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La Seconda Repubblica è finita: “Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente.”

CETI ABBIENTI E SENSO DELLO STATO. Tra ricchezza e indifferenza, di Ernesto Galli Della Loggia-corriere.it
I dati sono ampiamente noti. Ma voglio ricordarli per l’ennesima volta riprendendoli da un recente articolo pubblicato sul Corriere da Sergio Rizzo. Ogni anno, in Italia, sfuggono completamente al fisco redditi per circa 300 miliardi di euro, con una perdita di entrate per le casse pubbliche pari a un dipresso a 100 miliardi di euro.

Venendo al dettaglio una cifra simile vuol dire che dovremmo credere all’incredibile: ad esempio che nel 2007 (ultime cifre disponibili) gli italiani con un reddito superiore a 200 mila euro sarebbero stati meno di 76 mila. Non solo, ma poiché solamente il 20 per cento di questi erano lavoratori autonomi (l’altro 80 per cento essendo dipendenti o addirittura pensionati), dovremmo pure credere che in tutta la Penisola, dalle Alpi al Lilibeo, non ci fossero allora più di 15 mila lavoratori autonomi che avessero un reddito di almeno 18 mila euro al mese. E dovremmo altresì credere—sempre stando a ciò che risultava al fisco — che in quello stesso anno soltanto 6.253 (dicesi 6.253) «percettori di reddito da imprese» avrebbero guadagnato più di 200 mila euro annui. Così come dovremmo convincerci che proprio in quelli che sono stati i 12 mesi precedenti la crisi ben il 45 per cento, vale a dire circa la metà delle società, avessero davvero, secondo quanto denunciato, un bilancio in perdita. Ma chi può credere a questa realtà di favola? Nessuno. Così come nessuno può credere che le tasse verrebbero pagate se solo fossero più basse (una favola che fa esattamente il paio con quella per cui se tutti pagassero le tasse queste diminuirebbero). Così come d’altra parte nessuno può credere ormai che faccia una differenza se al governo c’è la destra o la sinistra: la quale, anzi, ha dimostrato di non riuscire a dare alcuna concretezza alla sua astratta furia ideologica redistributiva.

E allora non resta che prendere atto di una diversa realtà, quella vera. E cioè che in Italia l’evasione fiscale, per la sua mole, la sua capillarità e la sua continuità nel tempo, è qualcosa di ben altro, e che va ben oltre una pur grave dimensione economica. Essa evoca piuttosto una fondamentale questione nazionale. Vale a dire qualcosa che rimanda immediatamente all’esistenza e alla consistenza stessa delle basi dello Stato nazionale, del nostro stare insieme. Infatti, se in una misura che non ha eguali in alcun altro Paese civilizzato la ricchezza, i ricchi, si sottraggono all’imposta, ciò vuol dire che di fatto, e nei fatti, essi mostrano di non riconoscersi in un’ appartenenza comune. Che una parte della popolazione— e proprio quella più produttiva — non intende sottostare a quel vincolo sociale che è tale appunto perché obbliga a comportamenti che non corrispondono al proprio personale e immediato interesse.

Tra questo interesse e quello generale la stragrande maggioranza degli italiani ricchi invece non ha dubbi: sceglie senza esitare il primo e manda al diavolo il secondo. Questa indomabile asocialità dei ricchi ha almeno due gravi conseguenze oltre quelle ovvie di carattere economico. La prima è la grandissima difficoltà che ha incontrato e che incontra da sempre in Italia la formazione di una vera classe dirigente. Infatti quell’asocialità non può che dare luogo anche ad una tendenziale astatualità, cioè ad una sostanziale indifferenza per le sorti dello Stato. Come si vede benissimo nel fondo di grottesco anarchismo protestatario che si annida così spesso nei ricchi italiani, e che fa sì che essi, quindi, possano identificarsi assai difficilmente con gli interessi collettivi del Paese come invece dovrebbe fare una classe dirigente.

La seconda conseguenza è di ordine politico. Come accade normalmente in tutti i Paesi anche da noi, in linea di massima, la ricchezza preferisce, non da oggi, farsi rappresentare politicamente dalla destra. Non c’è niente di male. Se non fosse però che una ricchezza asociale e antistatuale, come quella descritta, ha finito inevitabilmente per trasmettere questi suoi caratteri alla parte politica verso cui perlopiù convoglia il suo voto, condizionandone pesantemente il profilo ideologico e i comportamenti. Per non perdere tale voto, infatti, la destra politica italiana è stata spinta, lo volesse o no, ad assecondare regolarmente le pulsioni antisociali ed antistatali di quella parte così importante del proprio elettorato di riferimento. Ed è questo elemento che insieme ad altri ha impedito e impedisce alla destra italiana di incarnare il senso delle istituzioni e dello Stato così come di dare voce alta e forte alla dimensione degli interessi nazionali, secondo quanto avviene, invece, quasi dovunque altrove.

Esiste insomma oggi, in Italia, un grande problema politico della ricchezza, della gestione e della rappresentanza politica dei ceti abbienti, tra l’altro cresciuti quantitativamente negli ultimi anni a spese del lavoro dipendente. Tale problema riguarda principalmente la destra. La quale si è accontentata finora di seguirne pedissequamente i desiderata, senza neppure cercare di dare loro una prospettiva diversa da quella egoistica da essi naturalmente espressa. Con ciò però condannandosi ad una funzione politicamente subalterna e troppo spesso, se è permesso dirlo, eticamente alquanto penosa. (Beh, buona giornata).

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La Seconda Repubblica è finita. Tremonti lo dice, ma non lo ammette.

Tremonti: No a governi tecnici di MASSIMO GIANNINI-repubbica.it

«IL GOVERNO Berlusconi è forte,e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l’ Europa non approverebbe». Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3e dei conflitti sulla manovra, vede un’ Italia solida e coesa,e un governo in pieno «controllo», da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell’ Economia nega conflitti e dimissioni. «Mai minacciato nulla. Tutt’ al più ho detto qualche volta “non firmo”».

Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, «al massimo una cassetta di mele marce», alle intercettazioni, «tutt’ al più una legge-bavaglino». E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. «Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla “democrazia dei contemporanei”…».

D’ accordo, allora, partiamo pure dalla “democrazia dei contemporanei”. Cosa intende dire?

«La democrazia dei contemporanei è diversa da quella “classica”, e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative- la democrazia- pur dentro la intensissima “mutatio rerum” che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia.

La scienza muta l’ esistenza. La “medicina”, la “ars longa” sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L’ iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai comee forse più di uno Stato G7.

E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull’ asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia».
Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia?
«Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza.E la politica era la forma di esercizioe di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere.

Ora non è più così. L’ asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, erosoe diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d’ intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli».


Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi..
.

«Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della “poliarchia” disegnata nell’ enciclica “Caritas in veritate”.

È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova “architettura politica”».


Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell’ Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione…

«In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c’ è una “melior pars” fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell’ Europa».

Cioè? Lei sta dicendo che l’ Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia?

«È così. E non solo perché l’ Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l’ Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva».


Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell’ Udc?

«La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell’ Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma “economico”, non un trauma “esterno”, non un trauma “giudiziario”».

Sull’ economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l’ attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così?

«Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L’ ipotesi non si è verificata. Era un’ ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell’ ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un’ ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così».

Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia…

«Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea.I numeri dell’ Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell’ Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell’ azione di governo».

Eppure, basta parlare con un po’ di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare?

«Sarebbe questo il secondo trauma, quello “esterno”. Una volta si diceva “tintinnare di sciabole”. Ora, in un’ età più pacifica, si parla di “voci di Cancelleria”. Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell’ Italia. Per essere chiari, in giro per l’ Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all’ opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l’ Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell’ Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la “Lezione europea”. E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana».

Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l’ implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3?

«Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C’ è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l’ albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell’ etica, e se vuole anche dell’ estetica».

Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni?

«La politica deve sempre distinguere tra ciò che è “reato” e ciò che è “peccato”, e non confondere l’ uno con l’ altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato».

Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di “Cesare”. Dove vede la banalità?

«Per banalità intendo la “banalità del male”. E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all’ etica politica».

Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all’ eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3…

«Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di «poteri» impotenti, se si guarda i risultati, di reati più “tentati” che “consumati”. Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta “tragedia” si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale…».

Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra?

«Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti “governi” locali si sono clonati e derivati in galassie societarie “parallele”. Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la “cifra” della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l’ affare degli affariè quello dell’ eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all’ improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l’ albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L’ unica, l’ ultima forma per riportare nella trasparenza e nell’ efficienza la cosa comune».


Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Leiè d’ accordo anche con questo?

«La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all’ informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un “bavaglino”. Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini».

Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese?

«Al Parlamento è bastato un mese per fare la “manovra”. Un’ azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall’ Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la “manovra” non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l’ effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica».


Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c’ è niente di strutturale…

«Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d’ Europa in questi anni e pari data c’ è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno.E forse queste due, pensionie Pomigliano, sono dueP più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l’ azione del governo contro la criminalità organizzata ha un’ intensità e un’ efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia».

Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini?

«Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all’ interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell’ insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale».

E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo?

«Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c’ è comunque una prima “cifra” dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in attoè portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro.E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla “battaglia per il diritto”, troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d’ investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato».


Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta?

«La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa».

E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl?

«Anche questo tema rientra nell’ idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene».

Non può negare che l’ altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l’ ha rimproverata in Consiglio dei ministri?

«Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra “personale” e “politico”. Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi “scontri” ho letto troppo folklore…».

È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni?

«Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto “non firmo”. E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po’ più della politica economica, l’ ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese.E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre». (Beh, buona giornata).

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L’amore vince sempre contro l’odio e l’invidia. A manganellate: ieri a Roma contro gli aquilani, oggi a Milano contro gli operai.

Milano, tensione al corteo degli operai, “Feriti in cinque per le manganellate”
Scontri durante la protesta per la Mangiarotti. La questura: “Non si sono fermati nel punto prestabilito”. (fonte:repubblica.it

Momenti di tensione nel centro di Milano, quando il corteo degli operai della Mangiarotti nuclear a pochi passi dalla prefettura è stato caricato dagli agenti in tenuta antisommossa e cinque lavoratori sono rimasti feriti. A denunciare l’episodio è un delegato Fiom della Rsu dello stabilimento milanese che rischia la chiusura per il trasferimento della produzione a Udine. Ma fonti della questura smentiscono le cariche facendo invece cenno ad “azioni di contenimento”: i manifestanti non si sarebbero fermati nel punto prestabilito.

“Il percorso del corteo era stato autorizzato – ha affermato Rosario Schiettini, delegato della Fiom nell’azienda che produce componenti per l’industria nucleare – ma all’imbocco di corso Monforte uno schieramento di forze dell’ordine ci ha impedito di arrivare fino al portone della prefettura. Sono partite le cariche e cinque operai sono stati colpiti dalle manganellate: uno di loro è stato portato via in ambulanza”.

La giornata di mobilitazione degli operai della Mangiarotti era iniziata davanti al consolato francese per impedire che la committente Areva chiedesse il trasferimento delle commesse dallo stabilimento di Milano. Dopo un colloquio fra un gruppo di sindacalisti e il diplomatico francese, il corteo a cui hanno partecipato anche una delegazione dei lavoratori della Maflow di Trezzano sul Naviglio e alcuni esponenti dei centri sociali, ha tentato di raggiungere la prefettura per chiedere al rappresentante provinciale del governo il rispetto di una sentenza che impone alla proprietà di mantenere la produzione nello stabilimento milanese.
Dopo gli scontri una delegazione di rappresentati sindacali è riuscita a ottenere un’udienza in prefettura. Beh, buona giornata.

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Il Vecchio Continente ce l’ha coi giovani.

UNA CRISI PAGATA DAI GIOVANI
di Samuel Bentolila , Tito Boeri e Pierre Cahuc-lavoce.info

La disoccupazione giovanile è al 20 per cento in Europa. Si tratta anche di una conseguenza di riforme del mercato del lavoro rimaste incomplete. Per rendere politicamente accettabili quelle intraprese a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è lasciato che influissero solo sulle nuove assunzioni. Si è così creato un dualismo nel mercato del lavoro, tra contratti a tempo indeterminato e contratti a tempo determinato. Che è iniquo e fortemente distorsivo. Si può risolverlo ricorrendo a forme di tutela progressiva del lavoro.

Mai prima d’ora una crisi aveva colpito così tanto i giovani. Questa volta non abbiamo avuto soltanto il congelamento delle assunzioni, anche una grande quantità di contratti temporanei non sono stati rinnovati. Di conseguenza, la disoccupazione giovanile nell’area euro è balzata in maggio al 20 per cento con livelli più alti nei paesi con maggiore dualismo nel mercato del lavoro, dal 15 per cento di prima della crisi. In Spagna, quattro giovani su dieci che partecipano al mercato del lavoro sono disoccupati, in Italia uno su tre, in Francia e Svezia – due paesi con un dualismo simile nel mercato del lavoro – siamo a uno su quattro. È il momento di correre ai ripari se non vogliamo perdere un’intera generazione.

CONSEGUENZE DELLE RIFORME
I governi europei hanno fatto sforzi notevoli per riformare le istituzioni del mercato del lavoro e uscire così dalla Eurosclerosi degli anni Ottanta: nei venticinque anni che hanno preceduto la grande recessione, nei paesi dell’Europa a 15 sono state avviate circa 200 riforme delle tutele dell’occupazione, che in più della metà dei casi hanno aumentato la flessibilità del mercato del lavoro.

Un effetto delle riforme è un aumento della volatilità dell’occupazione. L’occupazione cresce di più nei periodi di crescita che in assenza di riforme . Questo ha contribuito all’eccezionale andamento dell’occupazione negli anni 1995-2007, quando la disoccupazione è scesa di un quarto, la disoccupazione di lungo periodo si è dimezzata e sono stati creati 21 milioni di nuovi posti di lavoro. È il lato positivo della flessibilità. Il lato negativo lo abbiamo visto nel corso della recessione: la riduzione dell’occupazione associata al calo della produzione è considerevolmente superiore nei paesi che hanno attuato queste riforme duali. In altre parole, la perdita di posti di lavoro sarebbe stata minore senza le riforme.

Il fatto è che le riforme si sono fermate a metà ed è l’ora che i governi le completino. Per renderle politicamente accettabili, le riforme hanno per lo più comportato cambiamenti solo per i nuovi assunti e hanno introdotto un vasto assortimento di nuove figure contrattuali flessibili, a tempo determinato, oppure hanno esteso il loro raggio d’azione laddove già esistevano. Non c’è stato alcun cambiamento delle regole per i contratti regolari a tempo indeterminato
Di fatto, si sono così creati due mercati del lavoro: uno largamente al riparo dagli shock e formato dai lavoratori con contratti a tempo indeterminato; l’altro formato dai lavoratori temporanei, sul quale si sono concentrati tutti i rischi.

Un esempio eclatante di dualismo è il settore delle costruzioni spagnolo, colpito dallo scoppio della bolla immobiliare e dalla recessione: nel 2009 l’occupazione dipendente è scesa del 25 per cento, con perdite del 35 per cento tra i lavoratori a tempo determinato, ma i salari reali dei lavoratori a tempo indeterminato sono cresciuti del 4 per cento circa.
Oltre a sollevare importanti problemi di equità, una simile asimmetria è fortemente distorsiva.

La coesistenza di forte tutela del lavoro a tempo indeterminato e lavoro a tempo determinato comporta una inefficienza del turnover nel mercato del lavoro perché le aziende sono riluttanti a trasformare i posti di lavoro a tempo determinato in posti di lavoro a tempo indeterminato. I lavoratori temporanei hanno accesso a minore formazione perché né i lavoratori né i datori di lavoro vedono un futuro per il rapporto di lavoro. È probabile che la perdita di formazione di capitale umano divenga più acuta negli anni a venire.

COME ELIMINARE IL DUALISMO
La ripresa dopo le crisi finanziarie è generalmente associata con un ampio utilizzo di contratti temporanei, dal momento che incertezza e vincoli di liquidità scoraggiano le aziende dall’assumere impegni a lungo termine. L’esperienza del Giappone e della Svezia negli anni Novanta lo dimostra. All’uscita dalla recessione, i due paesi hanno sperimentato un forte incremento nella quota di contratti temporanei, che ha significato anche una minore acquisizione di qualificazione sul posto di lavoro per le nuove generazioni di lavoratori.

Nella maggior parte dei paesi europei i lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono fortemente tutelati. Per fare qualche esempio, in Italia i lavoratori a tempo indeterminato sono protetti fin dall’inizio del rapporto di lavoro da norme che obbligano il datore di lavoro a reintegrarli in caso di licenziamento senza giusta causa. In Francia il licenziamento per ragioni economiche è praticamente impossibile se l’azienda realizza profitti. In Spagna è prassi usuale contestare in tribunale il licenziamento per motivi economici: i datori di lavoro perdono la causa in tre quarti dei casi, cosicché generalmente evitano il ricorso al tribunale pagando in anticipo al lavoratore l’indennità a cui l’avrebbero condannato i giudici. Indennità che possono arrivare a 36 mesi di salario in Italia e a 42 mesi in Spagna. I procedimenti giudiziari in questi paesi sono molto lunghi e costosi.

