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Attualità Lavoro Popoli e politiche

Questa notizia è riservata a chi crede che immigrazione è uguale a criminalità.

(fonte:ilmessaggero.it)

Danno lavoro ad almeno mezzo milione di lavoratori, anche italiani. Sono i 165.114 immigrati titolari d’impresa. Tra i settori preferiti non solo l’etnico, ma anche lavanderie, saloni di estetica, pasticcerie, agenzie di viaggio e di traduzione. Figurano anche farmacie e piccole case di moda. Le imprese di immigrati dal 2000 sono cresciute al ritmo di 20 mila l’anno. In cinque anni, dal 2003 al 2008, gli imprenditori stranieri sono triplicati. Infine: ogni tre immigrati adulti due hanno un conto in banca.
Fondazione Ethnoland, realizzato in collaborazione con i ricercatori del Dossier immigrazione Caritas/Migrantes (ImmigratImprenditori, ed. Eidos), presentato oggi a Roma nella sede dell’Abi (Associazione bancaria italiana).

Il rapporto. E’ il quadro che emerge da un rapporto della

Aziende triplicate a giugno. Si tratta di un’azienda ogni 33 (il 2,7% di quelle registrate, il 3,3% di quelle attive) e rispetto al 2003 (quando erano appena 56.421) il loro numero, a giugno 2008, è triplicato. Un sesto degli imprenditori è donna. Le imprese di immigrati incidono quasi per il 10% nel lavoro dipendente.

La localizzazione delle imprese. Il maggior numero di imprese si trova in Lombardia (30 mila) e Emilia Romagna (20 mila). In Sardegna, Sicilia e Calabria gli immigrati hanno uguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani e in alcune regioni come il Piemonte e la Toscana è più soddisfacente della media nazionale. Tra gli italiani vi è un’impresa ogni 10 residenti, mentre tra gli immigrati una ogni 21. Se si uguagliasse il tasso di imprenditorialità nazionale, entro 10 anni l’ammontare delle nuove aziende straniere potrebbero salire di altre 200 mila raggiungendo un milione di occupati. A livello provinciale, al momento, spiccano Milano (17.297) e Roma (15.490).

I settori delle imprese degli immigrati. Quello privilegiato è l’industria con 83.578 aziende (50,6%); al suo interno prevale l’edilizia (64.549) e il tessile (10.470). Gli agricoltori sono appena 2.500, per via degli alti costi iniziali che comporta l’acquisto dei poderi. Gli imprenditori stranieri sono per lo più marocchini (in 5 anni sono aumentate del 27,4%), seguono i romeni (+61,2%), i cinesi (+24,4%), l’Albania (+48,5%). I marocchini sono per lo più dediti al commercio (67,5%), i romeni all’edilizia (80%), i cinesi si ripartiscono fra l’industria manifatturiera (46%) e il commercio (44,6%).

Il contributo al Pil. Il rapporto ricorda che il lavoro degli immigrati contribuisce alla formazione di circa un decimo del Pil. Nel 2007, il loro gettito fiscale è stato stimato in 5,5 miliardi di euro. Mentre, il costo a carico dei comuni – se si ipotizza che siano stati il 20% dell’utenza – si stima una spesa di 700 milioni di euro: «un livello comunque di neanche un quinto del totale delle entrate fiscali assicurate dagli stessi immigrati».

Voglia di riscatto. A spingere un immigrato ad avviare un’impresa è il maggior guadagno visto che se dipendenti la loro paga è appena il 60% di quello di un italiano. E poi, rileva il rapporto, gli immigrati vogliono «scrollarsi di dosso i pregiudizi dando di sè un’immagine più veritiera. La volontà di affermarsi è fortissima anche se a volte è frenata dagli ostacoli legislativi, burocratici, finanziari, ambientali». (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro

Crisi: ora sono gli italiani a “rubare” il lavoro agli immigrati.

da il messaggero.it

Da molti anni non succedeva più. Coloro che restano chiusi nelle cucine dei ristoranti a lavare i piatti sono, in grande maggioranza, del Bangladesh. O comunque stranieri (sono tanti anche i cinesi e c’è pure qualche nord africano). Da quattro mesi, da quando la crisi economica ha cominciato a farsi sentire anche a Roma, qualcosa è cambiato. E i titolari dei ristoranti si sono ritrovati a fare i conti con un fenomeno nuovo. A chiedere un posto da lavapiatti ora arrivano, sempre più spesso, anche gli italiani, anche i romani.

Prendiamo due punti di osservazione in centro storico, ma in due zone differenti. Trattoria Scavolino, nei pressi della Fontana di Trevi, ristorante frequentato da turisti ma anche da politici visto che il Parlamento non è tanto lontano: «E’ vero, negli ultimi mesi sta succedendo sempre più spesso – racconta Antonello, il titolare – D’altra parte, quando c’è bisogno di lavorare si accetta qualsiasi tipo di occupazione». Altro punto di osservazione, un altro ristorante molto conosciuto a Roma, il “Quattro Colonne”, in via della Posta Vecchia, a due passi da piazza Navona. Racconta Giancarlo Gilardini, il titolare: «Non mi piace chiamarli lavori umili, perché comunque qualsiasi tipo di lavoro fatto onestamente va rispettato. Però, è vero: prima a chiedere di fare i lavapiatti erano solo immigrati. Invece, da circa quattro mesi a questa parte mi sono accorto che stava succedendo qualcosa di differente.

Arrivano italiani, ci dicono che stanno cercando un’occupazione e che sono pronti a lavorare anche come lavapiatti». Magari sono studenti universitari che devono pagarsi gli studi… «No, chi viene nei ristoranti a chiedere lavoro come lavapiatti spesso ha 40-50 anni, è un padre di famiglia».

A volte hanno anche un’altra occupazione, ma magari un solo stipendio non basta per tirare avanti. In un ristorante romano il lavapiatti guadagna, in media, da un minimo di 600-700 euro a un massimo di 1000-1100. Nei ristoranti si è consolidata una sorta di specializzazione per gli immigrati del Bangladesh, perché hanno guadagnato fiducia nel settore in quanto sono rispettosi e lavoratori, dicono molti ristoratori. «Il problema vero – spiega Gilardini – è che non possiamo dire sì a tutti coloro che vengono a chiederci un lavoro. Però ci segniamo sempre i fati, se si apre un posto li chiamiamo».

Nella provincia di Roma ci sono in totale 4.800 ristoranti. Secondo uno studio dell’Ebtl del Lazio (l’ente bilaterale per il turismo) nella ristorazione sono occupati, in modo regolare, 36.500 lavoratori. Dagli chef ai camerieri, sono molti i romani che continuano a lavorare nei ristoranti. Ma già se si passa a monitorare i pizzaioli si scopre che la presenza degli immigrati è sempre più consistente. E i lavori più faticosi, quali appunto quello dei lavapiatti, è praticamente un monopolio degli immigrati. «Era impossibile – raccontano alla Trattoria Scavolino – che un italiano ti venisse a chiedere un’occupazione di quel tipo. Di fronte alla crisi economica, tutto questo sta finendo».

Altro punto di osservazione, quello degli hotel romani. A Roma gli ultimi dati disponibili parlano di 873 hotel (da una a cinque stelle) per un totale di oltre 43 mila camere. I posti di lavoro sono circa 15 mila. In questo caso i lavori che in maggioranza impegnano immigrati sono sempre quelli più faticosi: dalle pulizie ai piani ai facchini. «E anche nel nostro settore – assicura Giuseppe Roscioli, presidente degli albergatori romani – avvertiamo un mutamento delle abitudini e dei bisogni: per alcune tipologie di occupazione difficilmente in passato si faceva avanti un italiano. Da qualche mese non è più così. E la spiegazione è semplice: c’è bisogno di lavorare. Magari non ci sono stati licenziamenti, ma sempre più spesso non vengono rinnovati i contratti a tempo determinato». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Tra i due litiganti, il terzo perde il posto.

Il Governatore della Banca d’Italia:

Le ripercussioni sull’occupazione non si sono ancora pienamente manifestate; gli indicatori disponibili per i mesi più recenti prefigureranno un netto deterioramento”. “La caduta della domanda può colpire con particolare intensità le fasce deboli e meno protette, i lavoratori precari, i giovani, le famiglie a basso reddito”.

Il Ministro dell’Economia:

Sull’allarme del numero uno di Bankitalia arriva a distanza la replica di Tremonti. Che in una conferenza all’Aspen dice che “il governo ha da tempo gestito nei termini che poteva e doveva problema: pochi giorni fa abbiamo siglato con le Regioni un importante accordo sugli ammortizzatori sociali, siamo convinti di aver visto per tempo i fenomeni e di averli gestiti nel modo migliore”.

Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Chi paga la crisi economica.

Nel 2009 ci sono circa 3,5 milioni di posti di lavoro a rischio in Europa. Sono le ultime previsioni della Commissione Ue, in base alle quali è attesa quest’anno una contrazione complessiva dell’occupazione pari all’1,6%. «L’ulteriore deterioramento della situazione del mercato del lavoro prevista nei prossimi mesi riflette il forte crollo della fiducia di consumatori e imprese registrato in dicembre e confermato nel mese di gennaio». Tra i settori più colpiti quello dell’auto, quello dei servizi finanziari, quello meccanico e quello dei trasporti, con una annunciata perdita netta di oltre 100.000 posti di lavoro da ottobre 2008 a gennaio 2009. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il “Financial Stability Plan” di Veltroni.

