a un gruppo sociale, a una formazione sociale, e riproduce costantemente, perfino inconsciamente, un certo quadro di interessi; senza che questo si traduca necessariamente in una posizione partitica blindata. Un quotidiano che s’inserisse in questo contesto magari non sarebbe un “organo” di partito, ma sarebbe naturalmente “organico” a una proposta politica in divenire.

Per via delle dinamiche elettorali in corso, le liste dell’Italia dei Valori-Di Pietro sono diventate un campo gravitazionale in grado di ricomporre e attrarre con una certa forza quella parte di opposizione che intende consistere in sé e per sé e vuole difendere la Costituzione sotto scacco. Quella parte sa bene che Di Pietro sui contenuti – adottati con disinvoltura a tratti cinica – interviene con la prontezza di un vero “imprenditore del consenso”: realizza “affari politici” in tempi che un tipico esponente del PD non realizzerebbe mai, e lo fa in modi sostanziali e spregiudicati. Questa opposizione in fieri è talmente consapevole di alcuni difetti costitutivi dell’«azienda Di Pietro» che fa di tutto per enfatizzare le possibili correzioni promesse dal capo del partito.
Travaglio ha scritto ad esempio qualche riga di coinvolto e partecipe incoraggiamento nei confronti dei modesti segnali di cambiamento nello statuto del partito, finora corazzato in modo proprietario nelle mani del furbo Tonino.
Flores D’Arcais intervista Di Pietro con lo stesso tono partecipe, chiedendogli – già nello speranzoso titolo del dialogo su «MicroMega» – «cosa vuol fare l’IDV da grande?»

Di Pietro ha un disegno. Nell’aprire parzialmente la sua macchina politica alla galassia degli intellettuali, allarga la classe dirigente e punta a un raddoppio dei consensi. Cioè un partito del 16%. Il che forse corrisponde al numero di elettori che vedono al primo posto la questione della legalità sopra tutti gli altri temi. Di fronte all’afasia del PD è una prospettiva plausibile, tanto più verosimile quanto più il progetto si dimostri in grado di captare in modo più strutturato i famosi “ceti medi riflessivi”, per svariati motivi non più rappresentabili dal PD. Per una tale strutturazione la presenza nell’area di un giornale quotidiano – ancorché non finanziato dal partito – potrebbe essere un pezzo importante del mosaico.
I vari media hanno raggi d’azione diversi, imprimono effetti sulla realtà che non derivano solo dal numero di persone raggiunte direttamente, ma pure dall’influenza che possono esercitare su gruppi particolari, sulle élite, su strati di cittadini particolarmente attivi che a loro volta interagiscono con altri.

Al mosaico mancano alcuni pezzi.

Innanzitutto quale sarà il peso delle questioni internazionali, così centrali per capire le emergenze ambientali ed economiche di oggi? I quotidiani italiani su questo fronte non hanno informato bene, per usare un eufemismo. Quale sarà l’analisi degli scenari di guerra? Il foglio di Travaglio & C. saprà liberarsi dagli schemi dei dinosauri della Guerra Fredda su molte decisive questioni? Questo non lo sappiamo ancora, ed è un tema altrettanto fondamentale quanto quello della legalità interna.

Un altro pezzo del mosaico è la questione del pubblico di riferimento per l’informazione. Un quotidiano, quando le cose riescono bene, fa riflettere il caro vecchio “homo legens”. E magari gli dà strumenti per agire e contare, specie se si trova in posizioni in cui decide. Un articolo che lascia un buco informativo ai giornali che ignorano i fatti fa sempre rumore e li mette in una posizione scomoda. Tuttavia quel quotidiano da solo non raggiungerà il nuovo “homo videns”, che rappresenta la maggioranza dei cittadini. Posto che – per le ragioni prima accennate – aumentano le convergenze fra segmenti comunicativi diversi (quotidiani, rete, TV) rimane un incombenza per chi vuole rafforzare l’informazione libera: è quella di non smarrire l’importanza di un percorso per immagini e contenuti di tipo televisivo.

Un’ultima considerazione. Ho usato più volte in modo intercambiabile i termini informazione e comunicazione. In realtà la comunicazione è un fatto molto più ampio dell’informazione.
Si fa bene a essere sensibili al tema dell’informazione. Ma questa è una componente sottile di tutta la corrente dei messaggi, in cui prevalgono le concezioni del mondo date da intrattenimento e pubblicità. La grande manipolazione dei media ha certo come ingrediente di base l’inganno informativo nonché la scomparsa dei fatti e delle domande scomode, ma il grosso di essa si compie nel resto della comunicazione, ampiamente fruita dalla maggioranza dei cittadini.

Il nuovo quotidiano aprirà qualche finestra in più davanti alla coscienza democratica dell’Italia e perciò mi auguro che possa avere successo, intanto che però mi pongo il problema di fondo, ancora irrisolto: come aprire le porte e finestre più importanti, come varcare la soglia delle stanze in cui si decide la vera colonizzazione delle menti, per immagini ed emozioni. (Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il Sole 24 Ore, giornale di Confindustria piomba a- 8% e minaccia sfracelli.

Il Sole 24 Ore ha diffuso alle agenzie stampa una nota dove comunica che il CdA del gruppo editoriale, preso atto delle proiezioni riguardanti l’esercizio in corso, si aspetta una flessione dei ricavi di circa l’8%, tenuto conto della variazione di perimetro rispetto al passato esercizio, derivante prevalentemente dalla minor raccolta pubblicitaria.

Per far fronte a questa dimunizione dei ricavi, il Consiglio di Amministrazione ha dato mandato al Presidente e all’Amministratore Delegato di predisporre ulteriori incisive iniziative, anche strutturali, di contenimento dei costi. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: al festival di Cannes è andata in scena la crisi della pubblicità.

(fonte:advexpress.)
Dopo l’incontro del 2008 con le big media company del web, il ‘Cannes Debate’ ha visto nuovamente Sir Martin Sorrell, ceo di WPP Worldwide, sulla poltrona di moderatore: a rispondere alle sue domande sono state stavolta quattro fra le più grandi multinazionali a livello globale, Kraft, P&G, J&J e McDonald’s, che come ha ricordato Sorrell hanno investito complessivamente lo scorso anno circa 16,5 miliardi di dollari in advertising.

“Oggi però la vita non è facile: il primo trimestre è andato male, aprile e maggio sono stati anche peggio, e anche il resto dell’anno sarà duro. Quali sono – ha chiesto quindi Sorrell – gli effetti della recessione sulle vostre aziende in termini di spesa, di media mix e di crescita degli investimenti nel digital?”.

Mary Dillon , executive vice president e global chief marketing officer di McDonald’s Corporation, ha confessato di trovare questo periodo particolarmente ‘eccitante’, “E non solo perché stiamo guadagnando market share… I nostri investimenti sono una percentuale delle vendite, e quando salgono le seconde salgono anche i primi. È vero però che le cose sono difficili e complicate: tutto è costantemente esaminato al microscopio e può essere cambiato da un momento all’altro. Per quanto riguarda il mix, le cose variano a seconda dei paesi, e la televisione continua a essere fondamentale. Ma il digitale assorbe in media il 7% della nostra spesa totale, e la sua quota cresce molto velocemente”.

