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Che cosa insegna alla pubblicità italiana la manifestazione del 3 ottobre per la libertà di stampa a Roma.

Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato a Roma il 3 ottobre per la libertà di stampa in Italia. Lo hanno fatto dopo che centinaia di migliaia di cittadini avevano firmato l’appello proposto da Repubblica, il quotidiano italiano che insieme a l’Unità è stato querelato dal presidente del Consiglio dei ministri. Quello stesso quotidiano a cui era stato lanciato un anatema: non investite la vostra pubblicità nei giornali che parlano male del governo, aveva detto a più riprese il capo del Governo italiano.

Centinai di migliaia di cittadini italiani sono stati protagonisti di una presa di posizione perfettamente democratica: la libertà di stampa è un diritto inalienabile per la vita democratica della società civile in Italia; i giornali non sono un fenomeno residuale nell’era delle nuove tecnologie; anche i consumatori di messaggi pubblicitari sono titolari a tutti gli effetti del diritto di cittadinanza di essere informati in modo corretto, pluralista, libero.

La pubblicità è vissuta e si è sviluppata dentro il perimetro della libertà di informazione: chi inventa i messaggi, chi paga l’invenzione dei messaggi, chi li veicola all’interno del timone di un giornale o del palinsesto di una tv ha sempre saputo che l’autorevolezza del messaggio pubblicitario è relativa alla autorevolezza della testata giornalistica che quel messaggio edita. Quella autorevolezza ha il pilastro nella libera esercitazione della libertà di pensiero a mezzo stampa. Non ci può essere una buona tv, un buon sito internet, una buona emittente radiofonica, una buona testata giornalistica sulla carta stampata, quotidiana, settimanale o mensile se non c’è un sano principio di libertà di informazione. Senza piena libertà di informazione, non c’è neppure una proficua attività di comunicazione commerciale.

La competizione tra i media, nel marketing mix che le aziende hanno a disposizione per comunicare ai lettori-cittadini-consumatori la loro migliore offerta commerciale non ha possibilità di essere efficace se questa competizione avviene sul territorio della negazione della libertà di pensiero: chi fa bene il mestiere di informare crea media affidabili nella fedeltà alla testata, dunque affidabili come veicoli della comunicazione pubblicitaria.

In piena crisi tra i mezzi di comunicazione di massa e la pubblicità, che possiamo definire a pieno titolo la “quarta crisi”, quella stessa che colpendo i giornali e l’informazione si è aggiunta alla crisi ambientale, alla crisi energetica, alla crisi finanziaria, ebbene, quello che è successo a Roma sabato 3 ottobre è una buona notizia: la libertà di stampa fa bene ai giornali, ma fa bene anche agli inserzionisti; fa bene ai lettori, ma fa bene anche ai consumatori.

Perché tutto quello che fa bene alla democrazia fa bene a tutto e a tutti. Dunque anche alla pubblicità e ai pubblicitari. Beh, buona giornata.

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Dice che da settembre ci saranno segnali di ripresa. A forza di tagliare, mi chiedo che cosa ci sarà da riprendersi.

Una scombinata combriccola di incapaci entra notte tempo all’Ikea vicino Napoli, piazza una carica davanti alla cassaforte e boom! manda a puttane tutto l’incasso del week end. Tanto rumore per nulla: hanno mandato in fumo un paio di centinai di migliaia di euro.

I giornali ci hanno scherzato su, citando il famoso film “Audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy. A me è venuto in mente un altro film, che va in loop da tempo. Un manipolo di audaci manager della pubblicità italiana da qualche anno a questa parte entra in ufficio e patatrac! perde clienti, manda a casa gente, distrugge valori economici e professionali.
I “soliti ignoti” dell’arcinoto film si accontentarono di un piatto di pasta e ceci. Questi qui sono insaziabili come locuste: triturano tutto quello che capita loro sotto i denti, lasciandosi dietro un desolante panorama di distruzione. Ma cècati! se a qualcuno viene in mente che distruggendo non si costruisce un bel niente, men che meno un’onorevole via d’uscita dalla crisi che incombe pesante come il coperchio di un tombino di ghisa sulla pubblicità e sui media.

Ma, tant’è, questo è quello che ci offre questa arida estate della pubblicità italiana. Se tutto va bene, attenzione, ho detto proprio tutto, l’obiettivo è al massimo proteggere i margini e registrare un calo minore rispetto alla media del mercato. E a culo tutto il resto! Il che è un bel paradosso. In un momento in cui i clienti, come minimo, sono sparagnini, dunque anch’essi, per proteggere i propri margini non investono in comunicazione, che cosa fanno le Agenzie?: semplice, fanno lo stesso.

Però, se tutti fanno la stessa cosa, come si crede di uscire dalla crisi? Va avanti tu che a me mi scappa di ridere? Se ognuno aspetta che sia l’altro a fare la prima mossa, stiamo davvero freschi. Sarà pure un’estate calda, ma questo modo di stare freschi ve lo potete pure tenere. Dice che da settembre ci saranno segnali di ripresa. A forza di tagliare, mi chiedo che cosa ci sarà da riprendersi. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi premia The Economist.

Mentre la maggior parte delle testate soffre per il pesante calo degli investimenti pubblicitari, The Economist Group, l’editore inglese di The Economist, e Axel Springer, il gruppo tedesco che pubblica tra gli altri Bild Zeitung , il quotidiano più diffuso d’Europa, vantano un aumento nel numero di copie vendute e bilanci record, anche grazie all’on line.

Mentre la maggior parte delle testate soffre per il pesante calo degli investimenti pubblicitari determinato dalla crisi che ha investito l’economia mondiale, ci sono due editori che possono essere ben contenti dei propri risultati: si tratta, come si apprende da una notizia pubblicata oggi, 14 luglio, sul sito del Corriere della Sera , di The Economist Group, l’editore inglese di The Economist, e di Axel Springer, il gruppo tedesco che pubblica tra gli altri Bild Zeitung , il quotidiano più diffuso d’Europa.

The Economist Group, che nel suo portafoglio vanta, oltre alla testata ammiraglia, mensili specializzati, alcuni siti internet, l’Economist Intelligence Unit, Roll Call (ovvero il notiziario del Congresso Usa, ndr.) e Capitol Advantage , ha chiuso l’anno fiscale lo scorso 31 marzo con un bilancio record. E pensare che nel 2006 era proprio The Economist, che oggi diffonde quasi 1,4 milioni di copie, a fare previsioni in merito alla scomparsa dei quotidiani, che sarebbe avvenuta, secondo il giornale, nel 2043.

L’altra eccezione in questo momento difficile per la stampa è costituita da Axel Springer, che pubblica Bild Zeitung , Die Welt , le testate regionali di Amburgo e Berlino e gestisce alcuni portali, che fruttano già un sesto dei ricavi totali. Ebbene il Gruppo, 10.600 dipendenti e focus sui giornali legati al territorio, vanta ricavi per 2,7 miliardi di euro, e un utile di 571 milioni .

Pare che il punto di forza del Gruppo stia nella minore dipendenza dalla pubblicità rispetto alla concorrenza: l’adv porta a Axel Springer il 43% dei ricavi, mentre per gli altri Gruppi la percentuale sale al 54%, per non parlare dei piccoli annunci, che portano solo il 18% dei ricavi a Axel Springer e invece valgono per oltre la metà del fatturato in Germania e Regno Unito. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: chi si compra Business Week?

Stando ad alcune indiscrezioni, il gruppo editoriale McGraw-Hill avrebbe preso la decisione di mettere in vendita il settimanale Business Week . Il gruppo avrebbe già affidato alla banca Evercore Partners il compito di cercare nuovi acquirenti. Attualmente, la testata è diffusa in 140 paesi e ha una readership di 4,8 mln di lettori.

La causa della vendita sarebbero le difficoltà economiche in cui verte il giornale, problemi causati dal crollo degli investimenti pubblicitari e dalla concorrenza del web. Infatti, nel primo trimestre 2009 la raccolta pubblicitaria ha subito un calo del 38%. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: “Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.”

AGCOM E IL GIOCO DELLE TRE CARTE
di Michele Polo-lavoce.info

La relazione annuale dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni sottolinea la fine del duopolio televisivo con il sorpasso di Sky su Mediaset. Ma è un messaggio fuorviante. Perché nasconde l’evoluzione dell’audience tra i principali canali, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di pubblico. E mentre la scomparsa del mondo televisivo tradizionale è ancora lontana, Mediaset conferma la posizione dominante sul mercato pubblicitario, con una quota del 55,1 per cento.

Con qualche giorno di ritardo sulla data dovuta del 30 giugno, l’Autorità di garanzia per le comunicazioni ha presentato la sua Relazione annuale sul settore delle comunicazioni elettroniche e su quello dei media. Su quest’ultimo ci concentreremo, a partire dal messaggio forte che è stato subito ripreso dai giornali: la fine del duopolio, il sorpasso del gruppo Sky rispetto a Mediaset.
Spiace doverlo dire di un’Autorità che ha come compito istituzionale quello della sorveglianza sulla correttezza dell’informazione e sul pluralismo, ma questo messaggio è fuorviante, parziale e omissivo. Vediamo il perché.

I RICAVI E L’AUDIENCE

Il forte peso economico del gruppo Sky non è una novità, e già nella relazione dell’anno scorso lo poneva sostanzialmente alla pari con il gruppo Mediaset: rispettivamente 2.347 e 2.411 milioni di euro, contro i 2.729 della Rai. Con le correzioni apportate nel frattempo, si apprende nella relazione di quest’anno che il sorpasso era già avvenuto nel 2007 (2.422 a 2.411) e si è consolidato durante il 2008 (2.640 e 2.531). Un forte riequilibrio delle risorse tra Rai, Sky e Mediaset è quindi un dato che da almeno tre anni caratterizza il sistema televisivo italiano.
Ma questo messaggio forte ha lasciato in ombra alcuni aspetti che invece risultano importanti nel fare il quadro dell’ultimo anno televisivo. Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.
Ma il secondo dato che non troviamo nella relazione del presidente Calabrò è l’evoluzione della audience tra i principali canali televisivi, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. Il dato sorprendente è che, in una struttura della relazione che ripercorre fedelmente, tabella per tabella, gli stessi indicatori e le medesime analisi quantitative dello scorso anno, il testo si arresta alla descrizione delle quote di mercato nella raccolta pubblicitaria (Mediaset in posizione dominante) e in quella delle offerte televisive a pagamento (Sky superdominante col 91,1 per cento). La tabella successiva, che lo scorso anno riportava l’evoluzione della audience tra i diversi gruppi televisivi, è scomparsa dalla relazione. E bisogna con cura certosina stanare nella nota 22 a pagina 9 della presentazione del presidente Calabrò il dato prezioso: la audience complessiva di Rai, Mediaset e La7, pari al 83,9 per cento (!) ha ceduto nel 2008 una quota del 1,4 per cento di telespettatori al gruppo Sky, che con l’insieme dei suoi canali raggiunge quindi una audience media del 9,5 per cento.
Terminata questa faticosa cernita, possiamo quindi dire che il gruppo Sky si conferma secondo operatore per ricavi, pur rimanendo attestato su una audience sull’insieme dei suoi canali che non raggiunge un quarto di quella di Rai e Mediaset. Quest’ultima, inoltre, è riuscita con successo, grazie alla sua efficiente concessionaria, a contenere l’impatto negativo della crisi sui ricavi pubblicitari, al contrario di quanto avvenuto per la carta stampata e le reti televisive pubbliche.