1. Sistema universale di ammortizzatori sociali, essenziale strumento di protezione sociale e di tutela della vita stessa delle piccole imprese. Il Pd propone alcune misure immediate e in prospettiva la realizzazione di una organica riforma degli ammortizzatori sociali di tipo europeo. Nell’immediato: a) l’introduzione di una misura temporanea di sostegno al reddito dei precari e degli altri lavoratori che perdono il lavoro e sono sprovvisti di copertura assicurativa, da associare ad attività di formazione e programmi di reinserimento lavorativo;
b) l’innalzamento della copertura Cassa integrazione ordinaria e straordinaria (CIG e CIGS) per proteggere dalle crisi, insieme ai lavoratori, anche le piccole imprese, che solo così possono sopravvivere e non creare ulteriore disoccupazione;
c) la sospensione del pagamento delle rate del mutuo contratto per l’acquisto dell’abitazione di residenza per i lavoratori che perdono il posto di lavoro. In prospettiva, va realizzata una organica riforma del sistema degli ammortizzatori sociali in modo da arrivare all’istituzione di un sussidio unico di disoccupazione, di cui possa beneficiare chiunque perde il proprio posto di lavoro, inclusi i precari, a prescindere quindi dal tipo di contratto, dal settore e dalla dimensione dell’impresa nella quale veniva svolta l’attività lavorativa, con l’unica condizione dell’impegno alla riqualificazione e ad accettare offerte di lavoro.

5.
Aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture, con priorità alle opere immediatamente cantierabili dei Comuni, a questo scopo parzialmente liberati dal vincolo del Patto di Stabilità Interno; si potrebbe così far partire entro il mese di giugno un programma di piccole e medie opere immediatamente cantierabili, ora bloccate dalla legge 133/2008, e avviare in tempi contenuti un piano straordinario di riqualificazione degli edifici pubblici, scuole soprattutto, per migliorare l’efficienza energetica e la messa in sicurezza. Vanno inoltre ripristinate le risorse sottratte agli investimenti nel Mezzogiorno, in particolare al Fondo per le Aree Sottoutilizzate.

2. Aumento del potere d’acquisto delle famiglie con una riduzione della pressione fiscale sui redditi medio-bassi. Aumento delle detrazioni sui redditi da lavoro dipendente, autonomo e da pensione, a partire dai redditi e dalle pensioni più basse, per dare, attraverso questa via, alla fine della legislatura, 100 euro in più al mese per i redditi fino a 30.000 euro l’anno. L’intervento, alternativo al bonus famiglia e alla social card, viene erogato anche ai contribuenti incapienti attraverso trasferimenti.

3. Promozione di nuova occupazione femminile: meno costi per l’impresa che assume una donna; meno tasse sul reddito da lavoro delle donne; sostegno all’imprenditoria femminile, anche attraverso il microcredito; accompagnamento degli interventi fiscali con politiche di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e con il potenziamento di servizi di cura per la famiglia (asili nido, assistenza anziani non autosufficienti, ecc).

4. Green economy per rilanciare la nostra economia rendendola più competitiva, per attivare fra nuovi lavori e riqualificazione (o almeno “salvataggio”) di quelli esistenti, un milione di posti di lavoro nei prossimi cinque anni e rispettare gli impegni presi a livello europeo. Il Pd propone una serie di interventi, tra i quali un piano di riqualificazione degli edifici pubblici; rendere permanenti le agevolazioni fiscali del 55% per gli interventi di efficienza energetica delle abitazioni e degli edifici privati, costruzione di 100 mila nuovi alloggi, tra edilizia pubblica e canone agevolato, a bassissimo consumo energetico; incentivi per la rottamazione delle auto vincolati all’acquisto di auto a basse emissioni e bassi consumi e sostegno alla ricerca e all’innovazione dell’industria automobilistica per le auto ecologiche del futuro; favorire investimenti pubblici per il rinnovo del parco mezzi con acquisto di autobus a metano e avviare un piano di 1.000 treni per i pendolari, con 300 milioni di euro all’anno per cinque anni; ecoincentivi per l’acquisto di elettrodomestici a basso consumo; raddoppiare nei prossimi dieci anni l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili e favorire lo sviluppo di una industria nazionale del settore, rafforzando Industria 2015 e promuovendo nuove imprese che producano impianti, tecnologie, pannelli solari, nuovi materiali per l’edilizia; semplificare e dare certezza alle regole, ad esempio, nelle procedure di autorizzazione e nei regolamenti edilizi dei comuni; promuovere una politica agricola organica e favorire le imprese e le economie che puntano sul turismo di qualità, sui prodotti agricoli legati al territorio, alla manifattura italiana; incentivare il riciclo dei rifiuti e l’industria ad esso collegata: un incremento del 15% in dieci anni rispetto ai livelli attuali rappresenterebbe il 18% dell’obiettivo nazionale di riduzione delle emissioni di CO2 e significherebbe far scendere i consumi energetici di 5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio.

6. Sostegno alle imprese sia rafforzando Confidi, sia garantendo il regolare e tempestivo pagamento delle pubbliche amministrazioni, sia ripristinando l’automatismo dei crediti d’imposta per la ricerca, gli investimenti, le ristrutturazioni; in particolare il Pd propone di accelerare il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso le imprese fino a 250 dipendenti attraverso il ricorso, nei limiti di 3 miliardi di euro per il 2009, alle risorse della gestione separata della Cassa Depositi e Prestiti; di potenziare le contro-garanzie per i Confidi – fino a triplicarne l’attuale capacità – di tutte le categorie del lavoro autonomo e delle piccole imprese, anche attraverso l’intervento della SACE; di dare attuazione alle misure previste nei decreti per la stabilità del sistema creditizio e la continuità nell’erogazione del credito alle imprese ed alle famiglie approvati all’inizio di ottobre 2008, ma rimasti inapplicati per l’assenza a tutt’oggi dei regolamenti attuativi, in particolare per la garanzia della raccolta bancaria a medio termine e a garanzia del rischio di credito. Il Pd propone inoltre una serie di interventi fiscali per il lavoro autonomo e le imprese. Tra questi, il potenziamento del forfettone fiscale: per lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e professionisti innalzamento del limite di fatturato a 70.000 euro l’anno e del limite di spesa per la disponibilità di beni strumentali a 45.000 euro nel triennio (circa 2 milioni di soggetti potenzialmente interessati, per i quali si elimina l’Iva, l’Irpef, l’Irap e gli studi di settore e si applica un’imposta sostitutiva complessiva del 20%); la riduzione della ritenuta d’acconto applicata sui ricavi dei professionisti (dal 20 al 10%) per evitare ricorrenti crediti fiscali, soprattutto per i professionisti più giovani; per il biennio 2009-2010; l’introduzione di un moltiplicatore pari a 2 per la deducibilità degli oneri finanziari derivanti dagli investimenti produttivi effettuati nel biennio 2007-2008, aggiuntivi rispetto alla media del triennio precedente; l’azzeramento per il biennio 2009-2010 dell’imposta sostitutiva sul reddito, attualmente prevista al 27,5%, per le ditte individuali e società di persone in contabilità ordinaria per la parte di reddito re-investita in azienda; la sospensione del tetto alla deducibilità degli interessi passivi per il biennio 2009-2010 per i soggetti Ires.

7. Difesa e valorizzazione del made in Italy, con la ricerca e con l’innovazione ma anche tutelando marchi e denominazioni e contrastando il dumping sociale e lo sfruttamento del lavoro minorile. Alla manovra anticiclica, con misure di immediato sostegno all’economia, devono essere unite riforme strutturali che accrescano il PIL potenziale e dunque riforme per la regolazione concorrenziale dei mercati (dalle banche alle assicurazioni, dalle professioni ai servizi pubblici locali, fino all’energia), in modo da mettere il paese in condizione di correre, quando la crisi internazionale sarà superata. Insieme a queste, va tutelato come bene assoluto il merito di credito del paese e quindi la stabilità finanziaria. La riduzione della spesa corrente, attraverso una spending review sulla quale fondare una sistematica operazione di benchmark che faccia emergere le migliori pratiche in modo che verso esse convergano tutti i segmenti della pubblica amministrazione; il controllo delle entrate attraverso una intelligente lotta all’evasione fiscale; la valorizzazione dell’ingente patrimonio pubblico, per ottenere che si trasformi da fonte di costo a fonte di reddito sono essenziali per garantire la stabilità di medio periodo della finanza pubblica. Insieme a queste va poi realizzata la riorganizzazione della spesa per acquisto di beni e servizi, delle amministrazioni centrali e di ciascuna amministrazione regionale; la digitalizzazione “forzata” di tutta la Pubblica Amministrazione; l’accorpamento, in due anni, di tutti gli uffici periferici dello Stato centrale. Questo insieme di attività – da realizzare attraverso innovazioni legislative e, soprattutto, amministrative – è in grado di realizzare obiettivi di risparmio crescenti nel tempo (dopo due anni, un punto di PIL). Già nel 2009, il costo delle misure anticicliche proposte è coperto, per la metà, da maggiori entrate legate all’innalzamento del Pil, dal riavvio delle politiche antievasione, dall’assorbimento nell’ambito dell’intervento generalizzato delle risorse dedicate al bonus famiglia e alla social card, dai primi risparmi dovuti all’attivazione delle centrale unica per gli acquisti. Possibili risparmi in conto interessi, da valutare in sede di assestamento del Bilancio dello Stato a Luglio 2009, dovrebbero essere utilizzati per migliorare la copertura. L’indebitamento ed il debito aggiuntivo previsto per il 2009 viene più che compensato nel corso del 2010 e 2011, grazie al venir meno degli effetti delle misure di carattere temporaneo, al recupero di risorse dall’evasione, al risparmio di spesa e, soprattutto, alla maggiore crescita conseguente alle riforme strutturali proposte.