“Con la recessione, i budget di Kraft Foods sono aumentati – ha confermato Mary Beth West, executive vice president e chief marketing officer dell’azienda –: la prima spesa che le persone hanno tagliato sono i pranzi e le cene fuori casa, eccezion fatta, evidentemente, per la qui presente McDonalds. E questa per noi è un’opportunità. Stiamo ancora cercando di ‘educare’ il nostro senior management all’online, ma il digitale vale per noi già oltre il 10%”.

“La crisi ci ha spinto a investire sempre di più in communication planning – ha spiegato Michael Murphy, vice president of consumer integrated marketing Johnson & Johnson –, perché in momenti come questo il marketing e l’advertising diventano ancora più importanti. In particolare il digitale ha ormai una share a doppia cifra sul totale dei nostri investimenti”.

Anche Procter & Gamble investe sempre di più online, anche se le cose variano da paese a paese, ha testimoniato il suo global marketing officer Marc Pritchard: “I nostri budget globali sono diminuiti del 4%, ma l’effetto più importante della recessione per noi e per la media industry nel suo complesso è stato quello di costringerci a fare un passo indietro e resettare tutte le nostre attività di marketing. Abbiamo quindi chiesto drettamente al consumatore che cosa volesse, e la risposta è stata: valore. Questo è ciò che stiamo facendo: variando il media mix e, soprattutto, puntando sempre di più sull’impatto e sulla creatività della nostra comunicazione: il punto, infatti, è integrare il digitale con tutto il resto, dalla Tv alle relazioni pubbliche fino al retail. Tutto ruota attorno all’integrazione di tutte le discipline fin dal primo momento e in funzione del brand: al nostro interno come nelle agenzie e nei centri media”.

Alla domanda di Sorrell su quanto contino le dimensioni di agenzie e centrali, la risposta è stata unanime: “A volte, lavorando in così tanti paesi, abbiamo bisogno della ‘scalabilità’ che le holding garantiscono, ma in altri casi non è così: la prima preoccupazione è e resta l’integrazione”.
“Personalmente, però, – ha aggiunto Murphy –, sono ancora in attesa di vedere una holding significativamente superiore alla somma delle sue parti e capace di aiutarci concretamente a sviluppare idee olistiche”.

Sempre parlando di agenzie e loro holding, l’ultima domanda di Sorrell ha riguardato le cose essenziali che non vanno e che devono essere sistemate con maggiore urgenza?

Per West e Dillon, ciò che è cambiato è il marketing nel suo complesso: “Abbiamo tutti già cominciato ad applicare i nuovi principi che ne derivano, ma non lo abbiamo ancora fatto sul fronte della relazione fra agenzia e cliente… Aiutateci a essere clienti e partner migliori, integrati fin dall’inizio”.

Murphy e Pritchard hanno invece preferito l’autocritica: “Sono da sempre convinto che ogni cliente abbia esattamente l’advertising che si merita – ha affermato il primo -… Troppe volte siamo noi a non dare alle agenzie un brief chiaro o non restituire immediatamente il feedback necessario”.
“Vanno ancora abbattuti e cambiati – ha concluso il global marketing officer di P&G – molti dei silos che circondano le aziende prima ancora delle agenzie”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: una stagione di tagli per l’editoria italiana.

Editoria in crisi/ Esuberi: 90 al Corriere, 60 alla Stampa. Tagli anche ad agenzie e free press
Dopo settimane di voci, indiscrezioni e soprattutto numeri approssimativi, sembra delinearsi un quadro completo sulla stagione dei tagli che coinvolgerà le principali testate italiane. -blitzquotidiano.it

Fra pensionamenti, prepensionamenti e mancati rinnovi ecco le cifre dell’autunno caldo della stampa italiana, come riporta il sito Affari Italiani.

La cura dimagrante al gruppo Rcs comprende i 90 esuberi al Corriere della Sera, cui si aggiungono le 180 unità in meno previste per il gruppo spagnolo Unedisa, controllato dall’editrice del Corriere.

Fra i primi quotidiani a varare un piano di ristrutturazione è stato La Stampa, poco dopo l’insediamento del nuovo direttore Mario Calabresi: il quotidiano della Fiat dal 1 settembre entrerà ufficialmente in stato di crisi per due anni. Il quotidiano torinese prevede di portare l’organico giornalistico al di sotto delle 190 unità: 26 i pensionamenti (ordinari) già concordati, cui si aggiungeranno altri 34 prepensionamenti volontari dopo il 1° settembre. Previsto anche il taglio di 76 poligrafici, sfruttando le nuove tecnologie che consentono di affidare direttamente ai redattori le funzioni di impaginazione. La strategia complessiva della società – scrive Italia Oggi – comporterà anche uno spostamento di pesi sulla parte multimediale e la chiusura del settimanale Specchio, il cui ultimo numero uscirà a luglio.

Sempre secondo Italia Oggi, anche il gruppo Mondadori si prepara ad accedere alle procedure previste dalla legge 416 e al fondo di 20 milioni stanziato dal Governo per i prepensionamenti: si dovrebbe arrivare a una riduzione di 80 giornalisti fra i periodici, e non è esclusa la chiusura (o la cessione) di qualche testata (nel mirino Economy).

Non si salva nemmeno la free press, con Dnews – il quotidiano fondato e diretto dai fratelli Cipriani dopo l’uscita da E Polis – che si trova a fare i conti con bilanci in rosso: facile prevedere una ristrutturazione e dunque pesanti tagli. Fra i quotidiani sportivi, quello più in crisi è Tuttosport il cui editore ha messo a punto un piano che prevede il taglio del 34% della redazione. Un piano definito “irricevibile” dai giornalisti.

Capitolo agenzie di stampa: la redazione di Apcom è in sciopero per protestare contro il taglio di 30 giornalisti sui 90 deciso dopo il passaggio sotto il controllo del Gruppo Abete, già proprietario dell’Asca. Dove si comincia a parlare di stato di crisi è anche all’Agi, controllata dall’Eni: l’ipotesi è di un tagli di una quindicina di redattori, su un totale di oltre un centinaio. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: l’intreccio politica-pubblicità fa bene al mercato italiano della comunicazione commerciale?

LE MINACCE DI BERLUSCONI, LA SORTITA DI D’ALEMA
Elezioni anticipate: «possibili» per le concessionarie di pubblicità,di Fr.Pi-Il Manifesto

