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IL GRANDE INGANNO.

di Valentina Pisanty

Tra la fine degli anni novanta e i decenni successivi, però, alcuni policy-makers intravedono con sempre maggiore chiarezza il potenziale strategico della parola antisemita.

Divenuto sinonimo del Male Assoluto, il termine si presta a una varietà di usi funzionali alla politica di chi se ne sente custode e titolare.

Tra questi, come è evidente, i partiti della destra israeliana quasi ininterrottamente al potere dal 1996. Con l’appoggio di istituzioni americane ed europee, i governi israeliani di stampo ultranazionalista si autoproclamano portavoce ufficiali delle vittime dell’Olocausto, discendenti compresi.

Non importa che, degli attuali quindici milioni di ebrei nel mondo, solo sette abbiano scelto di vivere in Israele. Essendo Israele l’unico paese a maggioranza ebraica, la supervisione della Memoria spetta alla sua leadership politica, sostengono.

Nominatisi motu proprio Guardiani della Memoria, rivendicano un monopolio su quell’area del linguaggio che si riferisce ai crimini storici subiti dagli ebrei d’Europa: genocidio, ghetto, lager, pogrom, razzismo, antisemitismo e altre parole affini. Loro soltanto possono autorizzarne l’uso.

Il copyright gli appartiene di diritto. La premessa da cui partono è che gli antisemiti sono coloro con i quali per definizione non si parla: tuttalpiù si può parlare di loro per decidere come combatterli meglio. È questo il senso dello slogan “Mai Più” attorno al quale le democrazie liberali si sono strette dopo il crollo del Muro di Berlino per ridefinire il proprio progetto identitario comune.

Ne deriva che chiunque meriti l’epiteto antisemita è da considerarsi come un corpo estraneo alla democrazia e perde il diritto di intervenire nei dibattiti pubblici. Con i razzisti non si discute. Fin qui nulla di strano, al netto dei dubbi che si possono nutrire sull’idea che il motto “Mai Più” costituisca una base sufficiente su cui costruire il futuro delle democrazie occidentali.

Il passo successivo, però, molto più temerario, è quello di includere nella categoria degli antisemiti non solo coloro che esibiscono un pregiudizio antiebraico, ma anche gli attuali nemici dello Stato di Israele.

E, tra questi, non solo quei nemici che effettivamente attingono all’archivio dell’antisemitismo storico per screditare le scelte politiche di Israele con argomenti razzisti (ce ne sono), ma anche coloro che, pur senza far ricorso ai luoghi comuni della propaganda antisemita, manifestano un’ostilità radicale nei confronti di Israele, inteso come Stato degli ebrei, o addirittura hanno uno storico contenzioso con Israele per la terra dal fiume al mare.

Il passaggio è tutt’altro che scontato, a cominciare dalla scelta di chiamare Israele lo Stato degli ebrei.

L’espressione è di per sé discriminatoria nei confronti del 25% di cittadini israeliani non ebrei, e difatti la legge che nel 2018 ha definito ufficialmente Israele “la casa nazionale del popolo ebraico” è passata al parlamento israeliano con una maggioranza molto risicata, segno che anche all’interno del paese c’erano voci dissenzienti.

Ma l’identificazione tra ebraismo e Israele è uno dei punti programmatici dei partiti ultranazionalisti al potere, i quali, nel corso degli anni duemila, hanno mobilitato grandi risorse e sforzi diplomatici per ridisegnare i confini tra significati linguistici, sfumando a proprio vantaggio le differenze tra ebraismo e sionismo, come se si trattasse della stessa cosa. (Sorvoliamo ora sul fatto che anche il termine sionismo raccoglie sensi e sfumature diverse che andrebbero specificate di volta in volta: ne riparleremo).

Il che comporta ovviamente anche una attenuazione del distinguo tra antisemitismo e antisionismo, come se il secondo termine fosse sempre e comunque un travestimento eufemistico del primo.

E visto che nessuno protesta, anche se fino a quel momento i due termini hanno coperto aree semantiche diverse, negli anni duemila si fa largo il progetto di mettere per iscritto l’equazione antisionismo = antisemitismo, reclamando che la comunità internazionale sottoscriva le condizioni d’uso di una nuova definizione della parola antisemita.

Una definizione che spinga ai margini il vecchio nucleo semantico del termine, ancora radicato nella memoria dei grandi traumi del Novecento, per sostituirlo con uno più allineato agli obiettivi delle destre israeliane.

Si definisca antisemitismo non più solo, e non tanto, l’“ostilità verso gli ebrei in quanto ebrei”, definizione di cui è più difficile rivendicare un’esclusiva, bensì l’“ostilità verso Israele in quanto Stato degli ebrei”.

Si otterrà un immediato tornaconto in termini di immagine e di legittimazione politica. L’ulteriore spallata consiste nel richiedere che la nuova definizione venga incorporata nei testi delle leggi, dei regolamenti universitari, dei codici di condotta dei partiti, e di tutti i sistemi normativi che disciplinano il dibattito pubblico su temi altamente controversi come il conflitto in Medio Oriente.

In nome dei valori supremi delle democrazie occidentali si potranno perorare meglio le ragioni di Israele. A chi si opporrà troppo drasticamente alle sue scelte politiche mancheranno le parole per dirlo.