IL PLURALISMO CHE NON C’È

Restano quindi i problemi che da anni caratterizzano il mercato televisivo italiano. La crescita indubbiamente positiva di un terzo operatore pay, il gruppo Sky, esercita principalmente un impatto sul mercato dei contenuti, dove la concorrenza per i diritti di trasmissione sui principali eventi sportivi, sui film, sui serial di successo e oggi anche per alcuni personaggi del varietà molto popolari, si fa sempre più accesa. Tuttavia, questo operatore, basato su un modello di ricavi (abbonamento da sottoscrizione) complementare a quello di Mediaset (pubblicità) e Rai (canone e pubblicità), riesce a consolidare la propria posizione economica senza la necessità di raggiungere elevati livelli di audience durante la giornata.
Un riequilibrio della audience, d’altra parte, sarebbe quello che potrebbe realmente portare a una maggiore articolazione delle scelte del pubblico, con un beneficio per l’obiettivo del pluralismo. Così, tuttavia, non è. E non lo è per ragioni tante volte commentate su questo sito. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di audience, e che erode selettivamente fasce di pubblico in determinati momenti, su determinati programmi, lasciando, almeno in una prospettiva temporale ancora lunga, gran parte dei telespettatori ai grandi canali generalisti. Le fughe in avanti di quanti vedono nel digitale, e nei molti canali che consente, la fine del mondo televisivo tradizionale non sono giustificate dalle forze economiche che governano il settore dei media né dai dati, se si ha l’accortezza di riportarli.
Per il pluralismo in Italia, anche quest’anno, profondo rosso. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: scendono gli investimenti pubblicitari, cresce il conservatorismo dei committenti, soffrono i centri media.

di Ilaria Myr-NC
La crisi globale sta interessando tutta la filiera della comunicazione, si è detto. E i centri media non fanno eccezione. Soprattutto se si considera l’attuale sistema di remunerazione delle centrali media, basato sui fee e i diritti di negoziazione. Come spiega Giorgio Tettamanti, chief operating officer Carat Italia : “La voce prevalente della remunerazione è rappresentata da una percentuale applicata all’investimento dei nostri clienti e la seconda voce di ricavo è costruita dai premi di fine anno, dalle concessionarie, al raggiungimento di determinati obiettivi di volume. È innegabile che entrambe queste voci risentano negativamente dei trend di mercato in corso”.

Gli fa eco Federico de Nardis, amministratore delegato di Mc2 Mediacommunication: “La crisi internazionale sta portando a una forte compressione dei budget di molte grandi aziende. A seconda dei settori la riduzione si può stimare tra un -5% e un -20%. In un modello tradizionale dove il centro media è la struttura di pianificazione e acquisto dei suoi clienti, la remunerazione si riduce in modo proporzionale alla contrazione dei budget”.

Tutto ciò influenza anche il lavoro stesso, come spiega Marco Muraglia, amministratore delegato Starcom: “L’impatto è significativo dal momento che in molti casi siamo remunerati in misura proporzionale agli investimenti. Inoltre, purtroppo la quantità di lavoro necessario non si è ridotto. Anzi, il tempo delle persone per produrre strategia, pianificazione e acquisto è incrementato: si devono valutare molte più alternative, peraltro tentando di ottenere risultati soddisfacenti con risorse inferiori”.

D’altronde, la questione dei diritti di negoziazione è al centro di calorose discussioni già ormai da qualche tempo. “La crisi sta impattando su un processo di revisione di questo sistema che era già in corso – specifica Alessandro Villoresi, coo Vizeum -. E anche dal Parlamento sono uscite proposte per normalizzare la questione. Certo è che in un momento come questo, in cui le aziende tendono a fare saving dei propri investimenti, ne risentono anche i consulenti”.

La sofferenza dunque c’è. Ma una soluzione può venire dalla crisi stessa, come sostiene Vittorio Bonori, ceo ZenithOptimedia, che concorda con Hartsarich sulla necessità di sfruttare la congiuntura negativa in atto e sull’inevitabile cambiamento del modello di business dei centri media. “Ogni crisi nasconde grandi opportunità ed è su queste che occorrerebbe concentrarsi per superare le difficoltà e prepararsi alle sfide future. Il modello di business dei centri media è destinato a cambiare così come quello di tutti i componenti della filiera, a partire dalle aziende fino ad arrivare a editori e concessionarie di pubblicità. Allo stesso modo, i modelli economici di remunerazione seguiranno questi cambiamenti e contribuiranno a riallocare le risorse presso i soggetti della filiera che si conquisteranno una posizione centrale e strategica sul mercato”.

Le aziende: fra vecchio e nuovo

I clienti, dal canto loro, reagiscono alla situazione attuale con un atteggiamento che, se può sembrare contraddittorio, dice in realtà molto su come si stia evolvendo oggi la comunicazione. Come spiega Walter Hartsarich: “I clienti oggi cercano di mira- re al massimo al target di riferimento e, a fronte di investimenti ridotti, concentrano i budget sui mezzi che facilitano il raggiungimento degli obiettivi di vendita in modo più immediato, sia classici che più innovativi, come il digitale”.

Da un lato quindi si assiste a una concentrazione degli investimenti verso la tv, mezzo da sempre ‘rassicurante’. Ne è convinto Roberto Binaghi, ceo Omd (da giugno, vicedirettore generale Manzoni, ndr), che al tema aveva dedicato un intervento allo Iab Forum di novembre. “Quando le cose vanno male, la tendenza è fare meno esperimenti e affidarsi al ‘bene rifugio’ – dichiara -. Nella pubblicità tale bene è la televisione. Gli investitori la usano perché hanno ritorni importanti, la considerano un mezzo efficace. Non è un caso che, in Italia, attiri la metà abbondante del totale investimen- ti. Quindi, la tv è l’ultimo mezzo a essere tagliato”.

Concorda con questa posizione Marco Muraglia di Starcom, che spiega: “Nelle situazioni di stagnazione e crisi economica, prevale da parte delle aziende un atteggiamento protettivo e maggiormente conservatore, che porterà prevedibilmente, nel prossimo futuro, a un maggior ricorso al mezzo tv, tradizionalmente percepito come ‘meno rischioso’, e più sicuro in termini di impatto positivo sul giro d’affari”. Dall’altro lato, cresce la domanda di strumenti e soluzioni innovative, che più di quelle tradizionali raggiungono in modo efficace il tanto ricercato coinvolgimento del consumatore. Si accentua così una tendenza ben presente sul mercato negli ultimi tempi, anche prima della crisi, come ben emerge ogni mese dalle pagine di questo giornale. Spiega Tettamanti di Carat: “Non è la crisi che sta cambiando modalità di approccio dei clienti. La maggior attenzione al ‘consumer insight’, al ritorno sull’investimento, alla misurabilità, il maggior ricorso al narrowcasting, l’importanza crescente del concetto di ‘engagement’: sono tutti trend che caratterizzano il nostro presente ma che trovano origine già nel recente passato”.

In particolare internet e il digitale sono strumenti che, a fronte di investimenti più contenuti rispetto a mezzi più classici, permettono di realizzare comunicazioni molto targettizzate. Prova ne è la crescita che questo settore continua a mettere a segno (+2% a gennaio, dati Osservatorio Fcp-AssoInternet). E sebbene si tratti di una quota ridotta rispetto al passato, il web è il mezzo che cresce di più, in un mercato che invece cala vertiginosamente. Come precisa Binaghi, “è possibile che quest’anno si debba accontentare di una crescita a una sola cifra, però sta guadagnando quota a scapito di altri mezzi, come la stampa”. Soprattutto, esso viene scelto per la sua misurabilità: variabile, questa, che sarà sempre più determinante nel futuro. È quanto sostiene Vittorio Bonori, che spiega: “L’allocazione di un budget di comunicazione dipende sostanzialmente da quattro variabili: dagli obiettivi, dal target, dall’arena competitiva e dalla dimensione del budget. Queste regole non muteranno nel breve termine, ma tenderanno a semplificarsi notevolmente nel momento in cui la misurabilità dei media consentirà di lavorare in un’ottica di performance marketing. Lo stiamo già sperimentando su alcuni media digitali, con un guadagno significativo in termini di efficienza di investimento”.

Tutto ciò, però, avviene in quell’atmosfera di attesa, diffusa in tutti i campi e i settori, che si traduce nell’allungamento da parte dei clienti dei tempi di decisione degli investimenti. “In un momento in cui è notorio che gli investimenti sono depressi – spiega Alessandro Villoresi – i clienti tendono a dilazionarli nel tempo, nella speranza/attesa di cogliere delle opportunità. E questo, come è immaginabile, ha un’influenza anche sul lavoro dei centri media”. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: “La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità.”

di Enrico Beltramini – da Limes

La crisi che sta attraversando il mondo della stampa negli Stati Uniti è probabilmente irreversibile. Il modello di business è insostenibile, e l’intreccio tra informazione, politica ed economia che ha contrassegnato la vita nell’ultimo secolo di storia americana, al capolinea.

Non è soltanto il giornalismo politico che sta attraversando una crisi profonda, ma l’intera industria dell’informazione americana su carta. Dall’inizio dell’anno ad oggi (e siamo a metà anno), 105 giornali sono stati chiusi, lasciando a casa circa 10 mila persone (giornalisti e non). La pubblicità è scesa del 30%, 23 dei 25 più importanti giornali americani hanno dichiarato una riduzione della circolazione tra il 7 e il 20%, e hanno registrato il crollo verticale del valore dei titoli quotati. Per la cronaca, 61 di questi 105 giornali appartenevano a quattro gruppi editoriali: Gannett Co., GateHouse Media, The Sun-Times Media Group e The Journal Register Company. Il gruppo Tribune, che pubblica il Chicago Tribune e il Los Angeles Times, ha chiesto l’accesso alle procedure di in bancarotta, mentre il New York Times ha cominciato ad ipotecare gli immobili. Il Miami Herald è in vendita. Più del 20% del settore editoriale ha problemi finanziari.