«Una campagna pubblicitaria “ottimista” sarebbe smentita in un attimo
dallo stesso media che la veicola». Marco Ferri, copywriter e creativo tra
i più noti in Italia, sintetizza a suo modo le difficoltà di rapporto tra
gli inviti del premier e la realtà desolante del settore che pure lo ha
avuto come dominus dagli anni ’70 in poi. Come se non bastasse, è lo
stesso premier a evocare lo spettro di elezioni anticipate per «mettere a
posto» i suoi alleati, resi inquieti dal brusco stop elettorale delle
europee. Un’eventualità che i pubblicitari considerano una iattura, ma che
viene già metabolizzata nelle relazioni commerciali. «Ho chiesto a una
concessionaria – racconta Ferri – la pianificazione di una campagna su 12
mesi per conto di un cliente. Mi hanno risposto: “ma come, un anno? E se
poi ci sono elezioni anticipate e il cliente ci ripensa?”». Parliamo di un
settore produttivo, che segue i boatos della politica per dovere
professionale, anche per calcolare il possibile intasamento degli spazi e
le variazioni di prezzo. E «che però sente tutte le incertezze che la
crisi economica sta provocando nei consumi, naviga a vista, e quindi trova
incredibili le pianificazioni a lungo termine». Sull’editoria la crisi sta
picchiando duro. «Siamo in epoca di semestrali, dopo relazioni trimestrali
drammatiche, dove le principali holding della pubblicità hanno lasciato
sul campo perdite che vanno dal 5% alla doppia cifra», e che
consolideranno questi risultati negativi. L’istituto Nielsen Global
Research calcola una flessione complessiva del 18% nei confronti del primo
quadrimestre 2008 (-15,3% per la Televisione, -22,7% per i quotidiani).
Un quadro di minori risorse per tutti, dove Berlusconi – capo del governo
e proprietario di Publitalia – ha più volte invitato gli imprenditori a
«non investire sui media catastrofisti». L’ultima volta lo ha fatto dallo
stesso palco dove poco prima la presidente di Confindustria, Emma
Marcegaglia, aveva chiesto «100 giorni di azioni». Lo aveva già fatto a
Villa Madama, mesi fa; lo ha ripetuto poi a Porta a porta. E’ una minaccia
esplicita rivolta in primo luogo agli imprenditori, ovvero a quel «potere
forte» che – se non venissero accolte le richieste nei prossimi 100 giorni
– potrebbe girargli le spalle. Sembra quasi che, dopo 15 anni da
«fenomeno» politico, Berlusconi sia regredito a capo di Publitalia,
convinto di poter trattare i capi di stato come clienti un po’
sprovveduti. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi arriva in profondità: ora tocca agli edicolanti.

Edicole/ A Roma ne sono a rischio chiusura 140. Le cause: crisi editoria, affitti salati, tasse
di Giancarlo Usai*-blitzquotidiano.it

Le edicole romane sono in crisi. E non solo per il crollo delle vendite dei giornali. Soprattutto nel centro storico, la situazione dell’ultimo anno è drammatica. Secondo le stime sindacali, in 140 edicolanti sono a rischio chiusura, con un calo del fatturato in media del 35 per cento. L’ultimo degli storici “chioschi” a terminare la sua attività è stato quello di Via del Corso, accanto alla Cassa di risparmio. Ma se non è solo la crisi dell’editoria il motivo di queste chiusure, quali sono le altre cause? Prima di tutto, gli affitti saliti alle stelle nel I municipio, con prezzi compresi tra i 600 e i 1200 euro al mese. Il centro storico è anche zona critica per le spese di occupazione del suolo pubblico, circa 115 euro a metro quadro.

Se a tutte queste uscite si sommano incassi medi sotto ai duecento euro al giorno, ecco spiegato il perché i rivenditori storici di giornali stanno rischiando di diventare un semplice ricordo del passato.

Poi, come sostiene la Fieg, ci sono problemi legati alla cattiva distribuzione delle licenze concesse dal Comune di Roma. Nei quartieri centrali c’è un esubero di almeno 350 edicole, mentre nelle nuove zone periferiche l’obiettivo di un’edicola ogni mille abitanti è lontano dall’essere realizzato. Ora, con molti edicolanti storici che saranno costretti ad abbassare la saracinesca, la richiesta dei sindacati è di trasferire ai nuovi punti vendita in periferia i titolari di licenze rimasti senza lavoro. (Beh, buona giornata).

*Scuola di Giornalismo Luiss

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il Ceo di Wpp vuole l’aumento, mentre 8000 dipendenti vanno a casa.

fonte: advexpress.it

Martedì 2 giugno, a Dublino, si terrà l’assemblea degli azionisti del Gruppo WPP (la prima in Irlanda da quando la holding ha trasferito la propria sede per motivi fiscali lo scorso anno): fra gli argomenti all’ordine del giorno uno in particolare sta provocando numerose reazioni internazionali.

Gli azionisti dovranno infatti decidere se approvare o meno un piano di incentivazione che riguarda il chairman Sir Martin Sorrell, il direttore finanziaro Paul Richardson, il direttore strategico Mark Read e altri 20 top manager, i quali a fronte di un investimento in azioni del Gruppo potranno ricevere fino a 5 volte lo stesso numero di azioni gratuitamente. La proposta delineata consentirà ad esempio a Sorrell di investire fino a 14 milioni di euro nel quinquennio, per ricevere alla fine un bonus di circa 70 milioni e più.

La società di consulenza PIRC (Pensions and Investments Research Consultants), specializzata nell’analisi della governance delle imprese e della loro corporate social responsibility, ha infatti pubblicamente invitato gli azionisti a non accettare il programma dei bonus, così come l’Associazione degli Assicuratori Britannici, che considera la proposta meritoria di una ‘bandiera rossa’.

WPP ha precisato in una nota che il piano dei bonus è perfettamente allineato agli interessi degli azionisti: prima di tutto perché prevede obiettivi più alti e difficili da raggiungere – una performance economica migliore del 90% dei suoi competitor, rispetto al 75% del precedente (che risale al 2004) -, e poi perché richiede comunque al management di investire, assumendo direttamente un rischio finanziario così come qualunque altro investitore.

Secondo PIRC, nonostante l’innalzamento degli obiettivi la ricompensa appare tuttavia eccessiva rispetto al passato. Ma le critiche arrivano anche da altre parti, soprattutto dagli analisti che ricordano il forte calo del titolo nel recente passato, e sottolineano come una performance migliore della concorrenza non voglia dire necessariamente un risultato positivo. E sono in molti a ricordare che per mantenere più basso di altre holding il tasso di crescita negativo di questo anno di crisi, WPP abbia già previsto di tagliare i suoi dipendenti di quasi 8.000 persone. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: Rcs manda a casa 175 giornalisti?

Media/ Rcs taglia tutti i periodici e paga 25 milioni di Tfr-blitzquotidiano.it
Cura da cavallo per sanare i bilanci del gruppo Rcs? Dalle indiscrezioni giunte e raccolta da Affari Italiani il piano dell’ ad Angelo Perricone sarebbe drastico: tagliare tutti i periodici e mandare a casa 175 giornalisti in un colpo solo. Per farlo il gruppo sarebbe disposto a pagare 25 miloni di tfr: sarebbe questa indiscrezione ad avere fatto schizzare in alto il titolo in Borsa, alla fine della settimana scorsa. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Per uscire dalla quarta crisi Murdoch ha deciso di far pagare le news su internet. Gli editori italiani ci stanno facendo un pensierino.

di G.Bal.-sole24ore.com
L’era delle news online come commodity gratuita è finita. «Finalmente i grandi editori hanno capito che non tutto può essere gratis», dice Andrea Riffeser Monti, a.d. del gruppo Poligrafici Editoriale. Il dibattito sul futuro della stampa su internet è partito con l’annuncio del magnate Rupert Murdoch: «In futuro i giornali online si pagheranno».