Più Europa: nella gestione del debito pubblico, per le infrastrutture, per la vigilanza sul sistema del credito Proprio mentre il modello europeo – con la sua economia sociale di mercato – viene assunto a riferimento in altre aree dell’economia globale, l’Unione Europea fatica a ritrovare slancio e si fanno più seri i rischi di scivolamento verso interventi protezionistici.

Il PD sostiene tre precise proposte: coordinamento, anche costituendo un’apposita Agenzia europea, della gestione delle emissioni di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Eurogruppo; finanziamento dei progetti infrastrutturali con emissione di eurobonds sul merito di credito dell’Unione; affidamento alla BCE del coordinamento della regolazione e della vigilanza sul sistema del credito, ormai perfettamente integrato a dimensione europea. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

In lotta con la crisi globale, in lotta contro i governi neo-liberisti.

 I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con
un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola
”( Naomy Klein, The Nation, quotidiano canadese).


Il governo inglese ha cercato di rispondere agli operai britannici, scesi in sciopero
generale contro un appalto che vedeva coinvolti operai italiani alla vecchia maniera:
siamo in Europa, niente protezionismo.

Il governo italiano ha risposto niente, perché  niente sa rispondere davvero alla crisi: fosse per loro, si tratterebbe di una semplice sfavorevole congiuntura, da superare, prima negandone la portata, poi affrontandola con fiducia e ottimismo, magari con lo spot di qualche hanno fa che diceva grazie a chi faceva la spesa.
Il governo di Gordon Brown, che pure è intervenuto energicamente e subito contro la crisi finanziaria è rimasto spiazzato dalla reazione delle Unions che hanno chiesto e ottenuto una quota di assunzioni di operai inglesi disoccupati nella raffineria della Total.   In Italia i media hanno parlato di episodi corporativi, evocando lo spettro dell’anti-italianità: il fatto è che chi crede di farla ai romeni, l’aspetti dagli inglesi.
In realtà i sindacati inglesi hanno messo il dito nella piaga: lavora chi ne ha diritto,
non chi accetta paghe inferiori. Vetero- sindacalismo? Averne, in Italia.

Il fatto è che la crisi economica riaccende l’antagonismo di classe.

In Islanda folle di persone  percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade, come se invece che la gelida isola del Nord Europa fosse la bollente Argentina del 2002.
Fatto sta che Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici del governo, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle finanziaria delle banche e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è
contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si
trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una
esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio.

In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all?uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un “aiuto” di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli
agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco
delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori
siano ragionevoli.

In Francia il recente sciopero generale, in parte innescato dal piano del presidente
Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti  ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

In Corea a dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un
molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. I parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani. Se non che i rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento.

Scioperi e manifestazioni contro la crisi e la disoccupazione si sono avute e in Spagna e in Germania. In Russia, la polizia di Putin ha caricato con durezza i manifestanti sulla Piazza Rossa.

In Italia, il “la” alla proteste contro la crisi lo ha dato l’Onda , il nuovo movimento
degli studenti, che ha coniato lo slogan che lega le manifestazioni in tutto il mondo:
La vostra crisi non la paghiamo noi”.
Nei mesi scorsi i sindacati di base hanno riempito le piazze, mentre lo sciopero generale del 12 dicembre scorso ha portato più di un milione e mezzo di lavoratori in tutta Italia.
Il 13 febbraio, altro sciopero generale dei dipendenti pubblici e dei metalmeccanici
promosso dalla Cgil: un grande  successo, nonostante la colpevole defezione delle altre confederazioni. Più di 700 mila operai, impiegati pubblici e privati, donne, precari, cassaintegrati e lavoratori stranieri hanno dato via a tre robusti cortei per le strade della Capitale, riempiendo poi piazza San Giovanni come non si vedeva da tempo. Paolo Ferrero ha giustamente detto che “è la prima volta dal dopoguerra che in Italia il movimento dei lavoratori non è rappresentato in parlamento.
Infatti, la politica fa la sorda, i media guardano da un’altra parte, il Governo cambia argomenti, l’opposizione parlamentare, troppo spesso ridotta a inseguire l’agenda del governo, fatica a capire la portata del disagio sociale e del montare della protesta
anticapitalista. Comica la dichiarazione del ministro del Lavoro che ha detto che la Cgil è isolata. Sembra la berzelletta del soldato italiano che oltre le linee nemiche chiamava a gran voce il tenente per dirgli che li aveva fatti tutti prigionieri, ma che quelli non lo lasciavano andare. Ma è un fatto che la protesta c’è e ribolle ovunque.  Ad essa va data non solo voce, ma sintesi politica. Questo è l’impegno che con urgenza viene dalle istante dei lavoratori italiani: da Milano a Pomigliano, dove è intervenuta la polizia coi manganelli, a Roma, dove il giorno prima dello sciopero generale i lavoratori dell’Alitalia hanno bloccato l’autostrada contro il mancato pagamento da tre mesi della cassa integrazione.

 

Ma se la crisi è globale, i conflitti sociali non possono rimanere locali. Bisogna riprendere l’abitudine politica ad ascoltare le istanze che vengono dal lavoro, ovunque in Europa e nel mondo. E metterle in cima alla lista delle priorità della Sinistra, anche in vista delle prossime tornate elettorali.
Fa bene alla salute delle idee di cambiamento. Aiuta la politica a guardare lontano.
Serve a mettere in crisi la crisi globale. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Sicurezza sul lavoro – Slitta di due anni l’emanazione del testo unico sulla sicurezza sul lavoro.

Solo nel mese di gennaio 2009 i morti sul lavoro sarebbero 91, gli infortuni 91.322, mentre le persone rimaste invalide 2.283.(Fonte: Marco Bazzoni, rappresentante dei lavoratori per la sicurezza). Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro

Venerdì 13 porta bene o porta male?

di Paolo Ciofi  da Megachip.info

Lo sciopero del 13 prossimo, indetto dalla Fiom e dalla Funzione pubblica Cgil, che vedrà scendere in piazza a Roma in un’unica manifestazione due categorie di lavoratori fondamentali per il presente e il futuro del Paese come i metalmeccanici e i dipendenti pubblici, è di per sé una novità di rilievo, e va sostenuto per tanti motivi. Ma in questo passaggio cruciale dell’Italia, lacerata da una crisi economica e sociale, al tempo stesso istituzionale, politica e morale, emerge soprattutto una motivazione che a mio parere più di ogni altra, proprio in questo momento, si fa apprezzare.

È l’unità conquistata su una piattaforma di lotta alla recessione, per i diritti e per la tutela di occupazione e salari, da due settori del lavoro dipendente in apparenza molto distanti, e spesso giocati l’uno contro l’altro dai governi e dalla Confindustria. Un segnale e una scelta di particolare rilievo perciò, in controtendenza rispetto alla frantumazione del lavoro, alle divisioni tra categorie e interne alle categorie, alla contrapposizione spesso scientificamente praticata tra uomini e donne, tra “garantiti” e precari, tra nativi e stranieri, tra giovani e anziani. In una parola, rispetto alla svalorizzazione del lavoro che, al fondo, è all’origine della crisi globale.

La vicenda clamorosa della Lindsey Oil nel Lincolnshire, dove i lavoratori britannici oppressi dalla disoccupazione ed espropriati del futuro hanno scioperato contro i loro “colleghi” italiani e portoghesi reclutati dalla Total, è indicativa del livello altamente conflittuale che può raggiungere la concorrenza tra operai senza lavoro e in apprensione per sé e per le proprie famiglie. Un fenomeno non nuovo, anzi tipico degli albori del capitalismo, quando i salariati non avevano rappresentanza sindacale e politica, e che oggi si ripete in forme diverse e meno vistose in tante regioni dell’Europa e dell’Italia.

Ma se la competizione spietata tra chi vive del proprio lavoro certifica inequivocabilmente il fallimento della globalizzazione del capitale magnificata come l’epifania della crescita, del benessere e della sicurezza – vale a dire di un modello sociale che si sta risolvendo in una catastrofe umana e ambientale proprio perché fondato su un gigantesco processo planetario di subordinazione e di precarietà del lavoro – , non è pensabile di poter uscire dalla crisi con un ritorno al passato. Le politiche protezioniste e nazionaliste, con l’innalzamento di nuove barriere, finirebbero per rendere esplosive tutte le contraddizioni senza mettere in discussione il modello sociale. Vale a dire che le toppe sarebbero persino peggio dei buchi.