Per completare i processi di riforma, i governi dovrebbero combattere il dualismo dei mercati del lavoro europei, ma le misure finora adottate sono ben lungi dall’essere soddisfacenti. Per esempio, il 16 giugno il governo spagnolo ha approvato una riforma che abbassa l’entità delle indennità nei contratti a tempo indeterminato. Ma il provvedimento non risolverà il dualismo del mercato del lavoro spagnolo perché le procedure amministrative e giudiziarie per il licenziamento fanno sì che i contratti temporanei siano ancora molto più vantaggiosi per le aziende.

Una strategia migliore è quella di garantire una tutela progressiva del lavoro con flessibilità in ingresso. In particolare i governi dovrebbero favorire un ingresso a fasi nel mercato del lavoro a tempo indeterminato, facendo sì che il grado di tutela aumenti via via che i lavoratori completano il percorso che li porta al lavoro permanente, con dettagli che si possono definire in accordo con le legislazioni nazionali. Se la tutela del lavoro cresce di pari passo con l’anzianità, è possibile evitare il divario tra lavoratori con uno status diverso, che produce inefficienze del turnover nel mercato del lavoro, e considerare anche i costi psicologici associati alla perdita del lavoro, che normalmente aumentano all’aumentare del tempo trascorso in un posto di lavoro. Resterà così la flessibilità, senza però la necessità di creare una struttura duale del mercato del lavoro. (Beh, buona giornata).

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Il costo della crisi sono stati miliardi di risparmi, costo della ripresa sono 17 milioni di posti di lavoro persi.

Ocse, persi 17 milioni di posti di lavoro: disoccupati al massimo nel dopoguerra
In Italia svaniti 500mila posti, senza cig disoccupazione +4%. A picco occupazione dei giovani, pesante impatto su precari-ilmessaggero.it

La crisi ha distrutto nell’area Ocse 17 milioni di posti di lavoro, 500mila dei quali in Italia, dove il tasso di occupazione è al 57,3%, quart’ultima nazione tra i paesi industrializzati (solo Messico, Ungheria e Turchia stanno peggio). I danni sarebbero stati peggiori senza il massiccio ricorso alla Cig. Nel nostro paese il salario medio lordo è di circa 31mila dollari, sotto la media. Sono dati riportati nel annuale sulle Prospettive dell’Occupazione.

Quasi 17 milioni di persone hanno perso il posto di lavoro nell’area Ocse tra la fine del 2007, quando il tasso di disoccupazione era al minimo record del 5,8% e il primo trimestre 2010 quando ha raggiunto un massimo post-bellico dell’8,7%. La stima a fine 2011 è di una disoccupazione ancora superiore all’8%. Ad essere colpiti sono stati i livelli occupazionali degli uomini (-3%) più che delle donne (-1,2%), perché settori come l’edilizia (occupazione -7,7%), il manifatturiero (-8,7%) e il minerario (-5,3%) ad alta occupazione maschile hanno pagato il prezzo più duro. Aggiungendo coloro che non stanno cercando attivamente l’occupazione e i sotto-occupati, la disoccupazione nell’area Ocse e anche nel G7 risulta del 15% circa a fine 2009 contro poco più del 10% nel 2007.

A picco l’occupazione dei giovani (-8,4%), mentre la fascia dei 25-54 anni ha avuto danni minori (-2,2%) e gli ultra 55enni hanno messo a segno addirittura un +1,7%. Un incremento legato in parte alla necessità di restare al lavoro per le perdite dei risparmi previdenziali causate dalla crisi finanziaria e dall’innalzamento dell’età di pensionamento.

Drammatico l’impatto sui precari (-7,7%), mentre i lavoratori a tempo indeterminato hanno retto (-0,6%) e gli autonomi hanno limitato i danni (-2,1%). Il grado di istruzione ha fatto la differenza: l’occupazione dei meno qualificati è calata del 6,4%, mentre i cosiddetti “high skilled” hanno registrato un aumento dell’1,1%.

La crisi è costata quasi mezzo milione di posti di lavoro all’Italia e ha ulteriormente ridotto il tasso di occupazione, sceso dal 58,7% nel 2007 al 57,3%, al quart’ultimo posto tra i Paesi industrializzati (solo di Messico, Ungheria e Turchia fanno peggio). Per riportare l’occupazione ai livelli ante-crisi servirebbero 657mila nuovi posti. Le proiezioni suggeriscono che la disoccupazione resterà agli attuali livelli (8,9%) o sopra almeno fino alla fine del 2011. L’Ocse stima che senza il ricorso alla Cassa Integrazione, aumentata di oltre il 600% dall’inizio della crisi, la disoccupazione sarebbe stata quasi 4 punti percentuali più alta. L’Italia è classificata dall’Ocse tra i Paesi in cui la recessione ha avuto nell’insieme un impatto meno duro sul lavoro, considerando che il tasso di disoccupazione è salito di 2,2 punti rispetto al dicembre 2007, meno quindi dei 2,9 punti della media Ocse. L’incremento della disoccupazione e la riduzione del tasso di occupazione sarebbero stati ancora peggiori se il numero delle ore lavorate durante la crisi se non fosse calato del 2,7%, il doppio della media dei Paesi industrializzati.

Un altro riflesso della crisi si è visto nell’aumento dei lavori part-time (+10%), in gran parte riconducibile a lavoratori che hanno accettato il tempo parziale perchè non sono riusciti a trovare occupazioni a tempo pieno. Dall’inizio della crisi, più del 4% dei lavoratori in Italia hanno un part-time involontario, uno dei dati più alti dell’Ocse. Se al numero dei disoccupati ufficiali, si aggiungono anche i sottoccupati e coloro che vorrebbero lavorare, ma non cercano attivamente un’occupazione, l’incidenza dei senza lavoro – nelle stime dell’Ocse – si avvicinava al 20% a fine 2009 (il livello più elevato tra i big a parte la Spagna) dal 15% circa di due anni prima, contro una media dell’Ocse del 15% lo scorso anno e del 10% circa nel 2007 rispettivamente.

Il salario medio lordo in Italia è di 30.794 dollari l’anno a parità di potere d’acquisto e di 39.789 dollari ai cambi attuali. La media tra i Paesi industrializzati è 41.435 dollari nel primo caso e 47mila nel secondo. Gli Usa hanno i salari più elevati (51mila euro), ma spiccano anche Svizzera (47.300 dollari a parità di potere d’acquisto), Lussemburgo (49mila), Australia (45.500), Regno Unito, Irlanda e Olanda (oltre 44.000). Sotto la media, invece, Francia e Germania, appaiate poco sopra i 36mila dollari, come pure Giappone (33mila) e Spagna (31mila). Portogallo a parte (22mila), i salari più bassi sono nei Paesi dell’Est Europa: Repubblica Ceca e Ungheria sono attorno a 19mila dollari, la Polonia si ferma a 17.500 dollari e la Repubblica Slovacca scende a 16mila. Dal rapporto emerge anche un calo delle ore lavorate a 1.773 per l’Italia dalle 1.807 del 2008. Flessione, peraltro comunque a tutti i Paesi avanzati (meno il Lussemburgo), che riflette l’impatto della crisi.

Riequilibrio tra lavoro permanente e lavoro precario. Secondo John Martin, direttore della divisione occupazione, lavoro e affari sociali dell’Ocse, è necessario «creare gli incentivi giusti perchè le aziende assumano». Oltre a sussidi temporanei per le assunzioni e agli sforzi per migliorare le qualifiche di quanti cercano lavoro, questo dovrebbe includere «un riequilibrio della protezione» del lavoro tra i contratti permanenti e i temporanei, che hanno pagato il prezzo più alto durante la crisi. In questo modo «si permetterebbe ai lavori a tempo determinato di funzionare meglio come fase di passaggio verso un lavoro permanente e non come una trappola». (Beh, buona giornata).

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L’Italia fa fiasco nel calcio. Nella politica. Nell’economia. Nella democrazia. Nella giustizia. Nei conti pubblici. Nella disoccupazione.L’Italia fa fiasco nel governo.

La stampa straniera ci deride, L’Equipe: “Italia, l’altro fiasco”-tgcom.com
Un misto di ironia e triste realtà nei titoli dei quotidiani online dopo la debacle azzura ai Mondiali sudafricani. I francesi de L’Equipe titolano “Italia, l’altro fiasco” riferendosi proprio alla loro eliminazione. In Spagna Marca titola in italiano: “Arrivederci Italia” e As: “Ridicolo Italia, fuori dal Mondiale”. Il Sun scrive anche: “Arrivederci”. Infine Bild: “Italien raus, quelli che nel 2006 hanno fatto kaputt della nostra estate di sogno”.

In Italia La Gazzetta dello Sport scrive “A casa con vergona”, mentre Tuttosport non ha dubbi. C’è un solo colpevole: Lippi. Il Corriere dello Sport titola: “Italia che vergogna, fuori e ultima nel girone”. Passando ai generalisti. “Mai così brutti: l’Italia torna a casa” scrive La Repubblica e Il Corriere della Sera: “Italia, addio al Mondiale”. Infine La Stampa: “Naufragio Italia, si torna a casa”. (Beh, buona giornata).

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A Pomigliano lo scontro capitale-lavoro all’epoca della globalizzazione della crisi econimica: “Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.”

A Pomigliano comincia l’epoca dopo Cristo, di EUGENIO SCALFARI-repubblica.it
TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n’è una che è d’una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: “Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”.
Il dopo Cristo per l’amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un’epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.
Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.
I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.
Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare. I sindacati che hanno firmato l’accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d’un evento eccezionale e non più ripetibile. La stessa posizione l’hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell’opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l’apripista d’un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l’alta marea costruendo un muro che blocchi l’oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo. Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell’opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l’obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell’epoca “prima di Cristo” debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell’epoca del “dopo Cristo”. Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall’emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l’inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, “buscando el levante por el ponente”, cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

C’è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall’Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all’esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell’Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l’ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l’Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione. Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell’Eurozona le seguenti domande: “Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell’Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l’entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell’occhio del ciclone?” (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all’interno dei paesi. Non c’è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell’articolo 41 della nostra Costituzione.
Quell’articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali. Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell’urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell’abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l’abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l’intento di stravolgere l’architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all’Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l’ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell’occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti. (Beh, buona giornata).

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Come la crisi economica diventa la crisi della democrazia occidentale.

Con la crisi democrazie a rischio, di Barbara Spinelli, la Stampa, 20 giugno 2010

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato – l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 – ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l’altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro(…) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali.

Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma – quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi – sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica. (Beh, buona giornata).

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A Pomigliano la Fiat tenta di andare a mille contro gli operai. Intanto la 500 la fanno in Polonia.

(fonte: Agenzia Ansa).
”Marchionne la smetta e si vergogni”: cosi’ Giorgio Cremaschi ha replicato all’ad Fiat che aveva attaccato i sindacati. ”Se ci riesce – ha detto il segretario della Fiom – impari a fare l’imprenditore per tutti quegli industriali meno famosi e ricchi di lui che riescono a farlo in Italia rispettando leggi, contratti e Costituzione”. Marchionne aveva detto: ”A Termini Imerese si e’ scioperato perche’ giocava l’Italia e cosi’ si fa a Pomigliano e negli altri stabilimenti”.
Beh, buona giornata.

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Stanno “usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate.”

L’alternativa a Marchionne, di Guido Viale – il manifesto.

Non c’è alternativa. Questa sentenza apodittica di Margaret Thatcher per la quale è stato creato anche un acronimo (Tina: there is no alternative) è la silloge del cosiddetto «pensiero unico» che nel corso dell’ultimo trentennio ha accompagnato le dottrine più o meno «scientifiche» da cui sono state orientate, o con cui sono state giustificate, le scelte di volta in volta dettate dai detentori del potere economico: prima liberismo (a parole, con grande dispendio di diagrammi e formule matematiche, ma senza mai rinunciare agli aiuti di stato e alle pratiche monopolistiche);

poi dirigismo e capitalismo di stato (per salvare banche, assicurazione e giganti dell’industria dai piedi d’argilla dal precipizio della crisi); per passare ora a un vero e proprio saccheggio, usando come fossero bancomat salari, pensioni, servizi sociali e «beni comuni», per saldare i debiti degli Stati messi in crisi dalle banche appena salvate. Così la ricetta che non contempla alternative oggi è libertà dell’impresa; che va messa al di sopra di sicurezza, libertà e dignità, ovviamente dei lavoratori, inopportunamente tutelate dall’art. 41 della Costituzione italiana.

A enunciarlo in forma programmatica è stato Berlusconi, subito ripreso dal ministro Tremonti e, a seguire, dall’autorità sulla concorrenza, che non ha mai mosso dito contro un monopolio. A tradurre in pratica quella ricetta attraverso un aut aut senza condizioni, subito salutato dagli applausi degli imprenditori giovani e meno giovani di Santa Margherita Ligure, è stato l’amministratore delegato della Fiat, il Valletta redivivo del nuovo secolo. Eccola. Limitazione drastica (e anticostituzionale, ma per questi signori la Costituzione va azzerata; e in fretta!) del diritto di sciopero e di quello di ammalarsi.

Una organizzazione del lavoro che sostituisce l’esattezza cronometrica del computer alla scienza approssimativa dei cronometristi (quelli che un tempo alla Fiat si chiamavano i «vaselina», perché si nascondevano dietro le colonne per spiare gli operai e tagliargli subito i tempi se solo acceleravano un poco per ricavarsi una piccola pausa per respirare). Una turnazione che azzera la vita familiare, subito sottoscritta da quei sindacalisti e ministri che due anni fa erano scesi in piazza per «difendere la famiglia»: la loro, o le loro, ovviamente. È un ricatto; ma non c’è alternativa. Gli operai non lo possono rifiutare e non lo rifiuteranno, anche se la Fiom, giustamente, non lo sottoscrive. L’alternativa è il licenziamento dei cinquemila dell’Alfasud – il «piano B» di Marchionne – e di altri diecimila lavoratori dell’indotto, in un territorio in cui l’unica vera alternativa al lavoro che non c’è è l’affiliazione alla camorra.

Per anni, a ripeterci «non c’è alternativa» sono stati banchieri centrali, politici di destra e sinistra, sindacalisti paragovernativi, professori universitari e soprattutto bancarottieri. Adesso, forse per la prima volta, a confermarlo con un referendum, sono chiamati i lavoratori stessi che di questo sopruso sono le vittime designate. Ecco la democrazia del pensiero unico: votate pure, tanto non c’è niente da scegliere.

Effettivamente, al piano Marchionne non c’è alternativa. Nessuno ci ha pensato; neanche quando il piano non era ancora stato reso pubblico. Nessuno ha lavorato per prepararla, anche quando la crisi dell’auto l’aveva ormai resa impellente. Nessuno ha mai pensato che sarebbe stato necessario averne una, anche se era chiaro da anni che prima o poi – più prima che poi – la campana sarebbe suonata: non solo per Termini Imerese, ma anche per Pomigliano.

Ma a che cosa non c’è alternativa? Al «piano A» di Marchionne. Un piano a cui solo se si è in malafede o dementi si può dar credito. Prevede che nel giro di quattro anni Fiat e Chrysler producano – e vendano – sei milioni di auto all’anno: 2,2 Chrysler, 3,8 Fiat, Alfa e Lancia: un raddoppio della produzione. In Italia, 1,4 milioni: più del doppio di oggi. La metà da esportare in Europa: in un mercato che già prima della crisi aveva un eccesso di capacità del 30-35 per cento; che dopo la sbornia degli incentivi alla rottamazione, è già crollato del 15 per cento (ma quello della Fiat del 30); e che si avvia verso un periodo di lunga e intensa deflazione.

Quello che Marchionne esige dagli operai, con il loro consenso, lo vuole subito. Ma quello che promette, al governo, ai sindacati, all’«opinione pubblica» e al paese, è invece subordinato alla «ripresa» del mercato, cioè alla condizione che in Europa tornino a vendersi sedici milioni di auto all’anno. Come dire: «il piano A» non si farà mai.

Non è una novità. Negli ultimi dieci anni, per non risalire più indietro nel tempo, di piani industriali la Fiat ne ha già sfornati sette; ogni volta indicando il numero di modelli, di veicoli, l’entità degli investimenti e la riduzione di manodopera previsti. Tranne l’ultimo punto, che era la vera posta in palio, degli obiettivi indicati non ne ha realizzato, ma neanche perseguito, nemmeno uno. Ma è un andazzo generale: se i programmi di rilancio enunciati da tutte le case automobilistiche europee andassero in porto (non è solo la Fiat a voler crescere come un ranocchio per non scomparire) nel giro di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 30 milioni di auto all’anno: il doppio delle vendite pre-crisi. Un’autentica follia.

Dunque il «piano A» non è un piano e non si farà. L’alternativa in realtà c’è, ed è il «piano B». Se a chiudere non sarà Pomigliano, perché Marchionne riuscirà a farsi finanziare da banche e governo (che agli «errori» delle banche può sempre porre rimedio: con il denaro dei contribuenti) i 700 milioni di investimenti ipotizzati e a far funzionare l’impianto – cosa tutt’altro che scontata – a cadere sarà qualche altro stabilimento italiano: Cassino o Mirafiori. O, più probabilmente, tutti e tre. La spiegazione è già pronta: il mercato europeo non «tirerà» come si era previsto

Hai voglia! Il mercato europeo dell’auto è in irreversibile contrazione; l’auto è un prodotto obsoleto che nei paesi ad alta intensità automobilistica non può che perdere colpi: «tirano», per ora, solo i paesi emergenti – fino a che il disastro ambientale, peraltro imminente, non li farà recedere anch’essi – ma le vetture che si vendono là non sono certo quelle che si producono qui: né in Italia né in Polonia.

Anche se la cosa non inciderà sulle scelte dei prossimi mesi, è ora di dimostrare che non è vero che non c’è alternativa.

L’alternativa è la conversione ambientale del sistema produttivo – e dei nostri consumi – a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti o nocivi, tra i quali l’automobile occupa il secondo posto, dopo gli armamenti. I settori in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano: dalle fonti di energia rinnovabili all’efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all’agricoltura a chimica e chilometri zero, dal riassetto del territorio all’edilizia ecologica. Tutti settori che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più caro – e persino le emissioni a un certo punto verranno tassate – mentre le fonti rinnovabili costeranno sempre meno e l’inevitabile perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall’efficienza nell’uso dell’energia.

L’industria meccanica – come quella degli armamenti – può essere facilmente convertita alla produzione di pale e turbine eoliche e marine, di pannelli solari, di impianti di cogenerazione. Poi ci sono autobus, treni, tram e veicoli condivisi con cui sostituire le troppe auto, assetti idrogeologici da salvare invece di costruire nuove strade, case e città da riedificare – densificando l’abitato – dalle fondamenta.

Ma chi finanzierà tutto ciò? Se solo alle fonti rinnovabili fosse stato destinato il miliardo di euro che il governo italiano (peraltro uno dei più parsimoniosi in proposito) ha gettato nel pozzo senza fondo delle rottamazioni, ci saremmo probabilmente risparmiati i due o tre miliardi di penali che l’Italia dovrà pagare per aver mancato gli obiettivi di Kyoto. Ma anche senza incentivi, le fonti rinnovabili si sosterranno presto da sole e i flussi finanziari oggi instradati a cementare il suolo, a rendere irrespirabile l’aria delle città, impraticabili le strade e le piazze, a riempirci di veleni per rendere sempre più sterili i suoli agricoli, a sostenere un’industria delle costruzioni che vive di olimpiadi, expo, g8, ponti fasulli e montagne sventrate potranno utilmente essere indirizzati in altre direzioni. È ora di metterci tutti a fare i conti!

Ma chi potrà fare tutte queste cose? Non certo il governo. Né questo né – eventualmente – uno di quelli che abbiamo conosciuto in passato; e meno che mai la casta politica di qualsiasi parte. Continuano a riempirsi la bocca con la parola crescita e stanno riportandoci all’età della pietra. La conversione ecologica si costruisce dal basso «sul territorio»: fabbrica per fabbrica, campo per campo, quartiere per quartiere, città per città.

Chi ha detto che la programmazione debba essere appannaggio di un organismo statuale centralizzato e non il prodotto di mille iniziative dal basso? Chiamando per cominciare a confrontarsi in un rinnovato «spazio pubblico», senza settarismi e preclusioni, tutti coloro che nell’attuale situazione non hanno avvenire: gli operai delle fabbriche in crisi, i giovani senza lavoro, i comitati di cittadini in lotta contro gli scempi ambientali, le organizzazioni di chi sta già provando a imboccare strade alternative: dai gruppi di acquisto ai distretti di economia solidali.

E poi brandelli di amministrazioni locali, di organizzazioni sindacali, di associazioni professionali e culturali, di imprenditoria ormai ridotta alla canna del gas (non ci sono solo i «giovani imprenditori» di Santa Margherita); e nuove leve disposte a intraprendere, e a confrontarsi con il mercato, in una prospettiva sociale e non solo di rapina.
Il tessuto sociale di oggi non è fatto di plebi ignoranti, ma è saturo di intelligenza, di competenze, di interessi, di saperi formali e informali, di inventiva che l’attuale sistema economico non sa e non vuole mettere a frutto.

Certo, all’inizio si può solo discutere e cominciare a progettare. Gli strumenti operativi, i capitali, l’organizzazione sono in mano di altri. Ma se non si comincia a dire, e a saper dire, che cosa si vuole, e in che modo e con chi si intende procedere, chi promuoverà mai le riconversioni produttive?
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La Fiat porta Pomigliano d’Arco in Polonia: localizza la delocalizzazione.

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2010

Marchionne e Tremonti, con l’imposizione del “modello Pomigliano”, vogliono dimostrare a tutti i costi (costi pesantissimi, per gli operai) che aveva ragione il vecchio Marx a sostenere che il sistema capitalistico, per massimizzare il profitto, tende a precipitare il salario del lavoratore al minimo necessario per la mera riproduzione fisica della forza-lavoro. Per dirla in soldoni, a salari di fame.

Qualche operaio, che pure si appresta a subire il diktat di Marchionne, ha detto che saranno condizioni di lavoro “da schiavi”. Si sbaglia, ma solo perché in Italia ci sono le condizioni di lavoro-schiavitù di Rosarno. Verso le quali tenderanno comunque le condizioni di tutti i lavoratori salariati, se verrà interiorizzata – come sempre più avviene anche presso coloro che ne sono vittime – la “sovranità della globalizzazione”.

La cui logica è semplice: i capitali, nel senso finanziario e degli impianti, possono spostarsi liberamente, e così anche la forza-lavoro necessaria, ma senza portarsi dietro i diritti e le conquiste, salariali e non, che i lavoratori hanno ottenuto in un paio di secoli di lotte. In questo modo è lapalissiano che le condizioni dell’operaio italiano si avvicineranno progressivamente, e con ritmi che diventano sempre più rapidi, a quelle dell’operaio di Shanghai o bene che vada di Bucarest, visto che il padrone altrimenti trasloca l’intera produzione nei paesi dove il salario è letteralmente da “fame” e i diritti sindacali un miraggio.

Se la “profezia” di Marx risultò clamorosamente sbagliata fu infatti solo perché le lotte dei lavoratori, e dell’opinione pubblica che le appoggiò, portò i governi a imporre camicie di forza al “capitale” e al grado di plusvalore che potesse essere spremuto lecitamente dalla forza lavoro. Le otto ore, per dire, la proibizione del lavoro minorile, e poi le condizioni igieniche, di sicurezza, la tutela dei sindacalisti, fino insomma allo “statuto dei lavoratori”.

Il “modello Pomigliano” di tutto questo fa carta straccia (con gli straordinari ad libitum l’orario vero diventa di oltre nove ore giornaliere). Ma passerà, se continuerà la “guerra tra poveri”, precari contro occupati, disoccupati contro precari, e tutti contro gli immigrati. Perché la ricchezza complessiva in Italia continua a crescere, seppure in modo rallentato, ma cresce a dismisura la sua distribuzione diseguale. Contro questa esplosione del privilegio dovrebbero unirsi le vittime della crisi, anziché ingrassarne i responsabili dividendosi. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Il governo ha mentito sulla crisi:” Il 60% degli italiani considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare.”

IL SONDAGGIO
Italia, sfida alla crisi.Il cattivo umore di un Paese
Nella rilevazione Demos-Coop emerge una maggiore ansia per l’economia e meno paura degli immigrati. Gli ultimi mesi hanno cambiato il termometro del Paese, di ILVO DIAMANTI-repubblica.it

L’economia e la società attraversano tempi duri. Come avviene da anni, per la verità. La differenza è che oggi gli italiani ne sembrano consapevoli. Dopo un lungo periodo durante il quale apparivano convinti che, comunque, sarebbero riusciti a superare anche questa crisi. Perché noi italiani “ce la caviamo sempre”, tanto più quando tutti ci danno per spacciati. Questa volta, però, qualche serio dubbio, al proposito, affiora. È ciò che suggerisce il sondaggio condotto da Demos-Coop per l’Osservatorio sul Capitale sociale.

Quasi il 60% degli italiani, infatti, considera i problemi economici (disoccupazione e prezzi) prioritari, nell’agenda delle emergenze da affrontare. Tre anni fa, questa componente della popolazione era di 20 punti più ridotta: il 37%. Un segno che il clima d’opinione sta cambiando in fretta. In peggio. La maggioranza degli italiani pensa, infatti, che, fino a ieri, il governo abbia mentito, sulla crisi. Ostentando un ottimismo fuori luogo.

Né consola il fatto che altrove, in Europa, le cose vadano peggio. Anzi, metà delle persone intervistate, non a caso, teme che anche da noi capiti quel che è successo in Grecia. Questo brusco cambiamento d’umore, come abbiamo sottolineato una settimana fa, dipende, sicuramente, dalla manovra finanziaria del governo. Che promette sacrifici molto duri, ai cittadini, dopo mesi e mesi di rassicurazioni. Ma il pessimismo è suggerito, soprattutto, dal peggioramento della condizione familiare. Che ha raggiunto livelli di guardia.

Il 18% degli italiani, nel sondaggio Demos-Coop, dichiara che, nella sua famiglia, qualcuno ha perso il lavoro (5 punti in più di due anni fa). Il 24% sostiene che un familiare è stato messo in cassa integrazione (il doppio rispetto al 2008). Infine, il 27% degli intervistati (5 punti in più di due anni fa) afferma di aver dovuto ricorrere a prestiti presso genitori, parenti oppure amici. Considerando questi segni di difficoltà, il 17% delle famiglie italiane appare in condizione di grave disagio. Due anni fa questa cerchia era già ampia, ma si fermava al 12%.

Un ulteriore 30% degli intervistati manifesta episodi di difficoltà familiare. Due anni fa era il 22%. Il profilo degli italiani in difficoltà economica risulta piuttosto chiaro. Si tratta di persone che risiedono, maggiormente, nel Mezzogiorno (anche se il peso della cassa integrazione è rilevante anche nel Nord). Di età media (40-55 anni), ma anche giovane (25-40 anni). Occupati (o disoccupati) come lavoratori dipendenti del settore privato. Ma le difficoltà colpiscono, in misura superiore alla media, anche i lavoratori autonomi.

Il montare della crisi economica e occupazionale ha largamente “saturato” lo spazio delle preoccupazioni, ridimensionando le paure suscitate dalla criminalità comune e dagli immigrati – perlopiù connessi, in un binomio inscindibile. L’atteggiamento verso gli immigrati, in particolare, sembra cambiato profondamente, sotto diversi profili.

Si è ridotta la quota di coloro che li percepivano come un pericolo per la sicurezza, ma anche per l’occupazione. Mentre si è ridotto il peso di chi vede negli stranieri una “minaccia all’identità e alla religione”. Parallelamente, è cresciuta la disponibilità a considerarli una risorsa per la nostra economia. Oltre che dalle preoccupazioni economiche, questo cambiamento del clima di opinione è stato favorito dalla minore intensità della campagna mediatica sui temi dell’immigrazione e della sicurezza (come mostrano i dati dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza).

Non vanno, tuttavia, trascurati gli effetti della diffusione dei rapporti con gli stranieri, messa in luce dall’Osservatorio Demos-Coop. Ci riferiamo alla crescente presenza degli stranieri nei luoghi di vita e di lavoro degli italiani. Come colleghi, amici, collaboratori, studenti, genitori di figli che studiano e giocano insieme ai nostri figli. Tutto ciò li ha resi meno “altri”, agli occhi degli italiani.

La crisi, tuttavia, può distogliere lo sguardo dal problema della sicurezza personale. Ma alimenta, comunque, la diffidenza. Tra gli italiani in maggiore difficoltà, infatti, la sfiducia nel futuro è molto superiore alla media. Ma anche la sfiducia negli altri e, in particolare, verso gli stranieri. Le persone in difficoltà economica familiare, infatti, risultano anche le meno tolleranti e disponibili verso gli immigrati. Percepiti come concorrenti. Nell’accesso al mercato del lavoro, ma anche ai servizi.

La percezione della crisi, tuttavia, sta indebolendo anche la fiducia nella politica. La quota di popolazione che esprime un giudizio positivo sull’operato del governo è, infatti, del 42% (il livello più basso degli ultimi 2 anni). Ma scende al 34% tra le persone in difficoltà economica e occupazionale. La stessa, esatta tendenza emerge nei confronti del premier: 42% di giudizi positivi nella popolazione; 34% nella componente sociale più precaria. Ma anche il consenso per Tremonti, che supera il 50% nella popolazione, tra i più “marginali” si riduce al 40%.

Si tratta di una novità. Visto che, negli ultimi anni, il governo Berlusconi aveva attraversato le crisi economiche senza pagare un prezzo significativo, dal punto di vista del consenso politico. Ora qualcosa si è rotto, in questo meccanismo.

Anche se ciò non implica, necessariamente, una svolta. Visto che il giudizio verso l’opposizione e il suo leader resta egualmente basso: nella popolazione come tra le persone socialmente in difficoltà. Il che suona come un avvertimento. Perché i mutamenti del sentimento sociale si traducano in termini elettorali occorre un’alternativa credibile e creduta. Che ancora non c’è. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Sport

Mondiali di Calcio in Sudafrica: la polizia carica gli operai.

(fonte: ilmessaggero.it)
La polizia sudafricana ha lanciato gas lacrimogeni e sparato proiettili di gomma, ieri sera, contro centinaia di lavoratori che manifestavano all’esterno dello stadio della città costiera di Durban, dove la Germania ha giocato e battuto ieri l’Australia. Lo riferiscono alcuni testimoni.

Almeno una donna è rimasta ferita da un proiettile di gomma. «La nostra era una protesta pacifica, abbiamo manifestato perchè pagati meno di quanto pattuito. La carica della polizia ci ha sorpreso» ha detto uno dei lavoratori, Sydney Nzoli. Almeno due operai sono stati arrestati dalla polizia, uno di loro dopo aver consegnato una pistola. Circa 500 i lavoratori dispersi dagli agenti in assetto antisommossa.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Per rilanciare l’economia italiana, cambiamo governo non la Costituzione.

Lasciate in pace la Costituzione, per liberalizzare sfidate le corporazioni, di Romano Prodi-ilmessaggero.it

Non posso nascondere di essermi sorpreso quando qualche giorno fa ho letto che, per dare un contributo alla liberalizzazione della nostra economia, bisognava assolutamente modificare l’articolo 41 della nostra Costituzione. Anche se già lo conoscevo, mi sono tuttavia preso cura di rileggere il suddetto articolo che, come tutti gli articoli della prima parte della nostra Carta fondamentale, brilla per semplicità e chiarezza.

Esso scrive che “l’iniziativa privata è libera”. E aggiunge semplicemente che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà (opportuna questa insistenza sulla libertà) e alla dignità umana”. Come ovvio completamento, l’articolo aggiunge che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Terminata questa lettura mi sono messo il cuore in pace, nella sicurezza che né la lettera né lo spirito di quest’articolo mai avrebbero messo in rischio o semplicemente resa più difficile la libertà di intrapresa in quanto in qualsiasi sistema, anche nel più liberista, la legge ha il compito di dettare le norme di comportamento perché l’esercizio dell’attività economica non rechi danno all’esercizio dei diritti dei cittadini, sia che essi si organizzino in forma individuale che associata.

Tutti noi abbiamo infatti il diritto di essere tutelati dalla legge riguardo ai requisiti igienici o sanitari di un prodotto o della pericolosità di un giocattolo, così come in ogni parte del mondo i lavoratori e gli imprenditori trovano nella legge (italiana o europea) i diritti e gli obblighi che derivano dall’esercizio della propria attività. È peraltro evidente che, se esistono regolamentazioni eccessive, queste possono e debbono essere eliminate dall’attività legislativa, affidata all’iniziativa del Governo e del Parlamento.

Assolta la Costituzione da qualsiasi colpa in materia, mi è sorto il sospetto che potesse essere stata la Corte Costituzionale, attraverso le sue interpretazioni, ad impedire una maggiore liberalizzazione della nostra economia. Ho letto tuttavia a questo proposito un esauriente articolo dell’ex presidente della corte Valerio Onida che dimostra che mai la corte in tutta la sua storia ha dichiarato l’illegittimità di una legge liberalizzatrice e che, al contrario, esistono numerose decisioni che hanno rimosso limiti ingiustificati alla libertà di iniziativa contenuti nelle leggi nazionali o in quelle regionali.

Tranquillizzato su tutti i fronti, ho quindi ritenuto la proposta come un semplice errore o come un ormai rituale messaggio di avversione allo spirito (visto che non è possibile farlo alla lettera) della nostra Costituzione.

L’ipotesi dell’inconsapevole errore è stata poi esclusa dal fatto che il presidente del Consiglio è ritornato ripetutamente sull’argomento ribadendo la necessità di una riforma dello stesso articolo 41, alla quale proposta, per abbondanza, il ministro dell’Economia, ha aggiungo ieri l’altrettanto inutile proposta di abolire l’altrettanto innocuo articolo 118 della Costituzione.

Non riuscendo a raggiungere altre spiegazioni razionali per simili comportamenti, sono ricorso alla mia esperienza passata quando, insieme con l’allora ministro Bersani, ci accingemmo a fare un programma sistematico e generalizzato di liberalizzazioni e mi è facilmente saltato alla memoria il panorama di impressionanti proteste che ci veniva dalla piazza. E ricordo benissimo che nessuno agitava il libretto della Costituzione ma cartelli minacciosi nei confronti del Governo come risposta corale e violenta alla presunta violazione delle prerogative, dei diritti e dei privilegi delle categorie interessate.

Ed allora mi sorge il sospetto che l’accusa rivolta alla Costituzione e l’inutile scelta di un cammino tortuoso per procedere alla semplice riduzione di lacci e laccioli sia il comprensibile desiderio di evitare le rumorose manifestazioni e le reazioni, anche spesso incontrollate, delle infinite categorie e corporazioni che su questi lacci prosperano non da decenni ma da secoli.

E vorrei anche aggiungere che, sempre secondo la mia esperienza, lo scontento e le pressioni non prendono solo la via dell’opposizione, ma anche le insidiose strade degli alleati di governo. In poche parole, a fare sul serio queste riforme, si perdono consensi e voti. Posso in coscienza dire che le abbiamo ugualmente portate avanti, pur con la piena consapevolezza delle possibili conseguenze negative, anche se non arrivo al punto di affermare che il mio Governo sia caduto esclusivamente per questo motivo. Auguro quindi buon lavoro al ministro Tremonti. Sulle conseguenze sul Governo veda lui. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Dopo i costi della crisi, ci tocca pagare i costi della speculazione.

I COSTI DEL CAPITALISMO LI PAGHINO QUELLI CHE LI STANNO PRODUCENDO, NON I LAVORATORI!
Sulla Grecia ci stanno truffando-paoloferrero.it

La vicenda della crisi greca è un esempio da manuale di una grande truffa in cui la speculazione guadagna e i lavoratori pagano. I giornali dicono che i governi europei stanno lottando contro gli speculatori e i mercati finanziari per difendere l’Euro. Si tratta di una balla colossale. In realtà i governi e i mercati finanziari stanno tutti dalla stessa parte contro i lavoratori. Vediamo perché:

In seguito all’attacco fatto dagli speculatori alla Grecia, i governi europei hanno dato un prestito alla Grecia condizionato al fatto che in Grecia si taglino i salari, le pensioni, lo stato sociale. Il governo Greco, con i soldi del prestito pagherà gli interessi sul suo debito a Banche e speculatori, interessi che sono aumentati a causa dell’attacco speculativo. Il governo Greco restituirà i soldi del prestito ai governi europei grazie ai sacrifici imposti ai lavoratori greci. In pratica i soldi del prestito vanno a banche e speculatori e quei soldi li mettono i lavoratori greci.

Dopo la Grecia, i governi europei hanno stanziato 600 miliardi di euro per far fronte ad eventuali speculazioni verso altri paesi e le borse hanno festeggiato crescendo del 10%. E’ evidente che gli speculatori fanno bene a festeggiare perché questo vuol dire che dopo aver guadagnato sulla Grecia, adesso potranno ripetere l’offensiva su altri paesi avendo a disposizione 600 miliardi su cui fare affari. Dappertutto si ripeterà lo stesso scenario: attacco speculativo su un paese per volta (Spagna, Portogallo, Irlanda, Italia o Gran Bretagna), richiesta di pesanti sacrifici ai lavoratori per poter accedere al prestito europeo e conseguente versamento del prestito nelle tasche delle banche e degli speculatori. Si tratta di una truffa colossale che pagheranno innanzitutto i lavoratori dei paesi sottoposti ad attacchi speculativi, ma che avrà effetti negativi sui lavoratori di tutti i paesi. Infatti se si peggiorano le condizioni di lavoro in un paese queste si diffondono anche negli altri.

Ci sono soluzioni alternative: certo!

1) Il modo più semplice per bloccar questo gioco al massacro sulle spalle dei lavoratori è che la Banca Centrale Europea, quando un paese è sottoposto ad un attacco speculativo, intervenga immediatamente e senza condizioni ad acquistare i titoli di stato di quel paese. In questo modo l’attacco speculativo risulta inefficace, gli speculatori ci perdono e i lavoratori non devono fare nessun sacrificio per ingrassare i banchieri.
2) L’immediata rottura di ogni rapporto con i paradisi fiscali.
3) L’immediata nazionalizzazione degli istituti bancari di rilevanza nazionale che sono risultati impegnati in attività speculative
4) L’immediata modifica del Trattato di Maastricht, sostituendo le politiche restrittive di bilancio, alibi usato per tagliare servizi sociali e pensioni, distruggere diritti dei lavoratori, precarizzare il lavoro, con politiche finalizzate a redistribuire la ricchezza e a creare posti di lavoro, attraverso la riconversione ambientale dell’economia e la riduzione dell’orario di lavoro.

Per questo ci opponiamo a questo piano europeo approvato dal governo Berlusconi e chiediamo ai sindacati di costruire la mobilitazione. Occorre bloccare questo nuovo attacco ai lavoratori e ai pensionati che oggi avviene in Grecia e domani in Italia. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Come in Grecia, brutte notizie per i dipendenti pubblici in Italia.

La manovra in preparazione da parte del governo punta a raccogliere oltre un terzo dei 25 miliardi totali previsti finora con una stretta sugli statali.

Tra il mancato rinnovo del contratto e risparmi su assunzioni e voci integrative dello stipendio il Tesoro conta di arrivare alla cifra di 8 miliardi. Il blocco delle assunzioni, con l’immediato alt alle deroghe previste, potrebbe scattare immediatamente con l’entrata in vigore del decreto, e dunque con effetti già sul 2010. Novità anche in campo previdenziale. Allo studio un inasprimento dei criteri di accesso all’indennità di accompagnamento legata alla pensione di invalidità.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Guardate “Il Grande Fratello”, guardate “L’Isola dei Famosi”, andate nei centri commerciali,litigate per un paio di scarpe firmate, siate gli ultimi della vostra classe, che è più fico che saperne di più. Bravi coglioni: vivete in un Paese in cui chi lavora guadagna meno che nel resto d’Europa, e paga più tasse. Continuate a fòtterneve, non leggete: che tanto quelli fottuti siete voi.

Salari italiani tra i più bassi nella classifica dei Paesi Ocse. L’Italia si colloca per gli stipendi al 23mo posto, con guadagni inferiori al 16,5% rispetto alla media dei trenta Paesi che fanno parte dell’organizzazione di Parigi. Particolarmente penalizzati gli italiani single e senza figli, i cui salari restano ai livelli più bassi tra i paesi Ocse, superati anche dagli stipendi in Spagna e Grecia, mentre l’Italia vanta una pressione fiscale sulle retribuzioni ai livelli più elevati. I dati sono riferiti al 2009 e l’Italia si colloca nella stessa posizione dell’anno precedente. E’ quanto risulta dal Rapporto ‘Taxing Wages’ dell’Ocse.

Il peso di tasse e contributi sui salari, il cosiddetto cuneo fiscale che calcola la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto effettivamente finisce in tasca al lavoratore, è in Italia al 46,5%, rileva ancora il rapporto Ocse. Nella classifica dei maggiori trenta Paesi, aggiornata al 2009, l’Italia è al sesto posto per peso fiscale sugli stipendi, dopo Belgio (55,2%), Ungheria (53,4%), Germania (50,9%), Francia (49,2%), Austria (47,9%). Il peso di tasse e contributi sui salari in Italia è rimasto stabile dal 2008 al 2009, registrando solo un lieve (-0,03%). L’Italia occupa infatti nella classifica Ocse la stessa posizione, la sesta, rispetto all’anno precedente.

In Italia, precisa ancora l’Ocse, hanno un impatto rilevante sulla differenza tra salario lordo e netto anche i cosiddetti ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, rappresentati dal tfr, che aumentano la pressione di un ulteriore 3%. “Aggiungendo questa variabile – spiega un economista dell’ Ocse in un incontro con la stampa – il prelievo obbligatorio sui salari in Italia sale oltre il 49%, portando il Paese a superare la Francia in termini di quota di imposizione”. I ‘pagamenti obbligatori non fiscali’, secondo la definizione dell’Ocse, sono pagamenti che il lavoratore o il datore di lavoro devono versare per legge, ma non al governo, come i contributi in fondi pensione privati o pagamenti per polizze assicurative. Il loro impatto sui redditi delle famiglie, e sul costo del lavoro, è differente da quello delle imposte tradizionali, dato che spesso si tratta di contribuzioni nominali, che il lavoratore riottiene quando lascia il posto o va in pensione (come, appunto, nel caso del Tfr). Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Lavoro

Il Labur perde la guida di UK. D’Alema, hai capito o no che fare l’occhiolino al neoliberirmo è una scelta perdente? Glielo dici tu a Bersani?

David Cameron, leader dei conservatori, è il nuovo primo ministro britannico. Il vincitore delle elezioni politiche del 6 maggio ha accettato dalla regina Elisabetta II l’incarico per formare un nuovo governo. Il capo dei Tory si è detto intenzionato a formare una “coalizione piena” con i liberaldemocratici per “un governo solido” che “affronti i problemi del paese, primo fratutti il deficit”.

L’incarico a Cameron arriva a pochi minuti dalle dimissioni del suo predecessore, il laburista Gordon Brown, che ha lasciato Downing Street dopo aver constatato il fallimento delle trattative tra i suoi emissari e i rappresentanti dei lib-dem. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi sistemica mette in crisi anche la CGIL.

Conclusione: il sindacato è spaccato, di Francesco Piccioni, inviato a Rimini-ilmanifesto.it

Finisce con un voto a maggioranza il congresso più difficile nella Cgil da oltre quindici anni a questa parte. Guglielmo Epifani, nel tirare le conclusioni, se ne rammarica ma è convinto che bisogna andare avanti nella direzione da lui indicata. Ed esplicita i punti di divisione anche con più chiarezza di quanto non sia stato fatto in tutto il dibattito congressuale.

La questione non controversa è chiara: c’è una “crisi sistemica”, al punto che ormai la riconosce come tale anche il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. E ci sono effetti certi che stanno per abbattersi sulla società e il mondo del lavoro, anche per la evidente “asimmetria tra la debolezza della risposta degli stati e la forza dei mercati o della speculazione”. Bisogna “trarne le conseguenze”, e la comunità europea dovrebbe quantomeno prevedere un “fondo monetario”, un’”agenzia di rating”, dei bond europei per investimenti continentali; per governare l’integrazione. L’alternativa seguita finora è stata invece “lasciarla a se stessa” oppure “rinchiudersi negli stati-nazione”. I “silenzi di Tremonti” si contrappongono al “grido” rappresentato dalla “manovra correttiva” da 25-30 miliardi, di cui non si conoscono ancora i contenuti, ma si possono facilmente immaginare (“retribuzioni dei dipendenti pubblici, tagli a scuola, ricerca, sanità, pensioni”).

Finora, dice Epifani, abbiamo visto “un primo tempo della crisi” di cui stiamo ancora pagando i costi in termini di occupazione e diritti; e già se ne aggiunge un secondo.

Il rischio, in Italia come altrove, è di “drammatizazioni sociali forti”. Fin qui la Cgil si è mossa “con grade senso di responsabilità nazionale” (cita ad esempio la “soluzione ponte” proposta dalla Fiom nel corso delle trattative sull’ultimo contratto), e altrettanto vuole fare nel “secondo tempo”. Proprio per questo chiede al governo “di fermarsi un attimo e riflettere”, prima di definire la manovra finanziaria nel Dpef: “fermando il processo di smantellamento legislativo dei diritti dei lavoratori proprio durante la crisi”. Altrimenti si andrebbero a sommare caduta dell’occupazione e dei diritti, con conseguenze difficili da governare. Resta dunque in campo la richiesta di “un piano per l’occupazione”, che deve essere per tutta la Cgil “il cuore dei nostri obiettivi, non uno tra gli altri”.

Sul dissenso interno, però, vuole essere preciso: “il primo punto di divisione è su come si risponde a questo attacco contro il lavoro”. E rivendica il percorso fatto con i 40 contratti di categoria siglati da un anno e mezzo, che per lui dimostrano la possibilità di “svuotare” di senso “l’accordo separato sul modello contrattuale”, riducendo il danno; mentre per la “mozione 2” (ma anche secondo Cisl e Uil, seppure “da destra”) lo avrebbero accettato di fatto.

Il secondo punto riguarda il rapporto tra conflitto, democrazia interna e contrattazione. Che “stanno assieme”, ma “il conflitto è funzione della contrattazione; non si può fare un conflitto troppo a lungo senza arrivare a un accordo”. Finché c’è uno spazio, uno spiraglio, un’interstizio il compito è “contrattare”. Non accetta insomma l’idea che un sindacato debba darsi un limite oltre cui non si può andare, che ci possa essere una situazione in cui “non c’è niente da fare”, perché “così saremmo comunque subalterni alle scelte altrui”. E quindi, “se il segretario della Cisl viene qui a dire che su alcuni argomenti possiamo lavorare insieme, la Cgil deve dire sì”. L’esempio è quello dell’elezione delle Rsu nella scuola, bloccate pretestuosamente da due anni e ora “concesse” dalla Cisl.

Sa già che “il documento conclusivo sarà approvato a maggioranza”, ma con questo “il congresso dà un mandato chiaro al gruppo dirigente”, che si tradurrà anche sulle scelte relative alle strutture. Difende, infine, la scelta di introdurre in statuto una nuova regola che affida al solo direttivo confederale il compito di esprimersi su accordi tra sindacati diversi. E lo fa citando il caso in cui la Fiom votò contro una delibera già presa dal direttivo. Un passaggio non apprezzato da Gianni Rinaldini, che ricorda come l’emendamento anche da lui proposto il giorno prima avesse l’obiettivo di evitare il ripetersi di simili “incidenti”, chiedendo che “le categorie venissero sentite prima delle decisioni del direttivo”. Far passare una richiesta di consultazione preventiva per un diritto di disconoscere decisioni confederali “è intellettualmente non onesto”; “se quella regola non c’è mai stata nello statuto della Cgil, una ragione ci sarà pure”.

La mozione “la Cgil che vogliamo” al completo presenta una dichiarazione di voto contrario al documento finale. Le ragioni sono ribadite in modo sintetico. L’accordo separato del 22 gennaio 2009 “non è emendabile”, non è indicata una piattaforma che illustri quale “nuovo sistema contrattuale” vuole la Cgil; non sono indicati obiettivi chiari in merito di lotta alla precarietà (centralità del contratto a tempo indeterminato, riduzione delle forme di accesso al mercato del lavoro, ecc.), né la necessità di una legge che regoli democrazia e rappresentatività sindacale. Nel confuso finale degli ordini del giorno, ne passa poi anche uno con cui la Cgil chiede il “ritiro immediato delle truppe in Afghanistan”. Un sindacato grande, dove possono sempre accadere molte cose. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il Federalismo della disoccupazione giovanile.

(fonte: ilmessaggero.it)
Nel 2009 in sei Regioni il tasso di disoccupazione dei giovani tra 15 e 24 anni è risultato superiore al 30%: in Sardegna è al 44,7%, in Sicilia al 38,5%, in Basilicata al 38,3%, in Campania al 38,1%, in Puglia al 32,6%, in Calabria al 31,8% e nel Lazio al 30,6%. Sul versante opposto le Regioni con la disoccupazione più bassa sono la Toscana con il 17,8%, la Valle d’Aosta con il 17,5%, il Veneto con il 14,4% e il Trentino-Alto Adige con il 10,1%.

A scattare la fotografia sulla disoccupazione giovanile è la Confartigianato nelle elaborazioni flash appena pubblicate e che vede il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) arrivato a marzo 2010 al picco del 27,7%, 2,9 punti percentuali in più rispetto ad un anno prima. Se si prende a riferimento il tasso di occupazione, in otto regioni si riscontra un tasso inferiore al 20%: i valori più bassi in Campania (12,9%), seguita dalla Calabria (13,4%), la Basilicata (13,6%), la Sicilia (14,2%), la Sardegna (15,5%), il Molise (17,7%), l’Abruzzo e la Puglia (18,4%).

I tassi di occupazione più alti Confartigianato li registria in Valle d’Aosta con il 27,8%, in Emilia-Romagna con il 28,1%, in Lombardia con il 28,8%, in Veneto con il 30,2% e in Trentino-Alto Adige con 34,2%. La più bassa occupazione dei giovani tra 15 e 24 anni in Campania con il 12,9%, in Calabria con il 13,4%, Basilicata con 13,6%, Sicilia con 14,2% e Sardegna con il 15,5%.
(Beh, buona giornata).

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