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Ma quale ottimismo, ma quale fine del peggio: la crisi uccide.

Tra Treviso e Padova, le storie di artigiani e manager travolti dall’incubo della crisi. E che dinanzi alle dure conseguenze hanno preferito togliersi la vita.Terzo imprenditore suicida in Veneto.Ossessionati dal dover licenziare
TREVISO – Temevano di dover licenziare. Per questo si sono uccisi. Sotto il treno, con una corda al collo o un colpo di pistola al cuore: hanno voluto cancellare l’incubo che non sopportavano più. In tre, da ottobre a oggi, tra Treviso e Padova, piccoli imprenditori, artigiani o manager. Dinanzi alll’imperativo di dover cacciare i loro dipendenti travolti dalla crisi economica, hanno preferito scomparire piuttosto che affrontare quello che ai loro occhi era un vero e proprio disonore, un tradimento della fiducia che le maestranze gli avevano concesso.

L’ultima vittima nel Veneto, è un dirigente d’azienda di 43 anni di Villorba, in provincia di Treviso. Stamane si è gettato sotto un treno in viaggio sulla linea Venezia-Bassano del Grappa, a Castello di Godego. A giorni avrebbe dovuto convocare i sindacati per annunciare la cassa integrazione. Non ha lasciato scritti per spiegare il suo gesto il manager, ma chi lo conosce bene non ha dubbi: lo ha ucciso lo stress di queste settimane, le trattative infinite con i rappresentanti sindacali, l’angoscia che la crisi avrebbe annullato l’azienda in cui lavorava.

Come è capitato ieri al titolare di una falegnameria a Lutrano, un paese non lontano da Treviso.
Cinquantotto anni, titolare di un’azienda di famiglia che porta il nome di suo padre e dei suoi fratelli, Walter Ongaro si è impiccato in un capannone della ditta. Era ossessionato dall’idea che la crisi che aveva colpito il settore, lo costringesse a dover lasciare a casa alcuni dei suoi otto dipendenti. Da gennaio gli ordini erano diminuiti e Walter aveva perso il sonno e l’angoscia di non avere alternative ai licenziamenti, lo ha spinto al suicidio.

La depressione per la crisi economica aveva gettato nel baratro anche un altro imprenditore padovano di 60 anni morto il 13 ottobre scorso con un colpo di pistola al petto. Corrado Ossana era preoccupato che qualcuno, con cui aveva contratto debiti, potesse far del male ai suoi figli. Vedovo da tempo, iscritto all’albo dei geometri, era riuscito a costruire un’attività affermata. Ma la crisi di questi mesi aveva peggiorato i suoi affari e dopo una domenica pomeriggio trascorsa chino sui conti che non riusciva più a far quadrare, ha puntato la canna della sua Smith&Wesson calibro 40 contro il cuore, e ha fatto fuoco. (Beh, buona giornata).

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Lavoro

E’ ufficiale: in Italia stipendi da fame.

Gli italiani incassano ogni anno uno stipendio che è tra i più bassi tra i Paesi Ocse. Con un salario netto di 21.374 dollari, l’Italia si colloca al 23/o posto della classifica dei 30 paesi dell’organizzazione di Parigi. Buste paga più pesanti non solo in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Grecia e Spagna. E’ quanto risulta dal rapporto Ocse sulla tassazione dei salari, aggiornato al 2008 e appena pubblicato.

La classifica riguarda il salario netto annuale di un lavoratore senza carichi di famiglia. E’ calcolato in dollari a parità di potere d’acquisto. Gli italiani guadagnano mediamente il 17% in meno della media Ocse. Salari italiani penalizzati anche se il raffronto viene fatto con la Ue a 15 (27.793 di media) e con la Ue a 19 (24.552). Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Per fronteggiare la crisi il governo italiano ha investito solo 0,2 del Pil. Ecco perché siamo nei guai fino al collo.

Manovre anti-crisi Italia fanalino di coda di LUCA IEZZI

La reazione c’è stata, ma il fiume di denaro pubblico già versato difficilmente basterà e sulla sua efficacia si sbilancia solo il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Khan: “I pacchetti fiscali forniranno da 1 e 3 punti percentuali in più alla crescita quest’anno”. I suoi economisti sono più dubbiosi: i paesi del G20 hanno sì stanziato il 2% del loro Pil nei pacchetti anti-crisi ma lo sforzo “dovrà essere sostenuto, se non aumentato nel 2010”. E lo stesso Strauss-Khan ammonisce: “Con le politiche fiscali c’è un tempo per la semina e uno per la raccolta, e le politiche espansive di oggi devono andare per mano con politiche rigorose domani”.

