La Federal Reserve ha aumentato il tasso di sconto di un quarto di punto, dallo 0,50% allo 0,75%. Ma ha tenuto a precisare che la decisione non implica un cambiamento della politica monetaria o delle prospettive per l’economia. E ha ribadito che i tassi rimarranno a livelli bassi per un periodo prolungato. In rialzo dello 0,25% anche il tasso di offerta minima creato a dicembre 2007 nel momento della recessione. A quando la Bce? Beh, buona giornata.
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L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it
Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.
Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?
A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.
A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).
Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.
Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.
Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).
Due casalinghe di Marghera rubano merce e alimentari per 165 euro al supermercato Alì di Dolo e vengono arrestate in flagranza per furto aggravato dai carabinieri della Tenenza di Dolo. Ora si trovano in carcere alla Giudecca in attesa di un processo con rito direttissimo che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni proprio a Dolo.
È quanto successo martedì scorso a S.M. di 53 anni e A. L. (55), entrambe casalinghe di Marghera con una situazione familiare alle spalle davvero pesante, fatta di disoccupazione e problemi reali di sostentamento. Le donne, incensurate, forse in preda alla disperazione hanno deciso di agire e far razzia in un supermercato per passare un Natale con la famiglia sicuro almeno dal punto di vista alimentare.
Il fatto ha suscitato molto scalpore a Marghera dove da tempo diversi consiglieri di Municipalità denunciano una situazione sociale sempre più pesante.
«Al di là del fatto in sé che non conosco e che è condannabile – dice Bruno Gianni, consigliere dei Comunisti Italiani – resta la situazione di questo quartiere che, con la crisi, è diventata sempre più pesante. Ci sono decine e decine di famiglie sull’orlo della miseria per la perdita del posto di lavoro. Questi episodi possono essere visti anche come una spia del disagio in atto». Beh, buona giornata.
(da repubblica.it)
Era uno studente modello, ma le circostanze lo hanno costretto a lasciare la scuola: il padre ha perso il lavoro e in famiglia servono soldi. Succede a Rovereto, in Trentino, dove la preside dell’istituto superiore frequentato dal ragazzo ha deciso di rendere nota la storia. A 17 anni, il diritto allo studio ai tempi della crisi deve i fare i conti con la dura realtà dei grandi.
Flavia Andreatta, preside del Fontana, ha raccontato al quotidiano locale “Trentino” di come sia stata colpita dalle parole dell’adolescente. Un giorno il ragazzo è andato da lei, dicendole: “Devo cercare qualcosa per sostenere la mia famiglia. Non ci sono alternative”. Categorico, con la maturità di chi si sente già responsabile per sè e per gli altri.
La dirigente scolastica ha poi spiegato di aver tentato, insieme ai genitori del ragazzo, di convincerlo a restare tra i banchi, ma invano. “La mamma ha ancora un impiego e avrebbero fatto dei sacrifici, pur di vederlo studiare, però il ragazzo si è sentito un po’ l’uomo di famiglia, con la responsabilità di contribuire al bilancio”, ha spiegato la preside. “Un vero peccato – ha aggiunto – perchè era bravo, con la media del 7. So che adesso ha trovato dei lavori interinali”.
Le difficoltà, a sentire la dirigente scolastica, non sono un caso isolato. Riguardano molte famiglie, “sia di extracomunitari che di italiani – ha proseguito – soprattutto se ci sono più figli e tra i genitori qualcuno è in cassa integrazione o ha perso il lavoro”. Per non parlare, poi, dei viaggi d’istruzione e delle attività extra, che ormai sono spesso considerate un lusso. “C’è chi arriva a fare un mutuo per pagare un viaggio d’istruzione, che magari costa qualche centinaio di euro. Per questo noi stiamo molto attenti a proporre iniziative, perché devono essere alla portata di tutti”.
La storia dell’ex-studente di Rovereto ha già attirato l’attenzione dell’assessore all’Istruzione della Provincia autonoma di Trento, Marta Dalmaso. “Un fatto di questo tipo è molto grave, inaccettabile”. Secondo l’assessore, non sono stati segnalati altri casi analoghi, anche se l’abbandono del percorso di studi per sostenere l’economia familiare è sicuramente un problema attuale. “Mi occuperò personalmente di approfondire la vicenda – ha proseguito Dalmaso, che ha poi lodato il 17enne per la “sensibilità verso i genitori e il sacrificio personale”.
(Beh, buona giornata)
Ho sognato la star del momento, un racconto di MATTIA D’ALESSANDRO
Esasperati ed esasperanti colpi di tosse. Fu così che mi svegliai. Note poco note di bassi baritonali. Ero perfino riuscito a creare una melodia nella mia mente. A colpi di polmone. Fuori non si vedeva, ma sembrava il solito lunedì d’ottobre. Scesi dal letto, la mia spina dorsale si drizzò. Una sensazione mai sentita prima. La parrucca della zia Ester galleggiava su un mare di inchiostro. Tutto galleggiava su un mare di inchiostro. Poi qualcosa mi azzannò la caviglia. Svenni.
Al mio risveglio ero ancora nella stanza piena d’inchiostro. Mi affacciai dal letto per vedere a terra, tutto era stato pulito. Sui muri ancora i segni di quel mare nero. Cos’era stato? Di colpo ricordai del morso alla caviglia. Scalciai le coperte per vedere i segni. Quello che apparve da sotto le coperte era ed è ancora difficile a narrarsi. Un colpo di vento spalancò le finestre. Poi qualcosa di vivo mi avvolse e con me, tutta la casa. Non riuscii più a guardarmi le caviglie. L’aria era satura di polvere. Feci appena in tempo a rannicchiarmi sotto le coperte. Mi addormentai.
Rimasi un tempo infinito tra sonno e sogno. Continuavo a vedere le mie caviglie. Un mostro, mai visto prima, stava mordendole. Anzi peggio. Iniziava ad ingoiarmi, ma con lentezza. La sensazione era quasi piacevole, ogni tanto però, il mostruoso essere scaricava delle piccole dosi di elettricità sulle mie carni. Ero rapito da quella cosa. Non mi sarei mai più svegliato.
Salutai i miei piccoli, uno sguardo sfuggente alla foto di mia moglie. Entrai in macchina.
Temperatura interna: meno cinque gradi centigradi. Avvertii ancora un leggero mal di testa fino all’arrivo in azienda. Il posto auto, interno. Cancello automatizzato. Schiacciai il pulsante per l’apertura, nulla.
Dall’altro ingresso, grida e schiamazzi. Scesi dall’auto, mi avvicinai, nel gelo. Un cordone di polizia piantonava l’ingresso. I colleghi erano disperati. Alcuni cercavano di sfondare il cordone. Volò qualche manganellata.
Rientrai in macchina e tornai a casa. Mentre guidavo mi tornò in mente il mostro del sogno. Mi aveva già divorato, ero disoccupato.
Potrebbe continuare…
(Beh, buona giornata)
C’erano una spagnola, una svizzera e una cinese. Tre modi di vivere la Crisi
di Loretta Napoleoni – lanapoleoni.ilcannocchiale.it.
A un anno dallo scoppio della crisi, l’impatto della recessione altera il bilancio familiare e costringe le famiglie a modificare il livello di vita. Questo processo varia da paese a paese in funzione dell’impatto che la recessione ha sull’economia nazionale.
Se mettiamo a confronto tre famiglie medie: una cinese, una svizzera e una spagnola, ci rendiamo subito conto di quanto importante sia la politica economica dei governi sul bilancio familiare di fronte alla crisi economica.
Gli spagnoli si trovano nella situazione peggiore. Spagna e Irlanda sono le economie europee maggiormente colpite dalla recessione e questo perche’ negli ultimi 10 anni hanno abbracciato in toto il modello neo-liberista. Questo e’ stato l’artefice di una crescita fittizia che ha proiettato questi due paesi nella rosa di quelli maggiormente industrializzati creando la bolla immobiliare. In Spagna poi il boom del turismo di massa l’ha ulteriormente gonfiata. E’ quindi facile intuire perche’ il tasso di disoccupazione spagnolo sta per superare il 20%, una cifra da grande depressione, segue a ruota quello irlandese pari al 15%.
Anche se gli emigranti dell’area del Magreb – gente che ha lasciato la famiglia nel nord Africa e che quindi possiede una mobilita’ del lavoro molto elevata – incidono sul numero di disoccupati spagnoli, il problema dell’occupazione rimane centrale all’economia della famiglia. Gran parte dei nuovi disoccupati finiscono per essere mantenuti da quella d’origine: i piu’ giovani tornano a vivere a casa e le coppie vengono aiutate economicamente dai genitori. Questo processo impoverisce la popolazione e allo stesso tempo erode le riserve di risparmio della famiglia. Tutto cio’ porta alla caduta dei livelli di benessere. I dati della bilancia dei pagamenti spagnola ce lo confermano.
A luglio il deficit della bilancia commerciale e’ sceso a 2 mila miliardi di euro da piu’ di 7 mila appena un anno prima. Negli anni della grande crescita corrispondeva al 10% del Pil, oggi si sta velocemente riducendo al punto che entro il primo trimestre del 2010 la bilancia dovrebbe andare in pareggio. A monte c’e’ una forte contrazione delle importazioni. Se si considera che durante gli ultimi 12 mesi le esportazioni sono aumentate ci accorgiamo che la famiglia media spagnola sta riducendo drasticamente i propri consumi.
La disoccupazione riduce anche la domanda di nuovi alloggi, se ne vedono a centinaia di migliaia, tutti vuoti, nei nuovi quartieri alla periferia delle citta’ spagnole. La stagnazione del mercato immobiliare ha ripercussioni serie sul credito nazionale. La gran parte dei non performing loans NPL, i mutui non pagati, appartiene a questo settore. Si tratta di piu’ di 80 miliardi di euro, di cui circa un 70% sono stati ristrutturati e dovranno presto essere ripagati. Ancora piu’ preoccupante e’ il totale di crediti accumulato dal settore immobiliare spagnolo: 470 miliardi di euro, pari al 50% del Pil del paese. Di questi circa 320 miliardi di euro sono stati accesi per costruire immobili commerciali: uffici, negozi, cinema e centri commerciali. Se la famiglia spagnola non riprende a spendere questi mutui andranno ad aumentare i NPL delle banche e ci sara’ sempre meno liquidita’ per l’impresa e la famiglia.
In Svizzera, invece, la situazione e’ ben diversa. La recessione e’ stata meno seria di quanto ci si aspettasse al punto che il paese soffre meno della vicina Germania il suo partner commerciale piu’ importante. La contrazione delle esportazioni e la crisi finanziaria, con in testa le due maggiori banche la UBS e il Credit Suisse, hanno fiaccato l’economia. Ma la reputazione del paese, quale centro bancario internazionale, ha retto bene e le aspettative per il 2010 sono per una modesta crescita, pari allo 0.5%. E questa ripresa sara’ guidata proprio dal settore finanziario.
Molti addirittura credono che nel lungo periodo la crisi del credito sara’ positiva per la Svizzera perche’ rafforzera’ la solidita’ delle banche. I valori del NPL rispetto al totale dei prestiti sono scesi sotto l’1%, segno che il sistema e’ solido. Questi dati dovrebbero facilitare la penetrazione dei mercati esteri, condizione importantissima affinche’ il paese continui a crescere. A quanto pare la crisis del credito ha fatto crollare la fiducia nei confronti del settore bancario americano e britannico, i due principali rivali di quello Svizzero. Secondo il WEF Competitive Network, che compila una lista mondiale della competitivita’ dei settori finanziari, l’America e’ scesa a quota 108, al pari della Tanzania. La Svizzera ha retto ed si e’ stabilizzata al 44esimo posto mentre le banche inglesi sono precipitate al 126esimo.
E’ facile capire perche’ l’impatto economico della recessione sulla famiglia media svizzera e’ stato quasi nullo. Le spese non sono cambiate anche perche’ la disoccupazione rimane relativamente bassa rispetto al resto dell’Europa, 4,1% quando un anno fa’ era di 3,4%. Gli indicatori economici ci dicono che a sostenere l’economia e’ stata la domanda interna che e’ rimasta stabile, i consumi e l’investimento immobiliare che non sono crollati come in altri paesi ma si sono mantenuti a livelli medio alti. L’impatto psicologico invece c’e’ stato e ce ne accorgiamo quotidianamente. Nel paese si risparmia di piu’.
Dall’altra parte del mondo, in Cina, la crisi si e’ diventata fonte di grandi opportunita’. La famiglia media cinese oggi vive meglio che un anno o due anni fa’ perche’ ha piu’ denaro a disposizione. Il pacchetto di stimoli lanciato dal governo all’indomani del crollo della Lehman Brothers ha sostenuto la domanda interna, al punto che questa e’ riuscita a compensare la caduta di quella estera. Lo stato ha aperto linee di credito a tassi vantaggiosissimi per chi viveva in campagna e voleva acquistare beni di consumo durevoli, dalle lavatrici ai televisori al plasma. La domanda di piccole autovetture nelle campagne, ad esempio, e’ cresciuta al punto che la Cina oggi acquista piu’ macchine degli Stati Uniti. A giugno piu’ di un milione di nuove vetture hanno lasciato i concessionari, pari a un aumento del 36% rispetto all’anno precedente. E questo senza un programma di rottamazione simile a quello occidentale.
L’economia cinese si e’ contratta solo nel quarto trimestre del 2009 per poi riprendere a crescere subito dopo. Il governo ha immesso ingenti quantita’ di denaro nel circuito delle banche e le ha incoraggiate a concedere prestiti a chi ne avesse bisogno. Le prime ad attingere a questo credito sono state le piccole e medie imprese. Questa strategia e’ stata possibile perche’ la Cina negli ultimi quindici anni ha accumulato riserve monetarie ingenti che ammontano a piu’ di 2 mila miliardi di dollari, le piu’ alte al mondo. Allo stesso tempo il settore bancario e’ arrivato alla crisi con livelli di indebitamento bassissimi. I valori dei NPL sono tali da permettere alle banche di alzare la soglia del rischio, alla fine del 2009 ammonteranno a meno del 4% del Pil del paese.
La famiglia media cinese non si e’ quindi neppure resa conto della recessione che c’e’ stata solo per un brevissimo periodo di tempo. La disoccupazione, che rimane bassa, e’ aumentata nel 2007 e parte del 2008 tra i lavoratori migranti, quelli che lasciano le campagne per cercare lavoro nelle zone industriali speciali del sud del paese e in quelle a ridosso di Pechino e Shanghai. A far cadere l’occupazione non e’ stata la recessione a le imprese straniere che si sono de localizzate a seguito della nuova legislazione del lavoro che protegge maggiormente la manodopera cinese dallo sfruttamento dell’impresa. Lo stato e’ riuscito ad assorbire gran parte di questa manodopera impiegandola in lavoro pubblici di ogni tipo, dalla pulizia delle facciate dei palazzi di Shanghai alla costruzione di una nuova ed efficientissima rete ferroviaria.
Tre storie e tre realta’ diverse che ci ricordano quanto sia importante la protezione dello stato dagli abusi di ogni tipo, non solo quelli finanziari. Il mercato funziona, su questo non c’e’ dubbio, ma come tutti i meccanismi economici non e’ infallibile e quando sbaglia le conseguenze ricadono sulla societa’. Lo stato deve essere sempre pronto a proteggerci da questi cataclismi. (Beh, buona giornata).
(tratto da il Caffè-Link: http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/2009/10/22/crisi_e_famiglie.html.)
Il settimanale L’espresso del 29.ottobre 2009 scrive, a firma di F:S.:
Creativi on demand. Si definisce la “prima agenzia di nuova generazione”. Senza “spargimento di costi” e leggera nella struttura, nessuna piramide di gerarchie, ma orizzontale nei rapporti: è Consorzio Creativi, a Roma e a Milano. Una novità per dare risposta alla crisi economica che ha investito anche la pubblicità: a fronte di ogni briefing ricevuto o concordato col cliente, si forma un gruppo di lavoro, che segue tutte le fasi del progetto. Concluso il lavoro, il gruppo si scioglie, per riformarsi a una nuova richiesta (www. consorzio creativi.com).
Beh, buona giornata.
Google registra una crescita del fatturato del 27% nel terzo trimestre del 2009, segno dell’inizio della ripresa nel mercato del search. Secondo Eric Schmidt, Ceo di Google il peggio della crisi economica sia passato.
“Nonostante vi sia ancora molta incertezza sulla velocità della ripresa, crediamo che il periodo peggiore sia finito”, ha dichiarato Schmidt. Il fatturato netto derivante dal search engine si è attestato a 1,64 miliardi di dollari, rispetto all’1,29 miliardi di un anno fa. Le revenue sono di 5,94 miliardi di dollari, ovvero a +7% sullo stesso periodo del 2008.
Il search advertising è considerato un buon indicatore del sentiment generale del mercato. L’impatto degli investimenti nel search è misurabile con precisione e proprio dai dati ottenuti Google evince che le aziende stanno ora lentamente incrementando il loro spending nel search.
Dal punto di vista di Google, la migliore performance del search segnala un ritorno alle assunzioni, alle acquisizioni e agli investimenti.
Tra le categorie ad aver registrato le performance più positive nel terzo trimestre del 2009 troveremmo: le campagne pubblicitarie per le automobile e per le assicurazioni.
Ancora in flessione invece Viaggi e Finanza. La Finanza, paragonata con un il terzo trimestre del 2008 risulterebbe particolarmente positiva. Il dato si evincerebbe da una improvvisa impennata degli investimenti, forse relativa a un momento magico della comunicazione finanziaria. Ma non è affatto detto che possa essere un indicatore duraturo della ripresa. Con buona pace delle migliori intenzioni di Eric Schmidt. Beh, buona giornata.
Una scombinata combriccola di incapaci entra notte tempo all’Ikea vicino Napoli, piazza una carica davanti alla cassaforte e boom! manda a puttane tutto l’incasso del week end. Tanto rumore per nulla: hanno mandato in fumo un paio di centinai di migliaia di euro.
I giornali ci hanno scherzato su, citando il famoso film “Audace colpo dei soliti ignoti” di Nanni Loy. A me è venuto in mente un altro film, che va in loop da tempo. Un manipolo di audaci manager della pubblicità italiana da qualche anno a questa parte entra in ufficio e patatrac! perde clienti, manda a casa gente, distrugge valori economici e professionali.
I “soliti ignoti” dell’arcinoto film si accontentarono di un piatto di pasta e ceci. Questi qui sono insaziabili come locuste: triturano tutto quello che capita loro sotto i denti, lasciandosi dietro un desolante panorama di distruzione. Ma cècati! se a qualcuno viene in mente che distruggendo non si costruisce un bel niente, men che meno un’onorevole via d’uscita dalla crisi che incombe pesante come il coperchio di un tombino di ghisa sulla pubblicità e sui media.
Ma, tant’è, questo è quello che ci offre questa arida estate della pubblicità italiana. Se tutto va bene, attenzione, ho detto proprio tutto, l’obiettivo è al massimo proteggere i margini e registrare un calo minore rispetto alla media del mercato. E a culo tutto il resto! Il che è un bel paradosso. In un momento in cui i clienti, come minimo, sono sparagnini, dunque anch’essi, per proteggere i propri margini non investono in comunicazione, che cosa fanno le Agenzie?: semplice, fanno lo stesso.
Però, se tutti fanno la stessa cosa, come si crede di uscire dalla crisi? Va avanti tu che a me mi scappa di ridere? Se ognuno aspetta che sia l’altro a fare la prima mossa, stiamo davvero freschi. Sarà pure un’estate calda, ma questo modo di stare freschi ve lo potete pure tenere. Dice che da settembre ci saranno segnali di ripresa. A forza di tagliare, mi chiedo che cosa ci sarà da riprendersi. Beh, buona giornata.
L’indice di fiducia dei consumatori mondiali è salito da 77 a 82 punti secondo i risultati della “Consumer confidence survey”, la ricerca trimestrale condotta da Nielsen a fine giugno. La ricerca dice anche che è calata la percentuale dei consumatori che pensano che il proprio Paese sia in recessione: dal 77% di aprile all’attuale 71%.
In Europa è l’Italia insieme alla Gran Bretagna a segnare il maggior incremento nell’indice di fiducia che passa dai 70 punti di aprile ai 77 di giugno.
“Per quanto riguarda il nostro Paese – ha dichiarato Stefano Galli, Amministratore delegato di Nielsen Italia – il dato di giugno segna una inversione di tendenza del clima di fiducia che torna a posizionarsi sui livelli della fine del 2007”. L’incremento di 7 punti nell’indice di fiducia sarebbe anche legato ai messaggi più rassicuranti e alle decisioni prese a supporto delle famiglie e delle imprese da parte del governo nell’ultimo periodo e alla forte caduta della pressione mediatica sul tema della crisi.
“A questo riguardo i buzz online- ha detto Galli- le discussioni in rete contenti la parola ‘recessione’ sono infatti diminuiti del 35% , come dimostrano i dati Nielsen”.
Insomma, per far risalire gli indici della fiducia dei consumatori italiani bisogna prendere due piccioni con una fava. Vale a dire: la tv deve sempre parlar bene del governo, i giornali non devono mai parlar male della crisi.
Le cose vanno male lo stesso, visto che il 20% degli intervistati si dice molto preoccupato per la possibile perdita del posto di lavoro, come rilevato da Nielsen. Però almeno l’indice della fiducia risale.
Ci sarebbe da chiedersi: a che serve l’indice della fiducia, se è basata sulle mezze verità di giornali e televisioni? Oh, bella: serve proprio ai giornali e alle televisioni, che potrebbero riprendere ad accogliere la pubblicità delle aziende, convinte che se uno ha fiducia nella ripresa, riprende a spendere.
Uno potrebbe dire: ma se la tv parla bene del governo e i giornali non parlano male della crisi, non è che questo è un bel modo per manipolare la realtà? Sì certo: ma secondo una certa “scuola di pensiero” molto in voga da noi in questi mesi, è proprio questa la fava di cui ai due piccioni, cioè giornali e televisioni. O no? Beh, buona giornata.
Francia, operai in rivolta-“Facciamo saltare la fabbrica”-(fonte:repubblica.it)
PARIGI – Operai francesi in rivolta. I lavoratori della New Fabris di Chatellerault, nell’ovest della Francia, una fabbrica italiana di componenti automobilistici in fallimento, sono pronti ad un gesto estremo: se i gruppi Psa Peugeot Citroen e Renault – ex clienti dell’azienda – non verseranno 30mila euro di indennità ad ogni dipendente licenziato, faranno esplodere l’impianto. L’ultimatum scade il 31 luglio.
I 366 operai affermano di aver già posizionato delle bombole di gas collegate tra di loro in varie parti della fabbrica e di essere pronti a far saltare tutto se non si arriverà ad un accordo entro la fine del mese.
L’azienda, proprietà della veneta Zen, di Florindo Garro, da giugno è in liquidazione. Un centinaio di operai, in gran parte cinquantenni, resteranno senza lavoro e difficilmente ne troveranno un altro. Il valore dell’indennità richiesta è la stessa cifra che Renault e Psa avrebbero già versato a circa 200 dipendenti licenziati del gruppo Rencast, anche questo specializzato in componentistica auto.
“Non lasceremo che Psa e Renault aspettino agosto o settembre per recuperare i pezzi in stock e i macchinari. Se non avremo nulla noi, non avranno nulla nemmeno loro”, ha detto Guy Eyermann, responsabile sindacale. Le richieste sono state respinte dalla Psa e dalla Renault, proprietari di componenti e macchinari che si trovano all’interno della fabbrica per un valore complessivo di quasi 4 milioni di euro. “Non sta a noi sostituirci agli azionisti”, è stata la risposta della direzione di Psa Peugeot-Citroen. I rappresentanti degli operai della New Fabris, che hanno già incontrato i responsabili del gruppo Psa la settimana scorsa, saranno ricevuti giovedì dalla Renault. I lavoratori a rischio licenziamento hanno ottenuto inoltre un incontro con il ministro dell’Industria e dell’Economia Christian Estrosi il prossimo 20 luglio.
La scorsa primavera, sotto le minacce di licenziamento, centinaia di operai avevano sequestrato i dirigenti di alcune fabbriche come la Caterpillar di Grenoble (al sud), la 3M di Pithiviers (nel centro) e l’impianto Sony nelle Landes (sulla costa atlantica). Beh, buona giornata.
PERCHÉ DRAGHI HA FRUSTATO LE BANCHE
di Marco Onado-lavoce.info
Istituti di credito avversi al rischio o pessimisti sulle prospettive delle imprese italiane? Le banche sono state aiutate ma appaiono restie a svolgere il loro ruolo nei confronti del sistema produttivo in una crisi che è ancora tutta da superare. Siamo ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora può avviarsi la terza, quella della riforma.
L’intervento del Governatore Mario Draghi all’assemblea dell’Abi solleva alcuni problemi delicati, che tolgono molto smalto all’ottimismo di facciata di questi giorni sia per quanto riguarda la situazione italiana, sia per quanto riguarda lo scenario internazionale.
Sul primo fronte, c’è da rilevare che fin dalla relazione di fine maggio, Draghi ha utilizzato toni insolitamente aspri nei confronti delle banche italiane, andando al di là delle abituali esortazioni. Nelle considerazioni finali aveva ammonito contro il rischio che un eccesso di prudenza nella valutazione del rischio di credito determinasse fenomeni di “asfissia finanziaria” in una parte significativa del sistema produttivo italiano. L’8 luglio ha insistito sul tema, mettendo in evidenza che il tasso di crescita del settore privato è ormai negativo (-0,9 per cento a maggio su base annua) contro un tasso medio di crescita del 9,6 nella media dell’ultimo decennio. Una frenata che appare determinata soprattutto dai grandi gruppi e che colpisce le imprese più che le famiglie. Inoltre, anche in termini di costo, cioè di tassi di interesse, si nota “ampliamento del divario nel costo del credito tra piccole e grandi imprese, con effetti negativi per chi oggi ha maggiormente bisogno di accedere al finanziamento bancario”.
LO STRANO REGALO DELLA BCE
In questo quadro indubbiamente preoccupante, si inserisce un autentico giallo: la Bce ha deciso a giugno un ulteriore, eccezionale rifinanziamento per 442 miliardi di euro al tasso dell’1 per cento. Molti, fra cui Willem Buiter, hanno ritenuto l’operazione un autentico “regalo” al sistema bancario di Eurolandia (dell’ordine di almeno 7 miliardi); altri hanno con cinico realismo osservato che tutto serve purché il credito al settore privato riprenda. Alla bella festa organizzata a Francoforte sono infatti accorsi numerosi: ben 1121 controparti, secondo il dato comunicato da Draghi: sembra di vedere gli invitati che sgomitano al tavolo del buffet. Le banche italiane si sono invece tenute in disparte e hanno utilizzato solo il 3 per cento dei fondi. Perché? Il Governatore, deviando dal testo scritto, ha detto di non avere una risposta e se non ce l’ha lui, figuriamoci un povero commentatore esterno. Ma rimane un interrogativo inquietante: cosa sta succedendo alle banche italiane? Non hanno problemi patrimoniali, perché Draghi ce lo dice continuamente e proprio all’Abi ha annunciato i risultati, sostanzialmente favorevoli, dello stress test condotto in questi giorni. Non hanno un problema di liquidità perché ricorrono in misura largamente inferiore alle altre di Eurolandia ad operazioni straordinarie per importo e convenienza. Ma hanno anche bisogno sia di consolidare i rapporti con la parte migliore del settore produttivo, sia di aumentare i ricavi e in particolare quelli da interessi.
TROPPA PRUDENZA?
E’ ovvio che la crisi determini un aumento del rischio di credito e dunque una doverosa prudenza. In effetti, ha ricordato Draghi, nel primo trimestre 2009 gli accantonamenti per perdite su crediti dei maggiori gruppi sono più che raddoppiati, assorbendo metà del risultato di gestione. Ma delle due l’una: o le banche sono diventate eccezionalmente avverse al rischio e stanno mettendo in atto un razionamento senza precedenti. Oppure valutano in modo estremamente pessimistico la situazione prospettica delle imprese (anche perché giustamente lavorano sui dati ufficiali, cioè quelli inquinati dal lieto passatempo dell’evasione fiscale così ben praticato nel nostro paese). Nel primo caso, le misure di concertazione proposte dal Ministro del Tesoro sempre all’Assemblea dell’Abi possono risultare insufficienti, nonostante l’entusiasmo iniziale delle parti coinvolte. Nel secondo caso, bisogna almeno concludere che i “verdi germogli” della ripresa sono ancora una speranza e che il rischio, sollevato dall’Ocse, che la crisi porti una distruzione di capacità produttiva e dunque una riduzione del potenziale di crescita italiano (già molto bassa nel confronto internazionale) è tutt’altro che remoto.
MA LA CRISI NON E’ FINITA
La domanda cruciale è quindi se la crisi è davvero finita o no. Le parole di Draghi non autorizzano a rispondere affermativamente e, quello che è peggio, la relazione della Banca dei regolamenti internazionali pubblicata a fine di giugno dà una risposta sostanzialmente negativa. In sostanza, afferma l’autorevole istituzione di Basilea, la crisi è ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora puٍò avviarsi la terza, cioè quella della riforma. Tre “R” nella versione inglese: rescue, recovery, reform. La colpa del mancato accertamento dello stato di salute delle banche non è certo italiana: da ultimo sono stati i tedeschi a stendere cortine fumogene sulle loro banche, ma comunque anche sul nostro paese ricade il rischio di una situazione che il Giappone ha sperimentato per oltre un decennio; banche con bilanci zoppicanti, che sopravvivono solo per la colpevole indulgenza delle autorità nazionali: le famigerate “zombie banks”. Anzi, proprio perché il sistema produttivo italiano è oggettivamente più frammentato e stava attraversando un delicato periodo di ristrutturazione, i rischi di un’involuzione alla giapponese sono ancora più forti.
In tutto questo, c’è da rallegrarsi che siano stati approvati a L’Aquila i global legal standards, principi generalissimi che l’Ocse tradurrà in principi più stringenti, nella speranza che i singoli paesi lo traducano nelle rispettive legislazioni in modo omogeneo e completo. Ma le decisioni concrete sul sistema bancario internazionale che possono consentire di chiudere la fase della prima “R” (rescue, cioè puro salvataggio) sono ancora da venire. E la seconda “R” della ripresa, dice la Bri che non risulta ancora inquinata da cieco furore antigovernativo, è ancora lontana. (Beh, buona giornata).
(fonte: blitzquotidiano.it)
A Berlusconi non far sapere…ma la crisi bussa tre volte in un giorno solo. Alla porta del suo governo ma, quel che più importa, anche alla porta di casa nostra. Come il premier, anche ciascuno di noi preferisce tenerla fuori dell’uscio, ignorare i rintocchi, aspettare che si stufi e si stanchi di importunarci. Però la crisi non se ne va, anzi bussa, tre volte in un giorno.
La prima volta suona per chi i soldi li ha: 102 miliardi di quotazioni azionarie come si dice “in fumo” in un giorno. Miliardi che un giorno vanno e un giorno vengono, non è il caso di farne un dramma. E poi riguarda appunto chi ha azioni e chi ce l’ha più tra la gente normale? Solo i matti.
Se non fosse che le Borse sentono odore di bruciato. Dopo settimane e mesi di risalita perché annusavano la fatidica uscita dalla crisi, adesso sono giorni che si vende, si vende. Si vende perché non si crede che molte aziende, quelle che fabbricano cose e non finanza ce la facciano ad arrivare a fine anno. A leggere tra le righe delle cronache dei giornali si vede che molte chiusure per ferie quest’anno rischiano di essere chiusure e basta. Storie di piccole aziende, comunque la prima bussata è per investitori e azionisti, il più di noi può non sentirla.
La seconda bussata riguarda chi lavora a stipendio e a salario. Un po’ di più, parecchia più gente. La seconda bussata dice che in Europa la disoccupazione è arrivata al 9,5 per cento. Altissima. Traduzione: chi ha un lavoro rischia di perderlo, chi non ce l’ha un lavoro è quasi sicuro che non lo trova. Almeno fino al 2010, arrivarci al 2010.
La terza bussata è per i nostri figli e nipoti: il deficit dello Stato italiano nei primi tre mesi dell’anno ha viaggiato a quota 9,3 per cento della ricchezza prodotta. Una volta il tre per cento era il limite, il 4 segnale d’allarme. Ora quel nove e passa dice che lo Stato si indebita sempre più e pagheranno i figli e i nipoti nei prossimi anni e decenni. Tasse? Non ce ne sarà bisogno: sarà una tassa chiamata inflazione ad asciugare l’alluvione del debito.
Tre colpi alla porta in un solo giorno, uno per chi i soldi li ha, uno per chi vive di lavoro, l’altro per il futuro delle famiglie. Meglio non sentirli, accendiamo la tv. Beh, buona giornata.
Economist: “Il vero scandalo? Berlusconi che nega la crisi” di ENRICO FRANCESCHINI-Repubblica.
Il padrone di casa del G8, il summit dei grandi della terra che si tiene la settimana prossima all’Aquila, ha “tanti luridi scandali” domestici: ma il più grosso dovrebbe essere il suo rifiuto di riconoscere i problemi economici dell’Italia. Così scrive l’Economist in un ampio servizio dedicato a Silvio Berlusconi nel numero oggi in edicola. Il settimanale concentra l’attenzione su un aspetto singolare del vertice: vedendo i danni causati dal terremoto all’Aquila, i leader del G8 potrebbero pensare che anche le loro economie sono state scosse fino alle fondamenta dalla recessione globale. Ma uno di essi non lo pensa: “Il primo ministro italiano insiste che la recessione, nel suo paese, non sarà severa né prolungata come altrove”.
L’Economist osserva che, a prima vista, ciò può apparire veritiero. Il sistema bancario italiano, avendo vissuto isolato e protetto dal resto del mondo, non ha sofferto i disastri di banche americane o britanniche. E un’economia fatta di tante piccole industrie non porta la crisi in prima pagina come fa, negli Usa, il collasso di un gigante quale la General Motors. Ma l’autorevole periodico (un milione e mezzo di copie di tiratura, vendute in tutto il mondo, la maggior parte fuori dal Regno Unito, il che gli dà il titolo di primo vero giornale globale) nota i fattori negativi della nostra economia: la dipendenza dalla esportazioni, l’enorme debito pubblico, la mancanza di riforme per liberalizzare il mondo del lavoro e riformare il sistema pensionistico. L’Economist elenca le previsioni allarmistiche sul futuro dell’Italia fatte negli ultimi tempi da organismi internazionali e dalla stessa Banca d’Italia, sottolineando che Berlusconi ha reagito a questi dati arrabbiandosi, affermando che bisogna “chiudere la bocca a chi parla di crisi”, e suggerendo alle aziende di non fare pubblicità sui giornali che spargono pessimismo.
Conclude il settimanale: “Avendo già incrinato la propria credibilità con la sua vita privata, rifiutando di mantenere l’impegno di spiegare in parlamento la sua relazione con un’aspirante modella 18enne, e ritorvandosi ora a dover rispondere a un mucchio di storie su call-girl intrattenute nella sua residenza di Roma, il premier non può permettere che le sue affermazioni sulla salute dell’economia siano contraddette da prove lampanti davanti agli occhi e alle orecchie degli elettori”.
Di Berlusconi si occupa anche l’americano Time. Ospitando il G8 all’Aquila, il premier italiano sperava di attirare attenzioni positive su di sé e sul suo paese, scrive il settimanale, ma invece “sono le storie sulle feste del premier che catturano l’immaginazione”. Time ricostruisce i vari scandali da Noemi a Patrizia D’Addario, riferendo dell’inchiesta dei pm pugliesi e notando che Berlusconi liquida tutte le polemiche come “spazzatura” e pettegolezzi. “E’ possibile, se le indagini sulla prostituzione porteranno a conclusioni imbarazzanti, che Berlusconi debba dimettersi, aprendo la strada a un governo a interim guidato da qualcuno come il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi o il ministro dell’Economia Giulio Tremonti”, afferma Time. Ma aggiunge anche che è presto per dare Berlusconi per spacciato: la politica italiana sembra sempre di più un reality show, “e Berlusconi non soltanto è il campione in carica dei reality show, ne è anche il produttore esecutivo”. (Beh, buona giornata).
(Ansa.)
NAPOLI – “La crisi che è stata globale ha spiegato la sua massima forza” e se si avrà “fiducia si potrà uscire bene”. E’ quanto sottolineato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi nel corso della conferenza stampa sul G8 a Napoli. La crisi oggi ha come fattore di debolezza la “sfiducia”, ha spiegato il premier sottolineando che metterla in primo piano, continuando a dire che non finirà mai, porta nei consumatori una paura che si riflette nelle loro abitudini agli acquisti e sui consumi”. Un meccanismo che, con effetto volano – ha aggiunto il premier – si riflette sugli ordini delle imprese con una “regressioné” e quindi sui bilanci delle imprese che calano indebolendo la loro capacità di accesso al credito. Se invece ci “sarà fiducia potremo uscire bene dalla crisì”, ha aggiunto Berlusconi. (Beh, buona giornata).
L’occupazione in Italia cala per la prima volta dopo 14 anni. Lo sottolinea l’Istat precisando che tra gennaio e marzo 2009 gli occupati sono diminuiti di 204 mila unità, pari allo 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2008. Ed è il Mezzogiorno a perdere la maggior parte dei posti: 114 mila. Su base annua, il tasso di disoccupazione è pari a quasi l’8% (il 7,9% per la precisione), il più alto dal 2005. In cifre assolute, sono quasi due milioni le persone in cerca di occupazione. Cala l’occupazione di 426 mila italiani, aumenta tra le comunità straniere: rispetto a tre mesi fa, hanno trovato lavoro altri 222 mila stranieri.
L’offerta di lavoro è stabile per gli uomini, registra una leggerissimo aumento tra le donne, lo 0,2%. Su quasi 60 milioni di italiani, lavorano in 23 milioni; arrotondando, significa che ogni 3 italiani, solo uno lavora.
I dati, spiega l’Istituto di statistica, trovano ragione nella caduta dell’occupazione autonoma delle piccole imprese, dell’occupazione a termine e nella riduzione del numero dei collaboratori. Beh, buona giornata.
Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010
Emma Marcegaglia: “Senza un cambiamento strutturale nessuna ripresa per 5 anni”
Confindustria: pil 2009 a -4,9% ripresa “faticosa” nel 2010-Repubblica
Nel 2009 il prodotto interno lordo in Italia si contrarrà del 4,9%. E’ la stima del centro studi di Confindustria che ha tagliato le precedenti previsioni che, a marzo, parlavano di un calo del 3,5%. Un quadro in cui l’occupazione continua a calare. L’economia dovrebbe tornare a crescere dello 0,7% nel 2010 ma la ripresa sarà “ripida” e l’Italia “vi si inerpicherà faticosamente”. Quanto al debito pubblico, crescerà dal 105,7% del pil nel 2008 al 114,7% nel 2009, fino a toccare nel 2010 il 117,5%. Sulla questione interviene anche il presidente Emma Marcegaglia: “Ci sono timidi segnali di ripresa, ma davanti abbiamo mesi molto difficili ed è assolutamente necessario varare le riforme strutturali altrimenti usciremo dalla crisi con un tasso di crescita molto basso e ci vorranno 5 anni per tornare ai livelli di prima”.
Il calo dei consumi. Nel 2009 i consumi si ridurranno dell’1,9%, accelerando il calo dello 0,9% che si è avuto nel 2008. Torneranno a crescere nel 2010 ( 0,7%) grazie a “una maggiore fiducia sostenuta dalla ripresa economica e a un reddito disponibile reale in aumento dell’1,2% dopo la riduzione dell’1,6% subita nel 2009”.
L’uscita dalla crisi. “Indicare ‘exit strategy’ dalla crisi con troppo anticipo – avverte Confindustria – rischia di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato di stabilizzazione delle aspettative”.
Allarme occupazione. Nei due anni tra il primo trimestre del 2008 e il primo del 2010, la recessione causerà la perdita di circa un milione di unità di lavoro (tra posti di lavoro e cassa integrazione). Il Centro studi di Confindustria sottolinea che il tasso di disoccupazione arriverà quest’anno all’8,6% e nel 2010 al 9,3%, “livello che non veniva più toccato dal 2000”.
Le mancate riforme. Secondo Confindustria, “lo stato sociale è insostenibile”. Nel presentare i dati, il direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, ha rimarcato che “le mancate riforme hanno costi enormi e al contempo offrono gigantesche opportunità: facendo leva su infrastrutture, istruzione, pubblica amministrazione e liberalizzazioni il pil italiano può guadagnare almeno il 30% nei prossimi 20 anni”.
Le “cura” Marcegaglia. Il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ribadisce la necessità di agire subito per permettere al paese di tornare a crescere. Gli ambiti da riformare indicati dal numero uno di viale dell’Astronomia sono l’istruzione, le infrastrutture e la giustizia. Ma anche il sistema finanziario necessita di una rivoluzione, dando attuazione al Sace, il fondo di garanzia e la cassa depositi e prestiti, e spingendo sulle liberalizzazioni: “Ci sono ancora interi settori dove il mercato non ha spazio sufficiente e c’è tutt’ora una concorrenza sleale”
Le reazioni. Dure le critiche dell’opposizione. “Le stime di Confindustria smentiscono le bufale propinate dal governo Berlusconi e confermano ciò che il partito democratico ripete da mesi: sulla crisi l’esecutivo non ha mai avuto il polso della situazione”. Lo afferma Sergio D’Antoni, responsabile per il Mezzogiorno del Pd e vicepresidente della commissione Finanze della Camera. “Con l’alibi del debito pubblico, il ministro Giulio Tremonti non ha fatto assolutamente nulla per sciogliere i nodi strutturali che impediscono la ripresa del paese”. Interventi a sostegno delle zone deboli, infrastrutture, aiuti alle piccole e medie imprese, più tutela ai precari. Queste, per D’Antoni, “le priorità disattese dal governo”. (Beh, buona giornata).
(fonte: Ansa).
La teoria del complotto del presidente Berlusconi è una “scorciatoia” che serve a coprire la “debolezza” dell’azione di Governo. Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, interpellato su questo punto in un collegamento del Tg3 con ‘In mezz’orà dove é ospite.
“Non c’é nessun complotto, naturalmente”, ha detto D’Alema. “C’é la condizione del presidente del Consiglio che unisce a una notevole arroganza e violenza verbale una grande debolezza; una debolezza sostanziale, una incapacità di governare il Paese e anche una grande debolezza di immagine, soprattutto sulla scena internazionale”. “E’ chiaro – conclude – che quando ci si trova in una condizione così debole, la tentazione di dare la colpa a qualche oscuro complotto diventa la scorciatoia anziché fare i conti con le ragioni di questa debolezza che sono nella fragilità e nei comportamenti del presidente del Consiglio”.
“Nel centrodestra c’é un malessere evidente” e a comandare è “la guardia pretoriana, che è Bossi”, ha detto ancora D’Alema ed ha aggiunto che d’altra parte si tratta di una condizione tipica da fine impero “quando le guardie pretoriane hanno sempre più potere dei senatori”.
OPPOSIZIONE SIA PRONTA IN CASO SCOSSE – “La vicenda italiana portà avere delle scosse, dei momenti di conflitto, di difficoltà il che richiede una opposizione in grado di assumersi le sua responsabilità con forza e nella pienezza delle sue funzioni e spero che saremo presto in grado di farlo”, ha sottolineato l’ex presidente del Consiglio. (Beh, buona giornata).
Con papi si vola di Gianluca Di Feo-l’Espresso
Il premier. I ministri. E poi amici ballerine. Con il governo Berlusconi l’uso degli aerei blu è quasi triplicato. Con un costo di 60 milioni
Magari fosse solo Apicella. Magari fosse solo il menestrello di corte ad accomodarsi sui jet presidenziali per volare verso la reggia di villa Certosa. Ormai le scalette per salire sugli aerei di Stato sono diventate larghissime: a bordo può salire chiunque, ministri e sottosegretari, assistenti e portavoce, parenti e amiche. Clemente Mastella ha fatto scuola: il suo viaggio al Gran Premio con figlio e conoscenti è diventato un modello. E così Silvio Berlusconi nello scorso agosto ha cancellato l’austerity aeronautica introdotta dal governo Prodi dopo lo scandalo dell’Airbus di Monza più affollato della metro nell’ora di punta. I risultati si sono visti subito. I decolli dei velivoli del 31mo stormo, che da Roma Ciampino garantisce il trasporto delle autorità, sono aumentati a velocità supersonica: raddoppiati o addirittura triplicati. Il confronto tra lo stesso periodo dell’anno è eloquente.
I dati ottenuti da ‘L’espresso’ mostrano che a gennaio 2008 c’erano state 153 ore di volo per accompagnare in giro ministri e presidenti, un anno dopo erano diventate 370. A febbraio si passa da 176 a 468; a marzo da 183 a 510; ad aprile da 124 a 471. In questo mese di maggio appena concluso, denso di impegni elettorali sparsi per la penisola, ci sono state centinaia di missioni vip con Airbus e Falcon impegnati fino ai limiti tecnici. Al ministero della Difesa è scattato l’allarme rosso: se si dovesse continuare con questo ritmo, a fine 2009 gli Stakanov del jet presidenziale potrebbero arrivare a bruciare oltre 5600 ore a spasso tra le nuvole.
Più di 15 ore al giorno, un primato che potrebbe battere i consumi mostruosi del 2005 quando l’overdose di aerei blu spinse Gianni Letta a rimproverare tutto il governo. Parole volate via nel vento.
Oggi ministri e sottosegretari sgomitano per spaparanzarsi sulle poltrone in pelle di Falcon e Airbus dagli arredi extralusso. La flotta del 31mo stormo non basta più: i 10 jet, nonostante offrano 216 comodissimi posti, non riescono a soddisfare le brame aviatorie del governo Berlusconi. Ed ecco che tornano in pista le Ferrari dei cieli, i Piaggio 180 di Pratica di Mare, bimotori executive che dovrebbero servire per collegare le basi dell’Aeronautica. Prodi ne aveva vietato l’uso per i voli di Stato: nei primi mesi del 2008 mai un decollo. Ma il salottino volante fa gola a tanti politici di seconda fila, che in soli quattro mesi quest’anno si sono accaparrati 240 ore di volo a sbafo.
E poi c’è la fantomatica Cai, non la compagine che ha rilevato Alitalia ma la leggendaria squadriglia dei servizi segreti. Che con il pretesto della sicurezza svolge il 90 per cento dell’attività come taxi per ministro. Anche lì Prodi e il suo sottosegretario Enrico Micheli erano stati drastici: ‘Basta gite di governo’. E per concretizzare l’ordine si era deciso di mettere in vendita due dei cinque Falcon della Cai.
Adesso invece di ridurre la flotta non si parla più, perché l’hangar degli 007 pullula di auto blu che trasbordano politici e accompagnatori al riparo da sguardi curiosi. Si stima che dall’insediamento del Cavaliere la Cai abbia già regalato 1800 ore di volo al governo, un altro record a carico dei contribuenti. Il bilancio finale dei costi è altissimo. Solo per i dieci jet del 31mo stormo il 2008 ha significato una spesa di quasi 40 milioni di euro, su cui ha pesato il consumo di carburante a prezzi stratosferici nel semestre berlusconiano: con i vincoli prodiani si contava di pagarne circa la metà. È come se in 180 giorni fossero stati bruciati 25-30 milioni di euro: in alcune giornate fino a 160 mila euro buttati via per i velocissimi taxi dei politici vincenti. E se si aggiungono gli esborsi top secret per i passaggi a bordo degli 007 con le ali della Cai e delle Ferrari dei cieli si rischia di arrivare a una bolletta annuale salatissima: un conto da oltre 60 milioni di euro. Alla faccia della crisi e dei sacrifici per gli italiani. Sono lontani i tempi in cui l’austerity prodiana aveva fatto ipotizzare un taglio netto anche al 31mo stormo: via un quinto dello schieramento, mettendo all’asta un paio di Falcon e forse un Airbus. Un’illusione scomparsa dagli schermi radar.
Di riduzione della linea di volo proprio non se ne parla, l’attività per il trasporto di Stato è intensa’, ha dichiarato il generale Daniele Tei, comandante in capo dell’Aeronautica alla rivista specializzata Rid. E ha poi esternato il malumore dell’Arma azzurra: ‘Tra l’altro siamo sempre a credito per le attività che conduciamo e che le altre amministrazioni ci rimborsano con enorme ritardo (e non sempre)’. Infatti la forza armata deve anticipare i fondi per i voli extra tagliando altre attività: nel 2005 per pagare le missioni dei politici rinunciò alla più importante esercitazione internazionale. Nel solo 2008 lo sforamento berlusconiano ha comportato quasi venti milioni di sacrifici: meno addestramento, meno manutenzione. E mentre la crisi impone di azzerare l’attività di intere squadriglie, i piloti degli aerei blu non si fermano mai: ‘Nel 2008 hanno volato l’11 per cento delle ore dell’intera forza armata’, sottolinea il generale Tei. Pensate: l’Aeronautica ha quasi 400 velivoli, ma da soli i dieci jet presidenziali hanno macinato il record di decolli, mentre gli equipaggi dei caccia restano a terra con i serbatoi vuoti. Ovviamente il frequent flyer numero uno è Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ama le comodità dell’Airbus 319 CJ da 50 posti: la sala riunioni, i lettini, gli schermi al plasma. Quando nel 2006 lasciò Palazzo Chigi, corse a comprarne uno tutto per sé. Appena tornato al potere, lo ha rivenduto: adesso può usare a piacimento l’ammiraglia di Stato. Le rotte favorite? Quelle per Olbia e Linate, a cui nell’ultimo anno si è aggiunta Napoli tra summit per i rifiuti e feste di compleanno. Segue Ignazio La Russa, che viene segnalato spesso con significative presenze femminili imbarcate al seguito. Il ministro della Difesa è maestro nelle trasferte che abbinano impegni ufficiali e comizi di partito. Il 24 maggio è atterrato a Grosseto per una breve visita alla base militare e successivo incontro di sostegno al candidato Pdl alla Provincia, per replicare l’accoppiata poche ore più tardi a Pisa.
Ma la passione ha contagiato tutto l’esecutivo. Un uso reso lecito dalle regole berlusconiane, che spesso ha il sapore dello spreco. Il ministro Stefania Prestigiacomo è finita fuori pista al rientro da un vertice ambientale a Varsavia, città ben collegata a Roma: un volo di linea avrebbe fatto risparmiare oltre 25 mila euro alla collettività. Maria Vittoria Brambilla a settembre era stata sorpresa su un Falcon di Stato tra Roma e Milano. La replica: ‘Non c’era altro modo per raggiungere il forum europeo del turismo’. Raffaele Fitto spesso torna in Puglia con il jet blu mentre i leghisti non disdegnano un passaggio ‘per questioni di sicurezza’ sulla squadriglia degli 007. Grande consumatore di aerei di Stato è il presidente del Senato Renato Schifani, che lo usa per tornare a Palermo nel weekend: un privilegio riconosciuto al suo rango istituzionale.
La scorsa settimana un Airbus lo ha portato a Mosca per una visita ufficiale, lo ha scaricato ed è tornato a Ciampino. Dopo 48 ore il jet è tornato in Russia per riportare a casa il presidente Schifani ma un’avaria lo ha costretto ad un atterraggio d’emergenza. Secondo le agenzie, l’Airbus di Stato era decollato alle 16.30: gli orari indicano un aereo Alitalia per Roma in partenza solo 60 minuti dopo. La missione del grande bireattore è costata quasi 100 mila euro, con Alitalia Schifani e il suo seguito ne avrebbero spesi circa 5 mila: in un momento di crisi, non sarebbe meglio attendere un’ora e risparmiare? In fondo Alitalia è stata soccorsa con denaro pubblico proprio perché compagnia di bandiera, peccato che ai nostri ministri piacciano più i Falcon: niente check in, niente code, si sale e si vola via. Nel blu dipinto di blu. (Beh, buona giornata).
Tra Treviso e Padova, le storie di artigiani e manager travolti dall’incubo della crisi. E che dinanzi alle dure conseguenze hanno preferito togliersi la vita.Terzo imprenditore suicida in Veneto.Ossessionati dal dover licenziare
TREVISO – Temevano di dover licenziare. Per questo si sono uccisi. Sotto il treno, con una corda al collo o un colpo di pistola al cuore: hanno voluto cancellare l’incubo che non sopportavano più. In tre, da ottobre a oggi, tra Treviso e Padova, piccoli imprenditori, artigiani o manager. Dinanzi alll’imperativo di dover cacciare i loro dipendenti travolti dalla crisi economica, hanno preferito scomparire piuttosto che affrontare quello che ai loro occhi era un vero e proprio disonore, un tradimento della fiducia che le maestranze gli avevano concesso.
L’ultima vittima nel Veneto, è un dirigente d’azienda di 43 anni di Villorba, in provincia di Treviso. Stamane si è gettato sotto un treno in viaggio sulla linea Venezia-Bassano del Grappa, a Castello di Godego. A giorni avrebbe dovuto convocare i sindacati per annunciare la cassa integrazione. Non ha lasciato scritti per spiegare il suo gesto il manager, ma chi lo conosce bene non ha dubbi: lo ha ucciso lo stress di queste settimane, le trattative infinite con i rappresentanti sindacali, l’angoscia che la crisi avrebbe annullato l’azienda in cui lavorava.
Come è capitato ieri al titolare di una falegnameria a Lutrano, un paese non lontano da Treviso.
Cinquantotto anni, titolare di un’azienda di famiglia che porta il nome di suo padre e dei suoi fratelli, Walter Ongaro si è impiccato in un capannone della ditta. Era ossessionato dall’idea che la crisi che aveva colpito il settore, lo costringesse a dover lasciare a casa alcuni dei suoi otto dipendenti. Da gennaio gli ordini erano diminuiti e Walter aveva perso il sonno e l’angoscia di non avere alternative ai licenziamenti, lo ha spinto al suicidio.
La depressione per la crisi economica aveva gettato nel baratro anche un altro imprenditore padovano di 60 anni morto il 13 ottobre scorso con un colpo di pistola al petto. Corrado Ossana era preoccupato che qualcuno, con cui aveva contratto debiti, potesse far del male ai suoi figli. Vedovo da tempo, iscritto all’albo dei geometri, era riuscito a costruire un’attività affermata. Ma la crisi di questi mesi aveva peggiorato i suoi affari e dopo una domenica pomeriggio trascorsa chino sui conti che non riusciva più a far quadrare, ha puntato la canna della sua Smith&Wesson calibro 40 contro il cuore, e ha fatto fuoco. (Beh, buona giornata).