Megan McCardle ha spiegato su The Atlantic che “for most of history, most publications lost money, or at best broke even, on their subscription base, which just about paid for the cost of printing and distributing the papers. Advertising was what paid the bills. To be sure, some of that advertising is migrating to blogs and similar new media. But most of it is simply being siphoned out of journalism altogether. Craigslist ate the classified ads. eHarmony stole the personals. Google took those tiny ads for weird products. And Macy’s can email its own damn customers to announce a sale”.

Secondo Cardle, non dovremmo meravigliarci della crisi che ha colpito oggi i giornali. Il problema è che i loro fondamentali sono sempre stati deboli. La stampa non è mai riuscita a coprire i costi grazie al suo core business, cioè vendere notizie ai lettori, ma vendendo la audience dei suoi lettori agli inserzionisti. Insomma, la pubblicità. E anche così, non ha mai raccolto abbastanza soldi per raggiungere il break even. Ecco perché i giornali offrivano altri servizi: la pubblicità locale, i messaggi personali, la comunicazione istituzionale delle aziende, ecc..

Ora però i servizi accessori sono stati strappati via dal corpo del giornale e sono diventati attività a se stanti, servizi indipendenti online con un loro business model specifico; Google offre micro advertising, Craigslist le inserzioni personali, e le aziende possono informare la loro clientela direttamente attraverso il loro sito. Costretta a dover contare soltanto sul suo core business, vendere notizie ai lettori, la stampa ovviamente collassa. Qualcuno spinge l’analisi sulla crisi dei giornali americani ancora più in profondità.

Ricorda Dave Winer, uno dei pionieri delle informazioni in digitale, che le fonti delle notizie non sono mai state pagate. Quindi, integrando il ragionamento di McCardle con quello di Winer, possiamo concludere che vendere notizie ai lettori non è mai stato sufficiente per coprire i costi nemmeno nel caso in cui le notizie fossero gratuite. Insomma, il mestiere di raccolta, selezione, impacchettamento e assemblaggio e vendita della notizia non riesce a pagarsi abbastanza per coprire i costi.

Non c’è da sorprendersi se oggi il business vacilla.

Jeff Jarvis, docente alla City University di New York e famoso bloggista, affonda il coltello senza riguardi. “Owning the printing press or broadcast tower used to define advantage: I own and control the means of production and distribution and you and don’t, which enables me to decide what gets distributed and forces you to come to me if you want to reach the public through news or through advertising, whose price I alone set with little or no concern for competition”.
Quindi, la proprietà dei mezzi di produzione e di distribuzione comporta il controllo sul contenuto, e quindi sulle informazioni.
E’ interessante il ragionamento di Jarvis: creando una connessione tra la proprietà dei mezzi di produzione e distribuzione e il core business della stampa, dimostra la vulnerabilità della stampa dal punto di vista economico e anche dal punto di vista culturale.
Dal punto di vista economico, è proprio il costo dell’infrastruttura che si sta dimostrando insostenibile.

E’ innanzitutto lì che Internet sta ottenendo i maggiori successi, impiegando tecnologie che aprono una conversazione con la audience ad una frazione del costo di un giornale. Dal punto di vista culturale, racconta Jarvis, la proprietà dei mezzi ha determinato la diffusione di una cultura del controllo della notizia. La proprietà dei mezzi si è trasferita a quella delle notizie.

“We journalists own the news, that we’re necessary to it, that we decide what’s reported and what’s important, that we can package the world for you every day in a box with a bow on it, that what we do is perfect (with rare, we think, exceptions), that the world should come to us to be informed, that we deserve to be paid for this service, that the world needs us”. Il cerchio è chiuso. La proprietà dei mezzi determina il controllo dell’informazione. E il controllo dell’informazione rende la stampa una realtà potente.

Il potere è un elemento dell’equazione. Un elemento che Megan McCardle aveva dimenticato. Ovviamente, i giornali servono per dare notizie; ma anche per progetti economici – rendere attraente una nuova area urbana precedentemente depressa, e costruirci sopra una speculazione; e politici – sostenere la candidatura di un politico o un altro.

Il giornale, soprattutto se assurge ad una diffusione nazionale, forgia narrative, costruisce modelli culturali, entra in ogni aspetto importante della vita dei suoi lettori. Tutto questo, naturalmente, significa che intorno a questi progetti, di qualunque natura siano, si raccoglie interesse: interesse economico. Soldi.
Perché il giornale, come tutte le creature economiche, non vive di buoni propositi.
Il giornale ha quindi un ruolo sociale. Ma questo ruolo può essere svolto soltanto se c’è qualcuno che continua a comprare i giornali e qualcun altro che non smette di pagare per metterci sopra la sua pubblicità. Così, quando i soldi che arrivano alle casse del giornale dai lettori o dagli inserzionisti iniziano a declinare, a declinare, e il declino non si ferma più.

Quando il giornale non sembra più essere il veicolo su cui costruire un progetto, o annunciare una conferenza, o cercare un amministratore delegato.
Quando emergono altri mezzi che permettono di aprire una conversazione con milioni di lettori ad un costo minimo.
Quando i conti cominciano a non tornare, e tutta la retorica costruita intorno al giornale che plasma il paese, sostiene un personaggio pubblico, o semplicemente trova il miglior candidato, evapora; quando non ci sono più i soldi per pagare i giornalisti, sostenere sedi estere, avviare inchieste.
Quando tutto questo accade, allora è il momento di voltare pagina. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://temi.repubblica.it/limes/la-stampa-americana-i-dettagli-di-una-crisi-epocale/5498?h=0.

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La quarta crisi: clamoroso, Sky batte Mediaset.

(fonte repubblica.it)
Sky supera Mediaset ed è, dietro la Rai, il secondo operatore tv per ricavi. La tv di Stato lo scorso anno ha registrato “ricavi per 2.723 milioni di euro, Sky Italia 2.640 milioni e RTI 2.531 milioni di euro”. Lo rende noto il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Corrado Calabrò nella relazione annuale presentata al Parlamento.

“La Rai è ancora – afferma Calabrò – la principale media company italiana con oltre 2,7 miliardi di euro di ricavi, anche se in decremento rispetto al 2007 a causa della flessione della pubblicità (-3,6%). Sky Italia consolida la sua posizione, divenendo addirittura il secondo gruppo televisivo per ricavi. Il gruppo Mediaset (che scende al terzo posto, con un calo della pubblicità dello 0,3%) vede il rafforzamento della propria offerta a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre (passando da 125 a 199 milioni di euro)”.

Nel 2008, in Italia i ricavi complessivi del settore televisivo hanno raggiunto gli 8,4 miliardi di euro con un +4,1% rispetto al 2007, rileva il garante.
La struttura televisiva è articolata in tre soggetti “con una posizione simmetrica in termini di ricavi complessivi del settore televisivo. All’interno di essa – spiega Calabrò – RTI è leader della pubblicità e nuovo concorrente nelle offerte a pagamento; Sky è di gran lunga leader nella pay tv e nuovo concorrente nella pubblicità; Rai mantiene le classiche posizioni attraverso una quota di rilievo nella pubblicità e prelevando le risorse residue dal canone di abbonamento”. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: l’intreccio politica-pubblicità fa bene al mercato italiano della comunicazione commerciale?

LE MINACCE DI BERLUSCONI, LA SORTITA DI D’ALEMA
Elezioni anticipate: «possibili» per le concessionarie di pubblicità,di Fr.Pi-Il Manifesto

«Una campagna pubblicitaria “ottimista” sarebbe smentita in un attimo
dallo stesso media che la veicola». Marco Ferri, copywriter e creativo tra
i più noti in Italia, sintetizza a suo modo le difficoltà di rapporto tra
gli inviti del premier e la realtà desolante del settore che pure lo ha
avuto come dominus dagli anni ’70 in poi. Come se non bastasse, è lo
stesso premier a evocare lo spettro di elezioni anticipate per «mettere a
posto» i suoi alleati, resi inquieti dal brusco stop elettorale delle
europee. Un’eventualità che i pubblicitari considerano una iattura, ma che
viene già metabolizzata nelle relazioni commerciali. «Ho chiesto a una
concessionaria – racconta Ferri – la pianificazione di una campagna su 12
mesi per conto di un cliente. Mi hanno risposto: “ma come, un anno? E se
poi ci sono elezioni anticipate e il cliente ci ripensa?”». Parliamo di un
settore produttivo, che segue i boatos della politica per dovere
professionale, anche per calcolare il possibile intasamento degli spazi e
le variazioni di prezzo. E «che però sente tutte le incertezze che la
crisi economica sta provocando nei consumi, naviga a vista, e quindi trova
incredibili le pianificazioni a lungo termine». Sull’editoria la crisi sta
picchiando duro. «Siamo in epoca di semestrali, dopo relazioni trimestrali
drammatiche, dove le principali holding della pubblicità hanno lasciato
sul campo perdite che vanno dal 5% alla doppia cifra», e che
consolideranno questi risultati negativi. L’istituto Nielsen Global
Research calcola una flessione complessiva del 18% nei confronti del primo
quadrimestre 2008 (-15,3% per la Televisione, -22,7% per i quotidiani).
Un quadro di minori risorse per tutti, dove Berlusconi – capo del governo
e proprietario di Publitalia – ha più volte invitato gli imprenditori a
«non investire sui media catastrofisti». L’ultima volta lo ha fatto dallo
stesso palco dove poco prima la presidente di Confindustria, Emma
Marcegaglia, aveva chiesto «100 giorni di azioni». Lo aveva già fatto a
Villa Madama, mesi fa; lo ha ripetuto poi a Porta a porta. E’ una minaccia
esplicita rivolta in primo luogo agli imprenditori, ovvero a quel «potere
forte» che – se non venissero accolte le richieste nei prossimi 100 giorni
– potrebbe girargli le spalle. Sembra quasi che, dopo 15 anni da
«fenomeno» politico, Berlusconi sia regredito a capo di Publitalia,
convinto di poter trattare i capi di stato come clienti un po’
sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Crisi economica globale: a picco gli indici della fiducia dei consumatori in tutto il mondo.

(fonte: advexpress.it)

Negli ultimi sei mesi, la fiducia dei consumatori a livello globale è precipitata ad un minimo record, perdendo sette punti, da 84 a 77, secondo il “Nielsen Global Consumer Confidence Index”. L’ultima indagine Nielsen sulla fiducia dei consumatori a livello globale, condotta ad aprile 2009 in 50 Paesi, ha mostrato che i mercati emergenti di Russia, EAU (Emirati Arabi Uniti) e Brasile hanno accusato un enorme calo di fiducia da parte dei consumatori negli ultimi sei mesi a causa della svalutazione monetaria, dell’indebolimento dei mercati di esportazione e della caduta dei prezzi delle merci a livello globale.

