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25 Aprile 2007, meglio partigiani che bipartisan.

La Storia non è un miscelatore tra l’acqua calda e l’acqua fredda. E, a pensarci bene, non lo è neppure la politica, la società, e men che mai la cultura, peggio mi sento per la creatività. Chi pensa bipartisan mischia la luce con l’oscuro, il fracasso col suono, il dolce con l’acido, gli odori con le puzze, il morbido con l’accidentato. Noi siamo partigiani, con tutti i cinque sensi.

La moda del bipartisan è scema, non è reale. Non affascina, annacqua. Non c’è un bicchiere mezzo pieno che si mischia con il mezzo vuoto. La vita è fatta di separazioni, dolci o drastiche, dipende da che cosa si separa: può essere un parto naturale o col cesareo, ma è comunque separazione. Il vecchio espelle il nuovo da sé, perché non ne può più fare a meno. Il nuovo rivendica l’autonomia dal vecchio, è nella sua natura, è la sua scommessa, è la sua missione, la sua finalità.

Bipartisan è un trucco per lo status quo. Ma, appunto, lo status quo è vecchio, conservatore, reazionario, insopportabile. Bipartisan è arrogante, ignorante, interessato, cialtrone e furbastro.

Noi siamo partigiani di una cultura che produca cultura, conoscenza, sapere, innovazione, bello e giusto.

Noi siamo partigiani di una politica che neghi la supremazia di se stessa: oggi la politica vuole imporre la gestione, l’amministrazione del presente. Noi vogliamo la progettazione, il rischio, la sperimentazione: nel cinema, nell’arte, nelle televisione, nel web, nella scrittura, nel teatro.

Noi siamo partigiani di una comunicazione contro il recinto degli schemi: l’immagine, la parola, la musica, il gesto, il segno devono attraversare la solitudine del creativo e le praterie dei new media senza restrizioni, compatibilità, convenienze e asservimenti bipartisan, appunto.

Noi siamo partigiani della riforma della Rai e del sistema televisivo: le tattiche bipartisan sono sotterfugi raggelanti ogni forma di nuova espressione nella comunicazione di massa. Per noi, le riforme sono punti di partenza, sono lo start up di una nuova stagione. I bipartisan credono le riforme siano punti di arrivo, da rinviare alle loro alchimie, accordi, inciuci, spartizioni. I bipartisan sono satrapi, che difendono rendite di posizione. Noi siamo partigiani, perché mettiamo in discussione non tanto quelle rendite, ma proprio quelle posizioni.

Siamo partigiani di una nuova legge sul diritto d’autore e dell’abrogazione dell’Iva sulla musica e sui film. Auditel è bipartisan: accontenta la tv commerciale e quella pubblica. Noi siamo partigiani della qualità, perché siamo contro la dittatura delle quantità.

Noi siamo partigiani della libertà di stampa e della dignità di chi la libertà di stampa la fa, scrivendo quello che pensa, non quello che fa guadagnare l’editore. Se l’editore ha paura della libertà, cambi mestiere e la smetta di parlare di libertà del mercato. Il mercato non è bipartisan, il mercato è competitivo, aggressivo, selettivo: noi siamo partigiani delle idee che diventano valore, etico, democratico, e per chi lo sa fare, anche economico. Noi siamo partigiani del rinnovo del contratto dei giornalisti.

Noi siamo partigiani di tutto ciò che è nuovo, problematico, dirompente, un poco folle, visionario e progressista: i bipartisan dicono sempre e solo quello che gli conviene. Noi siamo partigiani di tutti quelli che forzano l’esistente: dalla tv alla radio, dal web alla pubblicità, dal teatro alla grafica, dalla scrittura alle scritte sui muri, dalla musica alla pittura, dalla scultura al design, dalla filosofia alla moda, dalla giustizia all’ambiente, dalla religione alla laicità, dagli affetti al sesso, dal particolare al globale, dall’originale al meticcio.

Noi siamo partigiani delle regole, i bipartisan violano le regole. Noi vogliamo nuove regole per tutti, anche per chi non la pensa come noi. Loro violano le regole, perché bipartisan significa sentirsi al di sopra delle regole degli altri. Noi siamo partigiani. Buon 25 Aprile. Beh, buona giornata.

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Iva? Via.

Secondo i discografici, l’Italia è al primo posto in Europa per la pirateria musicale, con un quarto del mercato discografico in mano alle organizzazioni criminali.

Il giro d’affari l’industria della pirateria musicale si aggira sui 60 milioni di euro. Nel corso del 2006 le forze dell’ordine hanno sequestrato oltre 2 milioni fra cd e dvd, arrestando 389 persone e denunciandone 1.104.

Cosa vogliamo aspettare a togliere l’Iva da musica e film? Beh, buona giornata.

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Fine del Limbo.

Il Limbo riflette “una visione eccessivamente restrittiva della salvezza”, afferma la Commissione teologica internazionale, e la misericordia di Dio è più grande anche del peccato originale non sanato dal battesimo.

La Chiesa dunque non pensa più a al Limbo, quel non-luogo in cui avrebbero speso l’eternità, privati della visione di Dio, i bimbi morti senza essere stati battezzati. Dunque, il Papa ha abolito il Limbo. Infatti, il documento che abolisce ufficialmente il limbo e che era alla discussione della Commissione teologica internazionale dal 2004, quando questa era presieduta dal cardinale Ratzinger, è stato sottoposto al Papa dall’attuale presidente della Commissione, il cardinale William Levada, che ha incontrato il Papa lo scorso 19 gennaio. Benedetto XVI ha approvato il testo e ne ha autorizzato la pubblicazione.

E’ straordinaria la coincidenza con la nascita del Partito democratico: anche gli ex comunisti escono dal Limbo della storia della politica italiana, dal Dopoguerra ad oggi. Diciamo che il Pd deve ancora essere partorito, ma siccome si prevedono più o meno 9 mesi di gestazione, i genitori, cioè i Ds e la Margherita, hanno deciso di mettere al mondo questo neonato partito.

Si sono dette molte cose e molte se ne diranno: la più vera di tutte è che il Pd è la vera novità prodotta dal nostro sistema dei partiti, dopo quasi cinquant’ anni di Dc, e della Guerra Fredda, dopo la fine della Prima Repubblica, decretata dallo scandalo di Tangentopoli, che hanno prodotto quindici anni di berlusconismo, cinque dei quali passati al Governo.

Con la fine del Limbo, la Margherita è più che legittimata a fondare un nuovo partito con quelli che un tempo “mangiavano i bambini”.

Con la nascita del Pd si sta provocando uno scisma, un sisma e, per qualcuno, un cataclisma.

C’è uno scisma a sinistra: Mussi non se ne va, semplicemente Mussi non entra, al contrario di Angius, che storce il naso, ma alla fine ci va.

Mussi pare voglia dare vita a un movimento, con tanto di rappresentanti tra gli eletti, che possa in un qualche modo produrre la rinascita di una formazione di sinistra in Italia. C’è molta commozione e passionalità nelle posizioni espresse da Mussi: come fosse una scelta obbligata dalla coerenza, quindi subita, per via delle circostanze.

In realtà, lo smottamento, dal centro-sinistra verso la sinistra può determinare, e a questo si è riferito espressamente di recente lo stesso Bertinotti, un nuovo composto chimico, che renda solubile l’attaccamento alla tradizione post comunista. In altre parole, non c’è più da “rifondare”il partito comunista. C’è da tentare la strada di una sinistra non più rivoluzionaria contro il Capitale , ma radicale sui temi del Lavoro, e quindi della solidarietà e dell’uguaglianza, della differenza. Dalla lotta di classe, al confronto pacifico tra le classi. Scontro olimpico, magari duro, ma non più “eversivo” rispetto alle leggi del mercato.

C’è, poi, un sisma, tellurico, che investe la “sinistra radicale”: Rifondazione e i Comunisti italiani, vissuti di rendita di posizione rispetto alla moderazione dei Ds sono e saranno costretti a ripensare se stessi e il proprio elettorato. E’ escluso un attruppamento meccanico tra il Correntone Ds e gli scissionisti, che dalla fine del Pci diedero vita a un nuovo partito, che poi divennero due: Bertinotti da una parte, Cossutta dall’altra. Dovranno ripensarsi, riorganizzarsi. Tentare di darsi una fisionomia da sinistra europea.

Se, come immaginabile, il Pd alla fine sceglierà l’Internazionale socialista e il Pse, pur nella loro rispettiva modificazione meno socialista e più democratica, magari con l’adesione all’Internazionale del Partito del Congresso dell’India e, udite-udite, dei Democratici americani, potrebbero chiudersi gli spazi al nuovo soggetto a sinistra.

