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Tra feste, donnine, polemiche ed episodi imbarrazzanti, il Paese sta andando a picco.

L’occupazione in Italia cala per la prima volta dopo 14 anni. Lo sottolinea l’Istat precisando che tra gennaio e marzo 2009 gli occupati sono diminuiti di 204 mila unità, pari allo 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2008. Ed è il Mezzogiorno a perdere la maggior parte dei posti: 114 mila. Su base annua, il tasso di disoccupazione è pari a quasi l’8% (il 7,9% per la precisione), il più alto dal 2005. In cifre assolute, sono quasi due milioni le persone in cerca di occupazione. Cala l’occupazione di 426 mila italiani, aumenta tra le comunità straniere: rispetto a tre mesi fa, hanno trovato lavoro altri 222 mila stranieri.

L’offerta di lavoro è stabile per gli uomini, registra una leggerissimo aumento tra le donne, lo 0,2%. Su quasi 60 milioni di italiani, lavorano in 23 milioni; arrotondando, significa che ogni 3 italiani, solo uno lavora.

I dati, spiega l’Istituto di statistica, trovano ragione nella caduta dell’occupazione autonoma delle piccole imprese, dell’occupazione a termine e nella riduzione del numero dei collaboratori. Beh, buona giornata.

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L’Ocse dice che il teorema Tremonti è sbagliato. Con buona pace del governo Berlusconi.

L’Ocse: per l’Italia “lunga recessione”, di Galapagos-Il Manifesto

Il giudizio dell’Ocse è da brivido: “L’Italia ha di fronte una profonda e prolungata recessione”. E facendo seguire i numeri alle parole, l’organizzazione parigina – nell’ultimo rapporto dedicato all’Italia – sostiene che quest’anno il Pil crollerà del 5,3% e il tasso di disoccupazione potrebbe salire al 10%. Cifre che peggiorano le previsioni formulate il 31 marzo quando l’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – di cui sono soci i 30 paesi più industrializzati del mondo – indicò per l’Italia una caduta del Pil del 4,3% e una disoccupazione intorno al 9,2%. Commenta l’Ocse: quello che “ha colpito della recessione italiana è la sua ampiezza”.

Che quasi sicuramente deriva dalla scarsa domanda interna e dalla eccessiva dipendenza della domanda globale in forte caduta come conseguenza della crisi.
Ugualmente negativo il giudizio sull’andamento dei conti pubblici: il deficit pubblico (rispetto al Pil) per quest’anno è prospettato al 6%, accompagnato da una crescita del debito “oltre il 115%”, “vicino al 120% entro la fine” dell’anno prossimo. Un po’ meno pessimista, invece, l’Ocse è sull’andamento del Pil nel 2010: c’è una piccola inversione rispetto alla previsione di fine marzo. Ora per il prossimo anno è prevista una crescita dello 0,4%, invece di una caduta dello 0,4%. Negli ani successivi, invece, “grazie alla relativa solidità dei bilanci delle famiglie e delle imprese, la ripresa potrebbe essere più robusta che altrove”.

Altri dati negativi rigurdano i consumi: nel 2009 accuseranno un calo del 2,4% per restare poi fermi nel 2010. Gli investimenti fissi a fine 2009 crolleranno del 16% (-20,2% per macchinari ed equipaggiamenti) per tornare a crescere di appena l’1,3% nel 2010. Particolarmente negativo anche l’andamento del commercio estero: le esportazioni scenderanno del 21,5% (-0,7% nel 2010) e le importazioni del 20,2% (-0,2% nel 2010).

A fronte di questa situazione, il governo come si comporta? “Il debito italiano è troppo alto per permettere al governo di fare di più” per sostenere la domanda interna, scrive l’Ocse, apprezzando la cautela delle autorità. Ulteriore problema legato al debito pubblico: “Circa 300 miliardi di euro del debito maturano nel 2009″ e dovranno essere rinnovati. E un ammontare simile è previsto per il 2010. Inoltre, il deficit di bilancio necessiterà di nuovi prestiti per 80 miliardi di euro”.

Per l’Ocse il governo nel varare le misure anticrisi ha avuto a disposizione un “limitato spazio di manovra” nel quale si è mosso abbastanza bene. Per il futuro, tuttavia, l’Organizzazione sostiene che “nel lungo periodo la performance economica può essere migliorata con riforme macroeconomiche e strutturali”. E ritiene utili le iniziative che vanno a sostegno dei nuovi disoccupati che mettono in luce “una certa debolezza nel sistema italiano di welfare”, molto sbilanciato nella spesa pensionistica. E sono proprio le pensioni e la sanità le due aree su cui l’intervento del governo è giudicato prioritario da parte dell’Ocse. Perplessità, invece, vengono rinnovate nei confronti delle misure di sostegno all’industria dell’auto, che “rischiano di falsare l’allocazione delle risorse”. Il settore auto – secondo gli esperti di Parigi – non riveste importanza sistemica e anche se le misure adottate hanno stimolato le vendite di auto a breve termine, è poco probabile che un tale sostegno costituisca il miglior utilizzo delle risorse pubbliche. Ma l’Ocse non dice che gli incentivi alla rottamazione in pratica si autofinanziano con le maggiori vendite. Senza contare che una caduta della produzione e delle immatricolazioni sarebbe costata moltissimo in termini di cassa integrazione e licenziamenti nell’indotto.

Per quanto riguarda il sistema bancario, si sottolinea che “le caratteristiche che hanno protetto le nostre banche sono le stesse che ora possono esporle alle conseguenze della recessione”. E avverte che “gli sforzi di ricapitalizzazione devono continuare, preferibilmente attraverso interventi privati, nazionali ed esteri, ma senza escludere il ricorso al capitale pubblico. Nel rapporto è anche scritto che l’esposizione delle banche italiane nell’Europa centrale e dell’Est supera i 140 miliardi di euro alla fine del 2008. L’esposizione italiana nei paesi in via di sviluppo, che includono quelli dell’Est Europa, nel 2007 “era inferiore a quella delle banche di Germania, Francia, Spagna e Olanda”. “In termine assoluti – si legge nel rapporto – le banche italiane sono più esposte verso Polonia, Croazia, Ungheria e Russia”. L’esposizione con la Polonia è di 35 miliardi di euro, quella con la Croazia di 22 miliardi, quella con l’Ungheria di 18 miliardi e quella con la Russia di 16 miliardi.

Non poteva, ovviamente, mancare la reiterazione della richiesta di rilancio delle liberalizzazioni, estendendo ad altri settori (come trasporti e servizi locali) quelle già compiute, per aumentare la concorrenza e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione. L’Ocse fa un esercizio di quantificazione dei benefici delle liberalizzazioni: se l’Italia adeguasse la sua normativa nei settori non-manifatturieri alla “best practice” internazionale, ricaverebbe un aumento del 14,1% della produttività su 10 anni. Se si limitasse a raggiungere i livelli migliori della Ue il miglioramento sarebbe del 13,7%. Nella simulazione dell’Ocse, l’incremento deriverebbe da un +2,6% nel settore dell’elettricità e del gas, dal 4,9% nel retail e dal 7,4% nei servizi professionali. Sarebbero quindi “benefici elevati”, soprattutto nel caso dei servizi professionali, dove l’attuale contesto normativo è particolarmente “scadente se paragonato a quelli di altri paesi”.

