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“Le scrive una madre cinquantaseienne, una madre che nonostante l’età, non ha mai smesso di sognare.” Lettera a “Beh, buona giornata” di una donna “prigioniera” di un Paese prigioniero del berlusconismo.

Sembrerà strano in tempi in cui ovunque si guardi, ovunque ci si giri, si sente il lezzo delle manovre megalomani di politici o di personaggi televisivi di potere che, al timone delle nostre vite, vorrebbero traghettarle nel nulla, nell’assenza totale di stimoli vitali, di sogni di aspirazioni, le scrive una madre cinquantaseienne, una madre che nonostante l’età, non ha mai smesso di sognare.

Amante della libertà di pensiero, degli spazi aperti dove ognuno possa esprimersi, perché in ognuno di noi dorme un pensiero creativo, positivo che non va taciuto.

Ho insegnato ai miei figli la fiducia negli altri, ho sempre descritto loro un mondo possibile, che li avrebbe accolti e dove loro si sarebbero sentiti parte costruttiva e determinante.

Ho insegnato loro a sognare.

Mio figlio ora ha trent’anni, dopo la laurea e lo Ied (Istituto europeo del design, ndr) si trova a sbarcare il lunario battendo il ferro in cantieri sempre diversi, solo per non sentirsi dipendente dalla famiglia. Ma il suo stato di frustrazione è cosmico. Lui ha sempre amato scrivere, creare, leggere e dalla lettura trarre conclusioni sempre diverse da quelle ovvie che gli altri cercano.

Ora le sue idee restano intrappolate in un circuito che si interrompe solo per consumare un panino a mezzogiorno.

Mia figlia si sta laureando in Comunicazione internazionale, è una bella ragazza e per come va il mondo oggi mi vergogno di dire che spero che il suo aspetto fisico l’aiuti ,lei che e’ sempre stata pulita nell’aspetto e nell’animo e che ha creduto che l’impegno l’abnegazione, la bravura fossero premianti, come io le ho insegnato.

Se leggerà, le saro’ grata.

Firmato: Paola, una madre che ha ancora voglia di volare alto e che
non ne può più di vivere in un paese opprimente. (Lettera firmata). Beh buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

«L’Italia rischia di trovarsi di fronte a un bivio tra la stagnazione e la crescita». Il governatore della Banca d’Italia smentisce clamorosamente il ministro dell’Economia, e manda alle ortiche le politiche del governo italiano.

(fonte:ilmessaggero.it)
«L’Italia rischia di trovarsi di fronte a un bivio tra la stagnazione e la crescita»: è l’allarme lanciato dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nel suo intervento al convegno della facoltà di Economia dell’università olitecnica delle Marche. Per Draghi gli effetti della recessione sulla struttura produttiva italiana «devono ancora essere valutati» e la «difficoltà dell’economia italiana di crescere e creare reddito non deve smettere di preoccuparci».

«L’inerzia sulla crescita colpisce di più i giovani». «L’inerzia, l’inazione sulla crescita del Paese – dice Draghi – privilegiando il passato rispetto al futuro esclude dalla valutazione del benessere la visione di coloro per cui il futuro è l’unica ricchezza: i giovani». Secondo Draghi gli indicatori internazionali dicono che «gli italiani sono mediamente ricchi» e «sono in gran parti soddisfatti delle loro condizioni», ma gli stessi indicatori mostrano che «l’inazione ha costi immediati. La ricchezza è il frutto di azioni e decisioni passati, mentre il pil, legato alla produttività, è frutto di azioni e decisioni prese guardando al futuro.

«Stabilizzare i precari per una migliore produttività». Per Draghi è indispensabile offrire una prospettiva di stabilizzazione ai precari. «Senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari si hanno effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità» rileva Draghi, secondo cui nel nostro Paese «rimane diffusa l’occupazione irregolare, stimata dall’Istat in circa il 12% del totale dell’unità di lavoro».

«Produttività deludente anche al Nord». «Per capire le difficoltà di crescita dell’Italia – sostiene il governatore di Bankitalia – dobbiamo interrogarci sulle cause del deludente andamento della produttività. La stagnazione della produttività nel decennio precedente la crisi, è stata uniformemente diffusa sul territorio. E’ un problema del Paese». Per Draghi i dati mostrano una «evidente perdita di competitività rispetto ai partner europei». Il governatore ha spiegato come non risponda a verità che la diminuzione della crescita del prodotto per abitante «sia media di un Nord allineato al resto d’Europa e di un Centro-Sud in ritardo. Ma così non è». Il governatore ha ricordato che la crescita del prodotto per abitante in Italia «si va riducendo da tre decenni: siamo passati da un aumento annuo del 3,4% negli anni ’70 a uno del 2,5% negli anni ’80, dell’1,4% negli anni ’90 fino alla stasi dell’ultimo decennio». Nel confronto con gli altri paesi europei, Draghi ha quindi evidenziato come nei primi dieci anni dell’Unione Europea (1998-2998) il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato del 24% in Italia, del 15% in Francia, mentre «è addirittura diminuito in Germania». Divari, ha argomentato il governatore, i quali riflettono «i diversi andamenti alla produttività del lavoro. Nel decennio citato questa è aumenta del 22% in Germania, del 18% in Francia e solo del 3% in Italia». Per il governatore i fattori all’origine di tali meccanismi «sono molteplici», fra cui, citando l’economista Giorgio Fuà, «sono simili a quelli che distinguevano il modello di sviluppo tardivo dell’Italia con marcati e persistenti dualismi nella dimensione delle imprese, nel mercato del lavoro». Proprio la dimensione delle imprese, ha concluso Draghi, «rimane ridotta nel confronto internazionale». (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Elezioni Usa: Sbarack Obama?

di Pino Cabras – Megachip.

La sconfitta di Barack Obama a metà del suo mandato è nettissima e apre scenari inediti. La crisi economica ereditata dalla sua amministrazione sta mettendo in ginocchio la classe media di Main Street che – contrariamente alle promesse – ha dovuto comunque cedere il passo a Wall Street. L’inerzia del leader che urlava “Yes, we can” è stata punita fino a prefigurare una sua sconfitta certa fra due anni, se le cose rimarranno così e se una guerra non lo salverà (come gli suggeriscono dal «Washington Post»).

Il movimento del Tea Party che ha rivitalizzato il Partito Repubblicano è una galassia di opposizione variegata. Nel suo grembo contiene tante contraddizioni, essendo una vasta protesta anti-establishment che però viene accanitamente foraggiata da pezzi da novanta dell’establishment stesso, e incitata a far suo un programma demagogico e ultraliberista.

Eppure emergono candidati che sono espressione di tendenze ben distinte dal cappello che vogliono mettervi sopra i plutocrati come Murdoch o i fratelli Koch.

Su tutti appare squillante la vittoria di Rand Paul, neosenatore del Kentucky e figlio del parlamentare Ron Paul, un repubblicano che ha corso anche alle ultime primarie presidenziali, il quale sosteneva e sostiene che gli USA debbano immediatamente ritirarsi da tutti gli scenari di guerra nel globo e ridurre drasticamente le immani spese militari statunitensi. Non solo, Ron Paul attacca frontalmente da anni tutti i tabù del potere washingtoniano, a partire dalla Federal Reserve. Il figlio segue la stessa scia.