“Mentre l’Europa e i mercati sviluppati hanno visto precipitare drammaticamente la fiducia dei consumatori tra maggio e ottobre 2008, i mercati emergenti di Russia e America Latina hanno accusato maggiormente il colpo negli ultimi mesi”, ha dichiarato James Russo, Vice President, Global Consumer Insights, The Nielsen Company. In Russia la fiducia dei consumatori è scesa di 29 punti (arrivando a 75 punti rispetto ai 104 di settembre ’08), dando prova del maggior calo registrato da Nielsen a livello globale. Nei principali mercati emergenti invece la fiducia di EAU e Brasile è scesa di 21 punti. L’America Latina ha dimostrato il maggior calo di fiducia dei consumatori, con una diminuzione di 15 punti (da 97 a 82), mentre in Europa e Asia-Pacifico è scesa in entrambi i casi di sette punti.

“Sei mesi fa, mentre i mercati sviluppati procedevano spediti verso l’epicentro di una recessione globale, l’America Latina rappresentava l’area geografica più ottimista del mondo – tuttavia i lunghi tentacoli della recessione globale non hanno tardato a raggiungerla”, ha aggiunto Russo. Secondo l’indagine Nielsen, la fiducia dei consumatori in Brasile è scesa da 108 a 87 punti, mentre in Argentina è scesa da 94 a 78 punti. “Sebbene sia improbabile che gli effetti della crisi globale abbiano un impatto sui consumatori dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e Latam (America Latina) simile a quello registrato nei paesi sviluppati, questi mercati stanno attualmente sperimentando un notevole rallentamento rispetto al boom e alla crescita degli ultimi anni”, ha affermato Russo.

“Verso la fine dello scorso anno, i consumatori russi hanno assunto un atteggiamento di ‘attesa’ nei confronti della difficile situazione economica globale, che da allora ha intrapreso un’inesorabile oscillazione verso il basso. La continua riduzione del prezzo del petrolio, la svalutazione monetaria e il rallentamento locale verificatosi in diversi settori hanno riportato alla memoria la crisi russa del 1998”, ha aggiunto Dwight Watson, Managing Director, The Nielsen Company, Russia.

L’Indonesia è in testa alla classifica Nielsen della fiducia dei consumatori a livello globale con 104 punti, seguita dalla Danimarca (102 punti) e dall’India (99 punti). I Paesi più pessimisti a livello mondiale secondo l’indice Nielsen sono la Corea (31 punti), seguita da Portogallo e Lettonia con 48 punti. La fiducia è precipitata in 49 Paesi su 50 – Taiwan è stato l’unico Paese a contrastare la tendenza globale, rialzando l’indice da 60 a 63 punti, ma pur sempre 14 punti sotto la media globale.

“Comunicazioni quotidiane di tagli di posti di lavoro e di calo dei profitti aziendali, fallimenti e pignoramenti, riduzione delle previsioni di PIL e di produzione hanno contribuito a diminuire la fiducia e il potere d’acquisto dei consumatori, portandoli ai livelli minimi dal dopoguerra. Negli ultimi sei mesi, la fiducia dei consumatori in Medio Oriente, Africa e Nord America è diminuita rispettivamente di due e tre punti. Tuttavia, l’assenza di un’ulteriore diminuzione della fiducia dei consumatori nordamericani potrebbe dar prova dei primi cauti segnali di speranza che la recessione stia finalmente per giungere al termine.” ha dichiarato Russo.

“I risultati che stiamo osservando secondo l’ultimo indice Nielsen della fiducia dei consumatori indicano che siamo giunti, o che stiamo per giungere, verso la fine di questo ciclo economico. In particolare negli Stati Uniti, dove si stanno chiaramente ritoccando spese e risparmi e dove il 40% dei consumatori dichiara di aver quasi terminato di pagare i debiti e di iniziare a risparmiare, si sta sviluppando un atteggiamento di ottimismo dovuto alla percezione del fatto che la fine del tunnel sia vicina, e quasi il 20% prevede una ripresa entro i prossimi 12 mesi”, ha commentato Russo.

L’Europa rimane l’area geografica più pessimista con 70 punti, sette sotto la media globale; chiara indicazione del fatto che la ripresa economica in Europa avrà luogo più lentamente. Secondo l’indagine Nielsen, il 77% dei consumatori online ritiene che la propria economia sia in recessione, rispetto al 63% di sei mesi fa.

“In generale, i consumatori hanno attraversato un periodo difficile alla fine del 2008 e si sono preparati ad affrontare un periodo altrettanto arduo nella prima metà del 2009, cosa che sta puntualmente accadendo. L’unica eccezione a livello globale è la Cina, dove il 65% dei consumatori su internet non ritiene che la propria economia sia in recessione”, ha dichiarato Russo.

Tra i consumatori online a livello globale che ritengono di essere attualmente in recessione, il 52% dichiara di essersi preparato ad una recessione globale che durerà 12 mesi o più. “Un consumatore su due non è in attesa di un miracolo per una rapida ripresa; probabilmente il miglior approccio auspicabile è di rimanere fermi ma stabili”, ha dichiarato Russo. Tuttavia, non tutti sono preparati a sopportare una recessione prolungata – alcuni consumatori stanno già pianificando il loro party post-recessione. Tra i recessionisti attuali, quasi un consumatore online su cinque (23%) ritiene che il proprio Paese uscirà dalla recessione entro i prossimi 12 mesi; tale classifica è capeggiata da vietnamiti (60%) e indiani (56%).

Due consumatori danesi e olandesi su cinque ritengono anch’essi di uscire dalla recessione entro un anno, insieme ad un consumatore su tre con sede in Austria, Svezia, Norvegia, Russia, Indonesia, Israele, Messico e EAU.

Mentre la fiducia dei consumatori a livello globale è precipitata ad un nuovo livello minimo, la paura della disoccupazione e l’incertezza del lavoro hanno raggiunto massimi storici. La certezza del lavoro è stata menzionata come principale preoccupazione tra i consumatori su internet in 31 dei 50 Paesi oggetto dell’indagine. La preoccupazione globale relativa alla certezza del lavoro è salita al 22% rispetto al 9% rilevato in occasione dell’ultima indagine.

“Per la prima volta in questa ricerca, il posto di lavoro è diventato una delle preoccupazioni principali della vita”, ha affermato Russo. Sei mesi fa i consumatori globali menzionavano l’economia e l’equilibrio tra vita privata e vita professionale tra le principali preoccupazioni, ma a seguito del peggioramento delle condizioni economiche, le priorità dei consumatori sono cambiate rapidamente”, ha dichiarato Russo.

“Dato il numero record di licenziamenti per esubero a livello globale in tutti i settori, la preoccupazione economica e quella sulla certezza del lavoro hanno superato ogni altra preoccupazione della vita quotidiana”, ha affermato Russo. I consumatori che hanno indicato il lavoro quale preoccupazione principale nella vita quotidiana sono situati in Cina (29%), Hong Kong (33%), India (29%), Singapore (32%), Vietnam (36%), Italia (24%), Spagna (34%), Ungheria (31%) e Messico (29%). “Questi numeri riflettono il livello di crescente preoccupazione a fronte di un mercato del lavoro in crisi in tutte le aree geografiche”, ha continuato Russo. L’incertezza del lavoro rimane una preoccupazione anche per il prossimo futuro. Un consumatore globale su cinque (26%) ha delineato prospettive di lavoro negative per i prossimi 12 mesi rispetto al 17% del mese di ottobre 2008. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Per la prima volta nella storia, Radio Vaticana fa pubblicità. Urbi et orbi.

Il prossimo 6 luglio andrà in onda il primo spot pubblicitario su Radio Vaticana. Sarà una campagna appositamente studiata e realizzata da Enel in cinque lingue (italiano, inglese, spagnolo, francese e tedesco) per la Radio Vaticana. La pianificazione prevede circa 300 passaggi fino al 27 settembre. Gli spazi commerciali saranno mandati in onda in fasce orarie appropriate e non interromperanno mai le trasmissioni. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Società e costume

La crisi e gli italiani: e pensare che la pubblicità diceva che la vita comincia a 50 anni.

La crisi ha colpito anche le categorie di lavoratori che sembravano più garantite
Dal 1995 per la prima volta la crescita dei senza lavoro supera quella degli occupati
Maschio, sposato, di mezza età
Per l’Istat è il “nuovo disoccupato”
Dal Rapporto Annuale emerge anche una maggiore vulnerabilità degli immigrati
Un milione e mezzo di famiglie ha gravi difficoltà per il cibo, i vestiti e il riscaldamento
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

Aumentati nel 2008 i disoccupati maschi tra i 35 e i 54 anni

ROMA – Tra i 35 e i 54 anni, maschio, residente al Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, coniugato o convivente, ex titolare di un contratto a tempo indeterminato nell’industria. E’ il “nuovo disoccupato”, secondo la descrizione che ne fa il Rapporto Annuale dell’Istat. Perché la crisi non ha prodotto solo disoccupati ‘di lusso’ come i manager, non si è accanita solo sulle categorie da sempre in Italia ai margini del mercato del lavoro: i meridionali, i giovani, i precari, le donne. La novità della crisi è che a perdere il lavoro sono “i padri di famiglia”, le figure di riferimento, che magari portavano a casa stipendi mediocri, ma tali comunque da permettere ad altre persone (moglie, convivente, figli o altri parenti) di condurre un’esistenza dignitosa.

Più disoccupati anche tra gli stranieri. La crisi non ha risparmiato neanche gli stranieri, e anche in questo caso, i più colpiti sono stati gli uomini di età media: “L’andamento dell’ultimo anno – si legge nel Rapporto – segnala un forte calo delle donne disoccupate con responsabilità familiari, soprattutto di quelle con figli, arrivate a incidere non più del 70 per cento a fronte del 78 per cento di tre anni prima. Al contrario, gli effetti della crisi sembrano aver investito i loro coniugi/conviventi uomini, la cui incidenza è invece aumentata in maniera significativa, specie negli ultimi tre trimestri”.

Va peggio alla fascia 40-49 anni. Tanto che nel quarto trimestre del 2008 la quota dei disoccupati stranieri arriva a superare il 10 per cento del totale dei senza lavoro, contro il 6,1 per cento del primo trimestre del 2005. “In particolare – rileva l’Istat – gli stranieri tra i 40 e i 49 anni accusano più degli altri gli effetti della fase recessiva, e spiegano circa il 50 per cento dell’incremento della disoccupazione maschile”.

Il deterioramento del mercato. Dunque i due fenomeni sono collegati. I maschi adulti con carichi familiari, italiani o stranieri, sono diventati i più vulnerabili in una situazione di generale peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro: infatti nel 2008, per la prima volta dal 1995, la crescita degli occupati (183.000 unità) è inferiore a quella dei disoccupati (186.000 unità).