La realizzazione del progetto è andata di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni. La mia ipotesi è che i due fenomeni siano strettamente interrelati. Non solo nel senso che la ridefinizione della parola antisemita è compatibile con le ideologie dei partiti ultranazionalisti in ascesa, ma anche che tra quei partiti e lo Stato di Israele è in corso da tempo un macroscopico scambio di favori.

I termini dell’accordo sono semplici: supporto incondizionato alle politiche delle destre israeliane contro l’immunità da ogni accusa di razzismo e antisemitismo.

Una visita ufficiale a Yad Vashem (il Memoriale della Shoah a Gerusalemme), specie se accompagnata da espressioni di dura condanna nei confronti degli attuali nemici dello Stato ebraico, è sufficiente per ripulire l’immagine pubblica di qualsiasi leader xenofobo, e quasi sempre erede di formazioni politiche quelle sì inequivocabilmente antisemite, che ambisca ad accedere a ruoli di responsabilità politica.

Il do ut des si è rivelato molto efficace per entrambe le parti, anche perché per smascherarne la strategia occorre avventurarsi nel campo minato della Memoria dell’Olocausto, e della definizione a essa collegata di cosa sia e cosa non sia l’antisemitismo.

Data la delicatezza dell’argomento, molti preferiscono girare al largo, delegando alle istituzioni preposte il compito di tracciare il perimetro del discorso tollerabile, e applicando scrupolosamente qualsiasi precetto venga calato dall’alto. Trump, Orbán, Bolsonaro, Kaczynski, Salvini, Musk, Duterte, che nel 2016 si paragonò a Hitler ma ora si dichiara amico di Israele… L’elenco degli autocrati – o aspiranti tali – che si sono sottoposti al lavacro lustrale include alcuni tra i più famosi spacciatori di retorica antisemita del XXI secolo.

Tutti hanno attivamente costruito e diffuso il mito di Soros, versione aggiornata dei Protocolli dei Savi di Sion, il falso documento creato nei primi anni del XX secolo dalla polizia segreta zarista con l’intento di diffondere odio verso gli ebrei nell’Impero russo.

Alcuni hanno raccontato la propria storia nazionale in chiave revisionista, introducendo nuove fattispecie di reato contro chi osi ricordare – per fare un esempio – il collaborazionismo polacco durante gli anni dell’occupazione nazista.

Altri hanno optato per la tecnica infantile del tu quoque, che in Italia si realizza nella formula “E allora le foibe?”.

Eppure – a dispetto delle rimostranze di molti ricercatori di Yad Vashem, sempre più a disagio e incapaci di porre argine all’uso strumentale della memoria imposto con la massima sfrontatezza dai vertici del Likud, il partito di destra al potere dal 2009 (a parte una breve parentesi nel 2021-22) – i governi israeliani degli ultimi anni non hanno esitato a minimizzare la gravità di simili esternazioni, derubricate a scivoloni retorici.

Tanto più, dicono i filoisraeliani più accaniti, che l’antisemitismo oramai non si esprime attraverso la classica retorica dell’archivio antiebraico. È vero, sostengono, che si trovano ancora schegge dei Protocolli nei testi dei negazionisti, nelle farneticazioni di Q-Anon, un po’ ovunque su X e nelle innumerevoli fantasie cospirazioniste di cui trabocca la rete.

Ma non è di queste intemperanze che ci si deve preoccupare. (Valentina Pisanty, “Antisemita: Una parola in ostaggio”, Bompiani).

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Quatto lavoratori si aggiungono al terribile elenco dei morti di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Raffaele Sicari con la forza dei suoi 26 anni ha lottato per 3 giorni contro la morte, nella terapia intensiva dell’ospedale Umberto I di Siracusa, ma venerdì 14 febbraio ha dovuto arrendersi alla gravità delle lesioni riportate.

Nativo di Vibo Valentia, si era trasferito per lavoro a Siracusa per una ditta che si occupa di illuminazione stradale. Martedì 11 febbraio era sul cestello in cima al sollevatore telescopico di un furgone, impegnato con un punto luce sospeso, quando un furgone in transito ha urtato il braccio, provocando la caduta di Raffaele da un’altezza di circa 3 metri.

Il giovane ha riportato lesioni alla testa ed è stato operato per ridurre una massiccia emorragia cerebrale, ma le speranze si sono via via affievolite, fino al decesso. Un’indagine è stata aperta sia sulla dinamica del fatto che sulle misure di sicurezza in opera al momento della caduta.

Francesco Pio Pannella, 25enne di Paupisi (Benevento), operaio nelle officine meccaniche di Trenitalia del capoluogo sannita, è morto all’alba di venerdì 14 febbraio mentre si recava al lavoro.

Con la sua automobile è uscito di strada finendo su un terrapieno e poi contro un palo di cemento, morendo sul colpo. Secondo Repubblica, l’incidente è stato determinato da una manovra improvvisa, dettata dall’aver imboccato contromano una rotatoria in presenza di una pattuglia dei carabinieri.

Antonio Sportella, artigiano 60enne di Lizzanello (Lecce), è morto venerdì 14 febbraio in un incidente stradale a Leverano, sempre nel Salento. Sportella ha tamponato con il suo furgoncino un camion parcheggiato a bordo strada ed è morto all’istante.

Un operaio edile di 53 anni, albanese da anni in Italia, è morto giovedì 13 febbraio sui ponteggi di un cantiere a Martinsicuro (Teramo).

Il lavoratore si è accasciato all’improvviso davanti ai compagni e nulla hanno potuto i soccorritori per salvargli la vita. La magistratura pare comunque orientata a disporre l’autopsia.

#raffaelesicari#francescopiopannella#antoniosportella#mortidilavoro

Febbraio 2025: 39 morti (sul lavoro 36; in itinere 3; media giorno 2,8)

Anno 2025: 126 morti (sul lavoro 108; in itinere 18; media giorno 2,8)

21 Lombardia (sul lavoro 16, in itinere 5)

17 Veneto (14 – 3)

12 Puglia (12 – 0)

10 Piemonte (10 – 0); Campania (9 – 1)

8 Toscana (7 – 1)

7 Abruzzo (7 – 0); Emilia Romagna (5 – 2)

6 Calabria (6 – 0)

5 Lazio (4 – 1)

4 Basilicata, Sicilia (4 – 0)

3 Umbria (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Alto Adige (1 – 0); Molise (0 – 1)

Gennaio 2025: 87 morti (sul lavoro 72; in itinere 15; media giorno 2,8)

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Il signore sì che se ne intende.

I giudici della Consulta hanno deciso che è giusto tagliare l’adeguamento delle pensioni al costo della vita. Sono esperti: guadagnano 1000 euro al giorno.

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Chissà perché i nipotini della Repubblica di Salò alla fine sono riusciti ad abitare a Palazzo Chigi?

di Federico Fubini

Giulio Andreotti, giovane sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sta già intrattenendo buoni rapporti anche con il Movimento sociale italiano (Msi) fondato dai reduci di Salò.

Nell’agosto ’47 Andreotti presenta uno schema di decreto destinato alla piena riabilitazione delle «vittime» del processo di epurazione.

Solo il ministro degli Esteri Carlo Sforza, con il suo passato di antifascista e di capo dell’Alto Commissariato, non ci sta: «Coloro che prestarono servizio alle dipendenze della Repubblica di Salò vanno puniti» ricorda. «Essi tradirono l’idea dello Stato.»

Ma «nella generale euforia» scrive lo storico tedesco Woller «Sforza non trovò nessuno disposto ad ascoltarlo».

Il decreto Andreotti diventa legge il 7 febbraio 1948. […]

Ma era la visione di Einaudi (primo Presidente della Repubblica, ndr), quella di Andreotti e di molti altri che ormai aveva vinto: il modo migliore per superare il fascismo era, semplicemente, smettere di pensarci.

(Federico Fubini “L’oro e la patria”, Mondadori.)

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Depotenziano la sicurezza, annullano i diritti: ecco perché in Italia si muore di lavoro.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Due morti di lavoro in Piemonte, mercoledì 12 febbraio. La regione, quarta nella classifica italiana della vergogna, a oggi ha raddoppiato le vittime rispetto allo stesso periodo del 2024.

Allora erano state 5, quest’anno sono già 10. Peggio, se possibile, ha fatto la Puglia (terza), passata da 5 a 11 morti (+120%) mentre il Veneto (secondo) si limita a un +54%, contando 17 vittime rispetto alle 11 del 2024. La Lombardia, che come sempre comanda la graduatoria, registra un impercettibile calo, scendendo da 22 a 21 morti (-0,5%).

Manuel Vargiu, 45enne di Ponteranica (Bergamo), è stato ucciso mercoledì 12 febbraio da un bullone schizzato via da un nuovo biotrituratore messo in opera ai Vivai Cattaneo di Valbrembo (Bergamo).

Vargiu, dipendente dell’azienda da più di dieci anni, è stato colpito alla testa ed è morto in pochi istanti. Lascia la moglie e un figlio 17enne. Un’inchiesta appurerà le cause della tragedia.

Elio Onorato Ghione, 56enne di Moretta (Cuneo), è morto mercoledì 12 febbraio alla Ferviva Rottami di Bernezzo, sempre nel Cuneese.

Ghione stava manovrando il polipo di cui era dotato un camion da scaricare, quando è caduto a terra all’improvviso, riportando lesioni fatali. Aperta un’inchiesta per appurare le cause dell’incidente, se la caduta sia cioè dovuta a un malfunzionamento o a un malore.

Giacomo Maimonte, 55enne di Arona (Novara), mercoledì 12 febbraio è stato vittima del ribaltamento del miniescavatore sul quale stava operando nel cantiere per la ristrutturazione di una villa a Massino Visconti (Novara).

Maimonte è rimasto schiacciato tra l’escavatore e un muro di sostegno, morendo sul colpo.

#manuelvargiu#elioonoratoghione#giacomomaimonte#mortidilavoro

Febbraio 2025: 35 morti (sul lavoro 33; in itinere 2; media giorno 2,9)

Anno 2025: 122 morti (sul lavoro 105; in itinere 17; media giorno 2,8)

21 Lombardia (sul lavoro 16, in itinere 5)

17 Veneto (14 – 3)

11 Puglia (11 – 0)

10 Piemonte (10 – 0)

9 Campania (9 – 0)

8 Toscana (7 – 1)

7 Emilia Romagna (5 – 2)

6 Abruzzo, Calabria (6 – 0)

5 Lazio (4 – 1)

4 Basilicata (4 – 0)

3 Umbria, Sicilia (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Alto Adige (1 – 0); Molise (0 – 1)

Gennaio 2025: 87 morti (sul lavoro 72; in itinere 15; media giorno 2,8)

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La nuova segretaria della vecchia CISL si dice contraria al salario minimo garantito. Una volta si chiamavano gialli, oggi sono sindacati del nero.

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Basta lavoro usa&getta nella Pubblica amministrazione.

È lo slogan che campeggia su foto shock con cui un noto creativo ha allestito il presidio davanti alla Regione Lazio, organizzato dai Cobas in piazza Oderisi da Pordenone.

“Quando mi hanno raccontato la storia dei 48dipendenti, ho pensato che queste persone non solo hanno perso il lavoro e quindi lo stipendio, ma addirittura hanno perso il datore di lavoro. Incredibile. Presi, usati, e poi buttati via come vuoti a perdere”, dice Marco Ferri, noto creativo che con i suoi collaboratori ha ideato l’allestimento.  

“Da decenni le A.S.L. e A.O. della Regione Lazio, – dice Domenico Teramo dei Cobas – per poter sopperire alla strutturale carenza di organico nel settore amministrativo, sfruttano lavoratrici e lavoratori precari reclutandoli (illecitamente) tramite appalti di servizi e/o di lavoro somministrato”.In effetti, dopo decenni di sfruttamento la Regione Lazio, anziché avviare un virtuoso percorso di stabilizzazione del personale precario operante presso le strutture sanitarie pubbliche, ha deliberato il “licenziamento” di 48 lavoratrici e lavoratori, addetti alle attività amministrative della ASL Roma 1, con decorrenza 17 gennaio u.s.

L’allestimento del presidio rimanda all’idea di un’istallazione artistica, grazie alle foto di Rod Kirkpatrick, acquisiste attraverso la piattaforma Alamy. “Immaginare lavoratori licenziati come corpi gettati via è un concetto forte, scandaloso, addirittura provocatorio, – dice Marco Ferri – tuttavia se penso allo sgomento di chi improvvisamente si trova senza reddito, cioè senza futuro, temo che ancora una volta si possa dire che “la realtà supera la creatività”. 

L’allestimento è visibile dal 12 febbraio in piazza Oderisi da Pordenone, di fronte alla sede della Regione Lazio, nel quartiere Garbatella, dove i lavoratori precari hanno annunciato l’avvio dalla mattina del 12/02 del presidio permanente. Alle ore 16 è in programma un’assemblea con le diverse realtà del lavoro precario della P.A.

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Roma incazzata.

di Federico Fubini

Imputati dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo erano stati il famigerato ex questore di Roma Pietro Caruso e il suo assistente, Roberto Occhetto.

Erano entrambi accusati – a ragione – di aver aiutato i tedeschi nei rastrellamenti, di aver collaborato con la Gestapo, con le SS, con i reparti più efferati della polizia di Salò (la Banda Koch) ma soprattutto, fra i molti, terribili reati, di aver compilato assieme ai tedeschi la lista dei 335 perseguitati e prigionieri politici che furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine.

Il processo a Caruso e Occhetto avrebbe dovuto aprirsi il 18 settembre 1944 a Palazzo di Giustizia, in piazza Cavour, ma quel giorno fin dalle prime ore del mattino molta gente aveva iniziato ad assembrarsi davanti agli ingressi.

Reclamavano di entrare; urlavano «morte a Caruso», «dateci Caruso». Volevano vedere l’accusato alla sbarra, molti volevano semplicemente farsi giustizia da sé. Presto i più agitati forzarono lo sbarramento al portone, centinaia di persone si precipitarono verso l’aula magna al primo piano cercando l’imputato ovunque.

Data la situazione, la polizia tenne Caruso e Occhetto nascosti altrove e il giudice non poté che aggiornare il dibattimento.

In quel momento, nella calca, una donna riconobbe Donato Carretta, l’ex direttore di Regina Coeli, che era stato convocato come testimone dell’accusa. Improvvisamente la furia della folla si riversò contro di lui. Restano ancora in rete poche decine di secondi di riprese di quei momenti.

Carretta viene preso per i capelli, strattonato con violenza, poi pestato in volto finché alcuni poliziotti non riescono miracolosamente a portarlo al riparo in una stanza attigua all’aula magna.

Carretta era stato iscritto al Partito fascista fino all’anno prima e doveva per forza essere stato un funzionario di fiducia del regime, altrimenti non sarebbe mai diventato direttore del più grande carcere di Roma. Ma non si era macchiato di abusi e, in segreto, aveva aiutato vari oppositori a fuggire e a salvarsi la vita. Ne aveva persino ospitati in casa propria. La folla, nella sua sete di vendetta, stava tragicamente sbagliando bersaglio.

L’errore di Carretta quel giorno fu di uscire dal Palazzo di Giustizia troppo presto, dopo i disordini: venne di nuovo riconosciuto in piazza Cavour e pestato brutalmente, trascinato ovunque, i vestiti ormai strappati di dosso. I carabinieri cercarono di nuovo di sottrarlo al linciaggio, portandolo via su una jeep degli americani. Ma l’auto fu bloccata da una folla ormai in uno stato febbrile; Carretta venne di nuovo ghermito, portato via e massacrato per strada.

Si cercò di buttarlo sotto un tram ma – quando il conduttore tirò il freno e si rifiutò di passargli sopra – fu trascinato fino al ponte Umberto e gettato giù nel Tevere, ormai privo di sensi.

Il malcapitato riemerse, riprendendosi al contatto con l’acqua fresca. Cercò di aggrapparsi a un palo per non farsi trascinare dalla corrente, ma di nuovo venne respinto con la forza in mezzo al fiume, raggiunto da una barca e finito da due uomini a colpi di remi lì, in acqua.

Il suo cadavere, nudo, sgocciolante di sangue, venne appeso per i piedi alle inferriate di Regina Coeli; quel giorno sua moglie sfuggì al massacro solo per un soffio. I romani avevano sofferto l’oppressione, i bombardamenti, le privazioni e la spietata occupazione nazista. Avevano visto amici e parenti uccisi o portati via. Molti di loro avevano invocato il duce sotto il balcone di piazza Venezia, pochi anni prima.

Ma ora volevano una resa dei conti esemplare. (Federico Fubini, “L’oro e la patria”, Mondadori.)

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28 morti di lavoro nei primi dieci giorni di febbraio.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Carlo Alberto Mombrini, 57enne di Caravaggio (Bergamo), titolare dell’omonima ditta che produce pavimentazioni speciali, è morto alle 6,30 di lunedì 10 febbraio mentre raggiungeva un cantiere.

Nei pressi di Calcio (Bergamo) si era fermato in una piazzola di sosta della A35, la Brebemi, quando è stato travolto da un camion fuori controllo. Vettura e guidatore sono stati trascinati per decine di metri. Mombrini è morto sul colpo.

A Guardiagrele (Chieti), lunedì 10 febbraio si sono svolti i funerali dell’84enne Nicola D’Angelo, morto sabato 8 nell’ospedale di Pescara, dove era ricoverato dal 31 gennaio.

Quel giorno stava caricando letame sulla benna di un trattore quando il mezzo – che probabilmente era in folle – si è mosso in retromarcia. L’anziano agricoltore è riuscito a salirci su per bloccarlo, ma proprio in quegli istanti il trattore ha colpito un ulivo e D’Angelo è stato scaraventato a terra dalla violenza dell’urto.

Ha lottato più di una settimana per la vita, ma alla fine il suo cuore ha ceduto.

Un 34enne del Bangladesh, regolare in Italia da 3 anni dopo la traversata della Libia, moglie e un figlio in patria, è morto lunedì 10 febbraio a Porto Marghera (Venezia) per cause ancora da stabilire.

Il lavoratore è stato trovato senza vita all’interno di uno yacht affidato alla società di rimessaggio di cui era dipendente.

#carlomombrini#nicoladangelo#mortidilavoro

Febbraio 2025: 28 morti (sul lavoro 26; in itinere 2; media giorno 2,8)

Anno 2025: 115 morti (sul lavoro 98; in itinere 17; media giorno 2,8)

19 Lombardia (sul lavoro 14, in itinere 5)

17 Veneto (14 – 3)

10 Puglia (10 – 0)

9 Campania (9 – 0)

8 Piemonte (8 – 0)

7 Emilia Romagna (5 – 2); Toscana (6 – 1)

6 Abruzzo, Calabria (6 – 0)

4 Lazio (3 – 1); Basilicata (4 – 0)

3 Umbria, Sicilia (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Alto Adige (1 – 0); Molise (0 – 1)

Gennaio 2025: 87 morti (sul lavoro 72; in itinere 15; media giorno 2,8)

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Mo’ so dazi vostri.

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Ancora vittime della mancanza di norme e controlli.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Sabato 8 febbraio si è registrato il primo morto di lavoro del 2025 in Alto Adige. Rimangono così soltanto due le regioni senza vittime: Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia.

Peter Plattner, 53enne residente a Sant’Andrea, frazione di Bressanone (Bolzano), è morto sabato 8 febbraio per un incidente senza testimoni avvenuto sulla Plose.

Era andato a lavorare nei boschi e intorno alle 21 i familiari hanno dato l’allarme, non vedendolo rientrare. Sono scattate le ricerche e intorno alla mezzanotte il corpo del lavoratore è stato trovato in fondo a un dirupo, nei pressi di un torrente. Secondo la prima ricostruzione Plattner è caduto da un’altezza di circa 50 metri, per motivi da accertare.

Agostino Diotaiuti, 54enne residente a Marina di Camerota (Salerno), dipendente della Gma distribuzione, è morto domenica 9 febbraio nell’ospedale Ruggi di Salerno, due giorni dopo il ricovero per un incidente stradale.

Venerdì 7 febbraio, alla guida di un Doblò aziendale, si era schiantato contro un’autocisterna sulla ex statale Cilentana. I vigili del fuoco avevano impiegato due ore per liberarlo dalle lamiere accartocciate.

Al Ruggi era stato sottoposto a intervento, mentre a Camerota scattava una gara di solidarietà per donare sangue, con tanto di navette organizzate dal Comune (il sindaco Mario Salvatore Scarpitta è il proprietario della Gma).

Domenica mattina, mentre ci si preparava per altre donazioni, la situazione è precipitata e Diotaiuti è morto. Lascia la moglie e due figli.

Giuseppe Franzin, 54enne residente a Torre di Mosto (Venezia), è morto sabato 8 febbraio nell’azienda vinicola Capo di Vigna a Motta di Livenza (Treviso), dove era al lavoro su un trattore con trivella.

Anche qui l’allarme è stato lanciato dalla famiglia – moglie e due figli – che non l’ha visto rientrare per pranzo. È stato uno dei proprietari dell’azienda a precipitarsi sul posto e a trovare Franzin accasciato sul volante del trattore – con il motore ancora acceso – ormai senza vita. La morte è stata attribuita a un infarto.

#peterplattner#agostinodiotaiuti#giuseppefranzin#mortidilavoro

Febbraio 2025: 25 morti (sul lavoro 24; in itinere 1; media giorno 2,8)

Anno 2025: 112 morti (sul lavoro 96; in itinere 16; media giorno 2,8)

18 Lombardia (sul lavoro 14, in itinere 4)

16 Veneto (13 – 3)

10 Puglia (10 – 0)

9 Campania (9 – 0)

8 Piemonte (8 – 0)

7 Emilia Romagna (5 – 2); Toscana (6 – 1)

6 Calabria (6 – 0)

5 Abruzzo (5 – 0)

4 Lazio (3 – 1); Basilicata (4 – 0)

3 Umbria, Sicilia (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Alto Adige (1 – 0); Molise (0 – 1)

Gennaio 2025: 87 morti (sul lavoro 72; in itinere 15; media giorno 2,8)

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Con altre cinque vittime ecco che febbraio ha già raggiunto e superato l’intollerabile media di tre morti di lavoro al giorno.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Il 7 febbraio 2024 Puglia e Basilicata contavano rispettivamente 4 e 0 (zero) morti di lavoro. Al 7 febbraio 2025 la Puglia è arrivata a 10 vittime (+150%), la Basilicata a 4 (+ ∞).

Antonio Pirretti, 50enne di Ferrandina (Matera), è morto venerdì 7 febbraio cadendo su una griglia del depuratore del comune lucano, durante un intervento di manutenzione. Non sono ancora chiare le cause della caduta, forse provocata da un automezzo in manovra. Il lavoratore è morto sul colpo.

Lucio Parisi, 48enne agricoltore di Grassano (Matera) è morto venerdì 7 febbraio uscendo di strada mentre con un trattore raggiungeva le sue campagne a Garaguso (Matera). L’allarme è stato immediato, ma l’equipaggio dell’elisoccorso intervenuto non ha potuto nulla.

Michele Mandolino, 59enne di Gravina in Puglia (Bari), capocantiere per i lavori al Palacooper di Santeramo in Colle, sempre nel Barese, è morto venerdì 7 febbraio nell’ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti. Vi era stato trasportato in gravissime condizioni giovedì 6 febbraio, dopo essere stato colpito alla testa da un tubo in acciaio trasportato con una ruspa.

Francesco Mansueto, 61enne agricoltore di San Vito dei Normanni (Brindisi), è morto giovedì 6 febbraio sotto gli occhi del fratello. Il trattore che avrebbero dovuto usare aveva problemi di accensione e Mansueto stava lavorando sul motorino di avviamento quando il mezzo si è messo in moto. L’agricoltore ha cercato di bloccare le ruote posteriori ma è stato travolto e schiacciato. La magistratura ha ordinato l’autopsia.

Davinder Singh, 65enne operaio di Villongo (Bergamo), arrivato 30 anni fa dal Punjab e ormai in vista della pensione, è morto giovedì 6 febbraio sulla provinciale 469 a Capriolo (Brescia). Tornava a casa dalla Efgom di Cologne, quando con la sua Punto ha sbandato e si è scontrato frontalmente con un camion che proveniva in senso contrario. Singh, vedovo e con 3 figli, è morto nello schianto.

#antoniopirretti#lucioparisi#michelemandolino#francescomansueto#davindersingh#mortidilavoro

Febbraio 2025: 22 morti (sul lavoro 21; in itinere 1; media giorno 3,1)

Anno 2025: 109 morti (sul lavoro 93; in itinere 16; media giorno 2,9)

18 Lombardia (sul lavoro 14, in itinere 4)

15 Veneto (12 – 3)

10 Puglia (10 – 0)

8 Piemonte, Campania (8 – 0)

7 Emilia Romagna (5 – 2); Toscana (6 – 1)

6 Calabria (6 – 0)

5 Abruzzo (5 – 0)

4 Lazio (3 – 1); Basilicata (4 – 0)

3 Umbria, Sicilia (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Molise (0 – 1)

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Attualità

Il primo esperimento storico di un governo di centro sinistra fu un disastro, che si è ripetuto nel tempo, fino ai giorni nostri.

di Luciano Canfora

Un accordo tra Spd e Uspd era impensabile, dopo che appena pochi giorni prima delle elezioni, Noske, commissario del popolo all’esercito (ed esponente socialista di spicco) aveva domato manu militari la rivolta spartachista in un quartiere di Berlino espugnando personalmente la sede del «Vorwärts» occupata e dopo che indisturbati Freikorps avevano massacrato Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg quattro giorni prima delle elezioni (15 gennaio).

Ma la soluzione parlamentare era pronta: il centro-sinistra. […]

Sul peso dell’affrettata e impotente insurrezione spartachista sulla vicenda politica di quel cruciale gennaio 1919 si è molto speculato.

Il perbenismo socialdemocratico si è speso tutto in difesa di Noske, per scagionarlo dalla responsabilità dell’assassinio di Liebknecht e della Luxemburg.

Tempo sprecato, visto che il problema non era chi avesse armato la mano degli assassini affiliati ai Freikorps bensì che la neonata «democrazia» tedesca tollerasse – per spirito legalitario – l’esistenza dei Freikorps, gruppi paramilitari e revanscisti, il cui revanscismo per ora si sfogava nella violenza contro i militanti di sinistra.

Il loro apporto alla nascita del movimento nazista è ben noto.

Peraltro un po’ di gratitudine dall’estrema destra Noske se la guadagnò con la sua azione (egli era ministro dell’Esercito e della Marina, e dunque avrebbe dovuto sciogliere i Freikorps e distruggerli con ben altra violenza di quella che consacrò ad espugnare la sede del «Vorwärts»). […]

Ad ogni modo, la tesi che l’insurrezione spartachista avrebbe spostato a destra l’opinione pubblica negli ultimi giorni di campagna elettorale è fragile.

Il governo Ebert-Scheidemann-Noske fece di tutto per dimostrare ai borghesi impauriti che la socialdemocrazia sapeva schiacciare il pericolo «anti-democratico» proveniente da sinistra.

Il sangue abbondantemente versato fu garanzia della «democraticità» della dirigenza socialdemocratica.

Il contraccolpo elettorale poté averlo, semmai, l’Uspd che, per semplificazione polemica molto comoda in campagna elettorale, veniva tout court assimilata – dalla propaganda di quasi tutti gli altri (fatta eccezione per il Partito Democratico) – alla Lega di Spartaco.

Insomma, la sconfitta elettorale fu bruciante per la socialdemocrazia, nella cui vicenda elettorale weimariana quel deludente risultato rimase pur sempre il massimo storico. (Luciano Canfora, “La democrazia”, Editori Laterza.)

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Attualità

Sono caduti nella trappola del do ut des.

Ci sono caduti  Marco Tronchetti ProveraMassimo MorattiDiego Della Valle, e anche le famiglie Aleotti, Beretta e Caltagirone.

Come è possibile che un furbacchione si finga ministro e riesca a spillare un sacco di soldi a premurosi (col governo) imprenditori italiani?

Facile: contavano di ricavarne qualcosa in cambio. Business as usual.

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Attualità

Il giornalismo italiano oltre il senso del reale.

La leggenda professionale voleva che ai giornalisti venissero i calli, per via delle suole di scarpe consumate a caccia dei fatti, da cui ricavare la notizia da raccontare ai lettori.

Attualmente, i giornalisti italiani consumano il fondo dei calzoni a furia di posare le natiche sulle poltroncine dei talk show.

Tuttavia, ci sono momenti di pura innovazione della professione.

Non mi riferisco solo a quella sporca dozzina di mestatori al soldo di fogliacci di destra – clienti di denaro pubblico – che fanno coro, canto e controcanto alle veline di Palazzo Chigi. Che non sarebbe un’innovazione, dal momento che sembrano novelli epigoni dell’Agenzia Stefani, che tante soddisfazioni diede al regime fascista. (*)

Il fatto è che ho recentemente sentito un decano del giornalismo italiano dire candidamente in tv che le sue erano precise intuizioni, scaturite dalle parole pronunciate da altri in tv.

Eccola l’innovazione, in tutto il suo splendore: ieri dai fatti alle opinioni, oggi dalle opinioni alle illazioni.

Il nostro eroe era nientepopòdimenoche Paolo Mieli. Il programma era 8 e 1/2, che sarebbe meglio ri-titolare 6 meno meno.

(*) Durante il periodo fascista, l’Agenzia Stefani divenne lo strumento di propaganda del regime di Mussolini, controllata dal governo per manipolare e diffondere informazioni a favore del fascismo. 

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Attualità

La tragica pantomima.

Gli versiamo fior di quattrini, – soldi pubblici -, per fermare, a ogni costo dei diritti umani, le migrazioni verso i paesi europei.

Loro, i satrapi asserviti agli interessi delle compagnie petrolifere, intascano e si danno da fare: pestano, torturano, violentano, ricattano e quando è il caso ammazzano.

Sono i sicari d’Europa, Italia compresa.

Poi, la cattiva coscienza occidentale, sporca di sangue e menzogne, emette mandati di cattura contro gli aguzzini, che coi soldi che gli diamo vengono a fare i nababbi in giro per l’Europa, Italia compresa.

La solita storia ignobile: fate quello per cui vi paghiamo, ma non fatevi vedere troppo in giro.

E la pantomima prende vita, e coinvolge partiti, governanti, tribunali, social e mass media.

Tutto si avvita, si torce e si contorce attorno alla più ributtante delle finzioni: i governi danno soldi pubblici per finanziare una Corte penale che dovrebbe perseguire quei reati commessi dagli esecutori materiali di crimini su commissione degli stessi governi che, con i soldi pubblici, ne sono i mandanti.

Che Meloni faccia rima con strafalcioni è noto in patria e cominciano a capirlo anche in giro per il “globo terraqueo”.

Ma non ci prendiamo in giro: i mandanti degli aguzzini libici vengono da prima. E chi oggi fa lo scandalizzato in Parlamento e nei talk show è stato comodamente seduto sul banco di quei governi che stipularono accordi con quegli stessi aguzzini che oggi vorremmo perseguitare.

Se la destra è maldestra, sinistra è diventato un brutto aggettivo di politiche senza scrupoli.

Non contate sul nostro appoggio: siete le scorie tossiche del fallimento delle vostre strategie. Un fallimento “largo”.

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Attualità

DUE BRUTTE MORTI DI LAVORO.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidilavoro

Giancarlo Siddi, 74enne allevatore di Iglesias (Sud Sardegna), è morto nella notte tra mercoledì 5 e giovedì 6 febbraio nell’ospedale Brotzu di Cagliari, dove era stato elitrasportato in condizioni disperate.

L’eucalipto che stava sradicando in località Nuraponti con l’aiuto di un trattore, si è abbattuto sul mezzo e un ramo spezzato ha colpito l’allevatore al petto, causandogli gravi lesioni. Rapidi l’intervento dei soccorsi e l’arrivo dell’elicottero, ma Siddi non ha superato la notte.

Un operaio 60enne è morto a Tezze sul Brenta (Vicenza), dove era impegnato nell’attività di bonifica del cromo esavalente presente nell’area dell’ex Tricom Galvanica, azienda che per trent’anni ha sversato nel terreno e nelle falde la sostanza ad elevata tossicità, cancerogena e mutagena.

Il lavoratore si è accasciato all’improvviso ed è morto sul posto. Da chiarire le cause del malore e l’eventuale connessione con il lavoro svolto. La bonifica a Tezze sul Brenta, iniziata nel 2023 e ormai alle battute finali, prevede tra l’altro la realizzazione di un sarcofago in cemento di 30×30 metri, profondo circa 25, per isolare il terreno inquinato e impedire la contaminazione ulteriore della falda.

Nei campioni prelevati in profondità la concentrazione di cromo 6 raggiungeva i 430mila microgrammi per litro, a fronte di un limite di legge fissato a 5.

#giancarlosiddi#mortidilavoro#cromoesavalente

Febbraio 2025: 17 morti (sul lavoro 17; in itinere 0; media giorno 2,8)

Anno 2025: 104 morti (sul lavoro 89; in itinere 15; media giorno 2,8)

17 Lombardia (sul lavoro 14, in itinere 3)

15 Veneto (12 – 3)

8 Piemonte, Campania, Puglia (8 – 0)

7 Emilia Romagna (5 – 2); Toscana (6 – 1)

6 Calabria (6 – 0)

5 Abruzzo (5 – 0)

4 Lazio (3 – 1)

3 Umbria, Sicilia (3 – 0); Liguria, Marche (2 – 1)

2 Trentino, Basilicata (2 – 0); Sardegna (1 – 1)

1 Molise (0 – 1)

Gennaio 2025: 87 morti (sul lavoro 72; in itinere 15; media giorno 2,8)

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Attualità

UNA STORIA AVVELENATA DALLO SFRUTTAMENTO PIÙ NERO.

di Piero Santonastaso | Facebook.com/Mortidi lavoro

Emanuele D’Asta, 23 anni.

Era una storia avvelenata, quella ricamata intorno alla fine di Emanuele D’Asta, il 23enne morto mercoledì 5 febbraio per un crollo nella casa in ristrutturazione a Castel Volturno (Caserta). Non c’era alcun matrimonio alle viste con la fidanzatina 19enne anzi, non c’era nemmeno una fidanzatina, e tanto meno quello era il nido d’amore in cui sarebbero andati a vivere. Talmente avvelenata, la storia, da aver convinto la procura di Santa Maria Capua Vetere ad aprire un’inchiesta e a ordinare l’autopsia sul corpo del giovane.

I primi riscontri dicono che Emanuele D’Asta non è morto per il crollo di un balcone di una villetta linda e pinta, ma per il cedimento del solaio di una vecchia casa con i muri ammuffiti e in precarie condizioni di stabilità. Non risultano peraltro autorizzazioni per l’avvio di lavori di alcun genere. Il ragazzo, infine, al momento del crollo non era solo, come testimoniano i tanti attrezzi trovati sul posto. Con lui c’erano altri lavoratori in nero che si sono dati alla fuga, nonostante un paio di loro fossero con tutta probabilità feriti.

I familiari di Emanuele, che lascia due figli in tenerissima età, urlano la loro verità: “Emanuele durante la settimana lavorava a nero per una ditta che si occupa di ristrutturazione di abitazioni, veniva pagato sui 150 euro a settimana. Anche mercoledì era andato all lavoro nel cantiere di proprietà del padre della ragazza che stava frequentando da poco, ma non è vero che doveva sposarsi. Nel fine settimana si arrangiava in un locale sempre zona Castel Volturno. Aveva avuto un piccolo problema con la giustizia ma poi ha ripreso a lavorare con sacrificio. Quando è avvenuta la tragedia non era solo, il suo corpo è stato spostato dalle macerie e portato a qualche metro di distanza”.

Ora sta alla magistratura restituire verità e dignità a un giovane morto di sfruttamento.

#emanueledasta#mortidilavoro

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Lo straordinario mondo di Christine: grazie all’aumento del costo del denaro anche Banca Mediolanum ha fatto un utile da record: nel 2024 ha pappato 1,12 miliardi (+36%).

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La rifeudalizzazione.

di Sahra Wagenknecht

Oggi i paesi occidentali sono segnati da disuguaglianza crescente e povertà in aumento.

Quella che era una comunità sociale si è trasformata in un’accozzaglia di individui di varia estrazione, nutriti da diffidenza e ostilità, che vivono gli uni accanto e contro gli altri, ma ciascuno chiuso nel proprio mondo, senza incontrarsi quasi mai.

Con l’isolamento dei ceti benestanti e il ritorno dei privilegi legati all’istruzione, le prospettive di vita sono determinate in prima battuta dalle proprie origini, anziché dal merito e dall’impegno.

Al posto dell’autodeterminazione e di una maggiore liberalità, assistiamo oggi a una rifeudalizzazione dell’economia e della società, che ha reso la maggior parte della popolazione non più responsabile per se stessa, ma più dipendente, non più libera, ma meno autonoma. (Sahra Wagenknecht, “Contro la sinistra neoliberale”, Fazi Editore.)

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