Un capitolo è dedicato al federalismo fiscale, che “potrebbe essere difficile da perseguire”. “È importante che abbia un forte sostegno politico e regionale”. Secondo l’Ocse “una nuova tassa locale, in parte basata sul valore delle proprietà di case, sarebbe altamente desiderabile dal punto di vista del federalismo fiscale”. (Beh, buona giornata).

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A Confindustria non piace più il governo Berlusconi.

Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010
Emma Marcegaglia: “Senza un cambiamento strutturale nessuna ripresa per 5 anni”
Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010-Repubblica

Nel 2009 il prodotto interno lordo in Italia si contrarrà del 4,9%. E’ la stima del centro studi di Confindustria che ha tagliato le precedenti previsioni che, a marzo, parlavano di un calo del 3,5%. Un quadro in cui l’occupazione continua a calare. L’economia dovrebbe tornare a crescere dello 0,7% nel 2010 ma la ripresa sarà “ripida” e l’Italia “vi si inerpicherà faticosamente”. Quanto al debito pubblico, crescerà dal 105,7% del pil nel 2008 al 114,7% nel 2009, fino a toccare nel 2010 il 117,5%. Sulla questione interviene anche il presidente Emma Marcegaglia: “Ci sono timidi segnali di ripresa, ma davanti abbiamo mesi molto difficili ed è assolutamente necessario varare le riforme strutturali altrimenti usciremo dalla crisi con un tasso di crescita molto basso e ci vorranno 5 anni per tornare ai livelli di prima”.

Il calo dei consumi. Nel 2009 i consumi si ridurranno dell’1,9%, accelerando il calo dello 0,9% che si è avuto nel 2008. Torneranno a crescere nel 2010 ( 0,7%) grazie a “una maggiore fiducia sostenuta dalla ripresa economica e a un reddito disponibile reale in aumento dell’1,2% dopo la riduzione dell’1,6% subita nel 2009”.

L’uscita dalla crisi. “Indicare ‘exit strategy’ dalla crisi con troppo anticipo – avverte Confindustria – rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato di stabilizzazione delle aspettative”.

Allarme occupazione. Nei due anni tra il primo trimestre del 2008 e il primo del 2010, la recessione causerà la perdita di circa un milione di unità di lavoro (tra posti di lavoro e cassa integrazione). Il Centro studi di Confindustria sottolinea che il tasso di disoccupazione arriverà quest’anno all’8,6% e nel 2010 al 9,3%, “livello che non veniva più toccato dal 2000”.

Le mancate riforme. Secondo Confindustria, “lo stato sociale è insostenibile”. Nel presentare i dati, il direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, ha rimarcato che “le mancate riforme hanno costi enormi e al contempo offrono gigantesche opportunità: facendo leva su infrastrutture, istruzione, pubblica amministrazione e liberalizzazioni il pil italiano può guadagnare almeno il 30% nei prossimi 20 anni”.

Le “cura” Marcegaglia. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ribadisce la necessità di agire subito per permettere al paese di tornare a crescere. Gli ambiti da riformare indicati dal numero uno di viale dell’Astronomia sono l’istruzione, le infrastrutture e la giustizia. Ma anche il sistema finanziario necessita di una rivoluzione, dando attuazione al Sace, il fondo di garanzia e la cassa depositi e prestiti, e spingendo sulle liberalizzazioni: “Ci sono ancora interi settori dove il mercato non ha spazio sufficiente e c’è tutt’ora una concorrenza sleale”

Le reazioni. Dure le critiche dell’opposizione. “Le stime di Confindustria smentiscono le bufale propinate dal governo Berlusconi e confermano ciò che il partito democratico ripete da mesi: sulla crisi l’esecutivo non ha mai avuto il polso della situazione”. Lo afferma Sergio D’Antoni, responsabile per il Mezzogiorno del Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera. “Con l’alibi del debito pubblico, il ministro Giulio Tremonti non ha fatto assolutamente nulla per sciogliere i nodi strutturali che impediscono la ripresa del paese”. Interventi a sostegno delle zone deboli, infrastrutture, aiuti alle piccole e medie imprese, più tutela ai precari. Queste, per D’Antoni, “le priorità disattese dal governo”. (Beh, buona giornata).

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Duemilioni di lavoratori senza tutele: “Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”.

Welfare, le bugie del governo, senza tutele 2 milioni di lavoratori di MASSIMO GIANNINI-Repubblica.it

NELL’archetipo berlusconiano, il “principio della realtà immaginata” è il cuore della politica. La propaganda non lascia spazio alla verità e alla responsabilità. Neanche su una frontiera dolorosa, come la vita agra dei disoccupati e dei precari.

Tutto si gioca sempre e soltanto sulla manipolazione semantica del reale e nella rimozione psicologica dei fatti. Nella “realtà immaginata” dal Cavaliere, dunque, l’Italia è il Paese che “resiste meglio di tutti gli altri alla crisi”. E’ la patria dell’equità sociale, dove un magnifico Welfare “copre tutti quelli che ne hanno bisogno” e dove un governo magnanimo “non lascia indietro nessuno”.

Da almeno due giorni Silvio Berlusconi va ripetendo queste clamorose bugie dai microfoni del servizio pubblico radiotelevisivo. Aveva cominciato due sere fa nel solito salotto di Bruno Vespa, smerciando agli italiani le “meraviglie” del nostro sistema di ammortizzatori sociali, debitamente rimpinguati dal centrodestra, al punto di garantire “a tutti, ma proprio a tutti”, una degna protezione.

Ha continuato ieri mattina nel felpato studio di “Radio anch’io”, smentendo il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, “colpevole” di aver sostenuto l’esatto contrario solo sette giorni fa. “La sua informazione sui precari – lo ha accusato – non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana”. Un concetto un po’ oscuro nella forma, ma chiarissimo nella sostanza: non credete alla realtà empirica descritta da Draghi, europessimista e antitaliano, ma credete alla “realtà immaginata” che vi racconto io, superottimista e salvatore della Patria.

Solo una settimana fa il premier, compiaciuto, aveva definito “berlusconiane” le “Considerazioni finali” del governatore. Se le aveva lette, mentiva allora. Se non le ha lette, sta mentendo adesso. Basta ricostruire i fatti, per svelare la frottola scandalosa pronunciata sulla pelle dei veri “invisibili” (i reietti del lavoro) e per far cadere ancora una volta la maschera circense indossata dal Cavaliere (qui, come sul Casoria-gate o sul dopo-terremoto).

A “Porta a porta” Berlusconi ha dichiarato: “Oggi come mai i cittadini pensano che lo Stato è vicino. Non ho notizia di qualcuno che dica “abbiamo fame”… Abbiamo, ed è già operativo, accorciato le pratiche per la cassa integrazione, e tutti coloro che perdono il lavoro hanno il sostegno dello Stato. Copriamo fino all’80% dell’ultimo stipendio, ma la gente che segue anche dei corsi può arrivare quasi al 100% dell’ultimo stipendio… I “co. co. pro.” possono avere una percentuale rispetto a quello che hanno introitato rispetto all’anno precedente… Ne ho parlato con il ministro Sacconi, ed è tutto già operativo”.

Delle due l’una. O il presidente del Consiglio non sa di cosa parla. O specula politicamente sulla vita della povera gente. E non lo dicono i pericolosi “bolscevichi” del Pd. Lo ha detto, appunto, il governatore di Bankitalia: “Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% dei nostri partner. Il nostro sistema di protezione sociale rimane frammentato. Lavoratori identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800 mila, l’8% dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore ai 500 euro al mese… La Cassa integrazione ordinaria è stata diffusamente usata… la sua copertura potenziale è tuttavia limitata – interessa un terzo dell’occupazione dipendente privata – e fornisce al lavoratore un’indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione media dell’industria… Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest’anno. Più del 40% è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico. Il 38% è nel Mezzogiorno”.