Perciò mi pare di fondamentale importanza il messaggio che la giornata del 13 ci manda: per uscire positivamente dalla crisi, per tutelare diritti, salari e occupazione, ma anche per difendere la Costituzione e la Repubblica democratica, è necessaria la ricomposizione unitaria del mondo del lavoro, una nuova centralità dei lavoratori e delle lavoratrici nelle scelte sindacali e di governo. E per questo è necessario praticare l’esercizio della democrazia e forme di lotta che indichino obiettivi concreti, capaci di guadagnare consensi di massa, non solo sul terreno sindacale ma anche su quello politico.

Ciò vuol dire, per essere chiari fino in fondo, riconoscere i caratteri e gli interessi dei lavoratori del XXI secolo, distinguendoli e separandoli da quelli del capitale, spostando il centro di gravità del conflitto dalla dispersione tutta interna al pluriverso dei lavori sull’asse discriminante della dualità lavoro-capitale. E poiché le scelte del governo, al di là della loro inconsistenza, vanno nella direzione esattamente opposta, sia nella versione più vicina alla Confindustria, sia in quella che si riconosce nella “territorialità” della Lega, esse vanno duramente contrastate.

Depurata della demagogia contro i padroni, la posizione leghista in realtà azzera nei territori la dualità lavoro-capitale, ponendo al centro un duplice conflitto: contro lo Stato che deruba i “padani” delle loro ricchezze, e contro gli “stranieri” non padani che rubano il lavoro. Da una parte, si tende a consolidare un blocco d’ordine che mette insieme padroni e salariati, spostando tutte le contraddizioni all’interno del lavoro dipendente. Dall’altra, si ripristina il vecchio Stato gendarme con funzioni repressive contro gli “altri”. Nell’un caso e nell’altro si diffonde la paura, si piccona lo Stato di diritto, si rafforza in ultima istanza il dominio del capitale sul lavoro, mentre il tessuto sociale si disgrega e il Paese si disunisce.

La retrocessione verso il protezionismo, il nazionalismo, la “territorialità” e il localismo miope, la costruzione di nuove muraglie non solo psicologiche nella fase più drammatica della crisi, quando si perdono milioni posti di lavoro e nel pianeta cresce la miseria, generano solo rancore e odio alimentando i razzismi e la sindrome della lotta di tutti contro tutti. È il brodo di coltura in cui si moltiplicano i bacilli della violenza, delle svolte reazionarie e di destra, di una guerra senza vincitori né vinti perché porterebbe alla dissoluzione del pianeta.

Sono forti le ragioni per raccogliere il segnale di luce che i metalmeccanici e i lavoratori pubblici hanno acceso illuminando la strada della ricomposizione unitaria del lavoro: muovendo dal basso, dalle fabbriche e dagli uffici, come pure dai territori, per innovare sindacati e politica riempiendoli di contenuti, allargando l’orizzonte alla dimensione nazionale, europea e globale. Ormai è chiaro che a livello europeo c’è bisogno di una nuova impostazione sindacale e politica, che faccia del parametro lavoro la misura di riferimento per l’integrazione: massima occupazione come obiettivo strategico da perseguire; contratto europeo per le categorie fondamentali della produzione industriale e agraria, della ricerca e dei servizi; parità di salario tra uomini e donne per parità di prestazione; diritto al lavoro come fondamento della libertà e dell’uguaglianza, e dunque eliminazione del precariato e di ogni restrizione alla libera circolazione delle persone.

Anche a livello nazionale la ricomposizione unitaria del lavoro, al fine della valorizzazione massima delle lavoratrici e dei lavoratori nella società e nella politica, assume il significato di un obiettivo strategico verso il quale occorre con determinazione incamminarsi per tre principali ragioni. Innanzitutto, per uscire dalla crisi attraverso il cambiamento del modello economico-sociale. Senza di che, se si continuano a privilegiare rendite e profitti, non si rimuovono le cause di fondo della crisi e l’Italia rischia di andare a picco. Le misure del governo non sono altro che elargizioni a pioggia, insufficienti nelle quantità  e sbagliate nella sostanza perché prive di una visione strategica e perché non collegano gli incentivi alle imprese con la garanzia dell’occupazione e con il vincolo ambientale.

Ma c’è di più, dal momento che l’accordo siglato da governo e Confindustria con Cisl, Uil e Ugl sul modello contrattuale, nel tentativo di isolare la Cgil si qualifica in realtà come un errore capitale di cui tutti rischiamo di pagare le conseguenze. Perché, colpendo i salari e depotenziando il contratto nazionale, in definitiva si finisce per incentivare il diffondersi della crisi, indebolendo le difese del Paese. Come ha spiegato con dovizia di argomenti sul Corriere della sera del 5 febbraio Robert Reich, ex segretario al lavoro nell’amministrazione Clinton, un moderato abituato a fare i conti con i fatti e non a raccontare favole, la recessione è cosi grave perché si è fortemente ridotto il potere d’acquisto dei salari in conseguenza dell’indebolimento dei sindacati e del calo della sindacalizzazione dei lavoratori. Per cui la ricetta per la ripresa è: salari più alti e maggiore potere contrattuale ai lavoratori. Una ricetta che viene dall’America, alla quale forse non saranno insensibili i signori Bonanni e Angeletti e la signora Polverini, i quali per ora si rifiutano di sottoporre al referendum di tutti i lavoratori gli accordi che hanno firmato. Un’idea strana della democrazia, proprio nel momento in cui la democrazia di questo Paese è messa a rischio.

Forse – e in secondo luogo – ai più sfugge che per la tenuta democratica dell’Italia la ricomposizione unitaria del mondo del lavoro e il protagonismo dei lavoratori è un fattore decisivo. Anche per questa seconda e fondamentale ragione vanno respinte con nettezza le iniziative del governo volte a limitare il diritto di sciopero, come pure la linea convergente Sacconi-Giavazzi-Ichino, che in nome delle “riforme” lavoriste mira a scambiare sussidi con diritti (come l’articolo 18). Pensare che si possano difendere i diritti civili sulle macerie di diritti sociali è fuori dalla logica democratica e da ogni concreta possibilità. A tale proposito, e a maggior ragione in presenza degli sviluppi drammatici della crisi, siamo ancora in attesa che il segretario Veltroni smentisca l’affermazione secondo cui «se l’economia va male, non ci può essere giustizia sociale». Un principio del tutto demodé e difficile da attribuire a chi dichiara di voler combattere la destra.

Infine, ultimo ma non per importanza, il riconoscimento del valore centrale del lavoro nella società e nella politica è il presupposto imprescindibile per la ricostruzione di una sinistra che voglia avere consenso di massa e si proponga di trasformare la società. Un tema che non si può omettere, e su cui bisognerà ritornare. Per ora constatiamo che di fronte alla crisi del capitalismo di questo secolo, la sinistra non dispone di una visione comune e adeguata circa il modo di avviare un modello diverso dell’economia e della società. Ma proprio perciò è di grande valore lo stimolo che potrà venire dalla giornata del 13: ricominciare dal lavoro, fattore costitutivo della persona e coesivo della società, fondamento della libertà e dell’uguaglianza, come del resto la Costituzione prescrive.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

In tempi di crisi anche il lusso piange miseria.

La crisi investe anche la moda, e il Made in Italy lascia a terra marchi presigiosi
Ieri, Ittierre Spa, unità della It Holding, ha annunciato che chiederà l’amministrazione controllata. Ma l’intero gruppo – che possiede anche il marchio Gianfranco Ferrè – sarebbe sull’orlo della bancarotta.

It, la holding quotata in Borsa, controlla le Spa Ittierre, licenziataria di marchi prestigiosi come Just Cavalli e Versace jeans couture, Malo e Gianfranco Ferrè. 

Stamattina, i titoli sono stati sospesi a tempo indeterminato da Borsa Italiana. La società aveva annunciato martedì scorso di aver ricevuto una proposta da un fondo estero che includeva un aumento di capitale e il riacquisto delle obbligazioni. L’indebitamento di IT Holding era di 295 milioni a fine settembre e la società ha un valore di mercato di circa 43 milioni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

L’equazione immigrazione=criminalità è una invenzione della politica.

CRIMINI E IMMIGRATI *

di Milo Bianchi  , Paolo Buonanno e Paolo Pinotti  da lavoce.info

L’allarme sociale destato dal presunto aumento dei crimini legati all’immigrazione domina ormai il dibattito politico e sociale nel nostro paese. Tuttavia, i dati mostrano una realtà diversa. Dal 1990 al 2003 il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente si è quintuplicato, mentre non c’è alcun aumento sistematico della criminalità, che anzi mostrerebbe una lieve flessione. Gli stessi dati sembrano inoltre escludere l’ipotesi di una relazione causale diretta tra immigrazione e criminalità.