Saltano insomma gli schemi, sullo sfondo di un paese che in tantissime città sta ormai rinunciando all’asfalto perché non ci sono nemmeno più i soldi per la manutenzione delle strade. La presidenza Obama viene associata a un declino terminale dell’Impero.

I democratici tenteranno disperatamente una correzione che potrebbe persino portare a contrapporre un altro candidato a Obama nel 2012. Tra una sconfitta certa con Obama e la brutta figura di una sostanziale sconfessione di un presidente in carica – e senza un vero programma per invertire la tendenza al declino, mentre il peso demografico della Florida si riversa di nuovo sui repubblicani – le speranze dei democratici di tenere la Casa Bianca sono minime.

I repubblicani soffieranno implacabilmente sul fuoco della protesta, cercando di coalizzare una massa impaurita sempre più consistente. Sarah Palin ha sponsor facoltosi, ma continua a rimanere un personaggio imbarazzante. La sorpresa potrebbero perciò essere i Paul padre e figlio, che avevano predetto la crisi e propongono soluzioni insieme più solide e più rivoluzionarie, che potrebbero incontrare favori anche nell’agone nazionale. I giornali d’oltreoceano e anche i nostri li etichettano come ultraconservatori. Etichetta sbagliata e fuorviante. Assistiamo invece a una spinta potenzialmente in grado di rovesciare in profondità lo stile di governo delle istituzioni statunitensi. Di conservatore c’è un richiamo plurisecolare alla Costituzione, un’idea di Stato federale in ritirata, una riduzione isolazionista della presenza nel mondo. Ma le implicazioni di un simile programma vanno ben oltre la dicotomia progresso-conservazione (non parliamo di destra-sinistra). Molta sinistra europea, per dire, è per la guerra in Afghanistan ed è pronta per una guerra in Iran. Ron Paul vuole invece smantellare il complesso militare industriale. Come andrà a finire? Quali risorse metterà in campo il potere minacciato dalla tenuta del paese più potente?

Tutto può succedere, la portata della crisi rende lo scenario più imprevedibile. Nel pieno di una crisi così grave e con un presidente ridotto ad “anatra zoppa”, l’Impero non ha una guida solida. Lo sbando sta durando da anni, e le vere decisioni sono prese da poteri irresponsabili. (Beh, buona giornata).

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Contro Berlusconi ci vuole il piano b.

L’ennesimo scandalo che riguarda Berlusconi, ci pone due semplici alternative:
a) Berlusconi e il berlusconismo sono la causa di tutti i mali del Paese (xenofobia, precariato, disoccupazione, disoccupazione giovanile, aumento delle imposte regionali, illegalità dei forti, repressione contro i deboli, violazioni Costituzionali, attacco alla Magistratura, attacco alla contrattazione collettiva, criminalizzazione della FIOM, distruzione del welfare, umiliazione della Cultura, licenziamento di massa degli insegnanti della Scuola, evasione fiscale, aumento parossistico della popolazione carceraria, monnezza, manganellate, caste, cosche, mafie e bunga bunga): in questa ottica scagliarsi contro “il bunga-bunga” è giusto, è possibile. Speriamo che il puzzone cada dal balcone (quello da cui ieri si affacciava Mussolini; quello da cui oggi si affaccia Berlusconi: balconi e televisioni fanno anche rima). E’ la tesi che sostengono Scalfari, Travaglio, Floris, Santoro, Gabbanelli. Un po’ lo fanno anche Fini, e la Marcegaglia di Confindustria, e don Sciortino di Famiglia Cristiana.

b) Berlusconi e il berlusconismo non sono la causa, ma il prodotto (marcio) della crisi profonda dell’economia italiana, della politica italiana, della cultura italiana, dei poteri forti italiani (imprese, clero, corporazioni, banche). E allora, la protesta contro il ” bunga-bunga” è inutile ai fini di un cambio dello scenario. E’ utile ai Fini, ai Casini, ai Di Pietro, ai Bersani, e perché no, ai Vendola, (e ancora a Marcegaglia di Confindustria e magari anche a don Sciortino di Famiglia Cristiana) per proporre una cambio della compagine di governo, ma non, certamente non a un cambio della visione politica, e dunque della prospettiva ontologicamente fattuale delle contraddizioni della crisi della democrazia, della crisi della produzione di merci, della crisi della produzione di idee , della crisi delle relazione tra le classi sociali, della crisi della difesa dell’ambiente, dello sviluppo delle nuove risorse ambientali, della crisi della prefigurazione di nuove e più promettenti prospettive del ruolo della nostra società nel mare magnum della globalizzazione. E’ la tesi che sostengono le proteste dei pastori sardi, dei metalmeccanici, dei precari della scuola, dei cassaintegrati, dei cittadini incazzati per la monnezza, dei migranti, degli internati nei centri di prima accoglienza, degli studenti e dei ricercatori, dei nuovi schiavi dei quello che una volta era il lavoro salariato, e che oggi si chiama “flessibilità”; è la tesi che sostengono le proteste dei precari in tutti i settori produttivi, ma anche dei piccoli imprenditori, le cui piccole aziende fanno grandi cose, nonostante le banche e gli enti locali (ancorché “federalisti”).

Personalmente opto per il piano b. Perché ha una forza creativa tale che nessuna rappresentanza politica è ancora riuscita a portare a valore elettorale. Finché dura farà cultura (del nuovo che avanza contro il “modernismo” controriformatore). Beh, buona giornata.

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democrazia Lavoro Leggi e diritto Società e costume

Lavoratori di tutto il mondo, unitevi per dire al vostro capo che non capisce un cazzo.

fonte: ilmessaggero.it
«Lei non capisce un c…». Dirlo al datore di lavoro si può. Almeno secondo una sentenza emessa dal giudice di Pace del Tribunale di Frosinone che si è appellato al «gergo comune» sdoganando quella che potrebbe essere considerata una frase ingiuriosa. E così infatti l’aveva interpretata il titolare di un’agenzia di sicurezza privata che durante un’animata discussione con un suo dipendente si ritrovo investito da un «Lei non capisce un c…» dove l’incipit della frase, un forbito Lei, strideva con la parola finale, dal significato diretto. Troppo diretto tanto che il titolare denunciò il suo dipendente per ingiurie. In primo grado arrivò la condanna ma il legale del dipendente, l’avvocato Nicola Ottaviani del foro di Frosinone, si appellò e ci fu l’annullamento per un vizio procedurale.

Il processo fu rimesso così al giudice di pace. Non solo ma la difesa ha argomentato che quella frase, seppur colorita, non può più essere considerata reato perchè «rientra nel gergo comune». E per avvalorare l’ipotesi difensiva l’avvocato si è appellato all’orientamento di circa due anni fa della Corte di Cassazione su un «vaffa….» considerato non più reato. Così ieri il giudice di Pace del Tribunale di Frosinone ha riconosciuto quella frase non ingiuriosa. (Beh, buona giornata).

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democrazia Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La manifestazione della Fiom: da piazza San Giovanni verso lo sciopero generale, per un’Italia migliore di come la tv vorrebbe ancora rappresentarla.

La politica è una pagliacciata, ma l’Italia no. La personalizzazione della politica ha condotto diritti dentro la sua spettacolarizzazione. Così ridotta, la politica italiana va in scena ogni giorno, a grande richiesta dei palinsesti televisivi. E’ assolutamente farsesco che più i partiti sono scollati dalla realtà sociale del Paese, più si moltiplicano i talk show del cosiddetto approfondimento politico. C’è per tutti i gusti, spesso privi del buon gusto.

Ilva Diamanti scriveva giorni fa su Repubblica a proposito della tv dell’ansia, nella quale si fanno processi sommari in un salotto televisivo, si emettono sentenze in diretta, si dà la caccia ai colpevoli, comodamente seduti sulla poltrona di casa, col telecomando in mano: è successo col delitto di Cogne, fino a quello della povera Sarah. E’ sotto gli occhi di tutti, però che questo modo frettoloso e ciarliero di affrontare i problemi politici, economici e sociali, avendo come pulpito uno studio televisivo, non ha affatto portato bene al Paese.

La tele predicazione ha spostato consensi elettorali verso proposte spesso aberranti: xenofobia, sessismo, intolleranza, un ritorno dura al classismo hanno contrassegnato il dibattito politico dei nostri talk show. Col risultato, non solo di avvelenare i pozzi della coscienza collettiva, ma di fare del politicamente scorretto la misura del talento degli invitati. Colpi bassi, palesi falsificazioni, sicumera, continue provocazioni verbali sono gli ingrediente dei programmi tv.

I clown della politica italiana devono stupire, invece che convincere. Devono altercare, invece che ragionare. Devono insultare, invece che dialogare. E’ un cattivo costume indotto dalla personalizzazione fattasi spettacolarizzazione? Non solo. E’ una tecnica: ti concedo l’arena su cui sbranare l’avversario perché così tiro su l’audience. Contemporaneamente, ti concedo senza remore notorietà personale, utile per essere candidati, non solo in Parlamento, ma anche a qualche gustosa carica pubblica. Ecco allora che il confronto democratico fra schieramenti, la battaglie delle idee diventano un mero artificio spettacolare, per influire sui dati di ascolto, ma anche sui sondaggi di opinione.

E i problemi irrisolti del Paese? Quelli, come le stelle, stanno a guardare. E’ invalsa nel Paese la sensazione di un diffuso disimpegno da parte della stragrande maggioranza dei cittadini della Repubblica. Diciamo subito che questo è falso.

Dai pastori sardi, agli operai di Pomigliano, dagli studenti ai precari, dagli uomini e le donne del mondo della cultura e dello spettacolo, dai lavoratori stranieri e dei loro figli alle piccole imprese strangolate dalla crisi economica l’Italia vera c’è e si fa sentire: protesta, propone, immagina un Paese diverso da quello farsesco, che va in replica tutte le sere su tutte le tv. Il mainstream fatica a tenere fuori queste migliaia di persone impegnate nella difesa dei loro diritti. Ogni tanto le telecamere si occupano del Paese reale, e quei servizi vengono poi annegati di chiacchiere e interruzioni pubblicitarie. Forse succederà anche oggi, 16 per la manifestazione a favore della Fiom. Ciò che è importante, però, è che l’Italia migliore dei clown che vorrebbero rappresentarla c’è e si fa sentire, alla faccia dei palinsesti televisivi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici.”

Oggi accadrà, di Maurizio Landini*-il manifesto

Quella di oggi sarà una grandissima giornata di lotta in difesa della democrazia, del contratto, dei diritti delle persone e del lavoro.
Abbiamo indetto questa manifestazione dopo l’accordo separato alla Fiat di Pomigliano, aprendo anche un dialogo con chi pensa che il nostro paese abbia bisogno di un cambiamento, che il lavoro deve tornare a essere un elemento centrale, che quello firmato a Pomigliano non può essere il modello, che il contratto nazionale va difeso per tutti e che far votare e decidere le persone è la condizione per ricostruire l’unità.

Con il ricatto che la Fiat ha voluto imporre a Pomigliano (se vuoi lavorare devi rinunciare alla dignità e ai diritti) è partito un attacco ai diritti del lavoro che non ha paragoni per gravità nella storia della nostra Repubblica. Non a caso la Confindustria ha chiesto di estenderlo a tutto il mondo del lavoro. Il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, la stessa Costituzione sono in discussione. Il recente accordo separato che prevede si possa derogare al contratto nazionale sempre, perché le deroghe possono essere attuate sia quando l’azienda è in crisi che quando investe per competere sui mercati, porta alla cancellazione del contratto nazionale, alla «guerra» tra imprese e quindi alla contrapposizione tra lavoratori. Questa scelta porta con sé l’idea che di fronte alla globalizzazione non c’è diritto che tenga e che lo sfruttamento e l’impoverimento ne siano conseguenze inevitabili. Un disegno supportato dalle modifiche alle leggi sul lavoro che il governo sta attuando (dall’arbitrato allo statuto dei lavori) alle vicende sui precari della scuola, dal blocco delle elezioni delle Rsu al contratto separato del pubblico impiego.

Quando noi diciamo che «il lavoro è un bene comune» intendiamo dire che il lavoro deve tornare a essere interesse generale di questo paese per dare una prospettiva ai giovani, alle donne, al fatto che non si può essere precari sempre e che la sicurezza del proprio lavoro e del proprio futuro serve anche a far funzionare meglio le imprese. Vuol anche dire porsi il problema di un diverso modello di sviluppo, che guardi alla qualità e all’innovazione dei prodotti e dei processi, alla valorizzazione del lavoro e alla sostenibilità ambientale e sociale.

Quella di oggi è anche una manifestazione per la legalità. L’estensione del sistema criminale in economia non ha precedenti e non riguarda solo il Sud, ma l’intero paese. In particolare, la frantumazione del processo lavorativo e il sistema di appalti e subappalti – purtroppo diventato la regola – permette sempre più all’illegalità di entrare strutturalmente nel sistema economico. Legalità per noi significa difesa del lavoro, la sua riunificazione e quella del processo produttivo, l’estensione dei diritti, l’applicazione della Costituzione come elementi non solo formali ma come valori che determinano la condizione di un cambiamento. Ed è in questo quadro che la libertà di informazione è elemento irrinunciabile non solo per la Fiom, ma per tutto il paese.

L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici. Non a caso abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare che chiede diventi un diritto il fatto che tutti gli accordi a qualsiasi livello – aziendale, nazionale, interconfederale – per essere validi debbano essere approvati dalla maggioranza delle persone coinvolte. Gli eventi di questi mesi indicano che questo è il tema decisivo per poter ricostruire un’azione unitaria; senza democrazia, cioè senza la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di poter decidere anche quando ci sono punti di vista diversi fra sindacati, non solo si mantiene una divisione, ma fa sì che siano le imprese a decidere di volta in volta con chi fare gli accordi, sulla base delle proprie convenienze.

Oggi siamo in piazza con tutti coloro che condividono e che difendono questi principi e questi valori. Questa grande giornata di lotta non è un punto di arrivo, perché una mobilitazione generale è assolutamente necessaria.
*segretario generale della Fiom
(Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto

Paolo Ferrero: “A questo punto si tratta di cambiare passo”.

La nostra proposta per la sinistra di alternativa
(da Liberazione di giovedì 14 ottobre 2010)

Il colloquio tra Bersani e Vendola dell’altro ieri ha finalmente superato lo scoglio delle primarie che aveva sin’ora reso impossibile il confronto politico. Questo incontro apre la fase della discussione tra le forze che vogliono costruire un accordo di governo. Bersani e Vendola hanno concordato come questa proposta di governo comprenda l’UdC e la proposta di modificare la legge elettorale con una governo di transizione. Adesso si tratta di costruire il fronte democratico che vada a oltre le forze che fanno l’accordo di governo. Abbiamo infatti sempre ritenuto che non vi siano le condizioni per un accordo di governo con le forze del centro sinistra – nella proposta di Bersani e Vendola comprendenti anche il centro – mentre riteniamo necessario dar vita ad una alleanza democratica che abbia l’obiettivo esplicito di sconfiggere Berlusconi, di difendere la costituzione , di mettere in campo essenziali misure di giustizia sociale e di modificare la legge elettorale in senso proporzionale.

A questo punto si tratta di cambiare passo e lavorare alla concretizzazione della nostra ipotesi politica.

In primo luogo la costruzione di una vera opposizione che porti alla caduta del governo Berlusconi. E’ infatti evidente che l’equilibrio instabile che regge questo governo può durare a lungo e produrre altri danni. Ogni giorno che passa questa maggioranza non fa altro che scaricare ulteriormente sulle spalle dei più deboli i costi di una crisi che morde sempre più pesantemente. Basti pensare al Disegno di legge sul lavoro che sostanzialmente introduce il contratto individuale di lavoro per tutti i nuovi assunti. Con questa misura che presto sarà in discussione alla Camera le giovani generazioni non saranno solo inchiodate ad un destino di precarietà ma si troveranno dentro una guerra tra poveri che non ha precedenti nel paese. Costruire l’opposizione, a partire dalla manifestazione del 16 ottobre che non deve essere un momento a se stante ma deve proseguire con la costruzione di iniziative di mobilitazione su tutto i territorio. Per noi la costruzione dell’opposizione è il punto propedeutico alla costruzione del fronte democratico

In secondo luogo il problema della costruzione del progetto e dell’unità della sinistra. A partire dalle prossime settimane si terrà il Congresso della Federazione della Sinistra che rappresenta un passo decisivo per l’aggregazione di una sinistra degna di questo nome, automa dal PD e con un proprio profilo strategico anticapitalista. A partire da questo processo noi lanciamo a tutte le forze di sinistra una sfida: per uscire dalla crisi non basta un movimento ma occorre un programma di alternativa. Noi proponiamo a tutte le forze di sinistra, a partire da quelle che saranno presenti alla manifestazione del 16 ottobre, di definire concordemente la piattaforma con cui avviare il confronto con il PD. Se la crisi è il frutto del neoliberismo, occorre una politica che rovesci questa politica economica: dalla redistribuzione del reddito all’intervento pubblico in direzione della riconversione ambientale dell’economia. Dal no alla guerra al finanziamento dello stato sociale, della scuola, della ricerca e dell’università.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro

16 ottobre 2010, manifestazione a sostegno della FIOM: istruzioni per l’uso.

Piazza della Repubblica
CONCENTRAMENTO ALLE ORE 13:30
(Piazzale dei Cinquecento antistante il Museo Nazionale Romano)
Regioni: Abruzzo; Alto Adige; Calabria; Campania; Lazio; Lombardia; Marche; Molise; Sicilia; Trentino;
Umbria.
Le zone per i parcheggi dei pullman delle regioni che si recheranno al concentramento di piazza della
Repubblica (ESEDRA) sono:
ANAGNINA, CINECITTA’, SUBAUGUSTA.
Il percorso del corteo che partirà da Piazza della Repubblica sarà il seguente: Piazza della Repubblica, Via
delle Terme di Diocleziano, Via G. Amendola, Via Cavour, Piazza dell’Esquilino, Via Liberiana, Piazza Santa
Maria Maggiore, Via Merulana, Largo Brancaccio, Viale Manzoni, Viale Emanuele Filiberto per concludere il suo
percorso a Piazza di Porta San Giovanni.
Piazzale dei Partigiani
CONCENTRAMENTO ALLE ORE 13:30
(Piazzale dei Partigiani antistante la stazione Ostiense)
Regioni: Basilicata; Emilia Romagna; Friuli Venezia Giulia; Liguria; Piemonte; Puglia; Sardegna; Toscana;
Valle D’Aosta; Veneto.
Le zone per i parcheggi dei pullman delle regioni che si recheranno al concentramento di Piazzale dei
Partigiani (OSTIENSE) sono nelle adiacenze delle fermate della metro EUR FERMI ed EUR PALASPORT.
Il percorso del corteo che partirà da Piazzale dei Partigiani sarà il seguente: Piazzale dei Partigiani, Piazza
di Porta San Paolo, Via della Piramide Cestia, Viale Aventino, Piazza di Porta Capena, Via di San Gregorio, Via
Celio Vibenna, Via Labicana, Viale Manzoni, Via Merulana, Piazza di Porta San Giovanni.

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Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

About 16 ottobre 2010.

SI AI DIRITTI, NO AI RICATTI, IL LAVORO E’ UN BENE COMUNE
La cultura è un punto strategico fondamentale per una società realmente democratica. Da essa dipende la formazione della coscienza critica del cittadino, dunque la sua reale libertà e capacità di incidere nello sviluppo sociale del Paese.
Cultura, bene comune come l’acqua, non privatizzabile, diritto fondamentale come la salute. A tutti va garantito l’accesso alla produzione e alla fruizione della cultura.
Cultura, risorsa economica. E’ ormai riconosciuto il suo valore strategico anche sul piano economico: ogni euro investito in cultura ne restituisce sul territorio da quattro a sette.

Il governo Berlusconi ha tagliato drasticamente i fondi ad essa destinati in funzione di una politica che la considera esclusivamente una merce. Una politica che privatizza il sapere, legando la conoscenza all’impresa e la cultura al mercato. Oggi rischiano di chiudere l’ottanta per cento dei teatri e delle fondazioni lirico-sinfoniche; il cinema vede più che dimezzata la sua produzione; rischiano la chiusura migliaia d’imprese del settore e dell’indotto sparse sul nostro territorio nazionale.

Al contrario di quanto avviene nel resto dell’Europa, i lavoratori italiani della cultura e dello spettacolo non possono contare sul riconoscimento sociale della propria professione. L’assenza di ammortizzatori sociali, il diffuso lavoro nero, la dilagante disoccupazione e sottoccupazione li hanno trasformati in cittadini invisibili. Invisibili ed inutili. Lavoratori privi di ammortizzatori sociali, la cui professione spesso non è neanche riconosciuta come tale.
Un Paese che non tutela la cultura e coloro che vi lavorano è un Paese senza futuro.

In questi ultimi anni il lavoro è stato reso precario, è stato svalorizzato sul piano del salario, attaccato come diritto. Difendere il lavoro vuol dire superare la precarietà, riconquistarlo come diritto fondamentale della vita democratica del nostro paese.
Il lavoro è un bene comune, deve tornare a rivestire un ruolo d’interesse generale. L’attacco subìto dalla cultura in questi ultimi dieci anni ha reso possibile parcellizzare e demonizzare una reale cultura del lavoro.

La manifestazione del 16 Ottobre, ponte ideale con le manifestazioni della scuola dell’8 Ottobre, vuole rilanciare l’idea di un Paese dove sia possibile un diverso modello di sviluppo che ponga al centro i diritti, la cultura, la qualità e l’innovazione della produzione.
Una speranza aperta nel cuore della società:

LAVORO DIRITTI SAPERI CULTURA

ADESIONI

CANIO CALITRI, segretario generale Fiom Lazio – CLAUDIO AMATO, Fiom Lazio – FABIO PALMIERI, Fiom Lazio – ETTORE TORREGIANI, Fiom Lazio

SIMONE AMENDOLA, regista – CARMINE AMOROSO, regista – PIER PAOLO ANDRIANI, sceneggiatore – GIORGIO ARLORIO, sceneggiatore – SILVIA BARALDINI, giornalista – GLAUCO BENIGNI, giornalista Rai e scrittore – MAURO BERARDI, produttore cinematografico – LUCA BIGAZZI, direttore della fotografia – FRANCESCA BLANCATO, operatrice teatrale – BENEDETTA BUCCELLATO, autrice teatrale e attrice – LUCILLA CATANIA, artista – FRANCESCA COMENCINI, regista – MICHELE CONFORTI, regista – ANDREA D’AMBROSIO, regista – GIORDANO DE LUCA, sceneggiatore – CARLA DEL MESE, insegnante e regista – MARCO DENTICI, scenografo – GIOVANNI DI PASQUALE, produttore cinematografico – MARCO FERRI, copywriter – CARLA FRACCI, ballerina – MARCO GAFFINI, artista – BEPPE GAUDINO, regista – VLADIMIRO GIACCHÈ, vicepresidente dell’Associaz. politico-culturale Marx XXI – ANSANO GIANNARELLI, regista – ROBERTO GIANNARELLI, regista – GABRIELE GIUSTINIANI, ricercatore Università di Roma La Sapienza – VALERIA GOLINO, attrice – ROBERTO GRAMICCIA, scrittore – MARCELLO GRASSI, già docente Università di Roma La Sapienza – GIOVANNI GRECO, compagnia “La Differenza” – SABINA GUZZANTI, regista e attrice – RANIERO LA VALLE, giornalista – MARIA LENTI, scrittrice – GIANCARLO LIMONI, artista – ANTONIO LOMBARDI, artista – MARICETTA LOMBARDO, fonico – ADELE LOTITO, artista – FABIOMASSIMO LOZZI, regista – MARIO LUNETTA, scrittore – SILVIA LUZZI, attrice di prosa – SALVATORE MAIRA, regista – LUCIO MANISCO, giornalista – CITTO MASELLI, regista – GERARDO MASTRODOMENICO, attore – BRUNO MELAPPIONI, scenografo e pittore – ALESSIO MELCHIORRE RICCI, musicista (Après La Classe) – BEPPE MENEGATTI, regista teatrale – PAOLO MODUGNO, regista – MARIO MONICELLI, regista – CARMELA MORABITO, docente Università di Roma Tor Vergata – ROBERTO MOREA, scenografo – RAUL MORDENTI, docente Università di Roma Tor Vergata – FRANCO MULAS, artista – LAURA MUSCARDIN, regista – DIEGO OLIVARES, regista – CLAUDIO PALMIERI, artista – CLAUDIA PEIL, artista – ROBERTO PERPIGNANI, montatore – ULDERICO PESCE, autore, regista e attore teatrale – GIANFRANCO PICCIOLI, produttore cinematografico – PAOLO PIETRANGELI, regista e cantautore – FLORIANA PINTO, regista – VALERIO PISANO, artista – ROSALIA POLIZZI, regista – PASQUALE POZZESSERE, regista – MARCO POZZI, regista – GIUSEPPE PRESTIPINO, già docente Università di Siena – MARCO PUCCIONI, regista – ANDREA PURGATORI, giornalista e sceneggiatore – FAUSTO RAZZI, compositore – CLOTI RICCIARDI, artista – GIANLUCA RIGGI, autore teatrale e direttore artistico teatro Furio Camillo – RENZO ROSSELLINI, produttore cinematografico – ALESSANDRO ROSSETTI, sceneggiatore – NINO RUSSO, regista – BARBARA SALVUCCI, artista – ANTONIA SANI, Associazione per la scuola della Repubblica – MASSIMO SANI, regista – PASQUALE SCIMECA, regista – SILVIA SCOLA, sceneggiatrice e autrice teatrale – ETTORE SCOLA, regista – CLARA SERENI, scrittrice – GIANNI SERRA, regista – STEFANO TASSINARI, scrittore – BRUNO TORRI, critico cinematografico – ALESSANDRO TRIONFETTI, poeta – STEFANIA TUZI, ricercatore Università di Roma La Sapienza – BARBARA VALMORIN, attrice – DAVIDE VITERBO, musicista (Radiodervish) – DOMENICO ZIPARO, musicista (Il Parto delle Nuvole Pesanti) – VITTORIO VIVIANI, attore

ANAC – ASSOCIAZIONE NAZIONALE AUTORI CINEMATOGRAFICI
A.p.T.I. – ASSOCIAZIONE PER IL TEATRO ITALIANO
COMITATO DEI CITTADINI DEL TEATRO DEL LIDO DI OSTIA
FIDAC – FEDERAZIONE ITALIANA DELLE ASSOCIAZIONI CINEAUDIOVISIVE

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Media e tecnologia

Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.

di Marco Ferri-3dnews, inserto settimanale del quotidiano Terra.

Se agli intellettuali di questo nostro Paese torna in mente la classe operaia, vuol dire che siamo a una svolta epocale.

Il prossimo 16 Ottobre 2010 forse non sarà il 5 marzo del 1943, quando gli operai del Nord fecero sciopero, decretando storicamente, di fatto l’inizio della fine del Fascismo.
Però lo schieramento odierno di molte personalità di scienza e di cultura al fianco degli operai assume, nell’Italia di oggi, un’importanza straordinaria.

Tuttavia, potrebbe esserci qualcosa di più: la rinnovata saldatura sociale tra gli operai, la società civile, gli intellettuali, gli studenti e chi più ne ha più ne metta è un notizia che fa bene all’animo democratico di un Paese che troppe angherie ha dovuto subire.

Fosse anche per un giorno solo, il 16 ottobre, appunto, il desiderio razionale di un cambiamento dei rapporti di produzione potrebbe significare la voglia di rovesciare non solo una compagine di governo, ma prefigurare una prospettiva completamente nuova della società italiana

Comunque, qui non si tratta più di dare scampoli di visibilità mediatica al lavoro e alle sue sofferenze; qui non si tratta più di mandare qualche telecamera sul tetto di una fabbrica, su cui, per farsi vedere dall’opinione pubblica sono saliti operai ingiustamente perseguitati da questa o quella azienda; qui non si tratta più dare conto, tra un gossip e l’altro, di operai che crepano, come mosche sul loro posto di lavoro.

Qui si tratta di rompere i recinti del mainstream: le contraddizioni tra capitale e lavoro non sono gestibili con un politica compassionevole. La verità, nuda e cruda è che siamo di fronte a una specie di moderna soluzione finale: elimina i lavoratori, così elimini il lavoro.

Il prossimo 16 ottobre il mondo del lavoro si ribella. E il mondo della cultura e della comunicazione potrebbero riscoprire che ribellarsi è giusto, ribellarsi è possibile.
Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Lavoro Media e tecnologia

Camilleri: tutti in piazza con gli operai il 16 ottobre.

da MICROMEGA
Andrea Camilleri: “Mi appello a tutti gli italiani di buona volontà, perché ce ne sono tanti: che si sveglino, che scendano in piazza con noi il 16 ottobre. La Fiom sta difendendo i diritti dei lavoratori e la dignità del lavoro. Con i diktat del modello Pomigliano Marchionne dà un cospicuo contributo al mutamento della democrazia italiana in una dittatura strisciante. Oggi, chi non osa minimamente dire il proprio pensiero insieme agli altri, finisce per dare una mano a questo governo”. Beh, buona giornata.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/video-appello-di-andrea-camilleri-tutti-in-piazza-con-la-fiom-il-16-ottobre/

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Lavoro Leggi e diritto

Quale pensione per i precari italiani? L’Inps mentisce sapendo di mentire.

da- blitzquotidiano.it

Al precario non far sapere, altrimenti nel suo piccolo si “incazza di brutto”. Ci hanno pensato sopra a lungo all’Inps e alla fine hanno scelto di “oscurare” il dato. Una censura per motivi di ordine pubblico come ha spiegato il presidente Antonio Mastrapasqua: “Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. La “simulazione” di cosa? Di quanto un “parasubordinato”, cioè un lavoratore precario prenderà di pensione tra qualche decennio dopo aver versato per una vita i relativi contributi. Il risultato sarebbe invariabilmente una pensione inferiore al minimo, roba da poche centinaia di euro al mese. Quindi meglio “oscurare”.

Oscurare dove? Ma sul sito dell’Inps ovviamente. E anche nei quattro milioni di lettere che lo stesso Inps sta per inviare a domicilio agli altrettanti precari italiani che versano contributi previdenziali. L’Inps nelle settimane scorse ha scritto anche ai lavoratori a tempo indeterminato. Una lettera in cui si spiega come fare per apprendere dal web quanto hanno versato e quanto incasseranno come pensione. La lettera che arriva ai precari è invece una lettera “muta”, non rimanda ad alcuna consultazione possibile. Il precario non può sapere perché, per ammissione dello stesso Inps, è meglio che non sappia. Quindi al precario si dice quanto paga ma si nasconde quanto “rendono” i suoi contributi. Precario dunque neanche avvisato, visto che in nessun caso, conti alla mano, può essere salvato. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Lavoro Leggi e diritto Scuola

Ma che cosa sta diventando la scuola pubblica in Italia?

La scuola in Italia è un peso per i conti pubblici: docenti, non docenti, studenti sono tutti un esubero. E come tutti gli esuberi, vanno allontanati, quei costi vanno tagliati. Mi dispiace, dice Gelmini, l’avatar ventriloqua del ministro dell’Economia, ci vuole meritocrazia, non so che vuol dire, perché a me non è mai successo, però mi hanno detto di dire così. Mi dispiace, dice il ministro dell’Economia in persona: certi diritti sarebbero pure giusti, però non ce li possiamo più permettere.

Così è e così è stato nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Ma, direte voi, allora vorrebbero un popolo ignorante? Sì. No. Cioè. Vogliono un popolo forgiato al comando del telecomando, quello strumento di “democrazia diretta” che permette di cambiare i programmi televisivi.

Il principio è semplice, basico, è imperativo, anzi è un imperativo categorico: nella scuola italiana si insegna che quello che dovete sapere lo sappiamo noi. Infatti, tanto per fare un esempio, l’avatar Gelmini e il ministro della Difesa La Russa hanno varato in una scuola di Adro, in provincia di Brescia (quella famosa per i simboli legisti) il programma “Allenati per la vita”: lezioni di uso delle armi, dal tiro con l’arco, all’uso della pistola (ad aria compressa). Alla Gelmini non sarebbe mai venuto in mente. A lei non viene mai in mente niente. Ma a La Russa è venuta in mente una innovazione pazzesca: “libro e moschetto, balilla perfetto”.

Tutto il resto è strumentalizzazione politica, come ha detto l’avatar Gelmini quando si è rifiutata anche solo di incontrare una delegazione in rappresentanza dei 219.000 (duecentodiciannovemila!) insegnati precari espulsi in un colpo solo dalla scuola italiana: record di licenziamenti che a pieno titolo potrebbe essere iscritti nel Guinness dei primati.

La verità è che i nemici dell’istruzione pubblica sono entrati (tanto per usare un termine militaresco), sono entrati nel perimetro del diritto all’istruzione, bene comune di una società democratica. E hanno reintrodotto gli assiomi della divisione di classe: ai ricchi scuole private, in Italia o all’estero, ai poveri una sempre più povera scuola pubblica. Basta con la storia che anche l’operaio vuole il figlio dottore. Non c’è più mobilità sociale da rendere disponibile al progresso individuale attraverso la scuola.

Però se c’è meno qualità dell’istruzione, almeno c’è più quantità di prodotti da consumare. Nei centri commerciali, negli outlet c’è tanto consumo da offrirgli. E allora, ragazzi, ma che ci andate a fare a scuola: non vi basta chattare in rete con quella roba tanto carina piena di faccette? Non vi basta partecipare al televoto, sublimazione della democrazia televisiva, che vi fa scegliere il vostro personaggio televisivo preferito? Cosa ne volete sapere voi di cultura, di sapere, di diritti e democrazia, che vi fanno venire strane idee in testa, vi rendono pensierosi, addirittura riflessivi, che poi uno diventa triste e cupo, come certi strani personaggi che hanno fatto la storia, la letteratura, la filosofia, la scienza, e che poi a uno magari gli viene voglia di cambiare le cose che non vanno.

E no, eh?! Mica ricominciamo con le rivolte studentesche, con l’idea di voler conquistare un mondo migliore. Ma non vi rendete conto di quanto siete fortunati. Qui c’è un governo del fare e una ministra avatar che sa lei quello che dovete sapere voi: glielo ha detto un giorno, a tu per tu, ad Arcore Berlusconi in persona.

E non vi azzardate neanche a immaginare di poter essere un domani i protagonisti di un ricambio generazionale dell’attuale classe dirigente. Al massimo vi si concede un provino per il Grande Fratello. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Natura Popoli e politiche

Rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare: le sei erre del futuro prossimo venturo.

di Serge Latouche – Traduzione di Laura Pagliara

Fonte: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/argomenti/numero/20100917/pagina/11/pezzo/287060/.

Di che cosa parliamo se parliamo di felicità. La differenza sostanziale tra il ben-avere e il ben-essere e i passaggi necessari per raggiungerlo.
Bisogna risalire alla seconda metà del ‘700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l’illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l’elaborazione di nuovi codici e regole. L’anticipazione di un intervento a Pordenonelegge.

Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l’ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l’immaginario del PIL pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.

Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un’idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del PIL pro capite degli economisti.

Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un’idea nuova che emerge un po’ ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d’America, paese in cui si realizza l’ideale dell’Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità».

Nel passaggio dalla felicità al PIL pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.

Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un’azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».

Materiali e immateriali

Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all’autodistruzione dell’economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell’economia politica una scienza positiva, fondata sull’esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».

In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il PNL semplicemente FNL (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell’economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il PIL è la felicità quantificata.

È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e PIL pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal PIL sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione» sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il PIL misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.

È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro PIL (…) include l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».

La società economica della crescita e del benessere non realizza l’obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (…) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo – mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago… sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (…)

Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagni, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell’individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell’economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell’aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l’oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l’eredità del tomismo. Questi teorici dell’economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall’economista americano Richard Easterlin. «È legge dell’universo – scriveva Genovesi – che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell’interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (…)

Merci fittizie

Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l’opposto di una società di abbondanza».

La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un’economia postindustriale all’interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l’hanno fatto proteggendo – con mezzi politici – un’infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall’immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell’economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).

Tuttavia, uscire dall’immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell’economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l’asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l’abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell’economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l’appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l’etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l’etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l’azione. La concezione dell’utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all’interno del programma.

Lo spirito del dono

Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l’emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall’«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell’agape cristiana.

Questa preoccupazione si ricollega appieno all’intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924, Apprezzamento sociologico del bolscevismo, sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa “amicizia” necessaria, di questa “comunità” che sono l’essenza delicata della città».

È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l’invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all’utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l’accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell’ambiente.

Il mito dell’inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l’abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l’amore, l’amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall’abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (…)

È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l’impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all’insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l’obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all’etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell’accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Lavoro Popoli e politiche

Ferragosto a Magic Italia.

di Marco Ferri-3DNews, inserto del quotidiano Terra

In un Paese in cui, secondo stime recenti, 6 italiani su 10 quest’anno non andranno in vacanza, per via della crisi economica, le migliori ferie di agostane le faranno i tre operai della Fiat licenziati a Melfi il 14 luglio scorso. Reintegrati dal giudice del lavoro, si presenteranno in fabbrica il 23 agosto, alla riapertura degli stabilimenti.

Quella volpe di Marchionne, amministratore delegato della Fiat, gli ha regalato la bellezza di quaranta giorni di vacanze pagate. Non se lo sarebbero mai sognato. Beati loro.

Vacanze sul filo, invece per Presidente della Repubblica che da Stromboli si dice preoccupato per il “bailamme” della politica italiana, dopo lo strappo tra Berlusconi e Fini che ha aperto di fatto la crisi di governo, con tanto di scontro istituzionale tra il capo del governo e il presidente della Camera, la terza carica dello Stato.

Vacanze avvelenate per Fini ad Ansedonia, messo in mezzo dalla “tribù dei Tulliani”, sottoposto, all’olio di ricino mediatico (potenza della legge del contrappasso per un ex fascista), somministrato dal Giornale di Feltri, per via della casa di Montecarlo.

Vacanze livide e rancorose di Berlusconi, che, asserragliato nel castello di Tor Crescenza, pilucca dossier freschi di stagione per”polverizzare” i suoi ex alleati di governo e costringerli alla resa incondizionata. Che siccome le crisi di governo si sa come cominciano, ma non si può mai dire come finiscono (Andreotti docet), Berlusconi ha una gran paura di non arrivare in sella alla sentenza della Consulta che potrebbe cancellare lodi, scudi e salvacondotti: e allora sì che sarebbero dolori per lui e i suoi guai giudiziari.

In questa estate pazza, che puzza di complotti di Stato e di congiure di Palazzo, c’è il lato comico, quello più divertente perché involontario. Infatti, all’inizio di luglio il ministero del Turismo, quello diretto da Michela Vittoria Brambilla, ha messo in onda uno spot pubblicitario per promuovere il turismo in Italia. La voce narrante era di un testimonial d’eccezione: Silvio Berlusconi. Il quale, fuori campo, invitata gli italiani a visitare la “nostra magic Italia”.

Fatto sta che l’appello a passare le vacanze in Italia non è stato ascoltato dallo stesso ministro del Turismo, committente dello spot. Michela Vittoria Brambilla, infatti, le sue vacanze le ha passate in Francia, a Menton, in Provenza. Beccata in flagrante ha detto di essere in “missione”. Che missione? Non si è capito. Anche se il sindaco di Siena, imbizzarrito come un cavallo selvaggio per le dichiarazione della Brambilla contro il Palio ha minacciato vie legali per il danno di immagine alla città e al suo turismo.

Mentre, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, in una pepata dichiarazione pubblicata sul suo profilo Facebook, prima definisce la Brambilla “ministro animalista che fa ridere i polli”, poi aggiunge: “Dopo lo spot con la voce del premier un’altra ideona: abolire il Palio. Ma c’e’ un Paese straniero che la paga?”.

Insomma, quello di “Magic Italia” è stato un successone. Certificato, tra l’altro dal ministro della Difesa Ignazio La Russa, che siccome è fermamente convinto di essere anche il ministro dell’Interno, ha denunciato la ripresa massiccia degli sbarchi clandestini sulle coste siciliane. Il che è senza dubbio la prova provata di un grande successo di marketing turistico, suggestionato proprio dallo spot del duo Berlusconi&Brambilla. Sei italiani su dieci a “Magic Italia” non ci credono. Ma i migranti sì. E allora: welcome to magic Italy. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“La Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori.”

di Marco Ferri- 3DNews

Omar Thomas, un nero di 34 anni assunto da poco come autista dalla Hartford Distributors di Manchester, in Connecticut (USA), è entrato nello stabilimento in cui lavorava e ha ammazzato a rivoltellate otto persone, poi si è tolto la vita. Lo ha fatto perché temeva di essere licenziato.

Qualche giorno prima, Paolo Iacconi, un italiano di 51 anni, rappresentante di commercio presso la Gifas-Electric di Massarosa, in provincia di Lucca (Italia) è tornato in azienda e ha ucciso a colpi di pistola l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite, poi si è sparato, togliendosi la vita. Era stato licenziato sei mesi fa. Era il 23 luglio di quest’anno.

Il giorno dopo, nei dintorni di Roma, un assicuratore ammazza a bastonate il suo datore di lavoro. Tornavano in macchina dopo aver visitato alcuni clienti. E’ nato un diverbio. Alla minaccia del licenziamento, è scattata la furia omicida. L’uomo è stato arrestato.

Cosa lega tra loro questi fatti? Una semplice, quanto terribile coincidenza: lo spettro della perdita del lavoro, la disoccupazione. Cosa stride tra la verità narrata dal mainstrem e la realtà delle cose? Un semplice, quanto lampante dato di fatto: governi e finanzieri parlano di segnali di ripresa dell’economia.

Una buona notizia? “Io considero fin troppo probabile che tra due anni la disoccupazione sarà ancora estremamente alta, se possibile addirittura più alta di adesso. Invece di assumersi la responsabilità di porre rimedio a questa situazione, i politici e i funzionari della Fed dichiareranno in uno stesso modo che un’ alta disoccupazione è strutturale, al di là del loro controllo.” Lo ha detto Paul Krugman, economista americano, Nobel 2008, in un articolo pubblicato su Repubblica (c .2010 New York Times News Service, traduzione di Anna Bissanti).

Allora le cose stanno così: la crisi economica globale ha distrutto i risparmi, la ripresa economica sta distruggendo il lavoro. Il Capitale vince due a zero. Se guardiamo le cose di casa nostra, possiamo vedere crescere la disoccupazione , siamo vicini a quota 9 per cento, in linea con quello che succede in Europa. Però, svettiamo a oltre il 29 per cento di disoccupazione giovanile, un gran bel record mondiale.

Senza contare, che sono stati annunciati circa tremila nuovi esuberi da Telecom Italia. Mentre Unicredit, una banca italiana tra le prime in Europa, augura buone vacanze estive 2010 agli italiani, annunciando 4.700 licenziamenti. Un sindacalista della Cisl ha detto che i licenziamenti della banca sono concepiti sul modello di pensiero di Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat: taglio posti di lavoro, porto fuori la produzione, chiudo stabilimenti, rompo le relazioni sindacali, mando all’aria i contratti collettivi di lavoro.

Il Lavoro perde due a zero. Perché il Sindacato tarda a comprendere il cambio di passo nelle relazioni industriali. Perché la Sinistra, invece di occuparsi della nuova aspra dialettica dello scontro Capitale-Lavoro, perde tempo all’inseguimento di governi di transizione, abbandonando a loro stessi i lavoratori. Che ogni tanto, come le formiche nel loro piccolo, si incazzano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro

Lo licenziano, lui torna li ammazza, poi si spara. Mentre l’azienda cerca un tecnico commerciale.

Offerte di lavoro, dal sito gifas.it

GIFAS Elettromateriale S.r.l.
I-55054 Massarosa (LU)
Via dei Filaracci, 45
Piano del Quercione
Telefono +39 0584 978211
Fax +39 0584 939924
info@gifas.it

TECNICO COMMERCIALE
La nostra azienda è specializzata nella progettazione, produzione e vendita di materiale elettrico per applicazioni industriali. Oltre a proporre i prodotti a catalogo, realizziamo soluzioni su misura in base alle esigenze del cliente. Abbiamo a questo scopo creato una rete di vendita formata da tecnici commerciali che visitano i clienti dell’area assegnata rilevando le richieste direttamente presso l’utilizzatore finale.
Gifas unisce la dinamicità delle piccole dimensioni alla visione multinazionale, grazie alle sinergie realizzate con le altre aziende del gruppo.

L’attuale selezione è mirata ad inserire la seguente figura nell’organico:

Tecnico Commerciale – Emilia (rif. 0410)

Tecnico Commerciale – Veneto est (rif. 0310)
È nostra intenzione affidare la relativa zona ad un giovane ambizioso venditore che, forte di una conoscenza tecnica di base e con una sperimentata propensione commerciale, voglia sviluppare la propria professionalità in un contesto che sa premiare i risultati raggiunti.
Il candidato ideale è un Perito Tecnico, preferibilmente con specializzazione in Elettrotecnica, di 30-38 anni che ha maturato significative esperienze di vendita di prodotti tecnici all’utilizzatore finale.

L’azienda offre una retribuzione composta da una parte fissa e da una variabile adeguata e commisurata ai risultati raggiunti. È prevista l’assegnazione di auto aziendale, rimborso spese, telefono e computer con software di supporto alla vendita.

Gli interessati ambosessi sono invitati a leggere preventivamente su questo sito l´informativa sulla Privacy ex art 13 dlgs 196/2003.

I candidati sono pregati di inviare un dettagliato CV con l’indicazione dell’attuale posizione e trattamento economico a info@gifas.it oppure per posta a Gifas Elettromateriale, Via dei Filaracci 45, 55054 Massarosa.

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Lavoro

Drammi di ordinaria disoccupazione nell’Italia berlusconista.

Uccide due ex datori di lavoro e si suicida. Era stato licenziato sei mesi fa- iltirreno.it

MASSAROSA (Lucca) – Sei mesi fa era stato licenziato dall’azienda per cui lavorava come rappresentante. Oggi pomeriggio è tornato e ha ucciso l’amministratore delegato e il responsabile delle vendite all’estero della ditta, poi si è tolto la vita. L’assassino si chiamava Paolo Iacconi e aveva 51 anni. Le vittime sono Luca Ceragioli, 48 anni, e Jan Frederik Hillerm, 33 anni. Quest’ultimo, tedesco residente ad Altopascio, era da venti giorni padre di una bambina.

L’uomo si è presentato nella sua ex ditta, la Gifas-Electric di Massarosa (Lucca), per un appuntamento con la direzione. Oggetto dell’incontro, secondo indiscrezioni, la richiesta di discutere di un’eventuale collaborazione con i suoi ex datori di lavoro, anche se potrebbe essersi trattato solo di un pretesto. In base a una prima ricostruzione, dopo aver preso un caffè con le vittime nell’ufficio dell’amministrazione, Iacconi ha esploso quattro o cinque colpi di pistola – probabilmente una calibro 7.65 tirata fuori dalla borsa – uccidendole, e poi si è barricato nella stanza dando fuoco a una parte dell’ufficio con la benzina che aveva portato con sé in una bottiglietta. All’arrivo della prima volante e della prima pattuglia di carabinieri l’uomo ha rivolto la pistola contro di sé e si è sparato alla testa.

“Quando è entrato sembrava sereno. Poi, dopo un po’, ho sentito gli spari”. Così un impiegato della ditta racconta quanto avvenuto. L’uomo ha spiegato che oggi pomeriggio Iacconi aveva un appuntamento in azienda: “Ci siamo salutati, pareva tranquillo. Poi è entrato negli uffici della direzione, mentre io sono rimasto nella mia stanza. Niente faceva pensare cosa sarebbe successo. Dopo un po’ ho sentito gli spari. Ho avuto paura, non ho capito cosa stesse succedendo: sono corso fuori a dare l’allarme”. Eventuali discussioni per motivi di lavoro, sempre secondo indiscrezioni, Iacconi li avrebbe avuti anche con un terzo dirigente dell’azienda che, però, oggi pomeriggio non era nella sede della Gifas.

Iacconi viveva a Sacile, in provincia di Pordenone. Fino a circa un anno fa era rappresentante dell’azienda in Trentino Alto Adige. Abitava da solo, nella stessa palazzina in cui vivevano i genitori e la sorella, che in serata sono stati ascoltati dalle forze dell’ordine per ricostruire i suoi ultimi movimenti prima della partenza per Massarosa. Pare che in passato avesse sofferto di problemi di salute e in quei frangenti proprio Ceragioli era andato a trovarlo per portargli un po’ di conforto. L’omicida-suicida non avrebbe lasciato biglietti.

I dipendenti della Gifas, in particolare i 4 o 5 del settore commerciale che si trovavano negli uffici attigui a quello di Ceragioli, sono fuggiti quando hanno udito i primi colpi di pistola. Lo conferma Massimo Bianchi, uno di loro, che ha cercato di dare l’allarme e di far uscire tutti gli operai.

“E’ la più grossa tragedia che abbia mai colpito il nostro Comune – ha detto il sindaco di Massarosa Franco Mugnai – Siamo sotto shock. Mi hanno subito informato di quello che era successo alla Gifas, un’azienda che conosco, una realtà importante per il nostro territorio. Costruisce quadri elettrici per le navi. E’ un’azienda giovane. La crisi certo si fa sentire ma nel nostro territorio a parte la cantieristica navale il settore più in sofferenza è quello legato agli stagionali del turismo”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il Lodo Pomigliano.

I confini del Lingotto, di LUCIANO GALLINO-Repubblica.

A POMIGLIANO prevale il sì all’accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l’accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell’interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l’anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all’estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l’applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l’impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D’accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell’inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all’ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un’impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l’art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell’articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l’art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell’organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti. (Beh, buon giornata).

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