Così stanno le cose nel Paese reale, fuori dal mondo virtuale immaginato da Berlusconi. Perché non è poi così difficile stabilire chi stia mentendo, tra un premier che alla vigilia del voto europeo chiede al “suo” popolo di rinnovare e rafforzare il plebiscito, e un’istituzione neutrale e autorevole come la Banca d’Italia che non chiede niente a nessuno ma esige solo ascolto e rispetto.

Per averne conferma basta interrogare un po’ più a fondo il ministro del Welfare. Chi ha ragione, tra Berlusconi e Draghi? “A modo loro – è la sorprendente risposta di Maurizio Sacconi – possono avere detto tutti e due una cosa vera. Noi abbiamo esteso a tutti i lavoratori subordinati, “potenzialmente”, quella protezione del reddito che oggi, in assenza di queste misure straordinarie, sarebbe limitata solo a una parte dei lavoratori dipendenti: a quelli delle industrie sopra i 15 dipendenti, a una piccola parte del terziario. E questa operazione, da 32 milioni di euro nel biennio 2009-2010, “potenzialmente” copre tutti i lavoratori subordinati, anche quelli con contratti a termine, apprendisti o lavoratori interinali…”.

Il problema è capire cosa significhi quel “potenzialmente”, ripetuto due volte dal ministro. “Si tratta di vedere se il lavoratore ha maturato i requisiti di accesso – è la sua risposta – non si può accedere ai sussidi avendo lavorato solo un giorno. Da sempre, con unanime consenso delle forze politiche e sociali, il sussidio dev’essere responsabilmente gestito sulla base di un periodo già lavorato. Non a caso noi non proteggiamo un giovane in attesa della prima occupazione. Dobbiamo dargli servizi, opportunità di apprendimento, di congiunzione tra la scuola e lavoro, non certo un salario garantito…”. E dunque, per quanti lavoratori la coperta del nostro Welfare sarà inevitabilmente corta, tanto da lasciarli del tutto scoperti? “E’ impossibile dirlo”, conclude Sacconi.

Detto altrimenti: nell’irrealtà berlusconiana tutti sono “potenzialmente” coperti. Nel realtà italiana molti sono “concretamente” scoperti. Quanti siano gli uni e gli altri, in ogni caso, il governo non lo sa. Sacconi, che è persona onesta, ha almeno il coraggio di riconoscerlo. Il Cavaliere, cui manca il pregio minimo della “dissimulazione onesta”, spergiura il suo “tutti”, e la chiude lì. Lo dice Lui, dunque va creduto a prescindere.

Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”. Ma ancora una volta, in quelle “dependance” mass-mediatiche di Palazzo Grazioli è risuonato solo il Verbo del Cavaliere. L'”irresponsabilità delle parole”, secondo Max Weber, coniugata all'”inverificabilità degli eventi”, secondo Karl Popper. (Beh, buona giornata).

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Secondo Bankitalia Pil a-5%, disoccupazione a +10%. Questa è la crisi degli italiani, questo è il governo dell’Italia.

La terapia della verità di MASSIMO GIANNINI-Repubblica

SERVE l’asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un “pubblico” che si vuole ormai trasformato in “popolo”. Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d’Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un’opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l’Italia è un Paese in crisi profonda. Quest’anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa “ripresa”, sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i “recenti segnali di affievolimento” della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei “sondaggi d’opinione”.

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell’occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell’anno.

La terza verità è che la “coperta” del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un’indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve “una riforma organica e rigorosa” degli ammortizzatori sociali, e “una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti”. Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l’urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane “un forte pessimismo” per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso “a rischio la stessa sopravvivenza”. Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod’s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell’economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l’eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e “prospettiche”, che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C’è l’imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all’azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell’Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L’economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un’anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L’occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l’onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e “disarticola il tessuto sociale”. E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell’1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l’area dell’evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l’abisso analitico e “terapeutico” che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un “dato psicologico”, virtuale e “percepito”. Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un “positivismo ad ogni costo”.

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un “fatto economico”, reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull’esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa “piattaforma” riformista, contrapposta al “format” populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero – come sostiene Giulio Tremonti in un’irrituale intervista “a orologeria” uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali – che la Banca d’Italia è solo “un’autorità tecnica”, che la vera e unica “sovranità appartiene al popolo” e che “la responsabilità politica è del governo che ne risponde”. Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la “tempesta perfetta” che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui. (Beh, buona giornata).

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Ma quale ottimismo, ma quale fine del peggio: la crisi uccide.

Tra Treviso e Padova, le storie di artigiani e manager travolti dall’incubo della crisi. E che dinanzi alle dure conseguenze hanno preferito togliersi la vita.Terzo imprenditore suicida in Veneto.Ossessionati dal dover licenziare
TREVISO – Temevano di dover licenziare. Per questo si sono uccisi. Sotto il treno, con una corda al collo o un colpo di pistola al cuore: hanno voluto cancellare l’incubo che non sopportavano più. In tre, da ottobre a oggi, tra Treviso e Padova, piccoli imprenditori, artigiani o manager. Dinanzi alll’imperativo di dover cacciare i loro dipendenti travolti dalla crisi economica, hanno preferito scomparire piuttosto che affrontare quello che ai loro occhi era un vero e proprio disonore, un tradimento della fiducia che le maestranze gli avevano concesso.

L’ultima vittima nel Veneto, è un dirigente d’azienda di 43 anni di Villorba, in provincia di Treviso. Stamane si è gettato sotto un treno in viaggio sulla linea Venezia-Bassano del Grappa, a Castello di Godego. A giorni avrebbe dovuto convocare i sindacati per annunciare la cassa integrazione. Non ha lasciato scritti per spiegare il suo gesto il manager, ma chi lo conosce bene non ha dubbi: lo ha ucciso lo stress di queste settimane, le trattative infinite con i rappresentanti sindacali, l’angoscia che la crisi avrebbe annullato l’azienda in cui lavorava.

Come è capitato ieri al titolare di una falegnameria a Lutrano, un paese non lontano da Treviso.
Cinquantotto anni, titolare di un’azienda di famiglia che porta il nome di suo padre e dei suoi fratelli, Walter Ongaro si è impiccato in un capannone della ditta. Era ossessionato dall’idea che la crisi che aveva colpito il settore, lo costringesse a dover lasciare a casa alcuni dei suoi otto dipendenti. Da gennaio gli ordini erano diminuiti e Walter aveva perso il sonno e l’angoscia di non avere alternative ai licenziamenti, lo ha spinto al suicidio.

La depressione per la crisi economica aveva gettato nel baratro anche un altro imprenditore padovano di 60 anni morto il 13 ottobre scorso con un colpo di pistola al petto. Corrado Ossana era preoccupato che qualcuno, con cui aveva contratto debiti, potesse far del male ai suoi figli. Vedovo da tempo, iscritto all’albo dei geometri, era riuscito a costruire un’attività affermata. Ma la crisi di questi mesi aveva peggiorato i suoi affari e dopo una domenica pomeriggio trascorsa chino sui conti che non riusciva più a far quadrare, ha puntato la canna della sua Smith&Wesson calibro 40 contro il cuore, e ha fatto fuoco. (Beh, buona giornata).