 Nell’immaginario collettivo, l’immigrazione è da sempre associata alla criminalità. I risultati dell’indagine “National Identity Survey” confermano che, in quasi tutti i paesi europei, la maggior parte dei cittadini è convinta che gli immigrati aumentino il tasso di criminalità. (1)

IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ

L’evidenza empirica, tuttavia, perlomeno in ambito economico, si concentra prevalentemente sugli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro (salari, occupazione) e sulla spesa per lo stato sociale, trascurando completamente l’impatto sulla criminalità. Abbiamo perciò cercato di colmare questo divario e di ancorare il dibattito pubblico ad alcuni dati statistici. Per analizzare l’evoluzione di immigrazione e criminalità nelle province italiane dal 1990 al 2003, abbiamo dunque incrociato le informazioni sui permessi di soggiorno e sul numero di crimini denunciati, provenienti rispettivamente dagli archivi del ministero dell’Interno e della Giustizia. (2)
Ovviamente, questi dati sottostimano l’effettiva entità sia dell’immigrazione che della criminalità per la presenza di immigrati irregolari e di crimini non denunciati. Si può tuttavia mostrare che, sotto alcune ipotesi, la componente osservata dei due fenomeni fornisce una buona approssimazione di quella non osservabile. Per quanto riguarda l’immigrazione, abbiamo verificato che l’approssimazione è estremamente accurata utilizzando le domande di regolarizzazione, presentate durante le sanatorie del 1995, 1998 e 2002, per stimare il numero di immigrati irregolari e la loro distribuzione sul territorio.
L’analisi rivela alcuni risultati in controtendenza rispetto al comune sentire. (3) Durante il periodo preso in esame, il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente è quintuplicato, da meno dello 0,8 a quasi il 4 per cento. A tale crescita non è tuttavia associato alcun aumento sistematico della criminalità, che mostrerebbe invece una lieve flessione. A livello nazionale, dunque, non emerge alcuna correlazione significativa tra immigrazione e criminalità.

Una correlazione positiva emerge invece a livello locale. In particolare, le province che hanno attratto un maggior numero di immigrati, in rapporto alla popolazione, hanno registrato anche tassi di criminalità più elevati. Distinguendo tra le principali categorie di reato emerge che la correlazione è dovuta esclusivamente ai reati contro la proprietà, che rappresentano quasi l’80 per cento dei crimini denunciati. I crimini violenti (e in particolare gli omicidi) si concentrano infatti nel Mezzogiorno, dove l’immigrazione è a livelli minimi. Le province del Centro-Nord si caratterizzano invece per una più alta presenza straniera e, al contempo, per una maggiore incidenza di reati contro la proprietà.

L’associazione potrebbe essere dovuta all’esistenza di una relazione causale tra i due fenomeni oppure ad altri fattori che incoraggiano sia la presenza straniera che i furti, come ad esempio la maggiore ricchezza e urbanizzazione delle province settentrionali.
Per distinguere tra le due ipotesi, abbiamo utilizzato dati sulla migrazione dai principali paesi di origine verso il resto d’Europa. Identifichiamo così la componente dei flussi migratori che dipende esclusivamente da shock esogeni nei paesi di origine, come guerre, crisi politiche ed economiche. Questi fenomeni aumentano l’emigrazione, e quindi potenzialmente l’immigrazione in Italia, senza essere correlati con fattori che influiscono direttamente sull’attività criminale nelle province italiane. La correlazione tra tale componente esogena e il tasso di criminalità nelle province italiane non è significativamente diversa da zero.
Il risultato suggerisce che, nel periodo preso in esame, l’immigrazione in Italia non ha avuto un effetto causale significativo sul livello di criminalità.

(1) La percentuale varia tra il 40 per cento in Gran Bretagna e l’80 per cento in Norvegia. In Italia, nel 2003, la percentuale si collocava intorno al 65 per cento. I risultati dell’indagine sono integralmente disponibili all’indirizzo http://www.issp.org/data.shtml 
(2) Non è possibile estendere le serie storiche ad anni più recenti perché nel 2004 è stata introdotta una nuova classificazione dei crimini che rende i dati pre e post-2004 non comparabili. Inoltre, dai nostri dati, non è possibile risalire alla nazionalità del denunciato né al suo status di immigrato regolare o irregolare.
(3) Tutti i risultati sono presi dal nostro articolo “Do immigrants cause crime?” – Paris School of Economics Working Paper No. 2008-05. (Beh, buona giornata).

* Le idee e le opinioni espresse sono da attribuire esclusivamente agli autori e non impegnano la responsabilità dell’Istituto di appartenenza.

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Crisi globale: la Nissan taglia il 10 per cento della forza lavoro complessiva.

(Fonte: ilmessaggero.it)

TOKYO (9 febbraio) – Nissan annuncia un maxi piano di ristrutturazione per fronteggiare la crisi e taglia 20.000 posti di lavoro. È quanto emerso nel corso della presentazione dei dati trimestrali da parte del numero uno della compagnia Carlos Ghosn. In questo modo, i dipendenti della Nissan a livello globale passeranno da 235.000 a quota 215.000 entro marzo 2010.

Nissan stima poi una perdita netta per l’esercizio in corso che terminerà il 21 marzo 2009 di 265 miliardi di yen (2,2 miliardi di euro) a causa della «frenata dell’economia globale registrata dalla seconda metà del 2008», e per «la rivalutazione dello yen, abbinata al rapido declino della fiducia dei consumatori in tutti i principali mercati». La compagnia franco-nipponica afferma inoltre che la perdita netta del terzo trimestre è di 83,2 miliardi di yen (circa 700 milioni di euro). «Guardando in avanti le nostre priorità restano la protezione del nostro cash flow e tutte le misure necessarie per migliorare la performance del nostro business», ha commentato Ghosn.

L’alleggerimento degli organici, vicino al 10% della forza lavoro complessiva, avverrà principalmente con il taglio delle assunzioni, l’eliminazione dei contratti a termine e gli incentivi alle uscite e ai pensionamenti. «È presto per dire dove e come ci saranno queste misure – ha detto Ghosn – visto che sono appena partite le discussioni, ma posso dire che non ci saranno chiusure di impianti». Il numero uno del gruppo, infatti, ha spiegato di ritenere che «il mercato ritroverà la ripresa e dobbiamo essere pronti». Allo studio, inoltre, ipotesi come la settimana lavorativa ridotta a 4 giorni e il taglio delle retribuzioni. (Beh, buona giornata).

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“I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola.”

di Naomi Klein – «The Nation»

Vedere in Islanda folle di persone che percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade mi ha ricordato un slogan popolare nei circoli anticapitalisti del 2002: «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».

Un messaggio abbastanza semplice. Voi – politici ed amministratori delegati assembrati in qualche summit del commercio – siete come gli spericolati dirigenti della Enron che se la scampano (e di certo non ne sapevamo neppure la metà). Noi – la plebaglia qui fuori – siamo come il popolo d’Argentina che nel bel mezzo di una crisi economica tremendamente simile alla nostra, scese in strada battendo pentole e padelle (il cacerolazo appunto, ndt). Gridavano “¡Que se vayan todos!” (“Che se ne vadano via tutti!”) e imposero una successione di quattro presidenti in meno di tre settimane. Ciò che rese unico il sollevamento del 2001-2002 in Argentina fu che non era indirizzato ad uno specifico partito politico né alla corruzione in termini astratti. Il bersaglio era il modello economico dominante: quella fu la prima rivolta nazionale contro lo sregolato capitalismo contemporaneo.

C’è voluto un bel po’, ma dall’Islanda alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, i paesi del resto del mondo stanno finalmente avendo il loro ¡Que se vayan todos!

Le stoiche matriarche islandesi che battono le loro pentole mentre i loro ragazzi saccheggiano i frigoriferi alla ricerca di proiettili (uova, certo, ma yogurt?) riecheggiano le tattiche rese famose a Buenos Aires. Così pure la rabbia collettiva contro le élites che hanno gettato via un paese un tempo florido pensando di potersela scampare. Gudrun Jonsdottir, trentaseienne impiegata islandese dice: «Ne ho avuto fin troppo di tutto ciò. Non ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, né nei partiti politici né nel Fondo Monetario Internazionale. Eravamo un bel paese e l’hanno rovinato.»

Un’altra eco: a Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio. Come in Islanda, i lèttoni sono allibiti dal rifiuto dei loro leader di prendersi alcuna responsabilità della crisi. Alla domanda fattagli da Bloomberg TV su cosa abbia causato la crisi, il ministro delle finanze della Lettonia ha scrollato le spalle dicendo: “Niente di speciale”.
Ma i problemi della Lettonia in realtà sono speciali: le politiche che permisero alla “Tigre Baltica” di crescere ad un tasso del 12% nel 2006 sono le stesse che stanno causando la violenta contrazione del 10% prevista per quest’anno: il denaro, liberato da tutti i paletti, va via tanto velocemente quanto viene, e grandi quantità di esso vengono dirottate verso le tasche dei politici. Non è un caso che molti dei casi disperati di oggi siano i “miracoli” di ieri.

Ma c’è qualcos’altro di argentinesco nell’aria. Nel 2001 i leader dell’Argentina risposero alla crisi con un pacchetto di austerità prescritto dal Fondo Monetario Internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli alla spesa, molti dei quali colpirono la sanità e l’istruzione. Questo si dimostrò un errore fatale. I sindacati organizzarono scioperi generali, gli insegnanti spostarono le loro lezioni nelle strade e le proteste non si fermarono più.