La disoccupazione si fa adulta. Perdono il lavoro i titolari di un contratto a termine, o atipico. Ma vengono licenziati anche i titolari di un contratto a tempo indeterminato ( 32 per cento nel 2008). In dettaglio, questa l’analisi dell’Istat: “Un disoccupato su quattro ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre l’aumento delle persone tra 35 e 54 anni spiega quasi i due terzi dell’incremento totale della disoccupazione. Si è passati nel tempo da una disoccupazione da inserimento, essenzialmente concentrata nei giovani con meno di 30 anni fino alla metà degli anni Novanta, a una sempre più adulta. Nel corso del 2008 questa tendenza ha accelerato”.

Più ‘padri’ atipici o precari. La crisi ha colpito di più le famiglie con figli, a loro volta vittime di un mercato del lavoro che più che mai li respinge (il tasso di occupazione dei ‘figli’, pari al 42,9 per cento, nel 2008 è sceso di sette decimi di punto rispetto al 2007). E allora, accanto alla disoccupazione dei ‘padri’, si registra un peggioramento del tipo di lavoro. “Tra il 2007 e il 2008 i padri con un’occupazione part time, a termine o con una collaborazione sono 17.000 in più; quelli con un’occupazione ‘standard’ 107.000 in meno”: cioè tra i tanti che vengono licenziati, qualcuno riesce a riciclarsi con un lavoro precario. Tra padri e figli, i più colpiti sono quelli meno istruiti, che al massimo hanno un diploma di scuola media superiore.

Le famiglie che non arrivano a fine mese. La diminuzione o il venir meno dei redditi da lavoro produce povertà. L’Istat individua circa un milione e 500.000 famiglie (il 6,3 per cento del totale) che arrivano alla fine del mese “con grande difficoltà” e che, nell’81,1 per cento dei casi, dichiarano di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 700 euro. In questo gruppo ci sono le famiglie indietro con il pagamento delle bollette, che non possono permettersi di riscaldare adeguatamente l’abitazione (45,8 per cento). Hanno difficoltà ad acquistare vestiti (62,9 per cento) o ad affrontare le spese per malattie (46,6 per cento). In genere le famiglie di questo gruppo contano su un unico percettore di reddito con un livello di istruzione non superiore alla licenza media, di età inferiore ai 45 anni. Ci sono poi 1,3 milioni di famiglie che hanno difficoltà leggermente inferiori, ma che spesso, a causa dei redditi bassi (nella maggior parte dei casi possono contare su un unico percettore di reddito che ha la licenza media inferiore), hanno difficoltà nei pagamenti, nell’acquisto di alimenti e vestiti, e anche nel riscaldamento della casa.

Le famiglie ‘agiate’ sono 10 milioni. All’altro estremo si collocano le famiglie agiate: 1,5 milioni che arrivano alla fine del mese “con facilità o con molta facilità”, 8,6 milioni che lamentano solo qualche difficoltà sporadica, “imputabile più allo stile di consumo che a vincoli di bilancio stringenti”. Abitano soprattutto al Nord, con una prevalenza di residenti in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta.

Le famiglie con difficoltà relative. Al centro si collocano le famiglie che non hanno difficoltà economiche eccessive, ma che non risparmiano (spesso si tratta di anziani); le famiglie giovani gravate da un mutuo per la casa, che assorbe una parte più che consistente del reddito disponibile; e infine le famiglie cosiddette ‘vulnerabili’. Si tratta di 2,5 milioni di famiglie, il 10,4 per cento del totale: sono a basso reddito, una parte ha una casa di proprietà, una parte vive in affitto. La loro vulnerabilità è data dal fatto che contano su un solo percettore di reddito, che nel 41,4 per cento dei casi ha preso soltanto la licenza elementare. (Beh, buona giornata).

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Per uscire dalla quarta crisi Murdoch ha deciso di far pagare le news su internet. Gli editori italiani ci stanno facendo un pensierino.

di G.Bal.-sole24ore.com
L’era delle news online come commodity gratuita è finita. «Finalmente i grandi editori hanno capito che non tutto può essere gratis», dice Andrea Riffeser Monti, a.d. del gruppo Poligrafici Editoriale. Il dibattito sul futuro della stampa su internet è partito con l’annuncio del magnate Rupert Murdoch: «In futuro i giornali online si pagheranno».

Una riflessione continuata giovedì sulle pagine del Sole 24 Ore con l’intervento del presidente del gruppo L’Espresso, Carlo De Benedetti che ha sottolineato come per i giornali esista «certamente uno spazio per conquistare utenti web disposti a pagare i contenuti giornalistici». A patto però che siano contenuti ad «elevato tasso di esclusività e di valore aggiunto », un aspetto che mette in prima fila i giornali di settore, dallo sport all’economia, e locali, perché più legati al territorio. In serata poi la presa di posizione di Google. Dopo aver riflettuto sulla possibilità di entrare nel capitale del New York Times, il gruppo ha annunciato di voler abbandonare le ambizioni editoriali e l’a.d. Eric Schmidt ha confessato a Financial Times di essere scettico sulle proposte di Murdoch. Di certo la questione sarà all’ordine del giorno del convegno “Crescere tra le righe” (al via oggi a Borgo La Bagnaia in provincia di Siena) organizzato dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori, guidato da Andrea Ceccherini. Il futuro dell’editoria online sarà uno dei punti centrali della relazione d’apertura del presidente Ceccherini, così come in quelle di Giancarlo Cerutti e Claudio Calabi, presidente e a.d. del Gruppo 24 Ore, e di Maurizio Costa, a.d. di Mondadori.

«La prospettiva è complicata, bisogna capire come fare», spiega Alessandro Zegler, a.d. di Athesis, il gruppo editoriale dei quotidiani locali L’Arena, Il Giornale di Vicenza e BresciaOggi, che aggiunge: «Abbiamo lavorato molto per essere pronti al grande passo, ma si devono trovare le giuste modalità. Finora abbiamo scoperto che tra i nostri lettori c’è una bassa sovrapposizione tra carta e online». Scommette sui giornali locali anche Repubblica che ha lanciato,solo su internet, l’edizione di Parma non disponibile in cartaceo: «Con l’abbonamento – spiega il gruppo –si può accedere ai contenuti premium, dall’archivio storico al giornale in formato pdf», una formula proposta anche da Athesis, ma che – almeno per il momento – non raccoglie molti consensi: «Gli abbonati online – dice Zegler – sono alcune centinaia, per lo più studi professionali ». Più scettico il d.g. di Avvenire, Paolo Nusiner che dice: «La chiave di volta è il consumatore, dobbiamo assecondare i nostri lettori». A dicembre il gruppo editoriale ha terminato il restyling del sito, «ma non abbiamo ancora una linea definita».

Sul futuro dell’informazione su internet si divide anche il Parlamento. Per Maurizio Gasparri (Pdl) «alcuni contenuti internet saranno a pagamento, ma ci sarà sempre una grande offerta free»; così l’ex premier Massimo D’Alema (Pd): «Dato che i giornalisti andranno sempre pagati, forse bisognerà pagare i giornali online, soprattutto se dobbiamo pensare che il cartaceo tenderà a scomparire ». Assolutamente contrario Massimo Donadi (Idv): «La libera circolazione delle notizia è un’enorme ricchezza». «Di certo –dice l’a.d.di Microsoft Italia, Pietro Scott Jovane – non si può cambiare di punto in bianco senza offrire qualcosa di diverso, di nuovo e di speciale ». Un ragionamento condiviso da Riffeser Monti che parla di una transizione lunga almeno 3- 4 anni durante la quale si lavorerà a contenuti speciali, «ma finché non si muoveranno i grandi gruppi internazionali – conclude – non cambierà nulla». (G.Bal.)

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: segnali di non ripresa.

“Nonostante i piccoli segnali di miglioramento di aprile, le prospettive non cambiano, anche il secondo trimestre si preannuncia molto difficile”, Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori dixit.

Per far fronte alla crisi, secondo Costa intervenire sui costi è necessario ma non sufficiente, dal momento che gli editori devono confrontarsi allo stesso tempo con la forte flessione degli investimenti pubblicitari e la necessità di cambiare modello di business per l’avvento delle nuove tecnologie. Beh, buona giornata.

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Pubblicità e politica: uno spot che è tutto un programma.

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La quarta crisi: che succede se Rai e Sky non trovano un accordo sul satellite.

TRA LA RAI E SKY NON METTERE MEDIASET di Giovanni Valentini-la Repubblica.

È una scelta strategica molto delicata e importante, per la Rai, per il mercato dell’ informazione e per tutti noi cittadini telespettatori, quella che il vertice di viale Mazzini si accinge a compiere nei suoi rapporti con Sky. Entro il prossimo luglio, la tv di Stato deve decidere se rinnovare o meno il contratto con l’ emittente satellitare di Rupert Murdoch che offre 474 milioni di euro per i prossimi sette anni, in cambio della trasmissione dei canali pubblici sulla propria piattaforma. E bene ha fatto il Consiglio di amministrazione ad accogliere la proposta del direttore generale, Mauro Masi, di avviare rapidamente una trattativa per cercare di spuntare le condizioni migliori, sulla linea indicata dal presidente Garimberti.

Un eventuale divorzio tra Rai e Sky è destinato ad avere effetti rilevanti sul sistema televisivo italiano, sulle quote di mercato – soprattutto pubblicitario – delle due emittenti, e infine sulle nostre abitudini di teleutenti. Ma fatalmente si ripercuoterebbe anche su Mediaset, la tv del presidente del Consiglio, che seguirebbe subito a ruota sulla stessa strada e ne trarrebbe verosimilmente i maggiori benefici per fronteggiare il crollo della pubblicità. Tanto che si può parafrasare nel caso specifico il motto popolare, particolarmente in voga negli ultimi tempi a proposito delle vicende coniugali di Silvio Berlusconi: tra mogliee marito, con quel che segue.

La valutazione sulla congruità del “quantum” è rimessa naturalmente alla discrezionalità e responsabilità del Cda di viale Mazzini. E tuttavia non si tratta soltanto di un valore economico. In forza del principio della “neutralità tecnologica”, infatti, al pari di tutte le altre televisioni pubbliche d’ Europa la Rai è tenuta a diffondere i suoi programmi sul maggior numero di piattaforme possibili: il nuovo sistema digitale terrestre, quello satellitare, Internet, i telefoni cellulari e quant’ altro.

Se l’ accordo con Sky non dovesse più risultare conveniente, dunque, l’ azienda di Stato dovrebbe comunque attrezzarsi per trasmettere via satellite, sostenendo altri costi e magari accoppiandosi proprio con Mediaset. Per la Rai, in realtà, il problema si pone in termini di danno emergente e lucro cessante, come si dice in linguaggio giuridico. Danno emergente, perché – in caso di fallimento della trattativa con Sky – da qui al 2016 l’ azienda pubblica perderebbe 474 milioni di euro. A cui vanno aggiunte, come già detto, le spese per un nuovo satellite. E per un’ azienda che prevede di chiudere il bilancio 2009 con un deficit di oltre cento milioni, non è evidentemente una bazzecola.