Una riflessione continuata giovedì sulle pagine del Sole 24 Ore con l’intervento del presidente del gruppo L’Espresso, Carlo De Benedetti che ha sottolineato come per i giornali esista «certamente uno spazio per conquistare utenti web disposti a pagare i contenuti giornalistici». A patto però che siano contenuti ad «elevato tasso di esclusività e di valore aggiunto », un aspetto che mette in prima fila i giornali di settore, dallo sport all’economia, e locali, perché più legati al territorio. In serata poi la presa di posizione di Google. Dopo aver riflettuto sulla possibilità di entrare nel capitale del New York Times, il gruppo ha annunciato di voler abbandonare le ambizioni editoriali e l’a.d. Eric Schmidt ha confessato a Financial Times di essere scettico sulle proposte di Murdoch. Di certo la questione sarà all’ordine del giorno del convegno “Crescere tra le righe” (al via oggi a Borgo La Bagnaia in provincia di Siena) organizzato dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori, guidato da Andrea Ceccherini. Il futuro dell’editoria online sarà uno dei punti centrali della relazione d’apertura del presidente Ceccherini, così come in quelle di Giancarlo Cerutti e Claudio Calabi, presidente e a.d. del Gruppo 24 Ore, e di Maurizio Costa, a.d. di Mondadori.

«La prospettiva è complicata, bisogna capire come fare», spiega Alessandro Zegler, a.d. di Athesis, il gruppo editoriale dei quotidiani locali L’Arena, Il Giornale di Vicenza e BresciaOggi, che aggiunge: «Abbiamo lavorato molto per essere pronti al grande passo, ma si devono trovare le giuste modalità. Finora abbiamo scoperto che tra i nostri lettori c’è una bassa sovrapposizione tra carta e online». Scommette sui giornali locali anche Repubblica che ha lanciato,solo su internet, l’edizione di Parma non disponibile in cartaceo: «Con l’abbonamento – spiega il gruppo –si può accedere ai contenuti premium, dall’archivio storico al giornale in formato pdf», una formula proposta anche da Athesis, ma che – almeno per il momento – non raccoglie molti consensi: «Gli abbonati online – dice Zegler – sono alcune centinaia, per lo più studi professionali ». Più scettico il d.g. di Avvenire, Paolo Nusiner che dice: «La chiave di volta è il consumatore, dobbiamo assecondare i nostri lettori». A dicembre il gruppo editoriale ha terminato il restyling del sito, «ma non abbiamo ancora una linea definita».

Sul futuro dell’informazione su internet si divide anche il Parlamento. Per Maurizio Gasparri (Pdl) «alcuni contenuti internet saranno a pagamento, ma ci sarà sempre una grande offerta free»; così l’ex premier Massimo D’Alema (Pd): «Dato che i giornalisti andranno sempre pagati, forse bisognerà pagare i giornali online, soprattutto se dobbiamo pensare che il cartaceo tenderà a scomparire ». Assolutamente contrario Massimo Donadi (Idv): «La libera circolazione delle notizia è un’enorme ricchezza». «Di certo –dice l’a.d.di Microsoft Italia, Pietro Scott Jovane – non si può cambiare di punto in bianco senza offrire qualcosa di diverso, di nuovo e di speciale ». Un ragionamento condiviso da Riffeser Monti che parla di una transizione lunga almeno 3- 4 anni durante la quale si lavorerà a contenuti speciali, «ma finché non si muoveranno i grandi gruppi internazionali – conclude – non cambierà nulla». (G.Bal.)

Share
Categorie
Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: sciopero delle maestranze Mediaset, ma nessuno lo dice.

Mediaset in sciopero bella notizia (oscurata)-il manifesto.it

Udite udite. E diffondete. Forse è l’unico modo per permettere a questa notizia di raggiungere più orecchie possibile: i lavoratori di Mediaset sono in sciopero. Difendono i loro salari e chiedono che vengano ripristinate le “normali relazioni sindacali”. Ma oggi devono prima di tutto lottare contro il silenzio. La loro astensione dal lavoro, infatti, sembra non interessare a nessuno.

Di loro non parlano neanche le agenzie di stampa. Paradossale ma vero: accade “qualcosa” – qualcosa di inedito, c’è da dire – nella più grande azienda di comunicazione italiana, e i protagonisti faticano a bucare lo schermo. Ma tant’è, a Berluscolandia.
I fatti: Cgil, Cisl e Uil hanno indetto per oggi uno sciopero dei lavoratori della Videotime di Roma. La Videotime è la società licenziataria di Mediaset-Rti che lavora nei centri di produzione “Palatino” e “Elios”. Qui vengono registrati programmi molto seguiti: dal Tg5 a Matrix a Forum. I lavoratori della Videotime si occupano anche del programma “Uomini e Donne” di Maria De Filippi, che però viene registrato a Cinecittà. Si tratta dei tecnici, della parte di produzione, dei parrucchieri, dei truccatori, dei sarti. Insomma, di tutto il personale che serve per mettere in piedi un programma.

Ebbene, dall’anno scorso sono tempi di magra. Mediaset dice di essere in crisi (ricavi netti nell’anno 2008: +9%, utile netto: +14,3%) e per questo stringe la cinghia: niente più diaria per gli esterni, fermi i passaggi di livello, diminuzione dei premi di produzione, azzeramento della politica retributiva. Questo è quanto denunciano i sindacati: “Un esempio – spiega Roberto Crescentini, delegato fistel-Cisl della Rsu di Videotime – sabato registriamo Matrix. I lavoratori hanno chiesto di lavorare in straordinario. Ma l’azienda ha chiesto ai parrucchieri solo quattro ore di lavoro, e non sette. Alla domanda: perché? La risposta è stata: l’azienda è in crisi. Figurarsi – dice Crescentini – noi siamo i primi a non voler affossare l’azienda e a capire che è in corso una grave crisi economica e finanziaria. Ma Mediaset è in crisi?”. La domanda è pertinente, visto che, racconta Crescentini: “Alla puntata di Forum in cui era ospite Barbara D’Urso, Mediaset ha pagato un parrucchiere 1.300 euro. Come anche viene pagato tutti i giorni un parrucchiere per la conduttrice Rita Dalla Chiesa, ad un prezzo che ci pare esorbitante, visto il momento: 700 euro”. Insomma, dicono i lavoratori, se bisogna fare sacrifici che li facciano tutti.

Secondo il dato dei sidnacati lo sciopero è andato benissimo: l’adesione ha sfiorato il tetto del 95%. Ultima chicca: il Comitato di redazione del Tg5 ha inviato un comunicato di solidarietà ai lavoratori di Videotime. Il comunicato, a quanto pare, doveva essere letto durante l’edizione odierna. Ma è stato stoppato. Ci sono notizie più importanti. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: è vero che Google voleva comprare il New York Times.