Sull’individuazione di quel “domani” il dibattito è aperto: i deficit 2009 esploderanno. Nella Ue la Spagna ha approvato una manovra pari al 2,3% del Pil di quest’anno, la Germania 1,6%, l’Inghilterra 1,4%, difficilmente potranno replicare. L’entità della scommessa appare evidente se si mettono in fila le cifre assolute dei piani per lo più triennali gli Stati Uniti fornirà all’economia 787 miliardi di dollari (620 miliardi di euro) tra questo e l’anno prossimo, senza contare gli oltre 700 stanziati nel 2008 per sostenere il sistema finanziario.

L’Unione Europea si è mossa in ordine sparso e ogni governo ha guardato alle crisi più pesanti nel proprio cortile (le banche per il Regno Unito, l’industria automobilistica per la Germania, la disoccupazione in Spagna e il debito pubblico in Italia), variando così ripartizione e entità di ogni dei singoli pacchetti. Sommati arrivano a 350 miliardi di euro spalmati in più anni, in cui vanno considerati anche lo sforzo messo a carico sul bilancio comunitario: 30 miliardi per progetti comunitari e 50 a sostegno dei paesi dell’Est europa.

Non mancano però i punti comuni che li rendono in qualche modo confrontabili: negli aiuti alle famiglie lo sforzo maggiore lo ha fatto la Germania con 20 miliardi di mancate entrate per la riduzione delle aliquote fiscali, segue la Spagna con 14 miliardi. Nella riduzione del peso fiscale per le imprese e nel sostegno ai flussi di credito testa a testa tra Spagna e Francia (17 a 16 miliardi). Negli investimenti in infrastrutture stravince le Germania (25 miliardi).

Discorso a parte per l’Italia, secondo l’Fmi solo lo 0,2% del Pil – poco meno di 2,8 miliardi e un decimo della media mondiale – è utilizzabile come stimolo: qualche modifica in corsa alla Finanziaria e i due miliardi del dl anti-crisi che ha incentivato gli acquisti di auto moto ed elettrodomestici. Il governo dichiara invece un pacchetto da 40 miliardi di cui 16 nel 2009. La spiegazione di tale discrepanza sta nella relazione del ministero del Tesoro (Ruef): “Il governo è intervenuto soprattutto anticipando l’approvazione della manovra a giugno. A settembre quando la crisi finanziaria si è rivelata nella sua gravità, pur prevedendo interventi sostanziali non ha alterato gli effetti della manovra” che prevedeva il taglio della spesa pubblica di 59,4 miliardi in 3 anni. Una scelta mai rinnegata e che zavorrerà la ripresa nazionale. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Il capo del governo dice che la crisi sta passando, la presidente di Confindustria dice che non è vero.

Marcegaglia spegne gli entusiasmi “Uscita da crisi? Lunga e dolorosa” Per gli industriali la crisi non può essere l’alibi per non fare riforme necessarie di ROBERTO MANIA-repubblica.it

La parola “depressione” per definire questa crisi economica, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria non l’aveva ancora usata. Forse in Italia non l’aveva pronunciata ancora nessuno. Ma questo è l’umore degli industriali a quattro giorni dall’Assemblea generale della Confindustria. D’altra parte è ancora fresco di inchiostro l’ultimo crollo del Pil con il timbro dell’Istat: -5,9%, il peggiore dal 1980. “Siamo in una crisi molto profonda, inedita e senza paragoni”, ha detto ieri il presidente di Viale dell’Astronomia. E poi: “E’ la peggiore dalla depressione del 1929 a oggi”. Con una differenza fondamentale rispetto a quella degli anni Trenta: l’intervento sufficientemente tempestivo dei governi a chiudere le falle. Dunque “anche se il peggio è alle spalle – ha detto Marcegaglia – la nostra percezione è che la strada per l’uscita dalla crisi sarà lunga, complicata e dolorosa per arrivare di nuovo ad un livello accettabile”. Crisi a L, direbbero gli esperti: con un Pil destinato a essere per lungo tempo stabile, ma fiacco, dopo aver toccato il fondo. Proprio come durante la Grande Depressione.