Poi, c’ è – per così dire – il lucro cessante: cioè l’ effetto negativo, sul piano degli ascolti e quindi della raccolta pubblicitaria, di una separazione dalla televisione di Murdoch. Non solo perché in molte regioni non arriva né il vecchio segnale analogico né il nuovo segnale digitale, a cominciare proprio dalla Sardegna dove è già scattato il fatidico switchoff, il passaggio o la transizione da un sistema all’ altro, per cui il satellite resta l’ unica piattaforma utilizzabile. Ma ancor più per il fatto che ormai una buona parte del pubblico, in Italia o dall’ estero, utilizza abitualmente la parabola di Sky per scegliere attraverso lo stesso telecomando i canali in chiaro della Rai, di Mediaset e della 7 oppure quelli criptati nel bouquet della tv a pagamento. È più che opportuno, allora, che il vertice della Rai compia un’ analisi approfondita dei costi e dei benefici: ci mancherebbe altro. Con un “buco” del genere, sarebbe un delitto rifiutare l’ offerta di Murdoch, sopportare i costi di un nuovo satellite e per di più rischiare di perdere audience e pubblicità. Per fortuna, c’ è ancora la Corte dei conti o magari la magistratura ordinaria a cui ricorrere.

Ma, a parte i compiti istituzionali della Rai, i suoi legittimi interessi e le sue scelte autonome, non vorremmo proprio che l’ azienda di Stato – come il marito che vuole fare un dispetto alla moglie – per indebolire Sky si privasse degli attributi o comunque si danneggiasse da sola, alla maniera di Tafazzi, il personaggio televisivo incline al masochismo. A differenza di Mediaset, la nostra tv pubblica – come ha giustamente rilevato l’ ex ministro Paolo Gentiloni – non ha un’ offerta di pay-tv. E perciò, al di là delle migliori intenzioni, un eventuale divorzio da Sky finirebbe per avvantaggiare principalmente il suo più diretto concorrente, l’ altro incumbent del vecchio duopolio analogico e del nuovo duopolio digitale. Nel libro di memorie citato all’ inizio, è l’ ex consigliere di amministrazione della Rai, Carlo Rognoni, a evocare lo spettro dell’ Alitalia. E non è affatto rassicurante per il futuro della televisione pubblica.

«È il mercato – predica ora Rognoni – che impone alla politica di fare un passo indietro e prendere atto dei suoi doveri: fissare con chiarezza la missione del servizio pubblico nell’ era della rivoluzione digitale; impedire che la Rai perda credibilità; non lasciare che una grande azienda finisca come l’ Alitalia, nel giro di qualche anno». Tutto ciò è vero oggi. Ma era vero anche nel 2005, quando il centrosinistra partecipò alla maxi-lottizzazione e insediò i suoi uomini al vertice di viale Mazzini. Ed era vero, purtroppo, anche prima. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: Rcs a -17,7%.

(fonte: corriere.it)
Via a misure strutturali incisive per contenere i costi in casa Rcs. Il Consiglio di amministrazione del gruppo Rcs ha approvato infatti «una impegnativa e incisiva serie di misure strutturali» per «adeguare le dinamiche dei costi dell’intero gruppo all’attuale situazione di grave deterioramento ma anche di assoluta non visibilità dell’andamento dei mercati, specie pubblicitari e delle loro prospettive». È quanto si legge nel comunicato diffuso proprio al termine del consiglio di amministrazione di Rcs che si è riunito per approvare il bilancio della trimestrale. «Il programma di azioni di Rcs – scrive ancora la casa editrice del Corriere della Sera – assume come presupposto i trend negativi della pubblicità, la contrazione delle diffusioni e dei collaterali. Il progetto assume altresì, come presupposto, il mantenimento delle linee strategiche della multimedialità integrata e dell’accelerazione dei ricavi digitali, riparametrati al relativo e più contenuto tasso di crescita. Con queste fondamentali premesse, lo schema di interventi elaborato punta a definire, oltre alla prosecuzione delle misure già avviate nella seconda parte del 2008, una struttura dei costi che possa essere sostenibile con il forte decremento dei ricavi, come sopra indicato, puntando a raggiungere nell’anno a regime, ed anche in assenza di ripresa dei ricavi, quel livello di marginalità dal quale sviluppare adeguate risorse per i nuovi modelli di business ed una sempre maggiore valorizzazione delle proprie testate e delle attività di Gruppo. Solo con questa serie di significative azioni Rcs MediaGroup potrà fronteggiare il perdurare dell’attuale situazione congiunturale».

LE MISURE – «Le misure, strutturali e permanenti, – prosegue il comunicato di Rcs – riguarderanno trasversalmente tutte le società del Gruppo (ad esclusione di Dada), sia in Italia sia all’estero, per una manovra complessiva superiore a 200 milioni di euro, comprensivi di tutte le voci rilevanti, inclusa quella relativa al costo del lavoro. Si stima che il piano, che sarà attivato fin da subito, possa produrre compiutamente i suoi effetti definitivi, in assenza – ovviamente – di ulteriori deterioramenti della situazione di mercato e di fatti al momento non prevedibili, nell’arco ipotizzabile di 24 mesi. Gli oneri straordinari connessi alla sua attuazione graveranno in massima parte sull’esercizio in corso, che, pertanto, vedrà un risultato significativamente negativo, mentre l’esercizio 2010 potrà già beneficiare di gran parte degli effetti attesi.

IL BILANCIO – Rcs MediaGroup ha chiuso il primo trimestre dell’anno con una perdita netta 40,7 milioni di euro, che si confronta con un risultato negativo per 18,6 milioni al 31 marzo 2008. I ricavi netti consolidati sono scesi del 17,7% a 514,9 milioni di euro, i ricavi pubblicitari del 30,2% a 155 milioni.
I ricavi pubblicitari di Gruppo risentono, in particolare, del forte calo della raccolta dell’area Quotidiani Spagna, solo in minima parte compensato dalla crescita dell’online e del mezzo televisivo. In Italia, i ricavi delle aree Quotidiani e Periodici risultano sostanzialmente in linea con i mercati di riferimento. I ricavi diffusionali si attestano a 297,4 milioni, rispetto ai 337,8 milioni del pari periodo 2008 (-12%), principalmente per i minori ricavi dell’area Libri, per effetto della programmata e progressiva riduzione dei lanci di opere collezionabili in Italia ed all’estero. I ricavi editoriali diversi passano da 65,5 a 62,5 milioni (-4,6%).

ORGANICO – L’organico medio al 31 marzo 2009 si riduce a 6.550 unità, rispetto alle 6.682 (al netto delle attività destinate alla dismissione) del primo trimestre 2008, grazie alle efficienze realizzate in tutte le aree del Gruppo, e nonostante le variazioni di perimetro e i nuovi ingressi nell’ambito dello sviluppo del gruppo Dada e dei new media.

QUOTIDIANI ITALIAE SITI INTERNET – L’area Quotidiani Italia registra ricavi pari a 149,4 milioni (170 milioni nel pari periodo 2008). I ricavi pubblicitari, che si contraggono del 22,8%, riflettono la generalizzata flessione del mercato riguardante tutti i mezzi, solo parzialmente bilanciata dalla positiva raccolta del comparto online, che continua ad essere in crescita, anche se in misura minore rispetto al primo trimestre 2008. In particolare, il comparto internet del sistema multimediale legato al Corriere della Sera registra un incremento del 23,9%, con tassi superiori alle medie di mercato, e quello de La Gazzetta dello Sport è in linea rispetto allo stesso trimestre 2008. I ricavi diffusionali, che segnalano una flessione del 4,3%, riflettono la comune crisi delle diffusioni. I prodotti collaterali sono sostanzialmente in linea con l’analogo periodo dell’esercizio precedente. Nel primo trimestre 2009 Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport, pur risentendo della crisi delle diffusioni che ha colpito tutto il mercato, mantengono la leadership nei settori di riferimento rispettivamente con 585.000 (-10,4%, anche per la riduzione di copie promozionali scarsamente remunerative) e 335.000 (-5,9%) copie medie giornaliere. Nel mese di marzo, i siti online Corriere.it e Gazzetta.it hanno registrato nuovi record di accessi, rispettivamente con 13 e 7,8 milioni di lettori unici mese (+15% e + 27%). . Il Corriere della Sera, dallo scorso mese di marzo, è il primo quotidiano italiano presente su Kindle 2, il lettore palmare di libri elettronici di Amazon, disponibile ora negli Stati Uniti e, dal 2010, in Europa. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: la pubblicità italiana crolla a -18%.

Gli investimenti pubblicitari, nei primi tre mesi dell’anno ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. L’analisi dei mezzi mostra una flessione del -15,4% per la Tv, del -25,8% per la Stampa, del -20,1% per la Radio. Variazioni negative anche per Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance positive per Internet e per l’Out of home tv, entrambi a +3,5%.

Nei primi tre mesi di quest’anno gli investimenti pubblicitari ammontano a 2.095 mln con una diminuzione del -18,2% rispetto al corrispondente periodo del 2008. Il confronto mensile marzo 2009 verso marzo 2008 fa registrare il -16,3%. Tutti i settori merceologici hanno ridotto la spesa rispetto all’anno scorso ad eccezione di Enti/Istituzioni e Turismo/Viaggi che crescono rispettivamente del +1,5% e del +3,2%. Wind, Vodafone, Ferrero, Volkswagen, Barilla, Unilever, Procter&Gamble, Danone, Fiat Div. Fiat Auto e Telecom Italia Mobile sono i dieci Top Spender del trimestre con circa 303 mln euro, il 12% in meno del corrispondente periodo del 2008.

L’analisi dei mezzi mostra per la Televisione, considerando sia i canali generalisti che quelli satellitari (marchi Sky e Fox), una flessione sul trimestre del -15,4% e sul mese del 14,4%. Tra i principali settori si evidenzia il calo di Alimentari (-12,1%), Automobili (-23,6%), Telecomunicazioni (-6,7%) e l’exploit di Enti/Istituzioni (+66,2% ), grazie a Campagne Sociali e Concorsi/Pronostici.

La Stampa, nel suo complesso, ha un calo del -25,8%. I Periodici diminuiscono del -29,2% con l’Abbigliamento a -32,0%, la Cura persona a -23,2% e l’Abitazione a -19,0%. I Quotidiani a pagamento mostrano una flessione del -23,6% con l’Automobile e l’Abbigliamento, i due settori più importanti, che riducono gli investimenti rispettivamente del -40,3% e del -36,9%. In controtendenza il settore Abitazione che raggiunge gli 11,7 milioni con una crescita sul trimestre del 34,9% e del 74,4% sul mese. E’ soprattutto la Commerciale Nazionale a frenare con una diminuzione del -28,9%, ma sono in calo anche la Locale (-17,4%) e la Rubricata/Di Servizio (-19,3%). In contrazione anche la raccolta dei Quotidiani Free/Pay Press (- 26,9% ).