Google voleva comprare il New York Times, parola di Ceo di Gianni Rusconi -sole24ore.com

Non erano speculazioni ma indiscrezioni fondate. Quando nei mesi scorsi i media americani parlavano spesso e volentieri delle intenzioni di Google di investire direttamente nell’editoria non stavano arrampicandosi alla notizia dell’anno. Che il gigante dei motori di ricerca stesse realmente valutando l’opportunità di acquisire una grande quotidiano – il nome più gettonato era il New York Times – l’ha confessato in una lunga intervista al Financial Times il Ceo della società di Mountain View, Eric Schmidt. L’ammissione è stata però accompagnata da un’importante precisazione: Google, oggi, non è più interessata ad investire in alcun media cartaceo per via dei rischi collegati a un’operazione particolarmente dispendiosa. Niente acquisti e nemmeno l’ipotesi di una quota azionaria (per la storica testata si vociferava una possibile cessione del 20% del pacchetto azionario, offerto dal fondo Harbinger Capital Partners) dunque. Il mestiere della compagnia, ha detto in sostanza Schmidt, è quello di sviluppare e vendere tecnologia e non contenuti e quanto al rapporto con i grandi editori (che vivono una fase di grande difficoltà) le collaborazioni sono le benvenute con l’unico obiettivo di fare funzionare bene la pubblicità sui siti Web di questi ultimi (con il Washington Post e altri la partnership è già avviata da tempo).

Arrivata quindi l’ufficiale conferma del passo indietro, molto analisti si sono chiesti cosa sarebbe potuto cambiare per Google se avesse portati avanti il progetto di scalata al New York Times. Non è stata infatti la casa californiana a contribuire alla picchiata delle vendite delle copie stampate dei più grandi giornali d’America? Buttarsi nel mercato dei contenuti, oltretutto con un modello non profit (Google.org, avrebbe sconfessato la missione tecnologica della società e sconvolto i già precari equilibri del settore media? Sarebbe stata solo un’azione speculativa, dettata dalla possibilità di accaparrarsi “a prezzi di saldo”, una quota importante di uno dei giornali più importanti del mondo? O una precisa strategia per fare il botto nell’advertising on line?
Domande a cui ora non ha più senso dare risposte. Google rimane al suo (in fluentissimo) posto e Schmidt pure. Al Financial Times il top manager, che è membro del team economico voluto da Barak Obama, ha confermato che non correrà per un ruolo politico, perché “non c’è una seconda vita dopo Google…”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: segnali di non ripresa.

“Nonostante i piccoli segnali di miglioramento di aprile, le prospettive non cambiano, anche il secondo trimestre si preannuncia molto difficile”, Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori dixit.

Per far fronte alla crisi, secondo Costa intervenire sui costi è necessario ma non sufficiente, dal momento che gli editori devono confrontarsi allo stesso tempo con la forte flessione degli investimenti pubblicitari e la necessità di cambiare modello di business per l’avvento delle nuove tecnologie. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi e le nomine Rai: “Il fatto è che tra Rai e Mediaset controllano il 90% o giù di lì dell’audience e delle risorse pubblicitarie e non c’è barba di antitrust che senta il prurito di occuparsene.”

Le nomine Rai confermano che Berlusconi ha una marcia in più di Marco Benedetto-blitzquotidiano.it

1. Tutti si indignano, inutilmente. La Rai è per sua natura lottizzata, e questo non si deve giudicare un aspetto negativo, ma un valore democratico. La Rai è una macchina di diffusione di informazioni e idee in una posizione di semi monopolio, strutturata come un’azienda, ma per la quale, data la rilevante natura politica del suo ruolo, la sua rispondenza alle esigenze della democrazia vale di più della sua funzionalità al prioritario obiettivo aziendale di generare profitti. Non è quindi uno scandalo che i partiti, secondo il peso in Parlamento, abbiano l’effettivo potere di nomina di capi e sottocapi a tutti i livelli, fino all’ultimo redattore. Anzi è un fatto positivo, perché in questo modo i partiti, che sono lo strumento primario e prioritario della partecipazione dei cittadini alla vita politica, e le idee che i partiti esprimono, hanno accesso alle onde radio e tv.

Il problema è piuttosto quello del controllo dell’altro semimonopolio, che è in mano a un privato. Il fatto che poi quel privato sia anche capo del Governo e quindi eserciti un’influenza dominante sulla Rai, in quanto rappresentante pro tempore dell’azionista Stato, come dimostra la vicenda che stiamo commentando, è solo un’aggravante del problema. Il fatto è che tra Rai e Mediaset controllano il 90% o giù di lì dell’audience e delle risorse pubblicitarie e non c’è barba di antitrust che senta il prurito di occuparsene. Ma forse questo è il tema che la sinistra avrebbe dovuto affrontare, quando lo poteva fare (e ahinoi nessun sa dire quando lo sarà di novo): non tanto quello di espropriare Berlusconi della sua azienda, quanto quella di imporre all’altro semimonopolio regole di governance democratica analoghe a quelle della Rai.

Quelli che se la prendono con la partitocrazia nella Rai, che modello hanno da proporre in alternativa? La meritocrazia per concorso per titoli, punti e esami? Da come funziona lo Stato italiano, che su un tale meccanismo si dovrebbe basare, non c’è da esserne troppo entusiasti. La Rai in mano ai privati? Ma forse i privati sono le vestali del sacro fuoco del merito? Decenni di vita in questo mondo dell’informazione coronati dalle più recenti esperienze dirette e solo osservate portano a concludere il contrario.

Le scelte dei vertici sono condizionate nel migliore dei casi da affinità ideologiche con la proprietà, nella peggiore dalla volontà di compiacere poteri superiori; comunque i criteri non sono mai neutri. La differenza tra il pubblico e il privato è che, per i ruoli sottostanti, nel pubblico scelgono gli azionisti (secondo la giusta quanto vilipesa definizione di Bruno Vespa), nel privato i capi e capetti della più o meno lunga catena di comando, sempre secondo criteri di affinità ideologica, culturale, politica o amicale.

2. Da un po’ di giorni tutti si affannano a dire e indignarsi. Il presidente della commissione parlamentare di vigilanza Rai Sergio Zavoli, un mito per i giornalisti italiani, indimenticabile e ineguagliabile, per chi ha dall’età il privilegio di averlo potuto ascoltare, cantore del Giro d’Italia dell’epoca d’oro di Coppi e Bartali, è più che intrinseco alla Rai. Vien da dire che forse c’era Zavoli prima della Rai e certo alla schiera dei giornalisti Rai è intrinseco. Ha alzato la voce non per dire che Augusto Minzolini sia inadatto a dirigere il Tg1, ma semplicemente per dire che forse dentro la Rai c’era tanta gente altrettanto capace. Discorso più da sindacalista che da vigilante sul corretto funzionamento dell’ente.

3. In realtà quello che si deve sottolineare su come sono andate le nomine è che Silvio Berlusconi ha vinto un’altra volta. Mentre tutti strillano, Lui ha portato a casa quello che voleva: ha piazzato Minzolini, del quale ha piena fiducia, al Tg1 e ha bloccato ogni ambizione di Mauro Mazza, che gli ex An volevano al Tg1, facendolo nominare direttore della Rete 1: un premio di consolazione su cui tutti metteremmo la firma. Per il resto si vedrà dopo le elezioni.

Anche se An e Forza Italia sono confluiti nell’unico partito Pdl, gli uomini dei due ex partiti conservano, come naturale, culture e affinità politiche e ideologiche derivanti dai partiti di provenienza. E mentre l’ex Forza Italia è Berlusconi, l’ex An conserva una sua compattezza e una conseguente autonomia culturale rispetto al Capo, che non è rappresentata solo dalle più o meno comprensibili uscite di Gianfranco Fini, il loro ex leader, ma anche da quell’intreccio di amicizie, lealtà e interessi dei suoi ex colonnelli. A questi è vicino Mazza e Mazza questi volevano al Tg1.