Così dell’analisi tendenzialmente rassicurante della coppia Berlusconi-Tremonti la Confindustria condivide di certo solo un aspetto: che il peggio è alle spalle, probabilmente. Bisogna riconoscere che non è molto. E lo si vedrà giovedì all’Auditorium di Renzo Piano a Roma all’appuntamento annuale più importante degli industriali: Marcegaglia chiederà al governo di cambiare registro. Perché non è vero che una volta usciti dalla crisi saremo più forti. Anzi. Se un ragionevole uso della leva finanziaria ci ha salvaguardati dal tracollo andato in onda in altri paesi, dagli anglo-sassoni alla Spagna, e se l’imprenditoria diffusa è ancora un fattore di forza per la nostra economia, senza il “coraggio” delle riforme strutturali rischiamo di andare (o rimanere) in serie B. Non ci si può scordare – è la tesi degli industriali – che da anni – ben prima della crisi dei subprime – l’economia italiana cresceva a tassi inferiori a tutti i suoi concorrenti.

Riforme, allora, per ridurre il peso della spesa pubblica (già oltre il 50 per cento del nostro Pil), fluidificare i processi decisionali, ammodernare le istituzioni, chiudere la stagione dello statalismo municipale e far fare un passo indietro all’invadenza della politica. Insomma, previdenza e liberalizzazioni sono in cima alla lista confindustriale. Questo – secondo Marcegaglia – è il momento di sfidare l’impopolarità, l’ostracismo e i veti delle lobby. Anziché fissare costantemente l’asticella del termometro del consenso. “E’ il momento di fare”, dirà la Marcegaglia proprio a Berlusconi. Il che non vuol dire – spiegano a Viale dell’Astronomia gli uomini dello staff che stanno limando il discorso del presidente – una bocciatura dell’azione di governo: vuol dire che bisogna fare di più. Molto di più. Perché la crisi non deve rappresentare l’alibi dell’immobilismo sulle pensioni, sugli sprechi nella sanità (soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno), sulle carenze infrastrutturali, sulle politiche ambientali ed energetiche. Non sarà una bocciatura, ma nemmeno una promozione per il primo anno di legislatura del governo Pdl-Lega.

La Confindustria, insomma, si aspettava di più.
Intanto chiede alla pubblica amministrazione di pagare subito i crediti alle imprese (in particolare quelle di piccole dimensioni) che continuano ad avere difficoltà ad accedere ai finanziamenti bancari. All’appello – secondo le stime degli imprenditori – mancano dai 60 ai 70 miliardi, mentre Tremonti è disposto a non andare oltre 30 miliardi di euro. Perché con un Pil che non sale e una spesa che non scende anche il controllo del deficit è molto a rischio. E non basta l’ottimismo. (Beh,buona giornata).

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“In Francia gli operai sequestrano i manager, in Italia tre manager hanno sequestrato la vita di 20.000 lavoratori Alitalia.”

dal comunicato stampa di Segreteria Nazionale SdL Intercategoriale – Trasporto Aereo

Le notizie che cominciano a trapelare dalla stampa rispetto alle indagini della Procura della Repubblica sulle responsabilità dei precedenti Amministratori Delegati di Alitalia, Mengozzi, Zanichelli e Cimoli sul crack Alitalia, riaccendono finalmente la luce sulle vere cause che hanno rovinato il lavoro di 20.000 persone dipendenti dell’ex- Compagnia di Bandiera.
Altro che i privilegi delle maestranze, triste strumentalizzazione che abbiamo dovuto subire durante l’ultima vertenza: il disastro che ha depauperato un patrimonio industriale, professionale e umano dell’intero Gruppo Alitalia ha avuto ben altre origini.

Dobbiamo dire che tutta la serie impressionante di valutazioni negative e di pubbliche denuncie fatte dalla nostra Organizzazione Sindacale rispetto alla gestione di Alitalia durante il periodo di che va dal 2001 al Commissariamento del 2009, non solo non hanno trovato il dovuto ascolto, ma hanno addirittura provocato la reazione degli stessi dirigenti in termini di discriminazione ed emarginazione sindacale di SdL.

Alla fine, il conto è stato lasciato sulle spalle dei lavoratori e dell’intera collettività.
E’ compito della magistratura fare le indagini e determinare le possibili responsabilità, ma fin d’ora annunciamo che SdL si costituirà parte civile nell’eventuale processo che si venisse a determinare nel caso fossero confermate le prime indiscrezioni.