Questo stesso rifiuto dal basso di sostenere il peso maggiore della crisi unisce molte delle proteste odierne. In Lettonia molta della rabbia popolare si è rivolta contro le misure di austerità del governo: licenziamenti in massa, riduzione dei servizi pubblici e abbattimento dei salari nel settore pubblico; tutto per poter essere ideonei ad un prestito d’emergenza del Fondo Monetario Internazionale (no: non è cambiato niente). In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all’uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un bailout di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori siano ragionevoli. Allo stesso modo in Francia il recente sciopero generale – in parte innescato dal piano del presidente Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti – ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

Forse il maggiore filo conduttore di questa forte ribellione globale è il rigetto della logica delle “politiche straordinarie”: la frase coniata dal politico polacco Leszek Balcerowicz per descrivere come, nel corso di una crisi, i politici possono ignorare le regole legislative e precipitare verso “riforme” impopolari. Un trucco che ormai mostra le corde, come ha scoperto di recente il governo sudcoreano. A dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Spingendo le politiche a porte chiuse verso nuovi estremi, i parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani.

I rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento. Il voto è slittato, permettendo così un maggiore dibattito: una vittoria per un nuovo tipo di “politiche straordinarie”.

Qui in Canada la politica è marcatamente meno “stile YouTube”, tuttavia è stata sorprendentemente ricca di eventi. Ad ottobre il Partito Conservatore ha vinto le elezioni nazionali su una piattaforma poco ambiziosa. Sei settimane più tardi il nostro primo ministro conservatore, trovato il suo ideologo interiore, presenta una manovra che ha spogliato i lavoratori del settore pubblico del loro diritto di sciopero, che ha cancellato il finanziamento pubblico dei partiti e che non conteneva alcuno stimolo economico. I partiti di opposizione hanno risposto formando una storica coalizione a cui fu impedito di prendere il potere solo per una brusca sospensione del parlamento. I Conservatori sono appena ritornati con un piano di budget rivisto: le politiche di destra dapprima coltivate sono scomparse, ed ora il piano è infarcito di stimoli economici.

Il modello è chiaro: i governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola. Come gridavano gli studenti nelle piazze italiane: «Non pagheremo noi la vostra crisi!» (Beh, buona giornata).

traduzione di Paolo Maccioni per Megachip

Articolo originale:

http://www.thenation.com/doc/20090223/klein?rel=hp_currently
4 febbraio 2009

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Gli aiuti governativi al settore automobilistico sono uno spreco di risorse.

Rottamazione: chi ci guadagna?

di Paolo Manasse da lavoce.info

Il governo vara il piano di aiuti al settore automobilistico: circa 750 milioni. Ma un sussidio comporta uno spreco di risorse perché il prezzo pagato dal consumatore diventa inferiore al costo che la società sostiene per produrre il bene. Inoltre, se aumentano gli acquisti di auto diminuiscono quelli di altri beni. E i settori penalizzati si sentirebbero autorizzati ad avanzare richieste simili. In una rincorsa all’aiuto di Stato i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda e che potrebbe compromettere la sostenibilità del debito pubblico.

Dopo il crollo delle vendite di automobili registrato a gennaio (-32,6 per cento su base annua), anche il nostro governo, come quelli di Usa, Francia e Germania, sta predisponendo un piano di aiuti al settore. Si tratterebbe di circa 750 milioni di euro, destinati a finanziare un bonus-rottamazione di 1.000 o 2.000 euro per ciascuno acquisto, a seconda delle emissioni inquinanti dell’auto. L’obiettivo: arginare la perdita di posti di lavoro nel settore (300mila posti a rischio, a detta della presidente di Confindustria Emma Marcegaglia).

COSTI E BENEFICI DELL’AIUTO

Secondo il Centro Studi Promotor (Csp) di Bologna, l’operazione avverrebbe a costo zero: “(…) con l’erogazione di 1.500 euro per ogni acquisto (…) si può stimare che le persone che usufruiranno degli incentivi nel 2009 saranno 500mila di cui 300mila (…) gli acquisti indotti dal sussidio (…). Si può ipotizzare che le vetture acquistate in più abbiano un prezzo medio di 15mila euro e siano di conseguenza gravate di Iva mediamente per 2.500 euro. Ne consegue (…) che il maggior introito per l’Erario sarà pari al numero delle auto acquistate in più (300mila) moltiplicato per l’Iva media (2.500 euro)”. Cioè proprio i 750 milioni dell’esborso previsto.(1)
La teoria microeconomica suggerisce che un sussidio produce alcuni effetti sul settore interessato: 1. riduce il prezzo pagato dai consumatori, accrescendone la domanda; 2. aumenta il prezzo percepito dalle imprese produttrici, la quantità offerta e i profitti; 3. genera un esborso di denaro pubblico pari al sussidio unitario moltiplicato per le vendite. La cosa interessante è che quanto pagato dallo Stato eccede quanto ottenuto da consumatori e imprese. Un sussidio comporta cioè uno spreco di risorse (una “perdita secca”), e questo perché il sussidio fa sì che il prezzo pagato dal consumatore, che misura quanto egli valuti il bene, diventi inferiore al costo che la società sostiene per produrlo: la società utilizza in modo inefficiente le risorse. Dobbiamo poi tener conto anche di altre ripercussioni di carattere generale: 4.il sussidio genera nuovo gettito, dagli extra-profitti e dalle nuove vendite; 5. la domanda di altri beni durevoli cade: si comprano meno tv al plasma o lavatrici, e dunque cadono le entrate tributarie da queste fonti; 6. si riduce la domanda futura di auto perché il sussidio è temporaneo; 7. le lobby di altri settori hanno buone ragioni per battere cassa col governo, dichiarandosi altrettanto meritevoli nonché danneggiate.

SI APRE UN VASO DI PANDORA

Qual è, approssimativamente, l’ordine delle grandezze in gioco? Supponiamo che, a causa di capacità in eccesso, le imprese siano in grado di aumentare la produzione senza incorrere in aumenti di costo, e prendiamo per buone le previsioni, temo ottimistiche, del Csp circa l’aumento delle vendite ottenute da bonus (medio) di 1500 euro, le 300mila unità. Si ottiene che il sussidio comporta un onere diretto di 600 milioni e beneficia gli acquirenti di nuove auto per 420 milioni. (2)
Aggiungiamo poi le entrate addizionali dell’Iva sulle auto acquistate in più, e deduciamo le minori entrate fiscali sul minor consumo degli altri beni, in particolare quelli durevoli. La letteratura suggerisce che per ogni 100 euro di maggior spesa per un’auto di piccola-media cilindrata, se ne spendano tra i 25 e i 90 in meno per tutti gli altri beni, a cominciare da lavatrici, hi-fi e così via. (3)Nel primo caso, poco plausibile a causa della crisi e della restrizione del credito al consumo, gli oneri per il bilancio sarebbero bassi, 15 milioni, e la società ne trarrebbe un “guadagno netto” di 405 milioni (= 420 dei consumatori -15 di oneri per lo Stato). Nel secondo caso, temo molto più verosimile, gli oneri per il bilancio sarebbero ingenti, 522 milioni di euro, e la società avrebbe una perdita secca per 102 milioni di euro (522-420).
Resta poi l’argomento “strategico” che non sussidiare il settore automobilistico quando tutti gli altri paesi lo fanno danneggerebbe la nostra economia. Èlo stesso identico argomento usato per sostenere il protezionismo, e richiederebbe molto spazio. In breve, sprecare le risorse pubbliche non è consigliabile neppure se gli altri paesi lo fanno. Infine, il problema forse più serio del sussidio alla rottamazione (tralascio congestione, inquinamento acustico e dell’aria) è questo: con la misura si apre il vaso di pandora della corsa agli aiuti settoriali di Stato. Aiuti i cui effetti si neutralizzerebbero a vicenda, e che potrebbero compromettere, questi sì, la sostenibilità del debito pubblico. (Beh, buona giornata).

(1) http://www.tgcom.mediaset.it/tgfin/articoli/articolo440073.shtml
(2)Per i dettagli dei conti si veda il mio blog.
(3) Si veda Berry, Levinsohn e Pakes, “Automobile Prices in Market Equilibrium”, Econometrica, 1995, pp. 841-890.
(4) http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/auto_sostegno/cartella_stampa.pdf

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Mentre in Italia si blocca il Parlamento sul caso Englaro, nelle stesse ore in Europa si discute che fare per la crisi che ha tagliato 130 mila posti di lavoro e prodotto un crollo della produzione di 150 miliardi di euro.

(Fonte: corriere.it)

In Europa dall’inizio dell’ultimo trimestre del 2008 a tutto il mese di gennaio 2009 si sono persi 130.000 posti di lavoro nel settore industriale – soprattutto l’auto e il suo indotto – e in quello delle costruzioni. Due settori che nel corso dell’ultimo anno hanno fatto registrare un crollo della produzione pari a 150 miliardi di euro.

Sono le cifre contenute in un documento riservato della Commissione europea, anticipato dall’Ansa, che molto probabilmente sarà all’esame dei ministri finanziari europei che lunedì e martedì si ritroveranno a Bruxelles per le riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, chiamati a valutare quanto fatto per contrastare la crisi e quando fare in futuro. 