Per questa stessa ragione, e nessuno può dargli torto, Berlusconi non ce lo voleva. Da qui il blitz di mercoledì pomeriggio. Lo stallo sulle nomine a Tg e Rete 2 ne è una conseguenza: gli uomini ex An non gradivano la nomina a direttore di Raidue di Susanna Petruni, una giornalista che, a quanto pare, ha come merito principale quello di seguire Berlusconi nelle sue trasferte; e alla fine non gradivano nemmeno più tanto la nomina a direttore del Tg1 di Mario Orfeo, direttore del Mattino di Napoli e ottimo giornalista di carta stampata di grande scuola: poiché non è la capacità in discussione, ma la lealtà, non è un discorso che vada tanto giù agli ex camerati quello che gli fa Berlusconi: di cosa vi lamentate? Orfeo è vostro, il fatto che lo voglia io non cambia le cose.

Invece, a quanto pare, per gli ex uomini di An le cose cambiavano e così tutto è stato rinviato a dopo le elezioni. Che sia loro convenuto lo si saprà solo il 7 giugno. Il rischio è che se Berlusconi esce rafforzato dal confronto elettorale, butterà sulla bilancia della Rai la sua spada di Brenno e magari non ci sarà più il posto nemmeno per Orfeo.

Lo stesso rischio corre la sinistra, in particolare il Pd. Per consuetudine ormai consolidata, alla maggioranza vanno due Tg e Reti, all’opposizione ne va una, con il numero 3 da tempo sempre alla sinistra, così come il numero 2 alla destra, e con Tg e Rete 1 che si spostano secondo la lancetta del voto.

Secondo la prassi, quindi, in questo giro di nomine il Pd avrebbe dovuto confermare o cambiare i direttori dei due feudi di sia pertinenza e tutti davano per decisa la conferma di Paolo Ruffini alla terza rete e l’esordio alla direzione del Tg3 di Bianca Berlinguer, figlia dello scomparso segretario del Pci dei tempi dell’eurocomunismo. Però poi qualcosa si è inceppato e Dario Franceschini ha smentito l’assenso dato da Massimo D’Alema al pacchettino delle nomine di sinistra. A quel che si è potuto leggere, Franceschini trova sbagliato procedere alle nomine in Rai prima delle elezioni. Potrebbe avere ragione, se fosse sicuro di un balzo in avanti del suo partito il 7 giugno.

Ma da tutte le avvisaglie che si sono potute percepire negli ultimi mesi, quello di Franceschini può rivelarsi un calcolo sbagliato. Le avvisaglie sono che Berlusconi sembra avviato su un piano inclinato che ha come punto di arrivo i ritratti di Napoleone e Giulio Cesare. Lo si è capito dai suoi attacchi, anche recenti, ai giornali e ai magistrati, lo si è capito dalla sua dichiarata ambizione di arrivare al 51% dei suffragi: un numero magico per un imprenditore del suo calibro, perché quel numero vuol dire che con appena una piccola frazione sopra la metà del capitale uno può farla da padrone in un’azienda.

Estendendo la logica del 50,1% alla politica, Berlusconi è pronto a fare il padrone anche lì. E a questo punto c’è solo da confidare nel suo buon cuore e nella sua cvolontà di rispettare la prassi politica italiana. E se invece decidesse di far saltare il tavolo e mettere ad esempio a dirigere il Tg3 una persona, magari di sinistra, ma non indicata dalla segreteria del Pd? Sarebbe semplicemente la ripetizione di quel che vuole fare col Tg2, quindi non è fantapolitica, ma probabilità. E sarebbe per il Pd una ulteriore sconfitta. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: il sistema televisivo italiano alla prese con vecchi problemi, ma di fronte a una crisi inedita.

Raiset* e il pluralismo. Una partita persa di Giuseppe Giulietti-blitzquotidiano.it

Esiste davvero un polo Raiset? Secondo alcuni commentatori no, anzi il conflitto di interessi è solo una invenzione di spiriti malevoli, accecati da un livore tardo comunista. Per convalidare questa tesi non si esita, ma guarda un po’, a rispolverare la teoria del complotto e a liquidare con disprezzo chiunque osi mettere in discussione un dogma che sembra essere più solido di quello trinitario che, almeno per i credenti, dovrebbe essere oggetto di culto e di venerazione.

Nella lista degli eretici che non vogliono inginocchiarsi di fronte al nuovo idolo sono così finiti il parlamento europeo, la commissione europea, la federazione internazionale degli editori e dei giornalisti, i costituzionalisti quasi tutti e da ultimo la grande agenzia americana Freedom house che ha retrocesso l’Italia tra i paesi semiliberi perché a quei signori sembra strano che un presidente del consiglio di un qualsiasi staterello del globo possa controllare in modo diretto o indiretto le principali reti televisive.
Quelli di Freedom House, per altro, sono talmente sinistrorsi che, giustamente, hanno cacciato all’inferno e agli ultimi posti della classifica i paesi a regime comunista a cominciare da Cuba e dalla Cina.

L’elenco degli infedeli si arricchisce da oggi di un inaspettato nuovo ospite: l’autorità di garanzia delle comunicazioni e il suo osservatorio incaricato di rilevare il pluralismo dei soggetti politici nei tg nazionali pubblici e privati.

Da qualche giorno sul sito dell’autorità sono comparsi i dati relativi al mese di aprile. La loro lettura è di difficile comprensione, ma non occorre essere un genio della statistica per rilevare come il presidente del consiglio da solo sbaragli il campo. Tutto effetto del terremoto che ha alterato i valori precedenti? Neppure per sogno, anzi l’osservatorio ha addirittura scorporato i dati relativi al sisma per non alterare la rilevazione. Nonostante questo il risultato non cambia, il mese di aprile conferma il trend del mese di marzo, per la prima volta non viene rispettata neppure la regola non scritta che prevedeva l’assegnazione di tempi paritari tra governo, maggioranza e opposizione.

Per non lasciarci prendere la mano dalla propaganda abbiamo chiesto ad un tecnico che ha collaborato alla elaborazione di dati di fornirci una scheda di lettura. Ve la proponiamo in esclusiva per Blitz:
Osservazioni sul monitoraggio politico aprile 2009
Premessa
Nel monitoraggio vengono rilevati:
Tempo di notizia: indica il tempo dedicato dal giornalista all’illustrazione di un argomento/evento in relazione ad un soggetto politico/istituzionale.
Tempo di parola: indica il tempo in cui il soggetto politico/istituzionale parla direttamente in voce.
Tempo di antenna: indica il tempo complessivamente dedicato al soggetto politico-istituzionale ed è dato dalla somma del “tempo di notizia” e del “tempo di parola” del soggetto.
Le analisi sono state dunque svolte sul tempo di antenna ritenuto maggiormente rappresentativo dello spazio dedicato alla forza politica.
Con riferimento alle rilevazioni di aprile l’avvenimento del sisma in Abruzzo (avvenuto in data 6 aprile 2009) ha determinato una polarizzazione dell’informazione televisiva sull’evento, di carattere eccezionale.
Il confronto con i dati di marzo dimostra però che tale evento non ha influenzato in modo significativo la distribuzione delle percentuali di tempo di antenna attribuite ai vari soggetti (che già nel mese di marzo risultavano particolarmente squilibrate), ma probabilmente ha inciso sul tempo complessivo dedicato dai tg ai soggetti politico/istituzionale (anche se tale aspetto non è colto dal monitoraggio).