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Il capo del governo dice che la crisi sta passando, la presidente di Confindustria dice che non è vero.

Marcegaglia spegne gli entusiasmi “Uscita da crisi? Lunga e dolorosa” Per gli industriali la crisi non può essere l’alibi per non fare riforme necessarie di ROBERTO MANIA-repubblica.it

La parola “depressione” per definire questa crisi economica, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria non l’aveva ancora usata. Forse in Italia non l’aveva pronunciata ancora nessuno. Ma questo è l’umore degli industriali a quattro giorni dall’Assemblea generale della Confindustria. D’altra parte è ancora fresco di inchiostro l’ultimo crollo del Pil con il timbro dell’Istat: -5,9%, il peggiore dal 1980. “Siamo in una crisi molto profonda, inedita e senza paragoni”, ha detto ieri il presidente di Viale dell’Astronomia. E poi: “E’ la peggiore dalla depressione del 1929 a oggi”. Con una differenza fondamentale rispetto a quella degli anni Trenta: l’intervento sufficientemente tempestivo dei governi a chiudere le falle. Dunque “anche se il peggio è alle spalle – ha detto Marcegaglia – la nostra percezione è che la strada per l’uscita dalla crisi sarà lunga, complicata e dolorosa per arrivare di nuovo ad un livello accettabile”. Crisi a L, direbbero gli esperti: con un Pil destinato a essere per lungo tempo stabile, ma fiacco, dopo aver toccato il fondo. Proprio come durante la Grande Depressione.

Così dell’analisi tendenzialmente rassicurante della coppia Berlusconi-Tremonti la Confindustria condivide di certo solo un aspetto: che il peggio è alle spalle, probabilmente. Bisogna riconoscere che non è molto. E lo si vedrà giovedì all’Auditorium di Renzo Piano a Roma all’appuntamento annuale più importante degli industriali: Marcegaglia chiederà al governo di cambiare registro. Perché non è vero che una volta usciti dalla crisi saremo più forti. Anzi. Se un ragionevole uso della leva finanziaria ci ha salvaguardati dal tracollo andato in onda in altri paesi, dagli anglo-sassoni alla Spagna, e se l’imprenditoria diffusa è ancora un fattore di forza per la nostra economia, senza il “coraggio” delle riforme strutturali rischiamo di andare (o rimanere) in serie B. Non ci si può scordare – è la tesi degli industriali – che da anni – ben prima della crisi dei subprime – l’economia italiana cresceva a tassi inferiori a tutti i suoi concorrenti.

Riforme, allora, per ridurre il peso della spesa pubblica (già oltre il 50 per cento del nostro Pil), fluidificare i processi decisionali, ammodernare le istituzioni, chiudere la stagione dello statalismo municipale e far fare un passo indietro all’invadenza della politica. Insomma, previdenza e liberalizzazioni sono in cima alla lista confindustriale. Questo – secondo Marcegaglia – è il momento di sfidare l’impopolarità, l’ostracismo e i veti delle lobby. Anziché fissare costantemente l’asticella del termometro del consenso. “E’ il momento di fare”, dirà la Marcegaglia proprio a Berlusconi. Il che non vuol dire – spiegano a Viale dell’Astronomia gli uomini dello staff che stanno limando il discorso del presidente – una bocciatura dell’azione di governo: vuol dire che bisogna fare di più. Molto di più. Perché la crisi non deve rappresentare l’alibi dell’immobilismo sulle pensioni, sugli sprechi nella sanità (soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno), sulle carenze infrastrutturali, sulle politiche ambientali ed energetiche. Non sarà una bocciatura, ma nemmeno una promozione per il primo anno di legislatura del governo Pdl-Lega.

La Confindustria, insomma, si aspettava di più.
Intanto chiede alla pubblica amministrazione di pagare subito i crediti alle imprese (in particolare quelle di piccole dimensioni) che continuano ad avere difficoltà ad accedere ai finanziamenti bancari. All’appello – secondo le stime degli imprenditori – mancano dai 60 ai 70 miliardi, mentre Tremonti è disposto a non andare oltre 30 miliardi di euro. Perché con un Pil che non sale e una spesa che non scende anche il controllo del deficit è molto a rischio. E non basta l’ottimismo. (Beh,buona giornata).

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L’Italia e la crisi economica:”nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere.”

Bersani, ecco le domande che nessuno fa mai alla destra di Bianca Di Giovanni -l’Unità
«E’ un governo più impegnato ad accrescere consensi che a risolvere i problemi veri. Passa per il governo del fare? Certo, nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere». Pier Luigi Bersani dà un giudizio senza appello sul primo anno del governo Berlusconi quater. Detto in due parole: racconta favole. Evidentemente, però, le racconta bene, visto che la popolarità è in aumento (dicono). «Certo, questo è un governo nato per accrescere consenso: è la sua prima missione», spiega Bersani.

Quali sono le domande non fatte?

«Per esempio nessuno ha chiesto a Giulio Tremonti e colleghi come mai l’Europa parla di un milione di disoccupati in più in Italia per quest’anno (nelle previsioni di primavera, ndr) che non compaiono nella sua Relazione unificata. Gran parte di quei nuovi disoccupati è costituita da precari, a cui non è stato dato nulla. Altro che governo del fare. Nella stessa Relazione si stima che gli investimenti diminuiranno di 5 miliardi in un anno. E tutte le chiacchiere sulle infrastrutture e le promesse sul Ponte?».

Altre domande?

«Ci aspettiamo qualche risposta per esempio sulle garanzie date dal Tesoro sull’operazione Alitalia, in cui sono rimasti intrappolati piccoli azionisti e obbligazionisti che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ancora: c’è qualcuno che ricordi a Tremonti che abbiamo speso 1,7 miliardi per coprire i “buchi” delle sue cartolarizzazioni? È più di quanto è costato il bonus famiglie. E qualcun altro che rammenti le perdite della finanza locale, avviata grazie a una circolare del Tesoro dell’altro governo Berlusconi? Nessuno ricorda nulla. D’altro canto questo governo è una macchina del consenso, per cui bisogna ogni giorno attivare un meccanismo di rappresentazione di nuove “conquiste”, che poi si perdono».

Cosa si è perso?

«Dov’è finito il maestro unico, su cui si scatenò all’inizio una guerra di religione? Dov’è l’esercito nelle strade? Dove sono i Tremonti bond? Lo sa la gente che li ha richiesti solo in una banca, il banco popolare? Cosa fanno esattamente i prefetti sul credito? Nessuno lo sa e nessuno vuole saperlo».

Insomma, con la crisi che morde, i problemi sociali, gli italiani crederebbero alle favole?

«Dopo gli ultimi fatti di cronaca su Veronica, consentitemi di dire che ci raccontano cose inverosimili e vogliono farcele credere. Non voglio parlare di divorzi, ma si sentono delle tesi sulle feste, l’arrivo all’ultimo minuto, il gioiello ritrovato per caso, che in altri paesi ci si vergognerebbe pure a raccontarle».

Resta il fatto che di fronte alla crisi (che è reale) il centrodestra non perde consensi.

«La loro tesi è che la crisi viene da altrove, che noi siamo solo delle vittime e dobbiamo resistere e dunque che non si può fare molto. Su questo comunque io andrei a contare i voti reali dopo le elezioni. Se si fa questo esercizio ci si accorge che Berlusconi non ha mai sfondato nell’altro campo. Quello che è riuscito a fare è rendere utilizzabile tutto il voto di destra del paese. Quando il centrosinistra si è unito, è riuscito a batterlo, ma poi si è visto che l’unità era una composizione piuttosto che una sintesi. Questo è il problema».

Non c’entra nulla la poca credibilità dell’opposizione?

«Anche noi ci abbiamo messo del nostro, rimanendo poco credibili sul come si costruisce un’alternativa. Dobbiamo lavorare a costruire e rilanciare un progetto».

Lei è ancora candidato alla segreteria?

«Su questo ho già parlato e non voglio aggiungere altro. Ora pensiamo alle elezioni, poi si vedrà».

Sul centrosinistra resta forte l’accusa di non saper leggere la realtà. Il Corsera scrive che ha bisogno di alfabetizzarsi per parlare alle partite Iva e alle piccole imprese.

«Le piccole imprese sono arrabbiatissime anche con la destra, che non le aiuta a superare la crisi. Mi pare che lo scriva proprio il Corsera. Dunque non mi pare che sia un fatto di alfabetizzazione. La verità è quella che il centrosinistra ripete ormai da mesi: noi siamo l’unico Paese che non ha fatto nulla di espansivo per fronteggiare l’emergenza, ma si è limitato a spostare fondi da una voce all’altra, per di più senza avere la cassa. Si impacchettano nuove voci di spesa, per l’Abruzzo o per la sicurezza, ma in cassa non c’è un euro».

Le preoccupazioni di Tremonti per il debito sono sacrosante.

«E lo dice a noi che abbiamo sempre rimediato al debito della destra? Ma correggere il debito vuol dire anche far crescere il Pil».

Questo lo dicevano loro quando facevano ancora i liberisti.

«Sì, ma loro giocavano con i numeri. Spargevano ottimismo e scrivevano una crescita del 3% quando il Pil era a 1. Noi proponiamo misure concrete per un punto di Pil e un percorso di rientro in due anni. Se non si sa come reperire mezzo punto di Pil in un anno, significa che non si sa governare. Il governo Prodi ha corretto il deficit dal 4,5% al 2,7% erogando anche il cuneo fiscale. Per rientrare di mezzo punto basta diminuire la circolazione del contante rendendo tracciabili i pagamenti e controllare meglio la spesa corrente».

Perché il centrosinistra ha proposto il prelievo sull’Irpef dei ricchi (che sono più poveri comunque degli evasori) e nulla sulle rendite?

«La proposta era di un contributo straordinario per la povertà estrema, e prevedeva anche misure contro l’evasione. Quanto alle rendite, abbiamo contrastato la seconda operazione Ici, dicendo chiaramente che non andava fatta». (Beh, buona giornata).

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Accordo Fiat-Opel: si chiude Termini Imerese e si apre in Serbia?

di Diodato Pirone-ilmessaggero.it
«Non è la possibile fusione Fiat-Opel a sconvolgere il mercato dell’auto. E’ la crisi mondiale che sta scuotendo tutto. Opel ha perso quasi 1,5 miliardi nei primi tre mesi del 2009 e se persino Toyota vende un milone di auto in meno nel mondo vuol dire che chi sta fermo è perduto». Parla così una fonte vicina alla trattativa Fiat-Opel per tentare di diradare un po’ del polverone che avvolge il parto travagliato del nuovo polo europeo dell’auto.

Ma che cosa comporta la Grande Ristrutturazione Globale sul fronte del lavoro? Marchionne lo ha scritto nel Piano Fenice alla base del progetto di fusione Fiat-Opel: la capacità produttiva va ridotta del 22% perché tenere aperte linee di produzione inutilizzate fa esplodere i costi. Per questo da anni l’amministratore delegato di Fiat predica la creazione di grandi stabilimenti da 4-500 mila auto annue. L’ultimo tentativo per costruirne uno nuovo in Italia è fallito a inizio 2008 quando Marchionne si arrese di fronte all’impossibilità (perché bisognava costruire un porto e per mille intoppi politici, sindacali e burocratici) di raddoppiare la fabbrica di Termini Imerese, in Sicilia. E così la nuova auto per Termini, la Topolino con motore bicilindrico, con ogni probabilità sarà battezzata in Serbia dove Fiat, con fondi del governo di Belgrado, sta costruendo una fabbrica extra-large.

Poi è arrivata la Grande Crisi e la cassa integrazione a valanga. Da ottobre i 1.600 operai di Termini (e i 400 dell’indotto) sono stati fermi per 5 mesi. Nel 2008 hanno fabbricato oltre 150 mila Lancia Ypsilon contro le 70-80 mila previste per quest’anno: Termini assomiglia, di fatto, a un morto che cammina anche se fabbricherà Ypsilon fino a tutto il 2010.

E dopo? Il Piano Fenice ne ipotizza la riconversione nella produzione di componenti. Così come riconversioni o chiusure – anche se gli uomini di Marchionne giurano di non aver mai scritto questo termine – toccheranno in tutt’Europa gli anelli più deboli della catena Opel: Luton, in Gran Bretagna, da cui fino al 2012 usciranno furgoni ”cofirmati” da Renault; Graz, in Austria che fa trasmissioni; Anversa, in Belgio, troppo vecchio; Kaiserslautern, in Germania, meno efficiente nella motoristica rispetto all’impianto polacco di Bielsko-Biala che Fiat e Opel già condividono.

In questo quadro anche l’Italia paga un prezzo: di Termini s’è detto. Poi non è definita la missione dell’enorme fabbrica di Pomigliano (350 mila metri quadri coperti) che prima della crisi assemblava 250 mila Alfa Romeo ridotte a meno di 100 mila quest’anno. Resta da capire chi farà (e dove) la ricerca e qui anche Torino rischia di perdere qualche pennacchio.

L’incredibile è che se Fiat-Opel non dovesse nascere le cose potrebbero andare anche peggio. In questo caso lo scheletro dell’industria automobilistica europeo potrebbe fratturarsi in più punti. Per questo ieri Karl-Theodor zu Guttenberg, il giovane ministro dello Sviluppo Economico della Germania, ha ripetuto pari pari una frase cara a Sergio Marchionne: «E’ l’Europa che deve risolvere il problema Opel». (Beh, buona giornata).

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Toh, il ministro Tremonti si è accorto che l’Italia è nella crisi fino al collo.

(da sole24ore.com)

Anno nero per l’economia italiana nel 2009. Il Pil è previsto in calo del -4,2%, ben oltre le ultime previsioni e in linea con il recente Word Economic Outlook del Fondo monetario internazionale.

È quanto stima il Tesoro nella Relazione unificata sulla finanza pubblica. Timidi segnali di ripresa solo l’anno prossimo, quando la crescita del Prodotto interno lordo tornerà positiva a +0,3%. «Nel 2009 – si legge nel documento – il Pil è stimato contrarsi del 4,2%, 2,2 punti percentuali in meno rispetto alla stima indicata nell’Aggiornamento del programma di stabilità dello scorso febbraio (-2%). Il profilo trimestrale prospetta una modesta ripresa a partire dal secondo trimestre del prossimo anno. Nel periodo 2010-2011 il Pil è proiettato crescere dello 0,7%».

Secondo la relazione del Tesoro è destinato a salire, come previsto, anche il debito pubblico: si attesterà quest’anno al 114,3% del Pil, per poi salire ancora al 117,1% l’anno prossimo e a 118,3% nel 2011. Il Tesoro ha rivisto quindi le stime in aumento: secondo le previsione contenute nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno, pubblicate a febbraio, il debito/Pil era visto quest’anno al 110,5%, l’anno prossimo a 112% e nel 2011 a 111,6 per cento.

In aumento, ovviamente, anche il rapporto deficit/Pil. Nel 2009, secondo le previsioni contenute nella Relazione unificata sulla finanza pubblica, il disavanzo si attesterà al 4,6% del Pil, superiore di 0,9 punti percentuali rispetto alla stima elaborata a febbraio nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno (3,7%). Il livello di indebitamento nel 2010 si attesterà sullo stesso livello del 2009, per iniziare a scendere a partire dal 2011, anno in cui dovrebbe collocarsi al 4,3 per cento.

Le prospettive economiche globali, si legge nel documento, «si sono deteriorate negli ultimi mesi», ma allo stesso tempo «sono aumentati gli sforzi tanto dei governi nazionali quanto degli organismi e delle sedi sovranazionali». Ora, quindi, «si guarda con qualche speranza alla possibilità di rallentamento dell’attuale fase di crisi». Il rallentamento della crisi – spiega ancora il ministero – «dipende da fattori numerosi e variabili: dal ristabilimento di un’adeguata crescita a livello mondiale alla conservazione del commercio mondiale; dal miglioramento della situazione occupazione fino a una nuova spinta verso il progresso sociale». (Beh, buona giornale).

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“Il nuovo progetto deve portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro.”

La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa

E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).

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Crisi: «Oggi si licenzia per migliorare il rendimento degli azionisti».

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine»

«Mi rivolto, dunque siamo. La storia prodigiosa qui evocata è la storia dell’orgoglio europeo». Le parole di Albert Camus sembrano tornare d’attualità con l’escalation di sequestri che stanno bersagliando i dirigenti d’azienda in Francia. L’istinto individuale che trova sbocco nell’altrettanto spontanea rabbia collettiva. Non si può fare, beninteso: il rapimento all’interno dell’impresa è severamente punito dal codice penale transalpino. Sta di fatto che accade, con illustri ed estesi precedenti nel paese, dall’Alto Medioevo agli anni ‘70. E risuccede per la disperazione dei tagli motivati dalla crisi, nonché per la presa d’atto dell’assenza di esiti dal ricorrente modello negoziale.

Il primo episodio ha coinvolto un paio di mesi fa il patron di Sony France, a Pontonx sur l’Adour, nel dipartimento sud-occidentale delle Landes, tenuto in ostaggio per ventiquattr’ore, l’identico trattamento riservato qualche giorno più tardi al direttore dell’azienda farmaceutica 3M di Pithiviers, a Sud di Parigi.

Poi è arrivato il turno dell’illustre magnate del lusso François-Henri Pinault, grande collezionista d’arte e proprietario tra l’altro del veneziano Palazzo Grassi, per un patrimonio stimato a quattordici miliardi di euro, un gruzzoletto da tenere ben al riparo dai piani di “ristrutturazione” da lui imposti alle proprie imprese, che prevedono il licenziamento di almeno millequattrocento persone. Dopo una riunione dei vertici del gruppo (la Pinault-Printemps-Redoute, fondata dal padre) nel quindicesimo arrondissement parigino, i dipendenti dei magazzini Fnac e Conforama hanno tenuto sotto assedio, a calci e spintoni, il taxi su cui era a bordo. E’ durato una lunga ora, fino all’intervento della polizia.

E infine il fatto più clamoroso, ossia il sequestro di cinque dirigenti delle due fabbriche dell’americana Caterpillar nella regione di Grenoble, incluso il direttore Nicolas Polutnick, al seguito dell’annunciato licenziamento di settecentotrentatre operai, ossia quasi un terzo della forza lavoro in Francia. L’azienda si difende denunciando un crollo del cinquantacinque per cento delle ordinazioni, con la conseguenza che gli “esuberi” costituirebbero la sola possibilità per evitare di cacciare tutti e di chiudere gli stabilimenti.

La crisi tuttavia, qui come altrove, puzza di pretesto, trattandosi del più grande produttore al mondo di veicoli e macchinari per costruzioni ed estrazioni, di motori diesel e a gas naturali, nonché di turbine a gas industriali. Non è insomma un’azienda in rosso, bensì realizza tuttora utili. E’ suonato allora inaccettabile il rifiuto padronale di qualsiasi negoziato con i sindacati sulle esistenti controproposte di riduzione salariale e di indennità di licenziamento.

«Oggi si licenzia per migliorare il rendimento degli azionisti», spiega Nicolas Benoît, delegato della Confédération Générale du Travail nell’impresa.
La rabbia è allora quantomeno comprensibile. Comandano ancora gli interessi azionari, gli stessi che hanno portato al crack l’economia reale. E quando si tratta non degli spiccioli del trattamento di fine rapporto dei lavoratori ma di buonuscite milionarie per la casta dei propri dirigenti le imprese non battono ciglio e l’Eliseo va poco al di là di dichiarazioni populistiche. Il decreto recentemente varato dal governo riguarda solo le sei banche interessate dagli aiuti di Stato e due case automobilistiche, e limita il proprio orizzonte temporale all’anno prossimo.

E’ stato in realtà lo stesso Sarkozy a intervenire per calmare le acque a Caterpillar ricevendone i dipendenti e spingendo per riaprire la trattativa. Le parole però non bastano ai lavoratori, che tengono dissotterrata l’ascia di guerra, consapevoli che una promessa presidenziale pronunciata l’anno scorso per evitare la chiusura dell’acciaieria dell’Arcelor-Mittal si è risolta nel nulla di fatto, ovvero nel licenziamento dei suoi cinquecentosettantacinque operai.
«Nichilista la rivolta? – si è chiesto allora Adriano Sofri – Beh – si è risposto – le avete tolto tutto, anche la lepre (ideologica) della rivoluzione».

La Francia rivendica quella lepre. E ai sondaggi, metà dei suoi cittadini si dice oggi favorevole all’arma del sequestro. (Beh, buona giornata).

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Crisi: sale l’inflazione, scendono occupazione e stipendi. Alla faccia di chi vede segnali di ripresa.

L’inflazione ad aprile è salita all’1,3%, dall’1,2% di marzo, su base annua. Lo comunica l’Istat, nella stima preliminare, aggiungendo che su base mensile i prezzi al consumo sono aumentati dello 0,3%. A livello tendenziale, il dato segna il primo rialzo, per quanto marginale, dopo sette mesi di tendenza al rallentamento.

Grandi imprese. A febbraio l’occupazione nelle Grandi imprese ha registrato una variazione negativa dell’1% al lordo della Cassa integrazione guadagni e del 3,2% al netto della Cig. Il raffronto è sullo stesso mese del 2008.

L’Istat aggiunge che l’indice depurato dagli effetti della stagionalità ha segnato un calo rispetto al mese precedente dello 0,2% al lordo della Cig e dello 0,6% al netto dei dipendenti in Cig.

Gli stipendi. La retribuzione lorda per ora lavorata nel totale delle Grandi imprese ha registrato a febbraio un aumento congiunturale (al netto della stagionalità) dell’1,2% rispetto al mese precedente ed un calo tendenziale, misurato sull’indice grezzo, del 2,7%. Beh, buona giornata

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Le banche non mollano, gli operai cedono. Ecco come si prospetta l’uscita dalla crisi della Chysler. E’ questo il laboratorio per la ripresa dell’economia globale?

Il sindacato Uaw (United autoworker) ha raggiunto un accordo con Fiat, Chrysler e il governo americano sulle concessioni alla casa automobilistica di Detroit per il taglio dei costi in base alle richieste dell’amministrazione Usa.