La Radio diminuisce del -20,1% sul trimestre, ma del -8,6% sul confronto mensile. Tra i settori in positivo a marzo 2009 si evidenziano: Auto, Moto/Veicoli e Gestione Casa. Fanno registrare variazioni negative Outdoor (- 37,1%), Cinema (-26,7%), Cards (-39,0%) e Direct mail (-16,0%). Performance, invece, positive per Internet e per l’Out of home tv: entrambi i mezzi crescono del +3,5%.

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La quarta crisi: Mondadori -34%.

(fonte:advexpress.it)

Il Consiglio di Amministrazione di Arnoldo Mondadori Editore, riunitosi oggi, 14 maggio, sotto la presidenza di Marina Berlusconi ha esaminato e approvato il resoconto intermedio di gestione sul primo trimestre dell’esercizio 2009, presentato dal vice presidente e amministratore delegato Maurizio Costa .

Il primo trimestre dell’esercizio è stato pesantemente condizionato dagli effetti delle problematiche del settore finanziario e, successivamente, dei settori produttivi e del consumo, già sviluppatesi nel corso del 2008. I mercati di riferimento del Gruppo Mondadori sono stati caratterizzati da:
– nei periodici, il fenomeno negativo più significativo è stato il crollo del mercato degli investimenti pubblicitari, stimato superiore al 30% in Italia e al 20% in Francia; molto più contenuta la contrazione delle diffusioni, in particolare in Francia, grazie al buon andamento degli abbonamenti; sempre in forte diminuzione, come previsto, il mercato dei prodotti collaterali
– nei libri, nei primi tre mesi dell’anno si sono registrati valori in sostanziale stabilità nel canale delle librerie di catena, con una leggera contrazione a livello complessivo.

L’impatto della drastica riduzione degli investimenti pubblicitari sulla redditività del Gruppo Mondadori nel primo trimestre è stato rilevante ed anche le vendite di prodotti collaterali hanno ridotto significativamente il loro apporto al margine operativo. Le azioni di contenimento dei costi di gestione, impostate e implementate già nello scorso esercizio e continuate con ancora maggiore determinazione, hanno prodotto effetti positivi; sono proseguiti inoltre gli investimenti per lo sviluppo delle attività digitali, del network internazionale e del progetto di lancio di Grazia in Francia.

Nel primo trimestre 2009 il fatturato consolidato è stato di 354,5 milioni di euro (-23% rispetto ai 460,3 milioni di euro dello stesso periodo del 2008); a perimetro costante la flessione è stata del 16,4%. Il margine operativo lordo consolidato è risultato di 14,2 milioni di euro (-70,7% rispetto ai 48,4 milioni di euro dell’esercizio precedente), con un’incidenza sul fatturato del 4% rispetto al 10,5% del 2008.

Il risultato operativo consolidato è stato pari a 8 milioni di euro (-79,1% rispetto ai 38,2 milioni di euro del primo trimestre del 2008), con ammortamenti di attività materiali ed immateriali per 6,2 milioni di euro (10,2 milioni di euro nel 2008); l’incidenza sui ricavi è passata dall’8,3% del primo trimestre 2008 al 2,3%. Il risultato netto consolidato è negativo per 1,8 milioni di euro rispetto ai +17,7 milioni di euro dell’esercizio precedente. Il cash flow lordo del primo trimestre 2009 è stato di 4,4 milioni di euro rispetto ai 27,9 milioni di euro del 2008. La posizione finanziaria netta del Gruppo al 31 marzo 2009 presenta un saldo negativo pari a -454,2 milioni di euro, in miglioramento rispetto ai -490,3 milioni di euro di fine 2008.

Libri
Nel primo trimestre del 2009 la Divisione Libri ha confermato la propria leadership di mercato (con una quota del 26,8%), in netta preminenza rispetto ai principali concorrenti, con una buona tenuta del comparto trade. I ricavi complessivi nel periodo sono stati di 89 milioni di euro (-5,4% rispetto ai 94,1 milioni di euro dello stesso periodo dell’esercizio precedente). Al netto delle vendite congiunte il decremento è del 4,5%. Tra le singole case editrici si segnalano le buone performance di Sperling & Kupfer e Einaudi. Sperling & Kupfer ha realizzato nel primo trimestre 2009 ricavi per 8,2 milioni di euro (+32,3% sullo stesso periodo del 2008).

Nel primo trimestre 2009 Einaudi ha registrato ricavi netti di 12,1 milioni di euro, in crescita del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2008. In leggero calo i ricavi di vendita di Edizioni Mondadori, pari a 37 milioni di euro (-5,9% rispetto al primo trimestre 2008). Piemme ha registrato ricavi per 12 milioni di euro, in calo del 17,8% rispetto al primo trimestre 2008. Il fatturato di Mondadori Electa ha raggiunto nel primo trimestre del 2009 gli 8,3 milioni di euro (-16,2% sul 2008). Mondadori Education ha registrato ricavi netti di vendita pari a 2,3 milioni di euro (2,7 milioni nello stesso periodo dell’anno precedente), in una stagione dell’anno, come di consueto, con impatti minimi sul fatturato.

Periodici Italia
Il primo trimestre dell’anno è stato condizionato per i periodici Mondadori, così come per tutta l’editoria italiana e internazionale, dai pesanti effetti della crisi esplosa nell’ultima parte del 2008. Da un lato il calo dei consumi ha inevitabilmente interessato la spesa per l’acquisto di giornali e riviste e, soprattutto, dei prodotti collaterali; dall’altro la crisi finanziaria ha indotto le aziende a ridurre drasticamente gli investimenti in comunicazione con una forte conseguente contrazione della spesa pubblicitaria.

La Divisione Periodici Italia (in cui rientrano anche proventi e margini dell’attività di licensing internazionale e dello sviluppo del digital), ha realizzato nel primo trimestre 2009 ricavi per 124,7 milioni di euro (-23,2% rispetto ai 162,3 milioni di euro dello stesso periodo del 2008). Al netto delle vendite congiunte il decremento è del 17,3%. Tale andamento è stato determinato dai seguenti elementi: diminuzione dei ricavi diffusionali (-7,2%), influenzati da un andamento non positivo del mercato che ha interessato tutti i segmenti in cui opera la Divisione.

A livello di copie vendute Mondadori, con un decremento del 9% a fronte di un comparto in calo del 12,1% (a febbraio), ha incrementato la propria quota di mercato; forte contrazione dei ricavi da prodotti collaterali (-33,9%), che hanno continuato il progressivo assestamento verso dimensioni più contenute. Nel primo trimestre dell’anno il mercato ha registrato un’ulteriore caduta (a febbraio -24,9% a valore), in particolare nei comparti editoriali e dei prodotti audiovisivi, mentre ha tenuto maggiormente quello musicale. In questo scenario le performance di Mondadori sono state migliori rispetto al contesto di riferimento dei periodici; importante ridimensionamento dei ricavi pubblicitari (-35,7%), in particolare nei settori moda, cosmetica e arredamento, rispetto a un primo trimestre 2008 in forte crescita e particolarmente favorevole per Mondadori.

Tra i fatti più significativi del trimestre si segnalano:
– il lancio del nuovo settimanale Tu Style effettuato a fine gennaio con un esito ad oggi molto promettente in termini di diffusione e di raccolta pubblicitaria; l’attività di sostegno promozionale a numerose testate che ha contribuito a contenere gli effetti negativi del contesto di riferimento;
– un approccio estremamente rigoroso alla gestione che ha consentito di ridurre, in modo direttamente proporzionale al calo dei ricavi, i costi di produzione, di marketing, editoriali e le spese generali.

Per quanto riguarda le attività digitali, la concentrazione degli investimenti sul polo femminile ha portato nel primo trimestre dell’anno in corso a ottimi risultati: i ricavi del sito di Donna Moderna sono cresciuti del 25% a fronte del +3,9% registrato dal mercato (dati Nielsen a febbraio). Nel mese di marzo è stata inoltre lanciata una nuova versione del sito di Cosmopolitan .

Attività internazionali
Come già detto, il mercato internazionale dei periodici ha risentito degli stessi elementi di criticità del mercato italiano, con un calo dei consumi e una contrazione degli investimenti in comunicazione. Ciononostante Mondadori ha aumentato nel primo trimestre 2009 i propri ricavi da royalties, grazie a nuovi lanci nell’ambito del network di Grazia e di Casaviva: a gennaio è nata Casaviva India , cui ha fatto seguito a febbraio l’edizione di Grazia in Cina, con eccellenti risultati sia in termini di advertising che di diffusione.

Per quanto riguarda i Balcani, anche la consociata Attica ha risentito del rallentamento dell’economia, registrando nel primo trimestre un calo dei ricavi pubblicitari e delle vendite congiunte, in buona parte compensato da una forte azione sul contenimento dei costi.

Mondadori France ha conseguito nel primo trimestre 2009 un fatturato complessivo di 83,6 milioni di euro (-14,5% rispetto ai 97,8 milioni di euro del corrispondente periodo dell’anno precedente). A perimetro costante e al netto delle vendite congiunte il calo è stato dell’8,9%. I ricavi diffusionali, che rappresentano il 70% del totale di Mondadori France, hanno registrato una flessione dell’8,4% (-5,9% a perimetro costante), con difficoltà maggiori sui settimanali (in particolare sulle guide televisive), sul segmento people e sull’auto. Al contrario hanno tenuto gli abbonamenti che continuano a rappresentare una stabile fonte di ricavi in una fase congiunturale come l’attuale. Nel periodo è continuata la forte attenzione del management al contenimento dei costi.

In uno scenario particolarmente sfavorevole per gli investimenti pubblicitari, i ricavi di Mondadori France in questo comparto sono risultati in calo del 23,9% (-19,2% a perimetro costante); a volume i risultati sono sostanzialmente in linea con il dato di mercato (-17,4%, fonte: TNS-MI).

Pubblicità
In Italia gli investimenti pubblicitari dei primi mesi del 2009, se confrontati con quelli del primo trimestre dello scorso anno, hanno mostrato un avvio estremamente critico, confermando il progressivo deterioramento del mercato già emerso chiaramente dalla seconda parte del 2008. In attesa dei dati definitivi si prevedono, sulla base delle evidenze di Nielsen a febbraio, deboli segnali di crescita solo per il segmento internet; in forte sofferenza ancora radio, televisione e il comparto stampa, in cui i periodici hanno mostrato maggiori difficoltà rispetto ai quotidiani, avvantaggiati da un calo meno deciso della pubblicità locale. Nello specifico, i periodici, hanno registrato un andamento negativo sia in termini di spazio, sia in termini di prezzi, in tutti i settori merceologici.