Osservazioni
In generale emerge con chiarezza uno squilibrio a favore della maggioranza in tutte le reti (con l’eccezione del tg3) con l’evidenza di alcuni aspetti peculiari:

* il Tg4 nel mese di aprile ha dedicato alla maggioranza olte l’80% del tempo concentrandosi su governo e presidente del consiglio per oltre il 75%;
* il Tg5 nella seconda quindicina di aprile ha dedicato alla maggioranza oltre il 50% del tempo, ed all’opposizione il 30% rispetto ad uno storico del 15-20%. Emerge però che l’aumento a favore dell’opposizione è dovuto alla crescita dello spazio dedicato alle forze politiche minori;
* Studio aperto registra già dal mese di marzo rilevanti percentuali a favore della maggioranza/governo, riequilibrando un po’ solo nella seconda quindicina di aprile (da un tempo medio del 73% alla maggioranza si è passati al 56%);
* Il Tg2 e La7 anche nella seconda quindicina di aprile mantengono un forte squilibrio a favore del governo (45% nel tg2 e 47% nel tg di La7);
* Il Tg1 mantiene costantemente oltre il 50% alla maggioranza e circa il 25-30% all’opposizione.
* Il Tg3 appare la testata più equilibrata con il 40% per maggioranza/governo e 37% per l’opposizione.

Cosa altro aggiungere? Sarà una casualità ma il presidente vola nelle e sulle reti di sua proprietà, in taluni casi addirittura si configura una violazione persino della debolissima legge sul conflitto di interessi che configura come causa di infrazione grave un sostegno continuato e privilegiato ad una forza politica o a un singolo soggetto. In questo caso dovrebbe essere la medesima autorità a intervenire. Per ora nulla è accaduto.
La situazione non migliora neppure in casa Rai,con l’eccezione del Tg3, una situazione analoga si rileva anche La 7.
La scheda tecnica segnala che tale tendenza si sta consolidando e che i dati del terremoto l’hanno solo resa più evidente.
È del tutto evidente che, almeno dal punto di vista quantitativo, sia giusto ipotizzare il prossimo ulteriore consolidamento di un polo Raiset con tutte le conseguenze immaginabili sul piano del pluralismo politico ma anche su quello non meno delicato del pluralismo industriale e della libertà dei mercati di riferimento.

Quello che sorprende maggiormente, infine , è la quasi olimpica serenità, con la quale la pubblicazione dei dati è stata accolta dai diversi attori politici. La serenità di Berlusconi e dei suoi amici trova conforto nei dati, quella dei suoi avversari molto meno.
A proposito: il conflitto di interessi non esiste e comunque non incide minimamente sulle modalità della rappresentazione televisiva, chi osa dire il contrario sia messo al rogo come accadeva agli eretici e alle streghe ai bei tempi della santa inquisizione…(Beh buona giornata).

(* acronimo giornalistico che sta per Rai e Mediaset)

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: che succede se Rai e Sky non trovano un accordo sul satellite.

TRA LA RAI E SKY NON METTERE MEDIASET di Giovanni Valentini-la Repubblica.

È una scelta strategica molto delicata e importante, per la Rai, per il mercato dell’ informazione e per tutti noi cittadini telespettatori, quella che il vertice di viale Mazzini si accinge a compiere nei suoi rapporti con Sky. Entro il prossimo luglio, la tv di Stato deve decidere se rinnovare o meno il contratto con l’ emittente satellitare di Rupert Murdoch che offre 474 milioni di euro per i prossimi sette anni, in cambio della trasmissione dei canali pubblici sulla propria piattaforma. E bene ha fatto il Consiglio di amministrazione ad accogliere la proposta del direttore generale, Mauro Masi, di avviare rapidamente una trattativa per cercare di spuntare le condizioni migliori, sulla linea indicata dal presidente Garimberti.

Un eventuale divorzio tra Rai e Sky è destinato ad avere effetti rilevanti sul sistema televisivo italiano, sulle quote di mercato – soprattutto pubblicitario – delle due emittenti, e infine sulle nostre abitudini di teleutenti. Ma fatalmente si ripercuoterebbe anche su Mediaset, la tv del presidente del Consiglio, che seguirebbe subito a ruota sulla stessa strada e ne trarrebbe verosimilmente i maggiori benefici per fronteggiare il crollo della pubblicità. Tanto che si può parafrasare nel caso specifico il motto popolare, particolarmente in voga negli ultimi tempi a proposito delle vicende coniugali di Silvio Berlusconi: tra mogliee marito, con quel che segue.

La valutazione sulla congruità del “quantum” è rimessa naturalmente alla discrezionalità e responsabilità del Cda di viale Mazzini. E tuttavia non si tratta soltanto di un valore economico. In forza del principio della “neutralità tecnologica”, infatti, al pari di tutte le altre televisioni pubbliche d’ Europa la Rai è tenuta a diffondere i suoi programmi sul maggior numero di piattaforme possibili: il nuovo sistema digitale terrestre, quello satellitare, Internet, i telefoni cellulari e quant’ altro.

Se l’ accordo con Sky non dovesse più risultare conveniente, dunque, l’ azienda di Stato dovrebbe comunque attrezzarsi per trasmettere via satellite, sostenendo altri costi e magari accoppiandosi proprio con Mediaset. Per la Rai, in realtà, il problema si pone in termini di danno emergente e lucro cessante, come si dice in linguaggio giuridico. Danno emergente, perché – in caso di fallimento della trattativa con Sky – da qui al 2016 l’ azienda pubblica perderebbe 474 milioni di euro. A cui vanno aggiunte, come già detto, le spese per un nuovo satellite. E per un’ azienda che prevede di chiudere il bilancio 2009 con un deficit di oltre cento milioni, non è evidentemente una bazzecola.

Poi, c’ è – per così dire – il lucro cessante: cioè l’ effetto negativo, sul piano degli ascolti e quindi della raccolta pubblicitaria, di una separazione dalla televisione di Murdoch. Non solo perché in molte regioni non arriva né il vecchio segnale analogico né il nuovo segnale digitale, a cominciare proprio dalla Sardegna dove è già scattato il fatidico switchoff, il passaggio o la transizione da un sistema all’ altro, per cui il satellite resta l’ unica piattaforma utilizzabile. Ma ancor più per il fatto che ormai una buona parte del pubblico, in Italia o dall’ estero, utilizza abitualmente la parabola di Sky per scegliere attraverso lo stesso telecomando i canali in chiaro della Rai, di Mediaset e della 7 oppure quelli criptati nel bouquet della tv a pagamento. È più che opportuno, allora, che il vertice della Rai compia un’ analisi approfondita dei costi e dei benefici: ci mancherebbe altro. Con un “buco” del genere, sarebbe un delitto rifiutare l’ offerta di Murdoch, sopportare i costi di un nuovo satellite e per di più rischiare di perdere audience e pubblicità. Per fortuna, c’ è ancora la Corte dei conti o magari la magistratura ordinaria a cui ricorrere.