L’accordo, come si legge nel comunicato, è definito dai sindacati “doloroso”, ma “consente di sfruttare la seconda chance per la sopravvivenza di Chrysler”.

La rappresentanza sindacale si augura che gli sforzi richiesti agli attuali dipendenti e ai pensionati della casa automobilistica americana “facciano sì che anche gli altri protagonisti della trattativa si adoperino per una conclusione positiva” della vicenda.

La ratifica dell’intesa dovrà avvenire entro il prossimo 29 aprile. Il titolo Fiat, in una Borsa ad andamento negativo, è subito salito di circa il 2 per cento. Adesso tocca alle fare la loro parte per la ristrutturazione del debito accumulato da Chrysler. Beh, buona giornata

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Secondo Fmi l’Italia è nei guai fino al collo. Con buona pace del populismo di Berlusconi e i trucchetti contabili del rag.Tremonti.

Notizie pessime per l’Italia. Nel nostro Paese, dopo un 2009 di profonda recessione, non ci sarà crescita positiva nemmeno nel 2010 con un fortissimo appesantimento dei conti pubblici e del debito.

Secondo il Fondo Monetario internazionale (Fmi) di Washington quest’anno l’Italia registrerà un calo del Pil del 4,4%, che sarà seguito da un altro calo, dello 0,4%, nel 2010. Le stime sono sostanzialmente in linea con quelle stilate alla fine di marzo dall’Ocse (pari rispettivamente a -4,3% e a -0,4%) ma decisamente più pessimistiche di quelle presentate dal governo in occasione dell’aggiornamento del programma di stabilità (-2% e +0,3%).

In Italia il deficit di quest’anno salirà a livelli molto superiori rispetto a quelli richiesti dal trattato di Maastrich (5,4%) per poi salire ancora al 5,9% l’anno prossimo. Importanti anche le ricadute sul debito pubblico che, in rapporto al Pil, cresce dal 105,8% del 2008 al 115,3% per poi salire ancora al 121,1% nel 2010 e al 129,4% nel 2014.

Per il nostro Paese gli spazi per politiche di stimolo dell’economia proprio alla luce del suo elevato debito pubblico sono “quasi inesistenti”. Notizie nere anche per il lavoro con un forte aumento del tasso di disoccupazione che dal 6,8% della forza lavoro del 2008 salirà quest’anno all’8,9% per passare al 10,5% nel 2010. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

Le prossime elezioni europee possono servire a qualcosa di buono?

Tanto è forte l’opposizione sociale, quanto è debole l’attuale opposizione parlamentare.

Se anche nel Principato di Monaco si scatena la protesta contro la crisi, vuol dire che è ora di guardare in faccia la realtà. A Montecarlo circa 3000 persone sono sfilate in corteo, percorrendo quelle strade che sono il circuito di Montecarlo, la gioia degli sponsor della Formula 1. Metre d’hotel, croupier del Casino, dipendenti di alberghi, bar e ristoranti del più famoso paradiso fiscale d’Europa hanno manifestato contro la crisi. “Qui vengono tutti i ricchi del mondo-ha detto un sindacalista di Montecarlo- mentre il 40% del personale dei locali pubblici monegaschi lavora in nero”.

In forme diverse stiamo assistendo al ritorno delle grandi proteste che ci sono state in tutto il mondo, compresa l’Italia con Genova, prima dell’11 settembre 2001 dove si fusero insieme il no alla globalizzazione, la protesta contro le ineguaglianze nel mondo del lavoro e la richiesta di maggiore attenzione verso l’ambiente. E’ quanto si può ricavare dalle proteste contro il G-20 a Londra, dalle manifestazioni contro la Nato a Strasburgo, dalle centinaia e centinaia di migliaia di lavoratori, studenti e precari che hanno riempito le piazze italiane, convocati dalla Cgil, dal movimento dell’Onda, dalle organizzazioni del sindacato di base. Sembrano essere tornate le giornate del movimento No Global, quella fiammata che si spense dopo l’11 settembre per riaccendersi di tanto in tanto e senza una strategia.

“Il movimento arretrò perché i sindacati e i partiti politici non vollero essere associati direttamente con un movimento di azione diretta e radicale del quale avevano paura”, dice Naomi Klein , in una lunga intervista, appena pubblicata da un settimanale italiano. “Adesso mi pare che le cose siano diverse: se guardiamo alle strade di Londra vediamo che, fianco a fianco, sfilano giovani attivisti di matrice radicale e vecchi sindacalisti, precari alle prese con lavori che oggi ci sono e domani no e militanti ambientalisti e pacifisti. È una nuova scelta di militanza che ha alla sua base la crisi economica e i problemi di vita quotidiana, anzi di sopravvivenza quotidiana, che milioni di persone vivono a causa delle scelte delle leadership mondiali”.

L’opposizione contro la gestione della crisi ha anche coinvolto la classe operaia, che ha dato in vita in Francia al “sequestro” dei manager, per imporre migliori condizioni contrattuali, in tema di difesa dei posti di lavoro. E’ successo alla Caterpillar. E’ successo alla Continental, dove un anziano operaio ha detto: “hanno avuto il nostro sudore, vogliono il nostro sangue, non avranno il nostro culo”.
E’ successo alla Fiat in Belgio. Tre dirigenti della Fiat per cinque ore sono stati rinchiusi dentro due stanze del centro vendite autovetture di Bruxelles, da alcuni lavoratori che protestano per un piano di licenziamenti. La Fiat ha reagito, annunciando che”esclude per il futuro la possibilità di tenere rapporti con organizzazioni sindacali che avallino simili forme di protesta”.
Immediata la reazione del sindacato. Abel Gonzales – rappresentante del sindacato Fgtb, ha detto: “E saremmo noi i terroristi? Loro mettono la gente in cassa integrazione e questo non è prendere in ostaggio la gente?” Gli fa eco Giorgio Cremaschi: “Le dichiarazioni della Fiat contro i lavoratori e i sindacati belgi sono inaccettabili. La rottura della convivenza civile che lamenta l’azienda avviene prima di tutto quando durante la crisi si scelgono i licenziamenti come modo di affrontarla. L’esasperazione dei lavoratori va capita anche dalle aziende. Peraltro – aggiunge Cremaschi – i cosiddetti sequestri sono in realtà semplici invasioni di uffici che durano poche ore”.
Ma è successo anche alla Benetton di Piobesi, in Piemonte. «A Bruxelles hanno sequestrato tre manager della Fiat per colpa di 24 licenziamenti? Almeno nel nostro caso erano 143 persone a perdere il posto», ha detto Giuseppe Graziano, segretario della Uilta-Uil piemontese. Quelli che ha vissuto a Piobesi, nello stabilimento della Olimpias, sono stati momenti tutt’altro che facili per Tullio Leto, direttore del personale dell´azienda tessile del gruppo Benetton: quando hanno saputo che l´azienda non avrebbe concesso la minima apertura, i lavoratori lo hanno tenuto in assedio per tre ore e lui è uscito dallo stabilimento attraverso una porta sul retro, grazie all’intervento dei carabinieri.