Mondadori Pubblicità ha chiuso i primi tre mesi del 2009 con una raccolta complessiva di 51,7 milioni di euro (-34,5% rispetto ai 78,9 milioni di euro dello stesso periodo 2008). Per rafforzare ulteriormente gli interventi commerciali e valutare ogni possibile azione di ottimizzazione, la concessionaria ha acquisito dallo scorso marzo anche la raccolta dell’emittente nazionale Radio Kiss Kiss, consentendo nuove sinergie a livello di struttura.

Direct Marketing
Nel primo trimestre dell’anno il mercato degli investimenti in direct mail ha registrato un calo superiore al 20%: in questo contesto, grazie alla qualità della propria offerta, Cemit Interactive Media ha conseguito risultati superiori al mercato. Il fatturato si è attestato a 4,8 milioni di euro, in contrazione del 9,4% rispetto ai 5,3 milioni di euro dello stesso periodo dell’esercizio precedente, per la mancata attività relativa alle campagne elettorali avvenuta nel marzo 2008.

Retail
Il fatturato della Divisione Retail è stato di 41,8 milioni di euro (-3,5% rispetto ai 43,3 milioni di euro dello stesso periodo del 2008). La Divisione ha risentito nel trimestre, da un lato, del generalizzato calo dei consumi, dall’altro del confronto con un primo trimestre 2008 particolarmente positivo. Nel periodo sono stati peraltro posti in atto interventi volti a ridurre i costi di gestione, in modo da minimizzare gli impatti conseguenti alla contrazione dell’attività.

Mondadori Retail ha registrato un fatturato di 26,8 milioni di euro, in calo del 7,7% rispetto ai 29 milioni di euro del primo trimestre 2008: la contrazione è stata inferiore nel settore del libro, supportato tra l’altro da molte campagne promozionali realizzate con gli editori, mentre il calo è stato più sensibile per quanto riguarda i prodotti digitali.

Nel periodo i negozi in gestione diretta hanno raggiunto le 29 unità (28 punti di vendita nel primo trimestre 2008).

Mondadori Franchising ha registrato un fatturato di 15 milioni di euro (+5,3%) rispetto ai 14,3 milioni di euro dei primi tre mesi dello scorso anno, grazie allo sviluppo del network di librerie ed Edicolè che hanno raggiunto nel periodo i 404 punti vendita complessivi (357 nel primo trimestre 2008).

Radio
Nel primo trimestre dell’anno il mercato radiofonico non è risultato immune dalla contrazione degli investimenti pubblicitari, registrando nel solo primo bimestre una contrazione del 27,2% (Fonte: Nielsen) con leggeri segnali di ripresa da marzo. In questo contesto i ricavi netti di R101 nel periodo sono stati di 3 milioni di euro (-16,7%) rispetto ai 3,6 milioni di euro dello stesso periodo dell’esercizio precedente.

Si tratta essenzialmente di ricavi pubblicitari quota editore corrispondenti a una raccolta pubblicitaria lorda di oltre 4,4 milioni di euro, in calo del 14% rispetto ai 5,1 milioni di euro dell’analogo periodo dell’anno precedente: il dato si confronta con un primo trimestre 2008 in cui R101 aveva registrato una raccolta in crescita del 56% rispetto al primo trimestre 2007, a fronte di un mercato cresciuto del 9% .

Da inizio 2009 Audiradio ha cambiato la modalità di rilevazione degli ascolti, affiancando alla tradizionale indagine telefonica per i dati del giorno medio, una sezione di ricerca, tramite panel diari, che fornisce per le radio iscritte gli ascoltatori nei 7, 14, 21 e 28 giorni. La nuova modalità di rilevazione dell’audience radiofonica permette inoltre una valutazione puntuale della pianificazione pubblicitaria, che avviene nella maggior parte dei casi con campagne che durano più di due settimane. Secondo le nuove rilevazioni R101 raggiunge nel mese circa 9 milioni di ascoltatori, riducendo sensibilmente il gap rispetto alle prime cinque radio commerciali.

Evoluzione prevedibile della gestione
La situazione economica a livello nazionale ed internazionale nel primo trimestre, come precedentemente evidenziato, ha subito il temuto impatto della crisi apertasi nel corso del 2008; i dati relativi ai consumi e agli investimenti si sono ulteriormente deteriorati, mentre le previsioni di ripresa dell’economia sono spostate più avanti nel tempo.

Per quanto riguarda il mercato di riferimento di Mondadori, il cui fatturato è comunque diversificato per business e territorialmente, l’impatto derivante dal crollo degli investimenti pubblicitari delle aziende nel trimestre e dall’ulteriore contrazione delle vendite di prodotti collaterali è stato significativo. Le azioni di semplificazione organizzativa e di reingegnerizzazione dei processi, iniziate già nello scorso esercizio, hanno consentito alla Società di mitigare gli effetti negativi del mercato nel trimestre: ancora maggiore sarà l’impegno in questo ambito nei prossimi mesi, sia per ridurre ulteriormente gli impatti negativi in questo esercizio sia, soprattutto, per dimensionare gli assetti strutturali alle future esigenze.

Per quanto riguarda la stima sui risultati dell’esercizio non si può che ribadire quanto espresso in occasione della presentazione dei dati 2008: la previsione relativa ai futuri scenari di mercato resta estremamente difficile ma è realistico attendersi per il 2009 livelli di redditività inferiori allo scorso esercizio, particolarmente per i business più legati agli investimenti pubblicitari. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: Mediaset a -13% nel primo trimestre 2009, ovvero quando la tv commerciale perde i ricavi della comunicazione commerciale.

(fonte:advexpress.it)
Il Consiglio di Amministrazione di Mediaset, riunitosi il 12 maggio sotto la presidenza di Fedele Confalonieri (nella foto), ha approvato la relazione sul primo trimestre 2009. I risultati del Gruppo dei primi tre mesi dell’esercizio hanno risentito dell’accentuarsi, soprattutto in Spagna, della profonda fase recessiva che ha investito l’economia mondiale nel corso degli ultimi mesi del 2008, determinando una sensibile contrazione degli investimenti pubblicitari nei due mercati geografici di riferimento.

In tale contesto, il Gruppo ha comunque contenuto rispetto ai propri concorrenti la flessione della raccolta pubblicitaria, consolidando le proprie quote di mercato e mantenendo la leadership d’ascolto sui target commerciali di riferimento e conquistando con Canale 5 il primo posto assoluto su tutto il pubblico televisivo nel periodo di garanzia. La forte azione di controllo esercitata sui costi televisivi e l’ottimo andamento di Mediaset Premium hanno inoltre consentito di attenuare, soprattutto in Italia, l’impatto negativo sui margini economici indotto dai minori ricavi pubblicitari.

I ricavi netti consolidati del Gruppo Mediaset ammontano a 967,2 mln di euro in flessione del 12,0% rispetto ai 1.098,9 mln del primo trimestre 2008. L’ebit è pari a 139,3 mln di euro rispetto ai 255,8 mln dello stesso periodo dell’anno precedente. La redditività operativa si attesta al 14,4% rispetto al 23,3% del primo trimestre 2008. L’utile netto di competenza del Gruppo è pari a 60,0 mln di euro rispetto ai 121,0 mln di euro del primo trimestre dell’anno precedente. La posizione finanziaria netta di Gruppo passa da -1.371,7 mln di euro del 31 dicembre 2008 a -1.256,3 mln al 31 marzo 2009. Nei primi tre mesi dell’esercizio la generazione netta di cassa è stata pari a 122,5 mln di euro rispetto ai 279,9 mln dello stesso periodo dell’anno precedente.

Per quanto riguarda l’Italia , nel primo trimestre 2009 i ricavi netti consolidati hanno raggiunto gli 807,8 mln di euro in diminuzione del 5,0% rispetto agli 850,5 milioni dello stesso periodo dell’anno precedente. Ricavi pubblicitari televisivi lordi: raggiungono i 645,7 mln di euro con una flessione del 13,0% rispetto ai 742,1 mln del primo trimestre 2008. Sulla base dei dati Nielsen relativi ai primi due mesi dell’esercizio, la raccolta pubblicitaria delle reti Mediaset ha mostrato un rallentamento più contenuto sia rispetto a quello del mercato pubblicitario complessivo (-22,2%) sia a quello del mercato pubblicitario televisivo (-23,1%), escludendo in entrambi i casi il contributo di Mediaset .

Ricavi Mediaset Premium: i ricavi Pay Tv (vendita di carte, ricariche ed Easy Pay) hanno raggiunto i 72,2 mln di euro con una crescita del 63,7% rispetto ai 44,1 mln di euro dei primi tre mesi del 2008. Le carte attive al 31 marzo 2009 sono pari a circa 3,3 milioni rispetto ai 2,9 milioni del 31 dicembre 2008. L’ebit si è attestato a 95,6 mln di euro rispetto ai 137,9 mln del primo trimestre 2008. I costi televisivi totali registrano una diminuzione dell’1,8% rispetto al primo trimestre 2008 a conferma di una scrupolosa politica di efficienza che non ha effetti sulla ricchezza del palinsesto e sugli ascolti delle reti Mediaset. L’utile netto è stato pari a 47,4 mln di euro rispetto agli 80,5 mln di euro del primo trimestre 2008.

Ascolti televisivi: nei primi tre mesi dell’esercizio le reti Mediaset confermano la leadership nazionale in tutte le fasce orarie tra i telespettatori tra i 15 e i 64 anni (target commerciale). Mediaset registra il 42,0% in prima serata e il 42,1% nelle 24 ore. Canale 5 oltre a essere prima rete italiana in prime time su tutto il pubblico televisivo nel periodo di garanzia con il 22,9% (11 gennaio – 31 marzo) è la rete italiana più vista nel target commerciale con il 24,8% in prima serata e il 23,7% nelle 24 ore.

Per quanto riguarda invece il mercato spagnolo, nei primi tre mesi del 2009 i ricavi netti consolidati generati dal Gruppo Telecinco sono stati pari a 159,7 mln di euro rispetto ai 249,0 mln dello stesso periodo dell’anno precedente. Tale risultato ha ovviamente risentito della congiuntura economica e finanziaria negativa sia a livello nazionale che internazionale. L’Ebit, anche in virtù del forte controllo dei costi complessivi (-11,5%), è stato pari a 43,7 mln di euro rispetto ai 117,9 mln di euro del 2008. La redditività operativa è pari al 27,3% (47,4% nel primo trimestre del 2008). L’utile netto è stato pari a 29,3 mln di euro rispetto agli 81,5 mln dei primi tre mesi del 2008. Telecinco consolida il proprio ruolo di prima rete assoluta spagnola in prime time con il 17,5% in termini di ascolti televisivi. (Beh, buona giornata).

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