Il cataclisma è tutto del centro-destra, ma non solo. Il centro-destra, ma più semplicemente la Cdl ha esaurito la sua parabola. Il giorno della nascita del Pd coinciderà con la morte del berlusonismo. Si chiude un’ anomalia tutta italiana, se andranno in porto le aperture che potrebbero vedere Berlusconi coinvolto nella telefonia, vero sbocco imprenditoriale di Mediaset, che può finalmente mollare la presa del sistema televisivo, e liberare il mercato e la politica dalla sua presenza asfissiante.

Senza il collante del carisma di Berlusconi, e della sua potenza finanziaria, la Cdl è virtualmente al capolinea. Fini, che non è riuscito a fare la sua Fiuggi Due, rimane col cerino in mano: può fare il capo dello schieramento di destra, che sarà drasticamente ridimensionato nella sua importanza nella politica italiana. Senza più neanche l’ombra di comunisti, gli anti-comunisti spariranno come i dinosauri.

Anche l’Udc di Casini, e il partito di Mastella e quello di Follini sono un poco terremotati: nel nuovo scenario si stanno chiedendo: ma io a che servo, a chi sono utile? Con un gioco di parole: io che “centro”?

La conta si avrà con le elezioni europee del 2009. Poi, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Molti si scorderanno il passato.

E’ la fine del Limbo. Lo dice il Papa, lo dice Prodi. Ma è anche la fine del Limbo per le forze della cultura, della società, della vivacità sociale. Si aprono scenari nuovi e promettenti, liberati dalla presenza ossessiva della politica, e dalle sue macerie, dal suo controllo su tutto e su tutti.

Forza e coraggio: se diventiamo un paese normale possono succede cose eccezionali. Vogliamo cominciare? Beh, buona giornata.

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“I problemi non possono essere risolti dallo stesso atteggiamento mentale chi li ha creati.”

Questa citazione di Albert Einstein calza a pennello sulla situazione dei media italiani e del futuro utilizzo da parte della pubblicità.
Ogni tanto, come a voler pompare uno poco di ottimismo, qualcuno si sveglia e parla di un futuro non più incastonato nella centralità tolemaica del sistema della tv.

E’ la volta di Federico Rampolla, di recente nominato interaction director di GroupM Italia, che su “Prima comunicazione” traccia un quadro di grande crescita dei media digitali nel nostro Paese e delle loro prospettive di sviluppo.

Cosa dice in sostanza Rampolla? Saranno i media digitali – come i quotidiani on-line, i contenuti dei telefonini e i canali trasmessi nel web con “iptv” – a guidare sempre di più in futuro la crescita del mercato pubblicitario nei prossimi anni in Europa e negli Usa.

Le stime che giungono da GroupM, la parent company dei centri media del gruppo Wpp, il colosso circa il 30 per cento del mercato pubblicitario mondiale rilevano che in Europa Internet ha già raggiunto una quota di mercato del 7 per cento (in Italia del 5 per cento) e quest’anno l’investimento sui media on-line crescerà del 65 per cento rispetto al 2006, molto più degli altri mezzi (la tv aumenterà del 23 per cento, i periodici del 13 per cento, l’outdoor, cioè le affissioni esterne, del 9 per cento, le radio del 3 per cento, mentre la pubblicità sui quotidiani scenderà ben del 13 per cento).

Insomma, il futuro è nei media digitali. «Da Internet all’iptv, alla tv mobile al social network, il digitale sta diventando sempre più pervasivo – afferma Rampolla – ma in Italia gli editori stentano ancora a trovare la propria strada, molti non hanno ancora sviluppato una strategia coerente e duratura in questo settore». Una tesi, al limite del “Cicero pro domo sua”: per un editore, spiega Rampolla, oggi sono possibili tre strategie nel confronti del digitale: «Stare a guardare, il che vuol dire uscire dal mercato; seguire quello che fanno gli altri e copiare, il che significa rinunciare alla leadership, oppure giocare, impegnarsi in prima persona: e questa a mio parere è l’unica strategia possibile».

Il discorso vale anche per le agenzie di pubblicità e le aziende in genere. «È vero che alcuni mercati esteri sono più maturi del nostro – prosegue Rampolla – ma anche noi comunque abbiamo già superato il punto di svolta. La quota di mercato della comunicazione on line sta crescendo rapidamente e prima o poi arriveremo al sorpasso rispetto agli altri media».

Andrebbe tutto bene se non ci fosse una certa insopportabile e reiterata tendenza a confondere il mezzo col messaggio, invece che considerare l’uno il veicolo dell’altro. E’ vero che in Italia il messaggio è carente, la qualità della pubblicità si è accartocciata sulla prevalenza della comunicazione televisiva.

Il problema è che i futuri mezzi di comunicazione di massa, prevalentemente via web, avranno sempre di più la necessità di idee-forza, per superare gli ostacoli della frammentazione, della parcellizzazione, tipici dei nuovi media, specialisti, per definizione antitesi del generalismo televisivo. Avranno bisogno di idee creative.

Allo sviluppo dei nuovi mezzi, dovrebbe saper corrispondere una specializzazione nei messaggi, ma anche una concezione “ideologica” della comunicazione commerciale, capace di saper ricomporre il discorso frammentato tra siti, video telefoni, quotidiani on line, e quanto altro offerto dalle nuove tecnologie. Insomma, fare comunicazione e non solo pianificazione su diverse piattaforme.
Se no si continua a ragionare come se bastasse sostituire le tre reti Rai e le tre reti Mediaset, con l’aggiunta della settima 7, con il web e tutto è risolto, magari solo perché costa meno. Beh, buona giornata.

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E’ ufficiale: non abbiamo niente da ridere.

Siamo tristi. Passiamo tante ore davanti alla tv, un pochino in Internet, leggiamo poco i giornali, per niente i libri. Raramente al cinema, qualche volta a teatro. La musica classica l’ascoltano gli stranieri, quella anglofona noi alla radio, che tanto manco capiamo le parole. L’opera lirica ha lasciato il posto alle “grandi opere”, tanto decantate, mai finanziate, quindi mai ultimate, se non neppure incominciate.

Siamo tristi, perché siamo il Paese del sorriso finto, quello che viene bene davanti all’obiettivo della telecamera, l’unico obiettivo che ci prefiggiamo nella vita: come se fossimo tutti a villa Certosa, tendendoci per mano, e seduti sulle ginocchia del potente di turno, che la moglie non oggi non c’è, ma il paparazzo sì. Sappiamo fare le cose sbagliate, con le persone sbagliate, nel momento sbagliato: Tangentopoli, Calciopoli, Vallettopoli.

Il sole e la buona cucina non servono più a renderci felici: addio pizza e mandolino, addio pane amore e fantasia, il luogo comune è stato smontato da una ricerca dell’Università di Cambridge per la quale gli italiani sono i meno felici tra gli abitanti dei 15 paesi che componevano l’Ue prima dell’allargamento del 2004. E le cose non vanno meglio negli altri paesi caldi: in fondo alla classifica, con noi, ci sono greci e portoghesi.

I più felici, infischiandosene del clima rigido e dei cieli sempre nuvolosi, sono i danesi, mentre nel gruppo di testa ci sono finlandesi e irlandesi. I ricercatori di Cambridge, guidati da Luisa Corrado
(un cervello in fuga dal Paese triste!?), hanno analizzato i risultati dell’European Social Survey – lo avevano già fatto due anni fa – e hanno tenuto conto delle risposte della gente in categorie che ritengono indicative: affidabilità degli amici, qualità dei vicini di casa, solidità del posto di lavoro, fiducia nelle istituzioni (governo e polizia, soprattutto).
Risultato, i danesi hanno un coefficiente di felicità di 8.3 su 10, contro il misero 6.28 degli italiani.

Siamo tristi, sfigati, incazzatelli, perdenti. Non c’è entusiasmo né voglia di cambiare, quella ogni tanto giusto col telecomando, ma per poco, che poi si ritorna al vecchio brodino di sempre: Porta a Porta, Matrix, Affari tuoi, Striscia la Notizia. E poi via da capo, altro giro di canali, altra corsa.

La nostra stampa è ingessata, la nostra politica è noiosa e infingarda, la nostra pubblicità non riesce neanche più ad agire sullo stimolo del vomito.

La critica del costume, che tanto aveva fatto crescere il Paese si è ridotta alla critica dei costumino da bagno, critichiamo gli smudantati, ma gli invidiamo gli addominali, le tette, le chiappe e la sfacciataggine con cui hanno fatto soldi che sperperano senza ritegno: dopo aver rinunciato a ragionare con la testa, sta andando fuori moda anche il ragionamento della pancia. Cellulite, colesterolo, rughe, lifting, ritocchini, voyeurismo: ecco i pilastri della nostra nuova cultura di massa.

Siamo trasgressivi con le trasgressioni degli altri, siamo bacchettoni che le bacchettate dei soliti bugiardi e ipocriti: chiedono la partecipazione dei cittadini alla politica e nominano parenti e amici, mentre fanno e disfano partiti, alleanza, programmi; chiedono leggi contro il precariato e pagano in nero i loro portaborse; chiedono la fine dello stato sociale e incassano finanziamenti; chiedono sostegni alle imprese e evadono il fisco; chiedono fedeltà alla famiglia e lasciano moglie e figli per un’altra, però poi dicono che i Dico sono una famiglia di serie B; dicono di non essere razzisti ma subito aggiungono un però, un chiletto di se, guarnito di tanti ma; rivendicano valori, principi e interessi comuni, ma parlano con la bocca piena di privilegi.

La domanda è: ma perché gli italiano non dovrebbero essere tristi? Ci siamo assuefatti, assuefatti persi. Siamo passivi, rassegnati, atarassici, e catatonici da tubo catodico.

Tuttavia, l’ingresso in Europa ci ha fatto fare un piccolo inerziale passo in avanti: se prima, un paio di secoli fa, qualcuno ha scritto che gli italiani erano francesi tristi, oggi, grazie a Luisa Corrado dell’Università di Cambridge sappiamo che gli italiani sono europei tristi.
Coraggio, il meglio è passato. Senza lasciare tracce. Beh, buona giornata.

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Il Grillo parlante e l’Ape Maia.

“Dimettetevi. Fate un favore al Paese. Andatevene”. Così Beppe Grillo all’assemblea degli azionisti Telecom, a Rozzano, vicino Milano.

Grillo ha parlato a nome di un certo numero di azionisti che gli avevano dato la delega a rappresentarli. Il Grillo nazionale ha cercato interferenze con la più grande compagnia telefonica italiana. Ma stavolta ha solo “intercettato” gli scontenti, forse ha incrementato la sua notorietà. Però, Tronchetti Provera manco c’era.

Grillo ha ricordato che il presidente della Consob Lamberto Cardia lo ha avvisato più volte di non farlo:”mi ha scritto ben tre lettere per dirmi di stare attento, perché turbavo la Borsa. Lo stesso ministro Di Pietro, che ha avallato la mia iniziativa, ha ricevuto lettere dello stesso tenore”.

E, a proposito di questi avvisi, Grillo fa una battuta feroce su Marco Tronchetti Provera che ha mandato un avviso dicendo che non poteva esserci perché ammalato. “E’ proprio vero – ha sottolineato Grillo – che il mondo si è rovesciato: Tronchetti che manda un avviso invece che riceverlo”.

La sensazione è che l’apparizione annuncia di Grillo non abbia, in realtà interferito con le scelte, altrettanto annunciate di vendere Telecom. Di interferenze, invece, si è parlato, sempre a proposito di telefonia, in Gran Bretagna. Uno dei più grandi apicoltori britannici, John Chapple, ha dichiarato al quotidiano ‘Dialy Telegraph’ che 30 dei suoi 40 alveari si sono svuotati e che anche altri suoi colleghi hanno perso fino al 75% delle loro api.

Questi dati spaventano molto anche gli agricoltori visto che questi insetti sono l’unico mezzo capace di impollinare milioni di ettari di alberi da frutto e di altre piantagioni.

Pare che le onde elettromagnetiche prodotte dai cellulari sarebbero la causa della morte di un numero insolitamente alto di api. Secondo uno studio fino al 70% delle api esposte ai segnali emessi dai telefonini perdono il senso dell’orientamento e non riescono più a tornare all’alveare dopo aver raccolto il nettare dai fiori.

Lo studio sul rapporto tra cellulari e alveari è stato realizzato in seguito alle pressanti richieste di molti apicoltori britannici preoccupati dai risultati di una ricerca condotta qualche tempo fa in Germania dall’Università di Landau, secondo la quale i segnali emessi dai telefonini potevano interferire con la capacità di orientamento delle api.

Insomma, le aziende di telefonia, che sono il miele del capitalismo avanzato, ammazzano i piccoli azionisti e le api operaie. Poi, dice, che una telefonata allunga la vita. Beh, buona giornata.

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Complimenti per la trasgressione.

Finisce un’onesta carriera di rompi palle. Paolini, quella simpatica faccia di bronzo che appariva alle spalle degli inviati ha detto che non lo farà più.

Sono state mitiche le sue apparizioni. Una volta fu presa a calcioni da Frajese, perché alle sue spalle Paolini aveva mostrato un paio di profilattici.

E’ stato la croce di Fede, l’unico, in verità a mettere in luce la pochezza dell’ancorman di Arcore, che sbraiatava e perdeva le staffe, perché Paolini metteva alla berlina quel modo ciarlatano di fare le dirette.

Paolini metteva a nudo la sacralità della pomposa definizione “dal nostro inviato”. Ne sbeffeggiava la retorica, ne svelava il trucco, spazientiva l’inviato col microfono, che perdeva il filo, del discorso, faceva impazzire il cameraman, alla ricerca di una ripresa che lo escludesse dal video.

Ma Paolini era imperterrito. Sembrava la rappresentazione di Up il Sovversivo di Chiappori.

Faceva le facce, dietro il cronista, davanti alla telecamera. La sua faccina , contornata dai lunghi capelli, da cui spuntavano le orecchie a sventola e incastonata dietro gli occhiali, appariva come da dietro uno specchio immaginario, in cui si poteva specchiare il telespettatore.

Come al Circo, nel famoso show del clown che fa finta di essere l’immagine riflessa di un altro clown, e cerca di imitarne i gesti, in modo maldestro, Paolini non prendeva in giro quelli che sono davanti alla telecamera, ma noi che stavamo davanti alla tv. Il che era pericoloso, troppo pericoloso per la prosopopea del “passiamo la linea al nostro inviato”.

Anche nelle sue modalità truci e svaccate, la tv ha bisogno di essere presa sul serio. E Paolini, invece, ne svelava il trucco, ci restituiva la finzione, la parodia del pathos del “siamo collegati in diretta con” . Paolini ha fatto per anni marameo al “bello della diretta”.

Denunciato, poi assolto alla fine, però Paolini si è arreso. Siccome anche noi ci siamo da tempo arresi a questa tv, Paolini non ci mancherà. Peccato. Beh, buona giornata.

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Quei robot che sono già tra noi.

Inaugurata ieri, prende il via oggi il via la Conferenza Internazionale di Robotica e Automazione (Icra). E’ la prima volta che questo appuntamento internazionale con la robotica viene organizzato in Italia. Secondo gli organizzatori, il filo rosso della manifestazione sarà la “robotica ubiquitaria”, ossia lo sviluppo enorme che robot e automi si preparano ad avere nel prossimo futuro e che li trasformerà in presenze costanti e irrinunciabili in ogni aspetto della vita quotidiana.

Ironia della sorte vuole che il futuro dei robot venga ospitato in un luogo teologico, l’Università Angelicum, prestigiosa istituzione universitaria dei padri domenicani. L’altro giorno padre Cantalamessa tuonava contro i computer, che non hanno anima, chissà che dirà quando i robot rischia di trovarseli in casa. Vabbè, si vede che è proprio vero che le vie del Signore sono infinite.

Non è invece fuori luogo che la conferenza si svolga in Italia. Non perché il nostro sia un paese così attento alla ricerca scientifica, come dimostrano le briciole che si destinano ogni anno allo sviluppo del pensiero e della pratica scientifica nelle nostre Finanziarie. E neppure perché si abbia un qualche riguardo per i ricercatori, che guadagnano non molto di più dei precari del call center, con rispetto parlando dei ragazzi e delle ragazze “buongiorno, in che cosa posso esserle utile?”.

Il fatto che arrivi a Roma una conferenza sulla robotica, con tanto di filmati e dimostrazioni del futuro degli automi è, forse, il riconoscimento che in Italia c’è un terreno molto favorevole al futuro inserimento dei robot nella nostra vita quotidiana. Basta accendere la tv.

I protagonisti dei reality, per esempio, non sono automi teleguidati dalle reti televisive e dalle società che producono format?

Oppure, i direttori di alcuni giornali di destra, che ci deliziano della loro presenza nei talk show, parlando di tutto, ma dicendo sempre la stessa cosa, cioè che è sempre e solo colpa della sinistra, pur se l’argomento magari è il delitto di Cogne, non sono forse eterodiretti dai proprietari delle rispettive testate, che li manovrano come i ragazzi sanno manovrare il joystik?

E vogliamo parlare, a proposito di robotica ubiquitaria, di quegli automi di ultima generazione, che sono i soliti noti che a nome dei partiti si presentano ovunque in tv, a tutte le ore, troppo spesso ubiqui, appunto, che mentre parlano in diretta in un canale, vanno contemporaneamente in onda su un altro canale, mandando in vacca la libertà di cambiare facce in politica, non dico col voto, ma almeno col telecomando?

C’è ne uno che è straordinario per la sua perfezione, così finto che sembra vero. Fu socialista e piduista, per far dispetto ai comunisti passò a Forza Italia. E oggi fa il vice di uno che in Forza Italia è arrivato dritto dritto dal Pci. Si vede che anche i robot possono essere vittime di un destino cinico e baro.
Ma questo ce lo avevano già raccontato Asimov e Clark. Per tanto, vorremmo dare il benvenuto in Italia ai robot di tutto il mondo. Beh. buona giornata.

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La colomba della sete.

(Un racconto di Pasqua.)

Anche oggi il Sole non sorge. E’ la terza volta che succede quest’anno. Le previsioni meteo dicevano sarebbe sorto alle 6,45 e tramontato alle 19,10. Ma ormai sono le 9,30 di Venerdì Santo. E il Sole in cielo non c’è. Le luci esterne, che sono crepuscolari, sono ancora accese, mentre mi avvio lungo il vialetto esterno, verso l’automobile. Oggi è semi-festivo, ma ho un pranzo di lavoro: incontro un cliente.

Le notizie sono poche e spesso oscurate, appunto. Sembra che la Prima Guerra d’Africa abbia spostato l’asse di rotazione terrestre. Nessuno dice nulla di preciso, come ai tempi dell’Attacco alle Torri Gemelle. Ma in Africa stanno usando bombe atomiche a uranio ultra-impoverito. Le esplosioni sono tali da provocare un’intermittenza nella rotazione della Terra, come fosse un disco al vinile graffiato, nel quale la puntina ogni tanto salta un solco. Però, dicono gli esperti, queste atomiche di nuova generazione hanno il vantaggio di sprigionare radiazioni a bassa intensità, bio-degradabili nell’aria in 36 ore. Il che lascia intatte le fonti d’acqua.

La coalizione cino-russa, pare, abbia ormai il controllo completo dei maggiori fiumi dell’Africa, mentre gli indiani, alleati degli Usa e degli anglo-australiani riescono a stento a controllare le regioni dei grandi laghi. Ma sono notizie frammentarie, che per lo più si riescono ad avere attraverso siti web indipendenti. Il nuovo presidente dalla Rai, Lele Mora ha detto che quando sarà necessario, i Tg daranno informazioni puntuali sul conflitto. Ma per il momento, per non eccitare gli animi, è meglio intrattenere l’informazione giornalistica con programmi edificanti, leggeri.

Da quando è scoppiata la guerra dell’acqua, Roma non è più quella di una volta. I Caschi Blu dell’Onu presidiano il Tevere. Dunque, per spostarsi con l’automobile bisogna fare lunghi percorsi all’interno della Città, perché i lungotevere, che una volta erano strade di scorrimento, oggi sono zona militare. Non c’è pericolo che aumenti l’inquinamento, ha detto il ministro dell’Ambiente, perché ormai quasi tutto il nostro parco auto nazionale è stato riconvertito a idrogeno. Luca Cordero di Montezemolo, che oltre che Ministro dell’Ambiente è anche vice presidente del Consiglio, si è detto ottimista, circa le sorti della guerra dell’Acqua. I francesi si stanno ritirando dal Po, e ormai presidiano solo il lago di Como. Anche lungo il Po si stanno dispiegando i Caschi Blu.

Mentre salgo in macchina, controllo il serbatoio: l’indicatore mi dice che ho acqua necessaria per arrivare comodamente al mio appuntamento. Al ritorno, dovrò fare rifornimento a Fontana di Trevi, sperando non ci sia troppa coda.

Una volta era più comodo, c’erano i self-service, mettevi una banconota e facevi rifornimento. Ma da quando Bush ha perso la Guerra del Petrolio e la benzina è stata abolita, e le Sette Sorelle hanno fatto bancarotta, l’acqua è diventata vitale per l’economia mondiale. Un barile d’acqua vale circa 110 euro il barile. Bisogna fare la fila alle fontane, perché siamo in tempo di guerra e c’è il razionamento. Solo tre litri al giorno. Qualcuno ha modificato il motore, riesce a farlo andare ad acqua gassata. Ma pare sia una mezza leggenda metropolitana, come quella che si raccontava a proposito dell’olio di colza. L’acqua salmastra è vietata. “Serve solo ed esclusivamente per la sicurezza nazionale”, ha detto a Porta a Porta il ministro della Difesa, mons. Bagnasco.

Sul cristallo destro della mia macchina c’è il segno dell’escremento di un piccione. Lo vedo con la coda dell’occhio sinistro. Mi chiedo se può darmi fastidio alla guida, magari mi ostacola la vista se a un incrocio devo guardare se qualcuno viene da sinistra. Non mi sembra il caso di usare acqua per lavare via quella macchia sul vetro. Potrei sempre abbassare il finestrino, così elimino il problema, ogni volta che si presenta.

Sono un pubblicitario. Il cliente che devo incontrare è un produttore indipendente di acque minerali. I gestori delle fonti d’acqua sono gli uomini del momento, i nuovi ricchi. E’ successo tutto in fretta. La sconfitta degli americani in Iraq ha determinato l’invasione da parte dell’Iran, che oggi controlla anche la Palestina, il Libano, l’Afghanistan. La Grande Persia controlla tutto quello che una volta si chiamava il mondo arabo.

In un summit segreto in Vaticano, Dick Cheney, eletto alla Casa Bianca dopo il colpo di Stato a Washington che ha portato alla destituzione di George W Bush, ha deciso, come estrema difesa dell’occidente, di rendere nota la formula dell’energia all’idrogeno, come Clinton rese nota la mondo la Mappa del Genoma. Nel giro di pochi mesi, il petrolio ha perso valore, è uscito dai mercati finanziari, non è più stata una risorsa energetica. “Fine dell’inquinamento”, hanno esultato gli ambientalisti di tutto il mondo. La reazione a catena è stata repentina, come la crescita di Internet, dopo il Crollo del Muro di Berlino. Per ripicca, quelli di al Qaeda stanno buttando il petrolio a mare, così da rendere inutilizzabile all’Occidente la nuova forma di energia, l’acqua.

Oggi i potenti del mondo sono gli industriali dell’acqua. Giulio Malgara è tornato alla guida della Chiari&Forti, come fece anni fa Steve Jobs con Apple. Ha riacquistato Levissima, ha scalato Ferrarelle, San Benedetto e Uliveto. Poi ha comprato Mediaset, l’ha fusa con Telecom. Ha trasformato Upa in un partito, ha vinto le elezioni e ora è il capo del Governo. Prodi è in esilio a Malta, Berlusconi è agli arresti termali, a Saturnia. Massimo D’Alema è il nuovo presidente della Repubblica. Casini ha preso i voti. Non quelli degli elettori, quelli della Chiesa. I meglio informati sussurrano possa essere papabile. Molte cose sono cambiate nella liturgia cattolica, per via della guerra dell’acqua. Sono state abolite, per esempio, i battesimi, le benedizioni, e tutto quello che ha a che vedere con l’acqua. Il tentativo di brevettare l’acqua santa è stato drasticamente censurato dall’Antitrust. Si sospetta un conflitto di interessi, che coinvolgerebbe Malgara, il nuovo taycoon delle acque.

Mentre mi sistemo la cintura di sicurezza e giro la manopola della luci, mi viene voglia di fumare, ma non trovo l’accendino. E’ uno dei primi modelli a idrogeno, dopo la fine del gas butano, caduto in disuso come gran parte dei combustibili tradizionali. Temo di averlo lasciato a casa. Mi dà fastidio, molto fastidio dover tornare indietro. Ma ho voglia di fumare. Molto incazzato con me stesso, riapro lo sportello, lo sbatto in malo modo e mi riavvio verso casa. Il rumore dello sportello sbattuto provoca l’abbaiare del cane dei vicini. Un uccello mi svolazza quasi sulla testa.

Da quando le auto vanno a idrogeno, ricavato dall’acqua, succede che gli animali abbiamo cambiato il loro rapporto con le macchine. Succede spesso che in città, ai semafori, che i cani randagi vengano ad annusare il tubo di scappamento. O che, in coda nel traffico, un gabbiano si posi sul cofano e ti guardi in modo interrogativo. Per non parlare dei gatti, da sempre usi al calduccio dei cofani della auto in sosta, che di questi tempi, invece, tentano di saltarti dentro dai finestrini aperti.
Secondo Piero Angela, il primo senatore a vita nominato da D’Alema, la penuria d’acqua spinge gli animali a essere più vicini agli uomini, più di quanto facessero prima per il cibo.

Mentre ritorno alla macchina con la sigaretta accesa tra le labbra, e l’accendino al sicuro nella tasca destra della giacca, sul cofano c’è un uccello. E’ bianco, lo si intuisce anche al buio di questa mattina senza Sole in cielo. Non è un piccione, come credevo fosse chi mi aveva smerdato il finestrino. Più mi avvicino, più lo guardo, più intravedo un pennuto candido, come una colomba.

In effetti, giorni prima, Alessandra mi aveva detto che aveva liberato la colomba dalla casetta degli uccelli. E che quella sembrava essersene volata via, ma che poi era tornata e che spesso l’aspettava all’uscita dal portone, in cerca di cibo. La libertà è bella, ma la fame è una gabbia ancora più robusta. Alessandra ama gli animali, io amo Alessandra.

Adesso la colomba mi sta guardando, muovendo la testa, prima un occhio poi l’altro. Ora sono molto vicino, ma la colomba non vola via. Comincia a fare una specie di danza, gira su se stessa, tuba, e torna a guardarmi, prima con l’occhio destro e poi con quello sinistro.

Non ho voglia di darle qualcosa da mangiare. Di queste cose si occupa sempre Alessandra. Ho fretta e devo andare. Apro lo sportello per salire, ma quella spicca un breve volo e si piazza con le zampette sul montante della portiera, in equilibrio, sbattendo le ali.

Che palle. Ho capito. Allungo una mano e da sotto il cruscotto faccio scattare l’apertura del cofano. La colomba spicca il volo e si piazza sull’apertura. Allora, chiudo lo sportello, mi avvicino e alzo il cofano, La colomba salta sul motore e ricomincia la danza di prima. Allora svito il tappo del serbatoio dell’acqua: la colomba ci ficca la testa dentro e comincia a bere. Ogni tanto, solleva la testa, mi guarda di sbieco e poi ricomincia e beccare acqua da dentro il serbatoio.

In tempo di guerra dell’acqua, se mi pescano che do da bere a un animale passo un guaio serio. Per questo mi guardo intorno con circospezione.

Siamo a Pasqua e la colomba ha un significato religioso, per i credenti. Tanto è vero che la gente compra dolci a forma di colomba e se li mangia. La nostra religiosità passa sempre per lo stomaco. C’è chi afferma che la colomba è un simbolo di pace. In tempo di guerra dell’acqua, questa è solo la colomba della sete. Sete di pace. (Beh, buona giornata).

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La Pasqua dell’integralismo.

Padre Cantalamessa, un cognome, una predestinazione, ha detto che la donna deve fare la donna come l’uomo vuole sia una donna; che il cinema deve fare il cinema che piace alla Chiesa, mica al regista, tipo Olmi; ha detto anche che la tecnica è solo tecnica e che il computer non sarà mai capace di amare.

Quando si dice che la Chiesa Cattolica ha il diritto di parlare, senza che questo debba essere inteso come una intrusione nella società civile, si dice una verità che ci permettiamo di rovesciare. Infatti, facciamoli parlare, facciamo dire tutto quello che pensano, a ruota libera: così viene fuori tutta la visione del mondo che il nuovo Papa sta imponendo ai suoi uomini e tenta di conculcare ai fedeli.

Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo: è una meraviglia, un regalo, una rivelazione rivelata. Egli parla di donne e di motori, come qualsiasi maschietto farebbe tra amici maschietti, al bar o nello spogliatoio.

Non pago, si addentra nella polemica se sia nato prima l’ovo o la gallina.

“È necessario -ammonisce- dare più spazio alle ragioni del cuore in una società dominata dalla tecnica. Un computer, un’intelligenza artificiale, non sarà mai in grado di amare”, ha infatti detto padre Cantalamessa, nell’omelia nel corso della celebrazione della Passione del Signore che si è tenuta nella basilica Vaticana alla presenza
di Benedetto XVI.

Ma va?! E noi che pensavamo che fosse possibile, auspicabile, comodo, utile.

“La nostra civiltà, dominata dalla tecnica, ha bisogno di un cuore perchè l’uomo possa sopravvivere in essa, senza disumanizzarsi del tutto. Dobbiamo dare più spazio alle ragioni del cuore, se vogliamo evitare che mentre si surriscalda
fisicamente, il nostro Pianeta ripiombi spiritualmente in un’era glaciale». Va bene, buona Pasqua.

Però, se “la donna onesta tutto l’anno a casa resta”, se i film vanno all’”indice”, e il computer è uno strumento del demonio, allora viene forte il sospetto che a padre Cantalamessa sia stato regalato un calendario scaduto da un paio di millenni, nell’epoca in cui il pianeta era riscaldato dai roghi delle streghe e gli scienziati dovevano abiurare per salvarsi dall’Inquisizione.
Beh, buona giornata.

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Morire di pregiudizi a sedici anni.

M.P., 16 anni, frequentava l’istituto tecnico Sommeiller, considerato uno dei più prestigiosi di Torino. Dallo scorso anno scolastico era stato preso di mira dagli altri ragazzi che per deriderlo lo apostrofavano con il nome di Jonathan, come uno dei personaggi del Grande Fratello televisivo indicato come omosessuale. Martedì scorso M.P. ha deciso di farla finita. Prima di gettarsi nel vuoto ha lasciato due biglietti, ora in mano ai carabinieri, dai quali si è appreso che in uno chiede scusa ai genitori, nell’altro traccia le motivazioni del suo gesto. “A scuola – pare ci sia scritto – non mi accettano perché mi vedono come uno diverso da loro. Non mi sento integrato”.
M.P. era uno dei tre figli di una donna di origine filippina e di un agricoltore di Asti, in Piemonte.

Ecco una giovane vittima della trilogia del razzismo: “bastardo”, “mezzo negro”, “finocchio”.

Sono anni che nel nord ovest d’Italia si fanno campagne, politiche e d’opinione contro l’immigrazione. E si conquistano consensi elettorali. Torino colta e civilissima ha avuto la disavventura recente di esprimere uomini politici che dall’estrema destra sono passati alla Lega Nord, ricoprendo cariche istituzionali, dal consiglio comunale al Parlamento italiano, per poi diventare vice ministri e approdare al Parlamento europeo.

Persone di provata professione d’intolleranza razziale, non solo ideologica, tanto da subire condanne, per esempio, a pagare una multa di 750.000 lire perché ritenuto responsabile di aver picchiato un bambino marocchino. O venire condannato in via definitiva a due mesi e venti giorni di reclusione, oltre ad una multa 3.040 euro, perché ritenuto responsabile dell’incendio appiccato ai pagliericci di alcuni immigrati che dormivano sotto un ponte a Torino.
“Non mi sento integrato”. Ecco il clima che un sedicenne ha sentito intorno, ha visto in tv, ha letto sui giornali. M.P., dice sua madre e confermano i suoi insegnanti, era bravo a scuola, educato e gentile. Per alcuni dei suoi compagni di scuola M.P. era “finocchio”.
L’accusa di essere gay è frequente nella scuola, secondo l’Arcigay, che nei mesi scorsi ha svolto un’inchiesta nelle scuole, finanziata dall’Ue, condotta su circa 500 studenti e insegnanti da cui risulta che più della metà dei ragazzi e delle ragazze (53 per cento) delle medie superiori sente pronunciare spesso o continuamente parole offensive come “finocchio” per indicare maschi omosessuali o percepiti come tali.
La tentazione di archiviare il suicidio di un sedicenne, che si è buttato dal quarto piano della sua abitazione, come un banale episodio di bullismo è una scorciatoia che può praticare solo chi è uso frequentare la bassa sociologia.
Sono mesi che l’omosessualità è al centro dell’attenzione mediatica, per via del violento attacco contro i Dico. Questa crociata ha trovato sul suo cammino una giovane, innocente vittima.

Sarebbe ripugnante anche il semplice sospetto che esista una relazione di causa-effetto tra quanto è avvenuto a Torino e la conclamata omofobia di certa parte del mondo politico ed ecclesiastico. Ma un clima pesante c’è, non si può negare. Saremmo tentati di chiedere che le bandiere che sventoleranno durante l’annunciato Family day, che si vuole contrapposto alla legge sui Dico, siano listate a lutto, in memoria di M.P. Ma non lo faremo, per via dell’assoluta fedeltà ai diritti civili, compresi i principi della libertà di coscienza dei singoli partecipanti a una manifestazione legittima, ma non per questo profondamente sbagliata, quasi provocatoria. Beh, buona giornata.

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Il caro-petrolio.

Il petrolio, che aveva aperto a 64,90 dollari il barile, inverte rotta e cala di 61 centesimi. Secondo gli analisti, a innescare le vendite è stato l’annuncio, da parte del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, che i marinai inglesi prigionieri di Teheran verranno rilasciati oggi stesso.

Ecco quanto valgono 15 vite umane sui mercati finanziari: 61 centesimi, circa 4 centesimi di dollaro a testa.

Se una vita vale più o meno quattro centesimi, con questa odierna quotazione, basta dividere il costo unitario di un vita per il prezzo odierno di un barile di petrolio: se tanto ci dà tanto, per fare un barile di petrolio ci vogliono circa 1.600 persone.

Nel prossimo week-end di Pasqua pare si metteranno in viaggio 15 milioni di auto, solo in Italia. Adesso sappiamo quanto costa la benzina che consumeranno gli automobilisti italiani. Non in dollari né in euro, ma nel contro valore vita-petrolio. Beh, buona giornata.

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Tronchetti della felicità.

In principio, il ministro della Comunicazione Paolo Gentiloni, intervistato da Rainews24, si è detto ”preoccupato” per la proposta di vendita di Telecom a un colosso americano e a una compagnia messicana, indicando il rischio di uno ”spezzettamento degli asset interni” di cui soffrirebbe ”la stabilità dell’azienda”. Tuttavia, ha detto Gentiloni, da parte del governo ”non verrà
innalzata da nessuna barricata”. Certo, ha comunque osservato il ministro, ”in tutti i paesi occidentali la principale azienda di telecomunicazione è in mano pubblica o di privati nazionali”.

Passa qualche ora e viene diffusa una intervista al Foglio, secondo il quale il ministro per le Comunicazioni, Paolo Gentiloni, confida in una soluzione di mercato italiana per Telecom e fa un’apertura moderata anche a Mediaset. Il ministro si dice favorevole a una diversificazione per Mediaset perché il suo sviluppo non può dipendere solo dal monopolio domestico sul mercato pubblicitario. Dice Gentiloni: “La legge attualmente in vigore, che io non ho votato, – spiega – oggi vieta l’incrocio tra Mediaset e Telecom. Per quanto riguarda il gruppo televisivo io sono favorevole a qualunque forma di diversificazione, perché lo sviluppo di Mediaset non deve dipendere soltanto dal monopolio domestico sull’advertising anche perché la legislazione troppo protettiva non fa bene alle imprese, non le rende competitive”.

Queste dichiarazioni sembrano la logica conseguenza delle affermazioni di Sircana, portavoce di Prodi, secondo il quale le decisioni del cda di Telecom sono “sacre” e il governo non ha intenzione di interferire. Il governo “auspica” che Telecom resti italiana e che siano garantiti asset industriali e piani occupazionali.

Il perché sta nel fatto che il governo, attraverso il Tesoro possiede la cosiddetta “golden share”, cioè un quota di compartecipazione azionaria. Dicendo di non voler interferire, l’azionista pubblico rispetta l’assioma neoliberista, che recita “meno stato, più mercato”.

Bisogna però considerare che Telecom non è semplicemente una compagnia di servizi di telefonia, ma è l’azienda italiana proprietaria della rete, sulla quale viaggiano anche i servizi dei concorrenti. Infatti, gli utenti pagano il canone.

Quando i concorrenti dicono che le loro tariffe sono “senza canone”, usano un semplice artificio pubblicitario: i prezzi delle tariffe dei concorrenti sono comunque composti dall’utilizzo della rete. Questo dice anche che vendere la rete, significa espropriarla al sistema paese, e anche tutti quelli, e sono milioni di famiglie, che l’hanno finanziata attraverso il canone, fina da quando l’azienda di chiamava Sip, per poi diventare Telecom Italia.

C’è poi un aspetto squisitamente politico. L’apertura a Mediaset, e quindi la disponibilità a modificare la legge che vieta l’incrocio tra Mediaset e Telecom ha un valore tutto politico. Che suona più o meno così: perché il Cavaliere esca dalla scena politica, gli si può concedere l’integrazione tv-telefonia.

Così si potrebbero realizzare due fatti, uno economico, l’altro politico. Una azienda mastodontica italiana, come Mediaset potrebbe trovare uno sviluppo che oggi gli è negato, perché è più grande del suo mercato, e quindi ne è divenuta un grosso ostacolo, tanto da danneggiare sistematicamente l’intero mercato delle tv.

Quello politico sta nel togliere di mezzo, lautamente remunerato nella prospettiva di uno straordinario sviluppo delle sue imprese, finalmente anche all’estero, un imprenditore che ha fatto della “scesa in campo” uno strumento di espansione finanziaria e commerciale, arrivando a modificare, se non a sciogliere del tutto, i lacci e i laccioli civili, amministratiti, e spesso penali, che impedivano la crescita delle aziende del gruppo Mediaset.

Se questo si verificherà, tutti saranno felici: Tronchetti ci guadagna, Berlusconi ci guadagna, il governo ci guadagna, la politica ci guadagna il mercato ci guadagna. La domanda è: avete mai visto un buon affare, se nessuno ci rimette qualcosa? Beh, buona giornata.

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Tune libera tutti.

Mentre da noi tutto ciò che dice libertà, dalla liberalizzazione dei taxi fino alla libertà di godere dei diritti di convivenza crea scandali, petizioni, interpellanze, anatemi, come fossimo costretti a vivere nel passato remoto del mondo occidentale, arriva fresca fresca la notizia che sono stati forzati i lucchetti della musica, sono state spezzate le catene delle major, è caduto il muro del copyright. L’era dei “lucchetti” digitali, infatti, entra in una nuova fase, che a breve potrebbe decretarne anche la fine.

La Apple e la Emi hanno trovato l’accordo e deciso che entro maggio la casa discografica britannica, una delle quattro major a spartirsi il 75% del mercato mondiale, rilascerà tutto il suo catalogo di canzoni e video musicali sul portale iTunes senza Drm, le protezioni software che non ne permettono la copia. L’annuncio – storico per il mondo del digitale – è stato dato nel corso di una conferenza congiunta delle due società a Londra.

“Così ci guadagnano tutti, case discografiche e utenti – ha detto Steve Jobs, capo di Apple. Per questo invitiamo anche le altre case discografiche a unirsi a questa iniziativa. Su iTunes, entro la fine dell’anno saranno disponibili 2,5 milioni di canzoni senza Drm”.

Sarebbe bello che si potessero togliere i Drm anche nella mente dei nostri governanti, e nello specifico del ministro dei Beni Culturali, competente per la materia dei diritti d’autore e, perché no, anche del ministro delle Politiche giovanili: ragazzi, siete stati scavalcati, anni luce, da due grandi multinazionali della musica e dell’intrattenimento giovanile.

Che aspettate, adesso a riformare subito la legge sul copyright e a togliere l’Iva sulla musica e sui film? Se proprio non avete il coraggio, non dico di fare, ma almeno di pensare come Steve Jobs, datevi un obiettivo raggiungibile, come ha fatto Zapatero, che nei primi cento giorni del suo governo ha, appunto, tolto l’Iva dalla cultura ( e ha riformato la televisione in Spagna).

Non sottovalutate la portata di certi avvenimenti, perché mentre anche i ragazzi italiani potranno scaricare canzoni senza Drm, potrebbe venirgli voglia di scaricarvi per sempre dai loro pensieri. Senza rimpianti.

Se proprio non riuscite a farvene una ragione, guardate almeno gli ultimi sondaggi, che danno il consenso verso il governo al 43%, in netto svantaggio rispetto alla Cdl. Se i giovani non vi pensano, perché dovrebbero votarvi? Beh, buona giornata.

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Prigioniero, non embedded.

Rinnovo il mio forte appello al governo e al parlamento afgano, alle ambasciate occidentali presenti a Kabul, alle Nazioni unite, alle organizzazioni non governative, ai colleghi giornalisti afgani e italiani, alle associazioni umanitarie perché facciano del tutto per ottenere il rilascio di Adjmal e di Rahmatullah. Vi ringrazio per l’immensa solidarietà che tutti voi mi avete trasmesso e l’affetto con cui avete accolto il mio rilascio.
Continuiamo la mobilitazione, con lo stesso impegno e con la stessa forza, fino a quando non saranno liberati anche i miei due amici. (Daniele Mastrogiacomo). Beh, buona giornata.

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Alti e bassi.

Secondo uno studio recente non è vero che le persone più basse tendono ad essere più aggressive: la teoria del cosiddetto “Complesso di Napoleone” è stata smentita scientificamente. In effetti sono i più alti ad avere un’attitudine più violenta in situazioni di conflitto. La ricerca, pubblicata dai quotidiani londinesi, ha così sfatato un mito che, secondo un sondaggio, era diffusa tra circa l’80% della popolazione.

Lo studio è stato commissionato dal programma del canale televisivo Bbc3 “Fuck Off, I’m Small” (Fottiti, sono basso) alla University of Central Lancashire. I ricercatori hanno selezionato dieci uomini più bassi di 1 metro e 50 e altrettanti di statura media, e hanno creato della squadre, una dei basso e l’atra degli alti, coinvolgendole in un gioco, il ‘Chopstick Game’ (il gioco delle bacchette cinesi): in pratica ad ogni coppia veniva dato un bastoncino col quale dovevano duellare con gli altri. I dati raccolti grazie ad alcuni rilevatori del battito cardiaco hanno mostrato che i partecipanti più alti tendevano a reagire in modo più aggressivo. “I risultati hanno confermato che la ‘Sindrome del nano ‘ è solo un mito. Quando la gente vede una persona bassa che si comporta in modo violento pensa che ciò sia dovuto all’altezza. Ma in realtà è solo per attirare maggiormente l’attenzione”, ha commentato il dottor Mike Eslea, lo psicologo che ha guidato la ricerca.

Che un canale televisivo commissioni una ricerca “scientifica”, che si è svolta facendo fare a due squadre di pirla una battaglia a colpi di bacchette cinesi è quanto di più comico si possa avere, per confutare, l’altrettanto squinternata teoria del Complesso di Napoleone, teorizzata per la prima volta dallo storico Alfred Adler, secondo il quale i 158 centimetri del generale Bonaparte avrebbero giocato un ruolo essenziale nella formazione del suo carattere.

Diciamocelo: più che una bufala, sembra un’anticipazione del 1° Aprile, giorno fatidico del celeberrimo “Pesce d’Aprile”. Da noi questa tradizione si è un poco persa, forse perché viviamo in un paese che ha 365 pesci d’aprile l’anno.

Come dimostrano, a proposito di stature, di ricerche, e di canali televisivi, le ultime dichiarazioni del capo della minoranza: “”Se questo governo andrà a casa i più felici, dopo gli italiani, saranno proprio i nostri alleati”. Lo ha detto il presidente di Forza Italia che ha parlato a Reggio Calabria, riferendosi a Stati Uniti, Gran Bretagna e agli altri alleati dell’Italia sullo scenario internazionale.

La qual cosa è bizzarra, proprio dopo che il suo partito ha votato al Senato contro il finanziamento delle missioni militari italiane all’estero.

Come volevasi dimostrare: tra alti e bassi, noi il “pesce d’aprile” ce lo giochiamo come un jolly, ad ogni comizio elettorale. Beh, buona giornata.

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I veri Talebani sono loro.

I veri Talebani non sono quelli che sono usciti dalle matrasse, le scuole coraniche nate in Pakistan e poi diventate, grazie ai dollari americani la palestra del fondamentalismo islamico, da scagliare contro i sovietici in Afghanistan.

I veri Talbani sono a Washington, a Londra, a alcuni di loro sono anche a Roma. Sono fedeli alla religione della guerra, intransigenti nella teoria dello scontro di civiltà, integralisti nello scontro di religione. Per loro è meglio un Baldoni ammazzato, un Calidari assassinato che un Mastrogiacomo vivo.

Eccola la logica perversa, vassalla, guerrafondaia, che si gioca sul terreno della politica, con la p minuscola, sempre e solo con la pelle degli altri. La vicenda di Daniele Mastrogiacomo ha dimostrato che la guerra al terrorismo è un bluff, che l’esportazione della democrazia una balla. I Talebani, quelli dell’Afghanistan hanno il controllo militare, dunque amministrativo e politico della grande maggioranza del territorio.

Karzai, che prima veniva descritto come il semplice sindaco di Kabul, ora sembra essere il semplice amministratore del condominio della truppe alleate, coinvolte in una guerra senza fondamento, senza prospettive, senza risultati. Con chi bisognava trattare la liberazione di Mastrogiacomo? Quali erano i rapporti di forza sul campo? Esattamente con i veri “padroni” di casa, quelli che hanno permesso la trattativa che ha portato alla liberazione di Mastrogiacomo. Per cui con i Talebani si è trattato, con successo.

Ma il punto è un altro. Se monta la rabbia nelle cancellerie occidentali, che si contrappone alla gioia per la liberazione del giornalista italiano è semplicemente perché questo episodio costringe tutti a guardare in faccia alla realtà, uscire dalla menzogna e dalle ambiguità: adesso bisogna avere il coraggio di dire la verità all’opinione pubblica. Vale a dire: cinque anni e mezzo di guerra in Afghanistan, tanto quanto durò la Seconda Guerra Mondiale sono stati un fallimento. Perché l’obiettivo non era sconfiggere il mullah Omar, ma attaccare poi l’Iraq e tentare di aggredire a breve l’Iran.

La guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi, diceva von Clausewitz: e infatti, è proprio la continuazione del piano di Bush di presenza militare in quell’area del mondo, utile anche per mantenere sotto tiro l’Europa.

L’Italia non è isolata perché sta dalla parte della stragrande maggioranza dei cittadini europei, e da qualche mese anche americani che hanno capito il trucco di chi fa le guerre per non finirle e continuarne altre, e accenderne di nuove.
Non lo scordi Prodi, non lo rinneghi D’Alema: Daniele Mastrogiacomo è tornato tra noi, e noi siamo felici di essere con lui. Con lui vivo, siamo tutti più vivi. Beh, buona giornata.

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La peggio gioventù (grazie alla tv).

Pessime notizie dal Censis, l’istituto di ricerca più attendibile d’Italia. Gli italiani sono i più arretrati tra gli europei (Francia, Gb, Spagna, Germania i paesi presi in esame oltre al nostro) nell’utilizzo dei media. E’ la diagnosi del sesto rapporto Censis-Ucsi che segnala come la dieta mediatica basata solo su tv, radio e cellulari, escludendo giornali, riviste, libri ed internet, è da noi seguita da ben il 28%. Contro il 24% degli spagnoli, il 19,2% dei francesi, l’8,8% dei tedeschi, l’8,5% dei britannici.

Ancor più preoccupante è che la quota di giovani che non legge e non usa internet: tra gli italiani il 14,4% (contro il 13,4% degli spagnoli, il 14,1% dei francesi, il 9,1% dei tedeschi, il 6,1% dei britannici) e alta è anche la percentuale di giovani italiani che hanno aggiunto a tv, radio e cellulari anche internet, continuando ad escludere la carta stampata (da noi l’11%, in Spagna e Gran Bretagna il 10%, in Francia addirittura il 20%, in Germania l’8,5%).

Dal rapporto Censis-Ucsi, gli italiani risultano ultimi tra quanti utilizzano tutti i media (dalla tv, ai libri ad internet): da noi sono il 23,2%, in Spagna il 33,4%,in Francia il 28,6%, in Germania il 37,3%, in Gran Bretagna il 46,4%.

L’urgenza di mettere mano alla riforma del sistema televisivo italiano a una concreta riforma della tv pubblica è diventata emergenza culturale, democratica, civica. Senza una corretta frequentazione con i media non c’è una corretta costruzione, personale e collettiva dell’opinione delle persone e dunque dell’opinione pubblica, quella che controlla, promuove e boccia il funzionamento di una società civile e democratica.

“In tv il giornalismo è diventato spettacolo di massa in cui l’effetto sostituisce il fatto e il culto del dramma uccide la riflessione. L’entertainment non è show, ma ‘peep show’, il voyeurismo ha preso il posto del quoziente di intelligenza”, ha detto giorni fa Jaques Séguéla, famoso pubblicitario francese, parlando della nostra tv, giorni or sono in un convegno in Italia.

In un paese nel quale non si leggono i giornali né libri, non si cercano informazioni via internet, non si cercano fonti diverse per conoscere la verità dei fatti, in un paese dove si parla per sentito dire (dalla tv), vince chi di tv ne ha di più, come abbiamo visto già succedere.

Comanda chi urla più forte e più volte al giorno, e attraverso la tv inocula il suo potere nelle menti, le inquina con i propri interessi economici e politici, forza e impone una visione unilaterale della realtà. Vince chi ti sbatte in faccia le sue opinioni, camuffandole da fatti, come una gragnola di sberle in faccia, che ti inebetiscono e non ti lasciano il tempo di giudicare. Cattura la tua attenzione, portandola il più lontano possibile dalla realtà.
Siamo nei guai seri, se non diciamo chiaramente: basta tanta tv, mai più questa tv. Beh, buona giornata.

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E’ ufficiale: siamo razzisti.

Addio al mito “italiani, brava gente”. Anni e anni di utilizzo politico e mediatico dei succhi più acidi della pancia degli italiani, anni e anni di paura della diversità, sparsa a piene mani da chi andava in cerca del consenso politico, anni e anni dell’uso più sconcio della sicurezza, per allarmare le coscienze e renderle disponibili all’audience dei peggiori istinti hanno dato i loro frutti sperati, inseguiti, suggeriti, coartati, millantati, coltivati e finalmente diventati maturi: in Italia esiste il razzismo a danno delle comunità nomadi e di alcune categorie di immigrati.

Lo afferma il rapporto di Doudou Die’ne. Il Relatore speciale dell’Onu ha trovato “particolarmente allarmante” l’informazione ricevuta sugli episodi di schiavizzazione nel settore agricolo, delle condizioni di lavoro precario degli immigrati, dei lavoratori domestici e dell’alta incidenza della prostituzione. Die’ne ha anche lamentato l’assenza di accordi bilaterali con la comunità musulmana.

Incaricato di valutare i fenomeni del razzismo, della discriminazione sociale e della xenofobia, Doudou Die’ne ha effettuato una visita in Italia dal 9 al 13 ottobre scorso. Nel rapporto sulla situazione nel nostro Paese, il Relatore Speciale – sottolinea un comunicato del nostro ministero della Solidarietà sociale – ha trovato particolarmente allarmante l’informazione ricevuta in merito agli episodi di schiavizzazione nel settore agricolo, alla situazione delle donne migranti, alle condizioni di lavoro – precarie e fino ai limiti dell’abuso – dei lavoratori domestici, nonché l’alta incidenza della prostituzione.

Doudou Die’ne ha anche lamentato, oltre che l’assenza di accordi bilaterali con la comunità musulmana, vittima, fra l’altro, di atteggiamenti di particolare diffidenza se non di ostilità, ha, dunque, lamentato e anche fortemente criticato l’approccio della Legge Bossi-Fini che a suo parere ha posto l’accento più sulla sicurezza che sulla razionalizzazione del meccanismo dei flussi e sull’integrazione dei migranti.

La legge prodotta dal precedente Governo – come ha esplicitamente fatto notare il Relatore Speciale dell’ONU – ha finito con l’esercitare addirittura un effetto contrario rispetto alle necessità di integrazione e di dialogo interculturale, contenendo in sé meccanismi tesi a criminalizzare taluni segmenti della comunità degli immigrati nel nostro Paese.

Saranno contenti i militanti e i dirigenti della Lega Nord, i loro appelli a negare pari dignità ai “bongo-bongo”, come graziosamente li ha definiti spesso il senatore Calderoli, vice presidente, non della bocciofila di Bergamo bassa, ma del Senato della Repubblica, seconda istituzione dello Stato.

Può esserne fiero l’on Gianfranco Fini, firmatario della legge sull’immigrazione nella passata legislatura: e questa sarebbe una Destra moderna e democratica?

Infatti, può andare a testa alta l’on. Alemanno che, in qualità di coordinatore di An di Roma non si perde una, dico una, manifestazione rionale contro i Rom.

Bastasse vergognarsi, ci sarebbe da vergognarci. Ma qui i “mea culpa” servono a niente. Bisogna risalire, subito la brutta china che ha preso il nostro Paese da qualche anno a questa parte. Se continuiamo a essere tolleranti con l’intolleranza, a far buon viso a cattivi atteggiamenti, a far finta di non sentire l’inascoltabile finiremo di dimenticare la memoria: quella di un Paese nel quale si cantava “Faccetta nera”, si accettavano le leggi razziali, si apostrofavano “terroni” gran parte dei cittadini italiani.

La cosa più infame è aver dimenticato che molti italiani hanno cantato “partono i bastimenti, per terre assai lontane”. Che ne direste di farla finita con questa amnesia collettiva? Per cominciare bisogna smettere di fare finta di niente. Beh, buona giornata.

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Operazione chirurgica.

Un uomo si è presentato all’ospedale di Emergency di Lashkar-gah nel Sud dell’Afghanistan.

Presentava ferite nell’animo e nella professione di giornalista, piene di angoscia e paura di morire ammazzato: è stato accolto e curato. Si tratta di Daniele Mastrogiacomo, inviato di guerra di Repubblica.

Emergency in Afganistan ha messo su quattro ospedali, all’ingresso dei quali c’è una scritta rossa su fondo bianco: no weapons (niente armi).

Emergency cura tutti quelli che si presentano: cura corpi martoriati, non controlla documenti, né nazionalità, né gruppi di appartenenza. Ma non vuole armi, non vuole nemici.

Ha ragione il nostro presidente del Consiglio a sottolineare la grande coesione che la cattura e la prigionia di Mastrogiacomo hanno saputo dimostrare durante i lunghi giorni della sua detenzione. A complimentarsi con la ferma serenità dei famigliari di Mastrogiacomo, la consapevole solidarietà dei suoi colleghi e del direttore Mauro.

A complimentarsi con il senso di responsabilità delle testate giornalistiche, che hanno compreso che la riservatezza a volte è il modo migliore di informare il pubblico. A complimentarsi con gli appena “rinnovati” servizi di intelligence militare italiani sul campo. E con l’ambasciatore italiano a Kabul. E a ringraziare il governo Karzai.

Forse però ringraziare Gino Strada, il fondatore e il leader di Emergency, come pure è avvenuto, proprio non basta. Perché questa vicenda, che si è risolta felicemente, dimostra che quattro ospedali fanno più di 2000 uomini in armi, tanti quanti sono i nostri militari impegnati in quel Paese.

Che Emergency, canale attivato, pare dagli stessi Taleban e forse anche da Repubblica, ha potuto più di quello attivato dal nostro Ministero degli esteri, che pure è stato tenuto sempre informato e che non ha messo bastoni fra le ruote, come è sempre apparso lampante durante i rapimenti dei nostri giornalisti e operatori umanitari, avvenuti in Iraq durante il governo precedente. A cui va ascritto, senza possibilità d’appello, il torto di non aver saputo tutelare l’integrità fisica dei cittadini italiani in quel martoriato paese.

Qui è il punto, non tanto per risarcire gli errori del passato: ai famigliari e ai colleghi di Enzo Baldoni servirebbe a niente, purtroppo. Come si dice, a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte.

Il punto, dicevamo è che la dissennata “guerra al terrorismo” ha trascinato non solo i nostri militari, ma i nostri passaporti, la nostra lingua, le nostre libertà civili dentro una guerra inutile, dannosa, inconcludente, tragica, sanguinosa.

L’idea maledetta di concepire un giornalismo “embedded” ha fatto diventare bersagli e obiettivi militari i reporter, i cronisti. Ha fatto coincidere, nel modo più semplice e basico, e per tanto tragico e pericoloso, il paradigma dell’odio: il tuo paese è nemico del mio paese, tu sei mio nemico.

Queste le colpe, storiche e politiche del governo precedente. Che sono ancora quelle dell’attuale Amministrazione Bush. Ma anche quelle dei nostrani eroi da talk-show, dei guerrafondai con le pantofole, dei fan dello scontro di civiltà, dello scontro di religione. Di queste colpe, sia pur faticosamente, il governo Prodi dimostra di voler prendere le distanze e cambiare politica. E’ un bene. Anche l’idea di una conferenza di pace, Taleban compresi è un bene, perché cancella l’ipocrisia della “missione di pace” in Afghanistan.

La liberazione di Daniele Mastrogiacomo è una operazione chirurgica, non solo perché è avvenuta grazie alla buona reputazione di un chirurgo di nome Gino Strada. E’ un’operazione chirurgica, non di quelle baldanzosamente militari, che poi lasciano inevitabilmente sul terreno “danni collaterali”, cioè civili inermi.

Lo è perché sancisce il diritto di non essere d’accordo col paese e le sue scelte. Il diritto di informare la propria opinione pubblica. Il diritto alla libertà di informazione e di dissenso. Il diritto a non essere nemico giurato di nessuno. In Afghanistan, e non solo, Gino Strada cura tutti.
Anche noi, in Italia, stavolta siamo stato curati. No weapons, senza armi. Beh, buona giornata.

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