Le cancellerie europee sono preoccupate. “Le prospettive dell’economia sono eccezionalmente cattive e la crisi del lavoro è a questo punto drammatica, la disoccupazione è all’8,2% pari a 13 milioni di uomini e donne disoccupati”, ha detto il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncke.
Le manifestazioni di piazza hanno fatto crollare nelle ultime settimane i governi in Islanda, in Lettonia e in Ungheria. Dublino è stata attraversata da cortei senza precedenti con centinaia di migliaia di operai e impiegati a protestare contro gli ennesimi tagli di bilancio che hanno frantumato il potere d’acquisto irlandese fino a portare il paese sull’orlo della bancarotta. A Vilnius i dimostranti hanno preso addirittura d’assalto il Parlamento dopo l’annuncio di un rialzo delle imposte per i lavoratori dipendenti.
E si muove ora anche la Confederazione dei Sindacati Europei, storicamente confinata a funzioni di rappresentanza presso le istituzioni dell’Unione. Per metà maggio, in piena campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, si stanno mobilitando quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga. Segnali di una protesta che oramai varca i confini nazionali, oltre che quelli tematici e ideologici.

Ha ragione Naomi Klien quando dice: “non bisogna, comunque guardare solo a quanto avviene intorno ai summit mondiali dove i media riportano ogni più piccolo dettaglio. Nel mondo ci sono tanti episodi giornalieri di manifestazione di questa rabbia che non vengono pubblicizzati. Quello è il movimento che vive e cresce”.
Quello che stupisce è la “leggerezza” dell’opposizione parlamentare italiana di fronte alla pesantezza della crisi. Per il Pd la partecipazione del segretario Franceschini alla manifestazione della Cgil del 4 aprile a Roma è sembrato il massimo sforzo possibile. Segno evidente che l’estromissione della Sinistra dal Parlamento italiano fa vedere tutti i suoi frutti amari. Il prossimo 6 e 7 giugno c’è la possibilità di rimediare, almeno nel Parlamento europeo. Sarebbe un segnale importante per l’appoggio e lo sviluppo dell’opposizione sociale alla crisi del capitalismo, in Italia e in Europa. Beh, buona giornata.

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Pil:-4%. Occupazione: -1.000.000. Ecco la crisi che Berlusconi vorrebbe passasse da sola.

Nel triennio 2008-2010 il Pil italiano potrebbe scendere del 4%. E’ quanto calcola l’Ires-Cgil secondo la quale il dato deriva da un calo dell’1% nel 2008 e da un drastico ribasso del Pil nel 2009 che dovrebbe superare il 3%. Nel 2010 la diminuzione dovrebbe ridursi ad un -0,1%. La flessione dell’occupazione in
Italia dovrebbe portare ad un tasso di disoccupazione del 10,1% nel 2010. E’ quanto stima l’Ires-Cgil secondo la quale nel 2009 il tasso dovrebbe salire al 9,3% dal 7,4% del 2008. (Beh buona giornata).

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L’occupazione crea preoccupazione.

(fonte: repubblica.it)
Il numero di persone con un lavoro, nei paesi dell’area euro, è diminuito nel quarto trimestre del 2008 dello 0,3%, pari a 453 mila unità. Lo rende noto Eurostat, l’ufficio europeo di statistica, che anche per l’Unione (i Ventisette) registra un calo dello 0,3% (672.000 persone). Un anno fa la diminuzione era stata dello 0,1% nella zona dell’euro e dello 0,2% nell’Unione.

Su base annua, nell’ultimo trimestre del 2008 il tasso di occupazione è rimasto stabile in entrambe le zone, dopo un aumento dello 0,6% sia nell’area euro che nella Ue, nel terzo trimestre.

Nel quarto trimestre dell’anno, le stime di Eurostat indicano complessivamente in 225,3 milioni le persone con un’occupazione, di cui 145,4 milioni merlla zona dell’euro.

Eurostat conferma anche le stime dello scorso 2 marzo relative al tasso annuo di inflazione che, nei paesi che compongono l’area euro, in febbraio è stato dell’1,2%, contro l’1,1% del mese precedente. Un anno fa l’inflazione si era attestata al 3,3%, mentre il tasso mensile, a febbraio, è stato dello 0,4%.

Quanto ai Ventisette, il tasso annuo d’inflazione a febbraio è stato dell’1,7%, dunque in calo rispetto all’1,8% di gennaio. Un anno fa era stato del 3,5%, mentre il tasso mensile anche nell’Ue è stato dello 0,4%. (Beh, buona giornata).

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Crisi economica: nell’automotive, nella siderurgia e negli elettrodomestici l’aumento della cassa integrazione è del 1.048%.

(Fonte: dazebao.org)

La gravità della crisi è pienamente dimostrata dai dati resi noti dall’Inps nell’insieme dei settori dell’industria metalmeccanica, industria di punta del nostro paese: con 23 milioni di ore di Cassa integrazione nel solo mese di febbraio 2009, e con un incremento del 430% sullo stesso periodo dello scorso anno, tali settori rappresentano più del 60% di tutta la Cassa integrazione nell’industria.

Questo ammontare di ore di Cassa integrazione è pari all’assenza dal lavoro per l’intero mese di 150.000 lavoratori. In realtà, i metalmeccanici interessati dalla Cassa integrazione guadagni superano le 200.000 unità in quanto la sospensione è realizzata, in molte aziende, a rotazione, e mediamente, riguarda un periodo di due o tre settimane.”

“Se si guarda alla sola Cassa integrazione ordinaria, che è il vero indicatore della violentissima crisi che interessa ormai tutti i principali comparti dell’industria metalmeccanica (Automotive, Siderurgia, Elettrodomestici)- afferma un comunicato della Fiom Cgil- si registra un aumento vertiginoso di oltre il 1.048% rispetto al febbraio 2008, confermando l’andamento preoccupante del dicembre 2008, che aveva avuto poi una lieve attenuazione nel mese di gennaio 2009.”

Le regioni più colpite sono il Piemonte e la Lombardia che, da sole, rappresentano oltre il 60 % di tutta la Cassa ordinaria del settore ed il 53% della totalità della Cassa nei metalmeccanici.

Un segnale di particolare gravità viene dalle Marche, dove si registra una vera e propria esplosione della Cassa integrazione straordinaria, e dalla Campania che, con quasi 1,2 milioni di ore di Cassa, è la terza regione del settore con una quantità di sospensioni di poco superiore al Veneto e al Lazio.

“Nel periodo novembre 2008-febbraio 2009, sono state autorizzate dall’Inps, per le aziende metalmeccaniche, oltre 67 milioni di ore di Cassa integrazione. Di questi, 50,3 milioni di ore riguardano la Cassa integrazione ordinaria ch – Afferma la Fiom-, ha interessato centinaia di migliaia di lavoratrici e di lavoratori. Una condizione socialmente insostenibile, questa, che rischia di protrarsi, se non di aggravarsi, nel corso dell’anno, con una perdita di salario che varia oramai tra il 40 e il 50% dello stipendio mensile, senza considerare che è frequente che in una stessa famiglia siano in Cassa integrazione sia la moglie che il marito.”

“Questi dati-conclude la nota del sindacato– confermano per intero la piattaforma con cui la Fiom ha chiamato allo sciopero lavoratrici e lavoratori metalmeccanici lo scorso 13 febbraio. Piattaforma in cui veniva affermata la necessità di misure straordinarie di politiche industriali e occupazionali che siano in grado di rispondere con efficacia alla crisi a partire dal blocco dei licenziamenti, dall’estensione degli ammortizzatori sociali a tutti i lavoratori che ne sono privi e dall’aumento dell’indennità di Cassa integrazione, arrivando al reale 80% dei salari di fatto.” (Beh, buona giornata).

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