 La situazione nel settore dell’auto e in quello dell’indotto è «drammatica», anche per la persistente stretta creditizia che «colpisce particolarmente» non solo le case automobilistiche, ma anche il settore delle costruzioni. Nel documento si sottolinea come «la contrazione della produzione nel settore dell’industria automobilistica ha un immediato effetto negativo anche sull’occupazione nelle aziende dei fornitori».  Beh, buona giornata.

 

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Mettiamo in crisi la crisi.

Globalizzazione in crisi, partita aperta

 

di FRANCESCO PICCIONI*

 

     1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.

Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.

Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.

Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.

 

     2)  Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).

Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.

Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.

E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).

La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.

La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.

 

      3)  La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.

L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.

 

      4)  La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si  riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).

Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.

E’ la situazione che ci troviamo davanti.

 

5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.

La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.

Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati ­ troppo spesso retrivi ­ della riottosità nazionalista.

     

      6)  Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.

Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile ­ nell’intero periodo ­ nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).

La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.

 

7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.

Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.

Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano ­ sotto le vesti di venture capital ­ solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?

Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset).  L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.

La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.

 

     8)  La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.

La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.

C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.

     

      9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema. 

       10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure  questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.

    

      11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.

Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)

 

* giornalista economico del Il Manifesto

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

La riforma del modello contrattuale: il sindacato deve rappresentare gli interessi dei lavoratori presso le imprese o gli interessi delle imprese presso i lavoratori?

dichiarazione di Fabrizio Tomaselli

coordinatore nazionale SdL intercategoriale

 

La sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl dell’accordo quadro che riforma il modello contrattuale invigore apre un nuovo ciclo nelle relazioni sindacali in questo Paese.

L’intesa sancisce il passaggio dalla filosofia “concertativa” che ha caratterizzato l’azione sindacale di Cgil-Cisl e Uil negli ultimi due decenni, ad una letteralmente “collaborazionista”.

Finisce in soffitta il contratto nazionale unico di categoria e l’idea stessa di rivendicare condizioni

salariali almeno in linea con l’aumento del costo della vita. Il tutto a favore di un ipotetico secondo livello di contrattazione “differenziato” per posto di lavoro.

 

L’intesa prevede tra l’altro che i contratti abbiano durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa, ritardando di fatto il recupero salariale oggi fissato ogni 2 anni. Gli incrementi salariali saranno basati su un indice di inflazione prevista molto più bassa di quella reale e depurati dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati: la benzina potrà così schizzare alle stelle senza che il salario venga adeguato.

 

La produttività in più si trasformerà tutta in profitto per i padroni.

Siamo ben oltre la tradizionale politica della mediazione al ribasso tanto cara ai sindacati firmatari e anche alla Cgil! Il piano inclinato che tante volte abbiamo denunciato non poteva che portare a questa situazione. Le responsabilità della Cgil rispetto alla situazione con cui oggi ci troviamo a fare i conti sono enormi e sconcerta un po’ il risveglio “sorpreso” della Confederazione di Epifani se pensiamo al comportamento tenuto dalla stessa in Alitalia.

 

Il “modello CAI” – accordi separati firmati senza sentire il parere dei lavoratori e contro la volontà di organizzazioni sindacali fortemente rappresentative tra i lavoratori – viene riproposto oggi al livello di accordo quadro generale da Cisl, Uil e Ugl.

 

SdL intercategoriale non ci sta e continuerà la lotta già intrapresa con gli scioperi nazionali del 17 ottobre e del 12 dicembre 2008 per rivendicare veri aumenti salariali ed il ripristino della scala mobile. Non resta che …. rimboccarci le maniche ed opporci a quest’accordo! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Salute e benessere

Dall’inizio dell’anno 6 “senza tetto” sono morti a Milano. Ecco una ricerca sugli homeless in Italia.

SENZA TETTO, MA NON SENZA SPERANZA

di Michela Braga  e Lucia Corno da lavoce.info

Il 14 gennaio è stato effettuato a Milano il primo censimento dei senzatetto. La ricerca è stata realizzata grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini che due anni fa ci lasciava. A lui sono anche dedicati i Dossier Grazie Riccardo, Ricordando Riccardo e Riccardo, un anno dopo. Sono stati censiti quattromila adulti che dormono in strada, nei dormitori o in baraccopoli, campi nomadi ed edifici dismessi. E’ una popolazione estremamente variegata, ma con caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che aprono alla possibilità di politiche di reinserimento e non solo di mera assistenza.

Dopo la recente bolla del mercato immobiliare, che ha colpito progressivamente a macchia di leopardo i paesi su entrambe le sponde dell’oceano, il dibattito e l’attenzione sul tema della casa si sono fatti sempre più caldi. L’enfasi, tuttavia, è quasi sempre su chi già possiede una casa o, al più, è in procinto di acquistarla. Raramente, e solo nei mesi invernali, si parla di coloro che la casa non l’hanno: i senza tetto.
Sembra esserci un consenso unanime sul fatto che il possesso della casa debba essere un diritto acquisito in tutte le società sviluppate che davvero possano essere definite tali. Al contrario, proprio laddove la ricchezza è maggiore, questo diritto primario, che è alla base del vivere sociale, è spesso disatteso.
In Italia, la quota di popolazione che possiede una casa di proprietà è tra le più alte del mondo, oltre il 73 per cento: un dato che sembra far passare in secondo piano il problema dell’assenza di una casa tout court. In ambito accademico, a non accendere neppure il dibattito concorre il fatto che i dati affidabili sul fenomeno sono estremamente limitati a livello internazionale, e pressoché nulli in Italia.

LA DIMENSIONE DEL FENOMENO

Il primo censimento completo dei senza tetto in Italia è stato effettuato il 14 gennaio 2008, nel comune di Milano grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini promossa dall’Ere. In linea con la definizione internazionale, il censimento ha riguardato tutti coloro che nella notte di riferimento dormivano in luoghi non preposti all’abitazione. La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 nelle baraccopoli, campi nomadi o edifici dismessi. La distribuzione spaziale della popolazione mostra una maggior concentrazione  nel centro città ma una distribuzione regolare su tutto il territorio cittadino.  (Figura 1 e 2)
La sola quantificazione del fenomeno è già di per sé un risultato interessante. L’unico dato esistente in Italia, infatti, risaliva al 2001 e stimava una popolazione di 17mila persone sull’intero territorio nazionale, pari quindi allo 0,03 per cento della popolazione nazionale. L’assenza di dimora sembrava un fenomeno estremamente marginale e ben lontano dalle dimensioni assunte negli Stati Uniti, dove la quota di senza tetto sul totale della popolazione si attesta nell’ordine dello 0,2 – 0,3 per cento.

CHI SONO I SENZA TETTO?

Il secondo risultato interessante è quello connesso alle caratteristiche della popolazione, emerse dall’indagine condotta su un campione casuale di circa mille individui. I tratti distintivi sono, infatti, ben diversi da quelli dell’iconografia tradizionale del clochard come di un individuo che rifiuta il mondo e le sue convenzioni ed è pertanto completamente avulso dal tessuto dalle reti sociali.
La popolazione è prevalentemente composta da uomini nella parte centrale della vita. L’età media è 40 anni, ma ci sono differenze significative tra strada e dormitori rispetto alle aree dismesse, la cui popolazione è formata in egual misura da uomini e donne relativamente più giovani (30,7 anni).
Le persone relativamente più anziane tendono a preferire la strada ai dormitori. E ciò porta a riflettere su un aspetto non neutrale rispetto alle politiche di reinserimento. Se infatti, da un lato, la vita e la sopravvivenza in strada è più difficoltosa, una simile scelta da parte delle persone relativamente più anziane sembra suggerire che all’avanzare dell’età si è relativamente meno propensi ad accettare il grado di socialità e il rispetto di regole connesse alla residenza nei centri di accoglienza notturna.
Lo status di street homeless appare più cronico rispetto a quello di chi dorme nei centri di accoglienza notturna. In media, gli intervistati sono in strada in modo continuativo da 4,5 anni, mentre nei dormitori da 3,2 anni. Preoccupante è il livello di cronicità che si riscontra nelle aree dimesse, dove la permanenza continuata supera abbondantemente gli 8 anni. (1) La strada e le baraccopoli, perciò, rappresentano la forma più estrema di homelessness: dopo un periodo più o meno lungo di permanenza le difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale risultano maggiori.
La composizione etnica è variegata per effetto della netta maggioranza di stranieri (67 per cento) concentrati soprattutto nelle baraccopoli, mentre la quota scende al 60 per cento nei dormitori e al 44 per cento in strada. Le nazionalità di origine sono in linea con la popolazione straniera presente sul territorio nazionale e, per lo più, si tratta di immigrati di nuova generazione arrivati dopo il 2000.
Se gli italiani indicano come causa principale della loro situazione attuale problemi legati alle relazioni familiari e al mercato del lavoro, gli stranieri riconoscono nell’immigrazione con i connessi problemi di lingua, documenti, lavoro il motivo della mancanza di una casa. L’homelessness è quindi il punto di rottura di un percorso di vita per gli italiani: il risultato di un processo di impoverimento oggettivo progressivo i cui effetti si sommano a cause ed eventi di tipo soggettivo quali esperienze traumatiche, di tipo sia familiare (separazioni, lutti, abusi) sia istituzionale (problemi legali, mancanza di assistenza). Per gli immigrati, al contrario, l’assenza di una casa sembra essere accompagnata da un progetto migratorio, che consente di vivere in una condizione di privazione per un periodo di tempo sufficiente per realizzare i propri obiettivi e pervenire a un maggiore benessere.
La popolazione è mediamente istruita, con una quota non trascurabile di laureati (6 per cento), e attiva nel mercato del lavoro (74 per cento) (Tabella 1). Circa un terzo ha svolto un lavoro nell’ultimo mese. Di questi, oltre la metà ha operato nell’economia sommersa e non possiede alcun tipo di contratto, mentre circa un quarto ha contratti temporanei (Tabella 2).
La condizione di povertà materiale estrema non si riflette sul livello di conoscenza del tessuto sociale in cui i senza tetto vivono. Oltre il 57 per cento ha ascoltato un telegiornale o un radiogiornale il giorno della rilevazione, mentre il 15 per cento lo ha fatto al più nell’ultima settimana. Un’analoga proporzione si trova per la lettura di giornali (Tabella 1). Oltre i tre quarti degli intervistati sono informati sulla situazione politica del paese.