Ma, a parte i compiti istituzionali della Rai, i suoi legittimi interessi e le sue scelte autonome, non vorremmo proprio che l’ azienda di Stato – come il marito che vuole fare un dispetto alla moglie – per indebolire Sky si privasse degli attributi o comunque si danneggiasse da sola, alla maniera di Tafazzi, il personaggio televisivo incline al masochismo. A differenza di Mediaset, la nostra tv pubblica – come ha giustamente rilevato l’ ex ministro Paolo Gentiloni – non ha un’ offerta di pay-tv. E perciò, al di là delle migliori intenzioni, un eventuale divorzio da Sky finirebbe per avvantaggiare principalmente il suo più diretto concorrente, l’ altro incumbent del vecchio duopolio analogico e del nuovo duopolio digitale. Nel libro di memorie citato all’ inizio, è l’ ex consigliere di amministrazione della Rai, Carlo Rognoni, a evocare lo spettro dell’ Alitalia. E non è affatto rassicurante per il futuro della televisione pubblica.

«È il mercato – predica ora Rognoni – che impone alla politica di fare un passo indietro e prendere atto dei suoi doveri: fissare con chiarezza la missione del servizio pubblico nell’ era della rivoluzione digitale; impedire che la Rai perda credibilità; non lasciare che una grande azienda finisca come l’ Alitalia, nel giro di qualche anno». Tutto ciò è vero oggi. Ma era vero anche nel 2005, quando il centrosinistra partecipò alla maxi-lottizzazione e insediò i suoi uomini al vertice di viale Mazzini. Ed era vero, purtroppo, anche prima. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: Rcs a -17,7%.

(fonte: corriere.it)
Via a misure strutturali incisive per contenere i costi in casa Rcs. Il Consiglio di amministrazione del gruppo Rcs ha approvato infatti «una impegnativa e incisiva serie di misure strutturali» per «adeguare le dinamiche dei costi dell’intero gruppo all’attuale situazione di grave deterioramento ma anche di assoluta non visibilità dell’andamento dei mercati, specie pubblicitari e delle loro prospettive». È quanto si legge nel comunicato diffuso proprio al termine del consiglio di amministrazione di Rcs che si è riunito per approvare il bilancio della trimestrale. «Il programma di azioni di Rcs – scrive ancora la casa editrice del Corriere della Sera – assume come presupposto i trend negativi della pubblicità, la contrazione delle diffusioni e dei collaterali. Il progetto assume altresì, come presupposto, il mantenimento delle linee strategiche della multimedialità integrata e dell’accelerazione dei ricavi digitali, riparametrati al relativo e più contenuto tasso di crescita. Con queste fondamentali premesse, lo schema di interventi elaborato punta a definire, oltre alla prosecuzione delle misure già avviate nella seconda parte del 2008, una struttura dei costi che possa essere sostenibile con il forte decremento dei ricavi, come sopra indicato, puntando a raggiungere nell’anno a regime, ed anche in assenza di ripresa dei ricavi, quel livello di marginalità dal quale sviluppare adeguate risorse per i nuovi modelli di business ed una sempre maggiore valorizzazione delle proprie testate e delle attività di Gruppo. Solo con questa serie di significative azioni Rcs MediaGroup potrà fronteggiare il perdurare dell’attuale situazione congiunturale».

LE MISURE – «Le misure, strutturali e permanenti, – prosegue il comunicato di Rcs – riguarderanno trasversalmente tutte le società del Gruppo (ad esclusione di Dada), sia in Italia sia all’estero, per una manovra complessiva superiore a 200 milioni di euro, comprensivi di tutte le voci rilevanti, inclusa quella relativa al costo del lavoro. Si stima che il piano, che sarà attivato fin da subito, possa produrre compiutamente i suoi effetti definitivi, in assenza – ovviamente – di ulteriori deterioramenti della situazione di mercato e di fatti al momento non prevedibili, nell’arco ipotizzabile di 24 mesi. Gli oneri straordinari connessi alla sua attuazione graveranno in massima parte sull’esercizio in corso, che, pertanto, vedrà un risultato significativamente negativo, mentre l’esercizio 2010 potrà già beneficiare di gran parte degli effetti attesi.

IL BILANCIO – Rcs MediaGroup ha chiuso il primo trimestre dell’anno con una perdita netta 40,7 milioni di euro, che si confronta con un risultato negativo per 18,6 milioni al 31 marzo 2008. I ricavi netti consolidati sono scesi del 17,7% a 514,9 milioni di euro, i ricavi pubblicitari del 30,2% a 155 milioni.
I ricavi pubblicitari di Gruppo risentono, in particolare, del forte calo della raccolta dell’area Quotidiani Spagna, solo in minima parte compensato dalla crescita dell’online e del mezzo televisivo. In Italia, i ricavi delle aree Quotidiani e Periodici risultano sostanzialmente in linea con i mercati di riferimento. I ricavi diffusionali si attestano a 297,4 milioni, rispetto ai 337,8 milioni del pari periodo 2008 (-12%), principalmente per i minori ricavi dell’area Libri, per effetto della programmata e progressiva riduzione dei lanci di opere collezionabili in Italia ed all’estero. I ricavi editoriali diversi passano da 65,5 a 62,5 milioni (-4,6%).

ORGANICO – L’organico medio al 31 marzo 2009 si riduce a 6.550 unità, rispetto alle 6.682 (al netto delle attività destinate alla dismissione) del primo trimestre 2008, grazie alle efficienze realizzate in tutte le aree del Gruppo, e nonostante le variazioni di perimetro e i nuovi ingressi nell’ambito dello sviluppo del gruppo Dada e dei new media.

QUOTIDIANI ITALIAE SITI INTERNET – L’area Quotidiani Italia registra ricavi pari a 149,4 milioni (170 milioni nel pari periodo 2008). I ricavi pubblicitari, che si contraggono del 22,8%, riflettono la generalizzata flessione del mercato riguardante tutti i mezzi, solo parzialmente bilanciata dalla positiva raccolta del comparto online, che continua ad essere in crescita, anche se in misura minore rispetto al primo trimestre 2008. In particolare, il comparto internet del sistema multimediale legato al Corriere della Sera registra un incremento del 23,9%, con tassi superiori alle medie di mercato, e quello de La Gazzetta dello Sport è in linea rispetto allo stesso trimestre 2008. I ricavi diffusionali, che segnalano una flessione del 4,3%, riflettono la comune crisi delle diffusioni. I prodotti collaterali sono sostanzialmente in linea con l’analogo periodo dell’esercizio precedente. Nel primo trimestre 2009 Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport, pur risentendo della crisi delle diffusioni che ha colpito tutto il mercato, mantengono la leadership nei settori di riferimento rispettivamente con 585.000 (-10,4%, anche per la riduzione di copie promozionali scarsamente remunerative) e 335.000 (-5,9%) copie medie giornaliere. Nel mese di marzo, i siti online Corriere.it e Gazzetta.it hanno registrato nuovi record di accessi, rispettivamente con 13 e 7,8 milioni di lettori unici mese (+15% e + 27%). . Il Corriere della Sera, dallo scorso mese di marzo, è il primo quotidiano italiano presente su Kindle 2, il lettore palmare di libri elettronici di Amazon, disponibile ora negli Stati Uniti e, dal 2010, in Europa. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: