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Allora?

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La pizza a mille dollari.

Un nuovo ristorante di New York, Nino’s a Manhattan, ha inserito nel menù la “Pizza lussuosa Bellissima”, condita con sei tipi di caviale, aragosta, erba cipollina, panna acida e salsa wasabi: prezzo, mille dollari.

Il proprietario, Nino Selimaj, assicura che è la pizza più cara al mondo e ne va fiero. “E’ qualcosa di speciale”, ha raccontato in un’intervista al ‘New York Daily News’, “E’ una pizza per persone amanti del lusso.”

Contemporaneamente, verso le 21,30 dello stesso giorno, quattro persone sono morte in una sparatoria nel cuore di Manhattan.

Si tratta di due ausiliari della polizia, un barista e un uomo armato che ha aperto il fuoco, provocando la sparatoria. Tutto è cominciato quando l’uomo armato di pistola è entrato in una pizzeria del Greenwich Village. L’uomo ha aperto il fuoco e ucciso il barista che si trovava dietro il bancone della pizzeria. I due ausiliari, che erano disarmati ma vestiti con una divisa del tutto simile a quella degli agenti regolari, hanno inseguito l’uomo in strada e lì è cominciato uno scontro a fuoco in cui tutti e tre sono rimasti uccisi.

L’uomo ha infatti ucciso i due ausiliari, ma poco dopo sono intervenuti altri poliziotti, che lo hanno ucciso dopo un inseguimento.

Non si conosce la causa che ha portato l’uomo a sparare al barista della pizzeria. Che non avesse 1000 dollari per una “Pizza lussuosa bellissima”? Beh, buona giornata.

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Una legge cancella i ”figli di mignotta”.

I figli sono figli. Lo stabilisce in maniera definitiva il disegno di legge recante modifiche in materia di filiazione approvato dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento, composto di tre articoli, si propone di eliminare definitivamente dall’ordinamento ogni traccia, anche lessicale, di ingiustificata difformità di trattamento tra figli nati nel matrimonio e quelli nati fuori dal matrimonio.

Secondo quanto stabilito dall’art. 30 della Costituzione, il ddl elimina anche le residue differenze legate a una visione, ormai da tempo superata, di conservazione del patrimonio familiare che si trovano nel regime delle successioni. La nuova legge riforma anche l’istituto della parentela riconoscendo il legame di parentela tra il figlio riconosciuto nato al di fuori del matrimonio e i parenti del genitore. Si prevede infine come “necessario e doveroso” l’ascolto del minore di tutte le questioni e i procedimenti che lo riguardano.

Finalmente in Italia tutti i figli saranno uguali. Lo ha detto il ministro della famiglia Rosy Bindi: ”Con la delega viene introdotto un unico stato di figlio superando – ha spiegato il ministro – ogni traccia di discriminazione tra figli nati dentro e fuori il matrimonio. Con questo provvedimento – ha aggiunto – diamo ai figli una famiglia perché fino ad oggi esisteva soltanto un rapporto di filiazione tra figlio naturale e genitore che lo ha riconosciuto, ma nessun rapporto con nonni, zii, fratelli e cugini”.

Il ministro Bindi ha anche sottolineato che un’altra conseguenza importante del provvedimento riguarda il capitolo ”successioni”. Anche il figlio nato fuori dal matrimonio avrà diritto di partecipare all’eredità. ”Un altro aspetto non meno importante – ha detto ancora il ministro – è l’interpretazione della parola “potestà” che viene intesa nel senso di una assunzione di responsabilità educativa dei genitori nei confronti dei figli”.

Nel giorno in cui Benedetto XII lancia una nuova offensiva contro lo stato laico, emettendo una specie di “fatwa” che impone ai cattolici (medici, farmacisti, infermieri e giudici e, dulcis in fundo ai politici) l’obiezione di coscienza sulla contraccezione, il controllo delle nascite e il diritto di non avere una maternità indesiderata, e sulla pillola e sul preservativo, un ministro della Repubblica, che non nasconde la sua fede religiosa fa qualcosa di concreto, e non ideologico, una vera obiezione di coscienza per la famiglia e per i figli nati da ogni tipo di relazione affettiva.

Si vede che Rosy Bindi vive nel Terzo Millennio, il Papa è invece nostalgico dell’Anno Mille. Beh, buona giornata.

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Non cambiate canale, rimanete con noi.

“Ciò che in questi giorni sta venendo fuori, da alcune indagini giudiziarie, esigerebbe ad esempio pronti e radicali interventi su certi programmi, certi contenuti e certi personaggi.”

Lo dice Sandro Curzi, su Off, giornale dello spettacolo. E aggiunge: “Ma lo stato di precarietà in cui si sentono oggi le direzioni di rete non consente loro di effettuare in corsa tali impegnativi interventi – assumendosi le responsabilità di scelte ed eventuali omissioni – né tanto meno di varare un serio programma a tempo medio-lungo di lavoro e di innovazioni.”

All’Ansa, Antonio Marano, ha detto “Il clima d’incertezza sulle nomine, sul cambio di rete non ha fatto male solo a me ma alla rete e quindi all’azienda’. Il direttore di Raidue si sfoga: “Un minimo di stabilità, non ai dirigenti che devono avere la flessibilità a spostarsi, ma alla struttura della rete ci deve essere. Questa situazione di stallo ha dato ulteriore difficoltà ”. Per poi aggiungere:”Gli artisti ti danno fiducia fino ad un certo punto – aggiunge – perché pensano che potresti andare via da un momento all’altro”.

Il continuo tiro al piccione all’interno del consiglio di amministrazione sta molto evidentemente ostacolando la presenza della Rai nel mercato televisivo italiano.

Curzi e Marano non militano certo dalla stessa parte del problema, ma dicono, quasi paradossalmente la stessa cosa: così facendo la Rai è la palo. E questo non giova, se non addirittura danneggia gravemente il suo ruolo nella concorrenza.

E’ una situazione fuori da ogni logica. Ve lo immaginereste il consiglio di amministrazione di una grande compagnia che lavora contro gli azionisti, contro gli operatori dell’azienda e contro gli acquirenti dei prodotti? Eppure è quello che sta succedendo in Rai in questi mesi. Secondo l’Upa, l’associazione degli investitori pubblicitari, il mercato italiano della pubblicità in tv nel 2007 crescerà solo del 1% .

Se la Rai continua a sbandare in questo modo, quanto sarà in grado di raccogliere di quello striminzito 1%? Si vuole che Mediaset faccia la parte del leone, proprio mentre sta cercando di fare nuove acquisizioni (si parla e si smentisce di Telecom o Fastweb o Endemol)?

Curzi dice che porrà la questione di un deciso cambio di passo del consiglio e della direzione generale, in modo perentorio alla prossima riunione del consiglio di amministrazione della Rai. Bene. Speriamo che l’azionista, cioè il Governo nel frattempo non cambi distrattamente canale. Beh, buona giornata.

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Sèguèla, il rompi “balle”.

Mentre si sta dipanando la matassa dell’ultima inchiesta cosiddetta Valletopoli, quell’intreccio tra la tv dei gossip, la stampa dei gossip, che tanti personaggi ha dato anche alla pubblicità italiana, Jacques Sèguèla, grande vecchio della pub francese spara a zero contro la televisione italiana. Sa quello che dice, mica racconta balle.

«I cinque anni di governo Berlusconi hanno ucciso ogni differenza tra Rai e Mediaset». E ancora: «Il voyeurismo ha preso il posto del quoziente di intelligenza, l’inno italiano è diventata la bandana di Berlusconi» e «Michelangelo e Pavese hanno di che rivoltarsi nella tomba».
Jacques Sèguèla dice quello che pensiamo tutti, ma che facciamo fatica a dire, immersi ormai in una fetida coltre di mediazioni politiche: omologazione, appiattimento, volgarità e quindi perdita di qualità, sono per Seguela i mali cronici della tv nostrana.

Se da un lato specchio dell’omologazione tra tv pubblica e privata sono i contenitori domenicali («’Domenica in’ e ‘Buona domenica’ – ha detto – sono l’unica celebrazione del silicone made in Italy, lo stesso coronamento del vuoto, la stessa adorazione del vitello d’oro della mediocrità e della volgarità») dall’altro il più noto della pubblicità francese tratteggia un quadro altrettanto fosco dell’informazione tv: «Il giornalismo è diventato spettacolo di massa in cui l’effetto sostituisce il fatto e il culto del dramma uccide la riflessione. L’entertainment non è show, ma ‘peep show’, il voyeurismo ha preso il posto del quoziente di intelligenza, l’inno italiano è diventata la bandana di Berlusconi così come in Francia la marsigliese è diventata un rap. In questo modo la res pubblica diventa res diabolica. E Michelangelo e Pavese hanno di che rivoltarsi nella tomba».

Sèguèla non sente il bisogno di nascondersi dietro un dito, e dice quello che vede e pensa, anche della nostra pubblicità: «È una vergogna che i film siano continuamente interrotti dagli spot pubblicitari – dice e ricorda che il 18% di tutto il tempo televisivo è tempo pubblicitario – Troppa pubblicità uccide la pubblicità, è come i saldi che rappresentano il killer del commercio».

Apriti cielo. Siccome in Italia gli scandali non sono fatti, ma opinioni, ecco le opinioni degli “addetti ai lavori”.
In primis Giancarlo Leone, vicedirettore generale della Rai: «Non condivido affatto la sostanziale omologazione fra servizio pubblico e televisione commerciale. Il servizio pubblico ha una sua specificità centrata sull’informazione, una informazione che in tutta Europa non è capillare e frequente come la nostra». Balle ipocrite.

«Raccolgo la provocazione di Sèguèla come spinta a migliorarci, ma prima di buttar via tutto ci penserei su» dice Gina Nieri, consigliere di amministrazione Mediaset, convinta che «la nostra televisione sia tra le migliori al mondo. Abbiamo i migliori format che propongono anche le principali tv europee e Usa, un livello di informazione altissimo. I contenitori domenicali? Credo che ci siano margini di miglioramento, ma non è tutto volgare». Ancora balle.

Infine Renzo Lusetti, responsabile del Dipartimento informazione della Margherita, che ospitava il convegno cui è stato ospite Sèquèla, difende gli spot pubblicitari e auspica che proprio la pubblicità possa «diventare un baluardo per il pubblico, un punto di riferimento in un panorama che va mutando e nel quale la pubblicità diventa sempre di più specchio dei tempi». Balle spaziali.

Caro Jacques, per una televisione vera e una pubblicità buona, ce n’est qu’un début, continuons le combat. Beh, buona giornata.

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L’amaro Giuliani.

Forse un pubblico ministero dovrà cercare le prove, con l’aiuto della polizia giudiziaria, un giudice per le indagini preliminari dovrà istruire il processo, una corte d’assise, quella con i giudici popolari potrà finalmente giudicare i responsabili della morte del giovane Carlo Giuliani.

Non lo ha deciso la magistratura italiana. “Evviva l’Europa. Andremo al processo”. Lo ha detto il padre di Carlo Giuliani dopo la decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Il tribunale ha accolto il ricorso della famiglia perché sia riaperto il caso sulla morte del figlio avvenuta durante gli scontri del G8.

E’ una buona notizia per il senso di giustizia che si aspettano i cittadini della Repubblica italiana. Allo stesso tempo è una pessima notizia per la nostra giustizia, perché la decisione è stata coartata dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo. Essa suona come un rimprovero alla legalità del nostro Paese. Un rimprovero, bisogna accettarlo, molto ben meritato.

Una volta Pasolini scrisse che sapeva chi aveva fatto le stragi, i complotti, i tentati golpe, ma semplicemente non aveva le prove. Perché le prove, in uno stato di diritto le deve cercare e dimostrare nelle aule di giustizia uno dei poteri dello Stato, il potere giudiziario.

Noi conosciamo la verità politica dei lunghi e sofferti anni della nostra democrazia, anni scanditi dall’intolleranza contro il dissenso e la protesta di piazza. E’un elenco lungo, molto lungo di misfatti impuniti, di morti ammazzati, di bombe esplose.

La ragion di stato voleva fosse un prezzo da pagare, c’era la Cortina di Ferro, c’era il Patto Atlantico, contrapposto al Patto di Varsavia. C’era la Guerra Fredda, ma il sangue versato sulle nostre strade e piazze, stazioni ferroviarie e treni, campi e officine, scuole e università era ancora caldo, quando le inchieste furono repentinamente archiviate, se non mai svolte.

Ancora una volta, dopo i fatti del G8 si sono inventate bugie che potessero attutire i colpi di manganello e di pistola, il fragore delle vetrine infrante, delle auto date alle fiamme. A piazza Alimonia Carlo Giuliani fu sparato e poi spappolato da una camionetta. Ma la Guerra Fredda era finita, non c’era nessuna giustificazione “storicamente plausibile” perché le forze dell’ordine fossero così ferocemente scatenate contro la folla manifestante.

Dopo il pronunciamento della Corte Europea per i diritti dell’uomo, Rifondazione comunista chiede una commissione di inchiesta. “Credo ci sia da fare chiarezza, senza criminalizzare nessuno, ma occorre stabilire chi ha voluto che a Genova finisse in quel modo”, ha detto il ministro Ferrero.

A noi, però, rimane il sapore amaro di un Paese che ha voluto con tutte le sue forze (di governo, di polizia e della giustizia) tornare indietro agli anni bui della Repubblica. L’amaro della vicenda di Carlo Giuliani, appunto. Beh, buona giornata.

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Da Megachip.info. Beh, buona giornata.

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Dichiarazioni stupefacenti.

Il ministro degli Interni propone l’antidoping agli studenti. I ragazzi potrebbero dover sottoporsi alle analisi “ad, esempio, dopo le interrogazioni”. Forse in caso di prestazioni “sospette”. E se lo studente dovesse risultare positivo, spiega Amato, dovrebbe scontarne le conseguenze. “Perderebbe punti. E chiaramente l’interrogazione non sarebbe valida”.

Questo lo stupefacente ragionamento del ministro: “Noi oggi facciamo l’antidoping solo agli atleti. Perché non prevedere un uso più ampio di questo controllo e renderlo più sistematico, ad esempio all’uscita delle discoteche e a scuola?”.
Al convegno dell’Anci (l’associazione dei comuni) della Toscana sulla sicurezza, il ministro degli Interni Giuliano Amato lancia una nuova idea per combattere la droga: effettuare anche sugli studenti i controlli sull’assunzione di stupefacenti. Controlli finora riservati, appunto, esclusivamente agli atleti in gara. E’ una proposta che farà discutere, come sottolinea lo stesso ministro. “Bisogna pensare anche a cose del genere, anche se può apparire una cosa un po’ idiota”.

Una provocazione, ammette subito dopo. “Cose del genere, però, meritano di essere prese in considerazione. E poi, magari – spiega Amato – sostituite da altre”.

Ci pare molto “fumo” e niente arrosto. Un trip ultraproibizionista che porta solo al ridicolo. Su un problema serio.

Di questo passo, dovremmo fare l’antidoping ad ogni consiglio dei ministri, consiglio comunale, ad ogni riunione di partito, ai ogni convention aziendale, a ogni consiglio di amministrazione. E perché no, ad ogni esternazione nei talk- show. Ad ogni sentenza di tribunale, a ogni celebrazione di un matrimonio, ad ogni comizio, ad ogni cameriere quando ti presenta il conto, ad ogni barbiere (qui un emendamento dovrebbe prevedere l’antidoping prima del rasoio).

Cara, ti amo. Antidoping. Mamma ho fame. Antidoping. Vorrei un caffè. Faccia lo scontrino alla cassa e l’antidoping nel cesso.

Il ministro dice di essere stato molto impressionato da una inchiesta della tv: “Io spero che milioni di italiani – ha infatti concluso, commentando le immagini trasmesse dal TG1 l’altra sera – si siano raggelati davanti al servizio del telegiornale di Gianni Riotta.”

Scusi, signor ministro: quando ha visto il servizio delle Jene davanti al Parlamento, che facevano la prova “sudo-coca” che ha pensato? Ah, ci scusi: quello lo hanno censurato. A proposito, questo fatto non le è sembrato stupefacente? Beh, buona giornata.

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Ora o “mais” più.

La cosa peggiore che Al Gore poteva fare a Bush, che gli scippò la Casa Bianca nel 2000, grazie a trucchi elettorali escogitati dal fratellino Jeb, governatore della Florida, è dire la verità sul futuro energetico del pianeta.

E’ una “scomoda verità”, che rende ridicoli, nonostante la ferocia delle guerre fin qui scatenate, i piani militari della Casa Bianca, alla disperata ricerca del possesso diretto dei pozzi di petrolio.

Al Gore ha detto che biocarburanti rappresentano l’unica soluzione possibile per ridurre le emissioni causate dalle tonnellate di carburanti utilizzate in tutto il mondo per i mezzi di trasporto.

Non lo ha mandato a dire attraverso il film, “Una scomoda verità”, con il quale ha vinto recentemente due Oscar. Lo ha detto di persona, intervenendo a Bruxelles ai lavori del ‘World Biofuels Markets’.

Parlando a braccio ad una platea da cui erano rigorosamente esclusi gli organi di stampa, l’ ex vicepresidente Usa dell’Amministrazione Clinton ha impressionato con le sue argomentazioni.

“Ci ha fatto abbastanza paura” ha detto uno dei presenti all’Ansa “diventa imperativo agire entro i prossimi cinque anni”. Seconda Al Gore, allo stato attuale c’é un 90%, 99% di possibilità che le emissioni di CO2 continuino ad aumentare. “Siamo come un malato a cui un medico diagnostica la possibilità di avere nel 90 %, 99% dei casi, un infarto”, ha detto. Al Gore si è spinto a sostenere che il problema assume una particolare gravità perché, se un tempo le variazioni avvenivano nell’arco di una generazione, ora si producono nel giro di mezza generazione, e questo ridotto spazio temporale non da molte possibilità di intervento.

I 1300 partecipanti provenienti da 54 paesi, che partecipano al ‘World Biofuels Markets’, convocati per sviscerare i più svariati aspetti legati al mondo dei biocarburanti (da una visione del mercato globale, allo sviluppo dell’industria, alle opportunità finanziarie e di investimento, ad aspetti squisitamente tecnici) sembra siano riamasti sotto shock.

E’ uno stato d’animo assolutamente condivisibile. Le ultime guerre scatenate dai Bush, che col petrolio hanno fatto fortuna, si stanno dimostrando sanguinose, dispendiose, sia in termini umani che finanziari.

Fanno male anche alla coscienza, e attentano alla nostra idea di libertà e giustizia, come dimostra l’emozione provocata dalla cattura del reporter Mastrogiacomo, di cui attendiamo con trepidazione notizie tranquillizzanti.

Il tutto per una maledetta una fonte di energia come il petrolio, capace di provocare un collasso al pianeta, in un arco di tempo inferiore al tempo previsto dai generali per vincere le guerre in Iraq e in Afghanistan o a quella che sta progettando il Pentagono contro l’Iran. Senza contare che ci sono due tecnici italiani dell’Eni, ancora ostaggi di una formazione militare nel Delta del Niger, che rivendica una migliore redistribuzione dei proventi dello sfruttamento del petrolio.

Solo ieri Parlamento italiano ha stanziato molti altri milioni di euro per finanziare le missioni militari nell’area geopolitica tra le più ricche di petrolio del pianeta.

Il fatto che proprio un leader statunitense sia venuto a dimostrare che tutto questo è inutile, dannoso e dannatamente molto pericoloso, fa davvero un certo effetto. Effetto serra, appunto. Beh, buona giornata.

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Siamo tutti sulla strada per Kandahar.

La cattura di Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan è un danno collaterale della scelleratezza della “guerra contro il terrorismo”.

Infatti, Mastrogiacomo non è stato rapito, ma catturato dai Talebani. E’ la differenza tra una “banda” e un “esercito”. Sotto occupazione militare da cinque anni, i Talbani hanno ancora il pieno controllo di gran parte del territorio dell’Afghanistan.

Se ne deve essere accorto anche Dick Cheney, il vice presidente degliUsa che pochi giorni fa è stato svegliato da una bomba, esplosa in una base americana a settanta chilometri da Kabul. E forse il botto lo ha fatto diventare più arrogante: i marines hanno aperto il fuoco contro la popolazione civile qualche giorno fa.

Il generale Mini, proprio sulle pagine di Repubblica, di cui Mastrogiacomo è corrispondente, il giorno stesso in cui è apparsa la notizia della sua cattura, ha detto che quella è stata una reazione dettata “dalla frustrazione” delle truppe americane che non riescono, proprio non riescono, ad aver ragione degli insorti. Non è un gioco di parole, ma un esercito non ha ragione del nemico quando ha torto.

La cattura di Mastrogiacomo dimostra che la guerra al terrorismo, invenzione propagandistica dell’Aministrazione Bush, è una battaglia persa: si pensava di fare una passeggiata in Afghanistan, che fosse il trampolino per aggredire l’Iraq e poi finalmente dare la spallata finale all’Iran. Balle: quando Bush si presentò vestito da top gun sulla portaerei sulla quale campeggiava lo striscione “mission accomplished” non voleva dire che avrebbe vinto in Iraq, ma semplicemente che aveva trascinato mezza Europa nel conflitto. Quella sì che è stata una missione compiuta.

Noi italiani siamo stati trascinati nelle guerra, anzi in due. Il governo di prima ha mentito: ci ha raccontato che si andava a fargli fare la pace, sia in Afghanistan che in Iraq.

Il governo di adesso ha difficoltà a dire che la verità di prima era una menzogna: siamo andati a fare un guerra, anzi due senza essere preparati, né nel corpo (di spedizione) né nell’anima (pacifista, non quella dei cortei, quella della Costituzione).

Uomini come Mastrogiacomo hanno corso rischi, come quelli che proprio lui sta correndo in queste ore, per cercare di raccontare come sia possibile quanto è stato possibile per le nostre missioni militari. Un lavoro complicato, pericoloso, al limite della professione, oltre che del pericolo di lasciarci la pelle: di Enzo Baldoni abbiamo ricevuto in cambio le ossa, per la liberazione di Giuliana Sgrena, abbiamo dovuto pagare il prezzo del cadavere crivellato di Callipari.

E’ giunto il momento di chiederci perché stiamo in Afghanistan, prima ancora di capire come ci siamo andati. Qui il problema non è andare via, il problema è che qualcuno ci spieghi perché ci siamo andati. Solo se qualcuno ha il coraggio di dire chiaramente il perché, troveremo il come uscirne.

Mastrogiacomo è andato lì proprio per raccontarci il perché. D’Alema e Parisi, rispettivamente ministri degli Esteri e della Difesa dovrebbe dirci chiaramente perché e smetterla di trattarci come bambini, cui non si possa dire fino in fondo tutte le verità.

Noi che vogliamo sapere perché saremo oggi alle 12,30 in piazza del Campidoglio a Roma: vogliamo Daniele Mastrogiacomo libero.

Se è vero che chi salva un uomo salva il mondo intero, chi salva un giornalista salva la libertà di stampa, cioè salva la libertà di sapere che cosa succede davvero, che è l’unica strada per sapere tutto quello che non ci hanno voluto far sapere. Anche se è una strada che passa per Kandahar. Beh, buona giornata.

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La mejo tivvù.

“Viva l’Italia, pane e politica” è la prova provata che la Rai è viva. Viva la Rai.

In una giornata televisiva tra le più sceme del Terzo Millennio, con Baudo che faceva Masaniello per tutto il pomeriggio su Rai Uno, e la Perego su Canale 5 che ha organizzato la Vandea anti-servizio pubblico è arrivata, tra truci telefilm americani, di quelli morti, feriti, squartati e guanti di paraffina, la De Filippi e i suoi amichetti e la fiction ospedal-popolare di Rai Uno, a freddo, senza preavviso, è arrivata in onda su Rai Tre la Televisione, con la T maiuscola.

Quella che sfugge agli schemi, alle compatibilità del palinsesto, quella che fa spettacolo senza spettacolarizzare, che fa inchiesta senza spettegolare, che fa realtà senza reality, che fa denuncia senza piùùùù, sgnach, blegh e ohhhh, tipo le Jene.

Un cronista in mezzo alla strada, a Catanzaro a raccontare come si fa la politica in Italia. Sì, come si fa, chi la fa, perché la fa. Non era un documentario, non era una denuncia, non era costume né colore. Era il nostro Paese. E la Rai è sembrata la BBC.

La qual cosa rimanda al mittente, semplificandola, la domanda che ci facciamo da troppo tempo: cos’è la Tv di qualità? Eccola, è questa. E’ quella che nasce da una idea, che cresce facendola, che è ingenua, semplice, tenera: che guarda raccontando quello che vede, che non ha bisogno di costosi format.

Che vede, facendoti guardare chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Che ti dice dove si coltiva quell’organismo geneticamente modificato che è il ceto politico del nostro Paese.

Che poi, dall’agone politico locale, arriva al regionale, e poi al Parlamento e poi, magari, anche al Governo. Ecco come si allevano i piccoli mostri, i satrapi, i tiranni che poi ci si piazzano sullo stomaco per decenni, entrano nella nostra vita civile e politica, dalla politica all’amministrazione pubblica, dal partito agli enti, nella pervicace ossessione del potere, fin su, magari fin dentro le istituzioni centrali, fin dentro la stessa Rai.

Allora, non c’è bisogno di rimpiangere “Viaggio in Italia” di Mario Soldati. Non c’è bisogno di fare tanti dibattiti. Non c’è bisogno di coinvolgere trust di cervelli. Se ci sono persone che sanno fare questa televisione in Rai, la Rai c’è.

Dobbiamo solo rimuovere le macerie che hanno seppellito, nel tentativo si soffocarle, persone che osano pensare, che osano lottare, che osano vincere: autori, giornalisti, conduttori, tecnici. Loro ci fanno bene, e fanno bene anche agli inserzionisti pubblicitari. Basta pane e cicoria. E’ tempo di “viva l’Italia, pane e politica”. Beh, buona giornata.

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Sanremo. The winner is.

Le polemiche scatenate dal centro-destra lo dimostrano: il vincitore del Festival di Sanremo è Romano Prodi. Evocato sul palcoscenico dell’Ariston , con le sembianze del suo sosia, dopo che Pippo XII aveva evocato lo spettro del Bartali che ricompatto il Paese dopo l’attentato a Togliatti, Prodi vince il Festival, dopo la fiducia al Senato e lo scoppiettante dibattito alla Camera. La mini-crisi di governo è coincisa col 57 Festival. In questi giorni abbiamo sentito cantare tutti. Ma alla fine, è la canzone di Prodi che prevale, con successo di critica e di pubblico.

La crisi nasce all’interno della maggioranza e finisce tra le fila dell’opposizione, che sarebbe meglio chiamare d’ora in poi minoranza. Sono volati gli stracci tra i leader del centro-destra. Fassino, poi rompe in testa a Berlusoni il suo grissino di ferro. E tutti gongolano, soprattutto dalle parti della Lega e dell’Udc. Il Festival di Sanremo, come la fine della crisi di governo, ha ricompattato il Paese: tutti davanti alla tv, a schignazzare o a criticare, a cercare di vedere di nascosto l’effetto che fa, ma tutti davanti alla tv. E lo spettacolo ha dato ragione alla logica di sempre: tutto bene quello che finisce bene. In aula a Montecitorio abbiamo sentito le parole, a Sanremo la musica: in entrambi i casi, hano fatto la loro buona figura l’impegno, i temi sociali.

La vera doppia conduzione è stata quella di Pippo Baudo al Festival e quella del Capo dello Stato, durante la crisi. Una scelta perfetta, una coppia affiatata. Il Festival viene premiato dagli ascolti, la politica viene premiata dalla melodia della nuova riforma elettorale. Tutti contenti, anche gli sponsor, dell’una e dell’altro evento politico-canoro-mediatico.
Dunque, Prodi vince. E non veniteci a dire che Afghanistan, Tav, Dico e Dal Molin erano sole canzonette. Questi sono discorsi da dopo festival. Beh, buona giornata.

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Non comprate i prodotti che fanno cattiva pubblicità.

”Chiediamo che Dolce e Gabbana ritiri la pubblicità o che l’azienda sia richiamata al rispetto delle
regole”. Firmato tredici tra senatrici e senatori dell’Ulivo e di Forza Italia, tra cui, prima firmataria Vittoria Franco, presidente della commissione Cultura e responsabile nazionale delle Donne Ds.
Si tratta di un annuncio pubblicitario in cui si mima una violenza di gruppo su una donna, che molti avranno visto sui quotidiani italiani.

L’annuncio pubblicitario in questione aveva già fatto analogo scalpore in Spagna e D&C hanno deciso di ritirarla, non senza aver detto che si tratta di una foto artistica e che l’arte non è violenta.
In realtà, al netto della richiesta dei parlamentari italiani e anche della decisione, unilaterale, dei direttori delle testate che hanno pubblicato l’inserzione ( perché come tutti sanno il commerciale vende spazi pubblicitari, ma il direttore della testata ha l’ultima sempre l’ultima parola sull’opportunità della pubblicazione), inevitabilmente le polemiche diventano un moltiplicatore della comunicazione.

Vale a dire che ben consapevoli di fare qualcosa che va oltre le regole, al solo scopo di proporre una provocazione, nel momento stesso in cui si accetta la provocazione, la polemica è un valore aggiunto dell’investimento pubblicitario, oltrettutto molto prezioso, perché è gratis.
Rivolgersi al Giurì è alquanto velleitario: l’Istituto di autodisciplina prende decisioni successive all’uscita di una campagna “incriminata”, e ora che prende una decisione, in genere la campagna ha avuto il suo corso.

Per altro, le decisioni dell’Istituto sono vincolanti, non tanto per l’azienda, quanto per le testate o le emittenti, che sono tenute a non mettere in onda o pubblicare inserzioni pubblicitarie censurate dal Giurì. I tredici parlamentari avrebbero fatto meglio a chiedere ai direttori dei più importanti quotidiani italiani di spiegare il motivo per cui hanno deciso di pubblicare quell’ inserzione: nelle redazioni ormai comanda solo il marketing?

Per il resto, è inutile entrare nel merito della rappresentazione che propone l’annuncio incriminato. Utile invece è prendere in considerazione una fatto molto semplice, che taglia la testa al toro a ogni tentazione censoria e a ogni valutazione moraleggiante sul ruolo della pubblicità.

Il fatto è questo: quando una azienda fa pubblicità esprime non solo offerte commerciali, ma il modo di pensare della marca, i suoi valori, la sua collocazione nelle problematiche sociali, che spesso sono quelle che pensa l’imprenditore.

Allora la domanda è: condividete questo modo di vedere la donna, da parte di Dolce e Gabbana? Se è sì, continuerete ad acquistare e indossare quella griffa, se è no, beh, la conseguenza è semplice.

Se i giornali fanno certe scelte per via del registratore di cassa, le aziende cambiano modo di pensare, proprio per via del registratore di cassa. A voi decidere.Questo vale, ovviamente sia per gli abiti che per i giornali. That’s all, folks. Beh, buona giornata.

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Più multe per Totti.

Daniela Serafini, la mamma di Ilary Blasi e suocera di Francesco Totti, è ufficialmente un vigile urbano di Roma. Ieri ha indossato per la prima volta la divisa.

La cerimonia per l’assunzione di 451 nuovi agenti, si è svolta nella sede della Polizia Municipale di Roma. Per Daniela Serafini la destinazione assegnata è il 15/o Gruppo ossia la zona compresa tra Viale Marconi e Corviale. Oggi il primo vero giorno di lavoro in mezzo al traffico della capitale.

Speriamo che non faccia come il genero, che ogni tanto sputa, dà spintoni e si ficca il pollice in bocca. Né come la figlia che da un po’ se messa in testa di fare la jena.

A parte ogni altra considerazione, la signora Serafini sta per fare un lavoro non facile: quello di sfatare il mito dei parenti che vivono alle spalle della notorietà e delle prebende di subrette e calciatori.

Beh, buona giornata.

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Ricevo e volentieri posto

L’Oscar di Al Gore
CURZI.LA RAI SI IMPEGNI SULLA QUESTIONE AMBIENTALE

Di fronte alla crisi della politica – evidente negli ultimi decenni in tutto il mondo occidentale e non solo in questi giorni in Italia – appare ragionevole e urgente, come non mai, la fuoruscita dal pantano delle parole e dell’autoreferenzialità attraverso il sentiero dell’impegno ecologico. Perciò l’idea di promuovere la massima diffusione anche in Italia di un film-documentario come “Una scomoda verità” di Al Gore, premiato lunedì notte con l’Oscar, non va considerata una semplice istanza morale ma una vera e propria proposta politica da accogliere e da realizzare. Ha ragione il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini: il servizio pubblico televisivo dovrebbe verificare con convinzione la possibilità di mandare in onda in prima serata quel documento sulle conseguenze dell’effetto-serra di cui tutti, da tempo, dicono un gran bene. Dovrebbe trattarsi ovviamente di una iniziativa da concretizzare in linea con la vocazione e la capacità che storicamente ha la Rai di creare eventi, quando decide di farlo.
La questione ambientale, peraltro, dovrebbe essere fra le prime opzioni, se non la prima in assoluto – in considerazione delle ultime previsioni di un sempre più vicino rischio di collasso del pianeta – che il servizio pubblico dovrebbe assumere nella totalità della sua programmazione e dei suoi contenuti. Si tratterebbe di un impegno, dovuto, sul prodotto capace almeno di attenuare l’ossessiva attenzione riservata, spesso impropriamente, a organigrammi e nomine.

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L’effetto Oscar sconfiggerà l’Effetto serra?

Snobbato dalle cancellerie di mezzo mondo, osteggiato pervicacemente dall’amministrazione Bush, l’effetto serra vince un Oscar, anzi due, se si conta il premio alla colonna sonora. E, ironia della sorte, lo vince proprio l’artefice del protocollo di Kyoto, Al Gore, all’epoca vice presidente degli Usa, quando l’inquilino della Casa Bianca era Bill Clinton.

“Una scomoda verità” è il documentario di Davis Guggenhein, interpretato, appunto da Al Gore con le musiche di Melissa Etherige, che con due Oscar si piazza al terzo posto nella graduatoria dei film più premiati quest’anno dall’Academy di Hollywood, dopo “The Departed” di Scorzese che ne ha vinti quattro e “Il labirinto del fauno”, di Eugenio Caballero e Pilar Revuta di Telecinqo, l’emittente spagnola posseduta da Mediaset: c’è del comico, perché sia il titolo del film che i premi (fotografia, scenografia e trucco) fanno proprio pensare al capo di Mediaset. Ma questa è un’altra scomoda verità.
Il documentario di cui parlano, già uscito nelle sale italiane lo scorso gennaio, e che forse chi non lo ha visto sarebbe bene lo facesse, è una dura requisitoria contro gli effetti dell’effetto serra, vale a dire il surriscaldamento del pianeta, che lascia assolutamente freddi i governi dei paesi più industrializzati, e quindi più colpevoli della distruzione dell’eco-sistema del pianeta Terra.

Non c’è dubbio che succedono cose strane: i ghiacciai si squagliano, i mari salgono, dopo la fine delle mezze stagioni, ci stiamo giocando le stagioni intere, come è successo per il nostro inverno quest’anno. Ma tra le cose strane c’è appunto il fatto che un documento di puntuale denuncia dello stato di salute del pianeta venga considerato un fatto artistico, tanto da venere premiato, e niente di più, tanto da venire sistematicamente ignorato dalla politica e dall’economia. Una volta il cinema riusciva a influenzare la politica.

Oggi sembra il contrario, con il rischio che appena si spengono le luci del palcoscenico, il discorso si chiude. C’è un altro fatto che sembrerebbe confermare questa stramba tendenza. Secondo il New York Post, Angelina Jolie è stata ammessa al prestigioso “Council on Foreign Relations” per discutere di politica internazionale tra Kissinger e Alan Greenspan. L’attrice si e’ aggiudicata un riconoscimento riservato a pochissimi dal think-tank con base a New York, ritenuto tra i più snob d’America, e che annovera tra i suoi membri anche Condoleeza Rice, Dick Cheney, Colin Powell.

Nel darne notizia il quotidiano New York Post riporta reazioni entusiastiche degli appartenenti al Council . ”L’idea di avere Angelina Jolie e Henry Kissinger nella stessa organizzazione è illuminante”, dice al giornale Gordon Adams, quotato professore di relazioni internazionali.

C’è da augurarsi che la Jolie, al primo incontro, indossi di nuovo i panni di Tomb Rider e, alla prima occasione, faccia secchi quei mostri cattivi che fanno le guerre e distruggono il pianeta.

Signora Jolie, non si fidi, quelli son capaci di tutto, anche di rubare una vittoria elettorale, come fecero a Al Gore nel 2000. Beh, buona giornata.

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Arrivederci, ragazzi.

Fausto Bertinotti ha detto che l’azione del governo Prodi non è la bussola dell’azione politica dei partiti della sinistra, nell’ambito della coalizione di centro-sinistra.

Piero Fassino ha detto che dissentire dall’azione del governo non significa necessariamente votare contro la coalizione di centro-sinistra. Entrambi sembrano rispondere, con colpevole ritardo, al monito del capo dello Stato: siccome non ci sono alternative, vi rinvio alle Camere. Fate buon uso di questa chance, anche perché è l’ultima possibile.

Sono i fondamentali della politica in un Paese a democrazia parlamentare e sembra strano, molto, troppo strano debbano essere riscoperti nelle ore che ci separano dalla possibile riconferma dell’esecutivo al Parlamento.

Votammo Prodi nelle Primarie, per cacciare Berlusconi, ma il berlusconismo ce lo siamo ritrovati nelle legge elettorale, che ha condizionato il nostro consenso al centro-sinistra. Con Berlusconi eravamo sull’orlo del baratro: l’altro giorno al Senato, grazie alla vostra insipienza, abbiamo fatto un piccolo, ma drammatico passo in avanti. Come in una buffe delirante, avete cercato di tirarci per i capelli dentro i vostri i disturbi psicotici: non vi abbiamo scelto come nostri rappresentati al Parlamento, ci avete costretto a farlo, grazie alle liste bloccate. E oggi ne vediamo le conseguenze, che continuate a voler scaricare su di noi, come si scarica su amici e parenti il disagio psichico: ci avete gelato, fatto arrabbiare, messo di cattivo umore.

Siete stati bocciati dal Senato, avete inscenato la crisi e adesso dovemmo anche compatirvi? Chi vi dà il diritto di fare politica al posto nostro, mentre dimostrate che della politica conoscete solo la faccia più brutale, cinica e autoreferenziale? Ci chiedete di metterci nei vostri panni, e inciampate sui lacci delle vostre scarpe.

C’è una domanda urgente, che non rivolgiamo più a voi, a nessuno di voi, ma chiediamo semplicemente a noi stessi: che intenzione abbiamo di fare del nostro futuro?

Ci avete costretti a essere disposti a tutto, pur di salvare un minimo, diciamocelo, davvero un minimo, di dignità democratica. Quella che ci hanno non solo insegnato, ma lasciato in eredità politica coloro che prima di noi, anche solo per via anagrafica, hanno affrontato a mani nude il difficile territorio dello sviluppo della democrazia del nostro Paese. Di quelli siamo figli e quello vorremmo tramandare ai figli.

Ancora una volta, ci avete estorto fiducia, mica avevamo alternative. Ma voi ci sarete debitori una volta di più: ormai sarete costretti a restituire gli interessi, il capitale che avete sperperato non lo recupereremo mai più.

Noi, nonostante voi, abbiamo deciso che il nostro futuro sarà fatto di militanza nel raccontare apertamente fatti, ma soprattutto nel fornire senza infingimenti quello che i fatti significano.

Per essere, volta per volta, protagonisti dei fatti politici e militanti del loro significato sociale. Senza mediazione né mediatori: voi avete preso il treno, noi forse tempo, ma siamo in grado di recuperarlo, il tempo perduto.

Sarà il tempo della politica, del sociale, della pace, dell’uguaglianza sociale, della creatività, della liberazione dagli schemi e dagli stereotipi della pantomima della sinistra radicale. Quel tempo è adesso: nel momento stesso in cui avete finito di essere una soluzione, siete diventati parte integrante del problema.

Voi continuerete a frequentare i talk show, dove vi trastullate a perdere tempo, noi staremo tra amici, colleghi, vicini di casa, abitanti del quartiere, cittadini dei villaggi, dei piccoli paesi, delle città. Nei luoghi di lavoro, in famiglia, a scuola, nelle università. E dove fosse necessario e utile al pub, a teatro, nello spogliatoio della palestra. Perché siamo persone, non solo elettori.

Saremo dolci quando ci vorranno amari, gentili quando ci vorranno duri, cattivi quando ci vorranno buoni, arrabbiati quando ci vorranno saggi. Troveremo nuovi accordi col nostro disaccordo, sintonie con le anomalie, una nuova grammatica nella vostra sgangherata sintassi: sul precariato, sulla Tav, sulle basi Usa, sulla Rai e le televisioni, sul conflitto d’interessi, sui Dico. Sulla pace, la solidarietà, il Welfare, il lavoro salariato, lo sfruttamento intellettuale, l’ambiente, la cultura, l’informazione.

Noi non chiederemo, noi diremo. E diremo che Prodi deve governare, cioè gestire l’esistente, ma noi saremo creativi, immaginifici, desiderosi, critici, cinici, simpatici, cattivi e ironici: non ci interessa una quota del mercato della politica, ma una quota di futuro nelle contraddizioni sociali, economiche, culturali, dunque politiche del nostro Paese.

E lo faremo spassionatamente con tutti: cattolici e atei, cristiani e musulmani, comunitari ed extracomunitari, donne, uomini, omosessuali e transgender, intellettuali e proletari. Con i volontari e i volenterosi. Con il popolo dei cococo e quello della partita iva. Insomma, con tutti quelli disposti a ragionare e a fare qualcosa di buono, significativo e utile, a partire dalla comunicazione, verso tutti i problemi che ci pone la globalizzazione: non solo delle merci, ma delle persone, dei loro sogni, dei loro traguardi.

Voi, allo stato dei fatti, siete diventati impossibili a un altro mondo possibile. Arrivederci, ragazzi. Beh, buona giornata.

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Jurassic Italia.

La crisi del governo Prodi riporta l’Italia nella dimensione di piccolo paese, anzi di paese piccolo piccolo. Con un classe politica che non ha nessuna voglia di essere all’altezza dei compiti di una società moderna e dinamica.

Sul colle più alto in queste ore stanno salendo gli omini più bassi: chiedono, concionano, rivendicano, ipotizzano e, negandosi, si candidano. Neanche nelle riunioni di condominio ormai va più di moda rivendicare sfacciatamente i millesimi della propria autorevolezza. Ma pure questo è quello che sta andando in scena di giorno e in onda di sera, in questo o quel talk show.

Siamo all’italietta permalosa e scorreggiona, come quella del Cavaliere che viene rappresentato da Libero di Feltri come un tappo di spumante che va in culo all’avversario Prodi. Bell’esempio di buon gusto e di buon giornalismo. Gli hanno dato del tappo e neanche se ne ha a male.

Ma quella disgustosa vignetta, purtroppo è la foto del giorno dopo, quella in cui Andreotti, pare, si dice per conto del Vaticano, Cossiga pare, si dice per conto del Pentagono, Pininfarina forse, si dice per conto di Confindustria hanno fatto cadere il governo, con l’aiuto di due puri e duri (di comprendonio) della sinistra radicale e di un certo De Gregorio, filone e paravento, rappresentante di un partito-uomo di cui molti hanno la tessera, anche se non lo dicono chiaramente, il partito “Francia o Spagna, basta che se magna”.

Eccolo il consueto, scontato, trito e ritrito combinato disposto tra mediocrità politica, rendite di posizione e furbizie individuali di un Italia che non intende lasciarsi sorprendere dal nuovo e non vuole sorprendere il futuro, fosse anche solo quello prossimo venturo: faccio cadere il governo senza sapere neanche perché l’ho fatto, così, solo per fare vedere che ci sono. E’ nella mia natura, risponderebbe lo scorpione al rospo che lo traghettava nell’altra sponda del fiume.

Nel bene o nel male, l’azione di governo tentava di far riferimento alle categorie politiche della modernità, del rimettersi in carreggiata, del fare qualcosa che rimanesse per il futuro della nostra economia e delle relazioni sociali. Insomma, una roba per tutti, in seno all’Europa e in corsa verso le sfide della globalizzazione. Ma il ceto politico, le satrapie conservatrici, insomma i cosiddetti poteri forti hanno trovato un’alleanza, potremmo dire anche solo oggettiva, con le velleità personalistiche di rappresentanza dei movimenti di carattere sociale. Il risultato non è solo nella crisi di governo, ma nella crisi profonda della rappresentanza politica nella nostra democrazia.

Ci siamo svegliati male, in un paese dei cavilli, degli agguati, dei tradimenti, del passato remoto. La politica italiana non riesce a fare a meno dei dinosauri: siamo lenti, storditi, jurassici, destinati all’estinzione nella competizione democratica, sociale ed economica in Europa e nel mondo.

Ce lo ricorda, proprio in queste ore Michael Deppler, il direttore per l’Europa del Fondo Monetario Internazionale: la performance dell’economia italiana è stata “deludente” e il processo di liberalizzazione “deve essere rafforzato”. Il Fmi sottolinea che l’esecutivo italiano deve proseguire con le liberalizzazioni. “Tutto ciò è ora certamente ostacolato dalla crisi di governo”, ha aggiunto Deppler perché il processo di liberalizzazione “ha bisogno di impegno politico e di consenso”. Tutto il contrario di quello che sta avvenendo.

Basterà la saggezza del Capo dello Stato a far capire in queste ore agli ospiti che si alternano nei colloqui per risolvere la crisi qual è la posta in gioco? Basterà alla sinistra scendere in piazza per difendere Prodi per sentirsi al passo coi tempi? Beh, buona giornata.

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Alla fine, la corda si è spezzata.

Il governo viene battuto al Senato sulle linee guida di politica estera. Chi non ha sentito il discorso di D’Alema, lo può trovare su Internet. La domanda è: che ha ascoltato quelle parole, come ha potuto votare contro? Non parlo solo dei due senatori in forza all’Unione, ma anche di quei 24 astenuti, o di larga parte dell’opposizione. Non c’è una ragione valida.

L’imboscata era pronta ed è scattata, a prescindere. Si potrà dire che Angela Finocchiaro, presidente dei senatori dell’Unione ha ancora una volta sbagliato i conti. Si potrebbe dire che quei due senatori della sinistra radicale hanno fatto un gesto inconsulto, quello di uscire dall’aula.

Si potrebbe far notare la pesante astensione di Andreotti. Comunque chi aveva progettato la trappola l’ha fatta scattare. Qualcuno ha pensato che poteva essere una normale giornata di trabocchetti parlamentari, tanto sulle linee guida il governo non rischiava se non un semplice incidente di percorso. E invece Prodi ha deciso di accettare la sfida: è andato a Quirinale e ha rassegnato le dimissioni del governo dell’Unione.

Il presidente Napoletano comincia subito oggi le consultazioni. Poi Prodi, che comunque ha vinto le elezioni, potrebbe essere incaricato di formare un nuovo governo. Le cose non saranno più come prima. Diliberto e Giordano hanno bruciato la loro parabola nel governo in soli 9 mesi. E’ alquanto patetico leggere le dichiarazioni, postume di fedeltà al governo da parte della segreteria del Prc e di Rossi del Pdci. La frittata è fatta, adesso mangiatevela, cari signori.

Prodi poteva far finta di niente, subire oppure, come ha fatto subito, innalzare il livello dello scontro interno alla maggioranza. Ha innalzato lo scontro, è salito al Quirinale. La sinistra radicale ha sbagliato tutto, ha tirato troppo la corda, e adesso ne pagherà le conseguenza. L’errore di Bertinotti, che affondando Prodi aprì la strada al governo Berlusconi, si è ripetuto: quando la storia si ripete è grottesca. Proprio come grottesca è stata la giornata di oggi al Senato.

Bisognerebbe congratularsi per la capacità di cogliere la palla al balzo del senatore Andreotti, che tira così la volata a ipotesi di rafforzamento della componente centrista nella prossima maggioranza. Belzebù è più arzillo che mai. Ma queste sono le tecnicalità del Palazzo.

Forte, cocente è la delusione dell’elettorato di centro-sinistra, che si sente tradito dalle congiure di cortile. Forse ha ragione Veltroni, che si è affrettato a dire che la colpa di quanto è avvenuto è il meccanismo ad orologeria innescato da quella sciagurata legge elettorale, ordita contro la governabilità da Berlusconi, prima delle scorse elezioni.

La crisi di governo sarà rapida, perché sanno tutti che la fase economica è troppo delicata per non avere subito un governo dotato di autorevolezza. Non c’è il pericolo che torni Berlusconi, ma la certezza che il programma dell’Unione verrà fortemente ridimensionato, in senso molto più moderato. E di questo sapremo chi dovremo ringraziare nei prossimi giorni. Beh. buona giornata.

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