CHE COSA FARE?

Alla luce di questi risultati due riflessioni sono necessarie.
In relazione al quantum, sembrerebbe che il fenomeno sia notevolmente cresciuto negli ultimi anni anche in Italia. Usare il condizionale è d’obbligo poiché le metodologie di rilevazione adottate non consentono una perfetta comparabilità dei risultati.
La serietà del fenomeno è comprovata dal fatto che l’Unione Europea abbia incluso tra le priorità proprio l’individuazione di strategie tese ad aumentare la protezione e a favorire l’inclusione sociale di chi non possiede una casa.
Diventa quindi fondamentale la sistematicità e la periodicità delle rilevazioni sui senza tetto, al pari di quanto fatto con la popolazione generale. Solo se si hanno dati affidabili sul fenomeno, che consentano confronti intertemporali. è possibile attuare politiche pubbliche efficaci nel breve, ma soprattutto nel lungo periodo.
Realizzare sistemi integrati di rilevazione è meno difficile di quanto possa sembrare. La maggior parte delle realtà che operano con i senza tetto registrano quotidianamente informazioni sui loro utenti. In potenza, esiste quindi un patrimonio di dati amministrativi che se condiviso tra enti e messo al servizio della comunità scientifica consentirebbe di effettuare analisi più approfondite. Sarebbe sufficiente fissare poche linee guida e alcune direttive essenziali per creare banche dati da cui estrapolare le informazioni necessarie. (2)
Se si considerano invece i risultati qualitativi dell’indagine, emerge come l’homelessness non vada di pari passo con la hopelessness di reinserimento nel tessuto sociale. La popolazione è estremamente variegata, ma ha caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che sembrano suggerire la possibilità (e l’auspicabilità) del disegno di politiche di reinserimento piuttosto che di mera assistenza. Le politiche volte ad alleviare o attenuare il fenomeno, come gli interventi di emergenza e temporanei, sono sicuramente importanti, ma rischiano di accelerare fenomeni di cronicizzazione creando dipendenza: tanto è facile entrare nei circuiti di assistenza, quanto è difficile uscirne.
Viceversa, politiche di inclusione sociale che passino in primis dal mercato del lavoro e da quelo immobiliare, come interventi di supporto o di housing sociale, possono generare interessanti esternalità positive sulla società nel suo complesso e agevolare circoli virtuosi nel gruppo dei pari. (Beh, buona giornata).

Figura 1: La distribuzione spaziale dei senza tetto in strada (apri)

Figura 2: La distribuzione spaziale dei senza tetto nei centri di accoglienza (apri)

Tabella 1: La partecipazione al mercato del lavoro

  Tutto Maschi Femmine Italiani Stranieri
Tutto il campione 74.39 76.8 68.08 59.54 81.48
Strada 57.14 59.59 40.91 51.58 64.38
Dormitori 78.3 79.83 70.15 62.57 88.93
Aree dismesse 77.94 84.83 70.76 65.79 79.42

 

Tabella 2: La situazione contrattuale dei senza tetto attualmente occupati

  Tutto il campione Italiani Stranieri Strada Dormitori Aree dismesse
Contratto permanente 13.12 9.3 14.8 9.52 8.94 18.8
Contratto temporaneo 22.7 29.07 19.9 7.14 30.89 19.66
Non hanno un contratto 58.16 55.81 59.18 64.29 56.91 57.26
Non so 1.06 2.33 0.51 2.38 0.81 0.85
Non risponde 4.96 3.49 5.61 16.67 2.44 3.42

 

Tabella 3: Ultima volta in cui si è letto un quotidiano

  Tutto il campione Donne Uomini Italiani Stranieri
Oggi 56.22 31.92 65.49 64.59 52.2
1 settimana fa 14.24 20 12.04 10.49 16.04
1 mese fa 3.83 5 3.38 3.93 3.77
6 mesi fa 0.85 0.77 0.88 1.31 0.63
1 anno fa 0.11   0.15 0.33  
più di un anno fa 2.44 3.08 2.2 4.26 1.57
Mai letto un giornale 14.77 27.69 9.84 9.84 17.14
Non so 4.99 8.08 3.82 3.28 5.82
Non risponde 2.55 3.46 2.2 1.97 2.83

 
(1) La durata media è stata calcolata dal giorno di arrivo in strada/dormitorio/area dismessa al momento della survey. Quindi, non potendo osservare l’uscita dallo stato di homeless, il dato è sottostimato.
(2) Una metodologia informatizzata altamente sofisticata di questo tipo è l’Homeless Management Information System, utilizzata dal Department of Housing and Urban Development negli Stati Uniti su un campione di 80 città, in diverse aree geografiche del paese, che consente rilevazioni sistematiche cadenzate in modo regolare nel tempo.

PER SAPERNE DI PIU’:

Primo censimento dei senza dimora a Milano, Risultati preliminari e progetto di ricerca da www.frdb.it

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Oggi si insedia Barak Obama. Paul Krugman: “Signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale.”

di PAUL KRUGMAN da lastampa.it
Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l’America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all’economia, o ad argomenti che si basano sull’economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l’attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bush, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall’esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l’economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L’economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l’anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell’occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l’anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c’è niente, nei dati a disposizione o nella situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell’occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell’anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare lavoro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l’assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l’attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito – un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale – fermare questa catastrofe… L’ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell’amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C’è però una grande differenza tra l’approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell’amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All’inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l’amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l’economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Sì, Lei può. L’amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all’aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell’economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C’è bisogno di dare una sferzata all’economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l’economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l’ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l’anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l’anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l’anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca.

Migliori l’infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l’information technology nel settore della salute pubblica, un’area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d’elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l’investimento rispetto alle spese per l’infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d’impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l’8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un’economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l’America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l’America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall’altra si prese a carico la creazione di un’economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l’opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l’assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell’assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l’economia – le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l’ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L’assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l’economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos’altro: ha reso l’America una società borghese. Sotto FDR, l’America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l’ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l’America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un’epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell’economia, può mettere l’America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.(Beh, buona giornata).

*dalla lettera che il premio Nobel per l’Economia ha indirizzato al presidente Obama. Il testo integrale sarà pubblicato sul sito di «Rolling Stone Italia»

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Una nuova puntata del Brunetta-Show.

Il ministro Brunetta, come il Papa, parla molto volentieri di domenica. Stavolta si cimenta con la cassa integrazione, non perché sia il ministro del lavoro, ma perché lui è Brunetta, quindi esterna il suo pensiero su tutto quello che potrebbe metterlo in mostra, anche solo per un dispaccio d’agenzia.

Accade così che l’Agenzia Ansa batta la seguente notizia, ripresa da ilmessaggero.it: <La cassa integrazione non puo’ essere interpretata ‘solo come un reddito che consente un secondo lavoro in nero’, afferma Brunetta.Il ministro della Funzione Pubblica sottolinea che la cig e’ ‘una garanzia del lavoro perso. Bisogna responsabilizzare il lavoratore che, quando va in cassa integrazione, ha l’obbligo di riqualificarsi in modo da avere un’altra chance per un altro lavoro’>.

E Bravo Brunetta, bravo, bravo e bravo Brunetta (sulle note del jingle dello spot Palombini, quello cantato e suonato da Pippo Baudo). Però c’è un però: se un lavoratore viene pagato in nero, vuol dire che il datore di lavoro ha nero da gestire, e se ha nero da gestire, vuol dire che non paga, almeno in parte  le tasse. Insomma, è un fannullone del Fisco. Gli mettiamo i tornelli?  Alla prossima puntata del Brunetta-Show. Beh, buona giornata.

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Signore e signori, ecco a voi la crisi in tutto il suo splendore./2.

Il Pil italiano crollerà del 2% nel 2009 prima di risalire di appena lo 0,5% nel 2010. La previsione è della Banca d’Italia che segnala anche come “la dinamica del prodotto potrebbe essere ancora più negativa se prendessero corpo i rischi di un ulteriore indebolimento dell’economia mondiale”. Dal Bollettino economico di via Nazionale emerge un quadro a tinte fosche: la recessione è destinata ad approfondirsi e prolungarsi. Beh, buona giornata.

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