Ciò non lenisce i problemi che assunti in CAI, cassaintegrati e precari stanno vivendo sulla loro pelle a causa del fallimento di Alitalia, ma l’individuazione delle vere responsabilità di chi ha guidato l’Azienda, percependo tra l’altro lauti stipendi, potrebbe evidenziare ulteriormente l’iniquità dell’intero processo subito da 20.000 persone, oltre a rappresentare un atto di dovuta chiarezza e giustizia verso l’intera Nazione. (Beh, buona giornata).
14 maggio 2009

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democrazia Lavoro Popoli e politiche

Libertà, giustizia, uguaglianza: “Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato.”

di Eric Hobsbawm – «The Guardian»- megachip.info

Qualunque logotipo ideologico adottiamo, lo spostamento dal mercato libero all’azione pubblica dovrà essere molto maggiore di quanto i politici immaginano.

Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere così difficile come sembra, dato che l’idea fondamentale che ha dominato l’economia e la politica nel secolo scorso è scomparsa, chiaramente, nel tubo di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le moderne economie industriali -in realtà tutte le economie-, in termini di due opposti che si escludevano reciprocamente: capitalismo o socialismo.

Abbiamo vissuto due tentativi pratici di realizzare entrambi i sistemi nella loro forma pura: da un lato le economie a pianificazione statale, centralizzate, di tipo sovietico; dall’altro l’economia capitalista a mercato libero esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni ’80, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni ’30 ad oggi. Per certi versi è una crisi più profonda di quella, nella misura in cui la globalizzazione dell’economia non era a quei tempi così sviluppata come oggi e la crisi non colpì l’economia pianificata dell’Unione Sovietica. Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell’epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

L’impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese; sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste dove il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati in un modo o nell’altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare a quelli di sinistra.

Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico, non solo per le loro carenze politiche ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie, anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative. D’altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l’anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e moderati di sinistra dei Paesi del capitalismo del Nord e dell’Australasia si erano impegnati sempre di più nel successo del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell’URSS ad oggi non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come una cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il nuovo laburismo britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all’ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito Democratico degli Stati Uniti.

L’idea fondamentale del nuovo Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si poteva aver fiducia che il sistema capitalista facesse fiorire e generare più ricchezza di qualsiasi altro sistema. I socialisti non dovevano fare altro che garantire una distribuzione egualitaria. Ma a partire dal 1970 la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Partito Laburista britannico, e per la verità alle politiche di aiuto e sostegno di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ‘80, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco, cosa che era una possibilità reale, dovesse mettersi al passo con i tempi.

Ma non fu così. Sotto l’impatto di quello che vedeva come la rivitalizzazione economica thatcherista, il New Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l’ideologia, o piuttosto la teologia, del fondamentalismo del mercato libero globale. Il Regno Unito deregolamentò i suoi mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l’esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla sua trasformazione in centro mondiale dei servizi finanziari, e di conseguenza in paradiso dei riciclatori multimilionari di denaro. Così l’impatto attuale della crisi mondiale sulla sterlina e l’economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello su ogni altra economia occidentale e questo renderà la guarigione più difficile.

E’ possibile affermare che ormai tutto questo è acqua passata. Che siamo liberi di tornare all’economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione -compresa la nazionalizzazione-, così che non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo questi attrezzi che il New Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Comunque questa idea fa pensare che sappiamo come usare questi attrezzi. Non è così.

Da un lato non sappiamo come superare l’attuale crisi. Non c’è nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: tutti questi sono come un cieco che cercasse di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con bastoni di ogni tipo nella speranza di trovare la via d’uscita.

Dall’altro lato sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere gli hanno regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l’impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore e più efficace di fare le cose? O che l’organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero essere i modelli anche per la funzione pubblica, l’educazione e la ricerca? O che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempre che tutti gli altri -eccetto una minoranza di poveri- stiano un po’ meglio? O che quello di cui ha bisogno un Paese, in qualsiasi caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che abbiano superato tutto questo.

Comunque una politica progressista richiede qualcosa in più di una rottura più netta con i principi economici e morali degli ultimi 30 anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l’abbondanza che comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone.

Prendiamo il caso di Londra. E’ evidente che a tutti noi importa che l’economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell’enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del PIL britannico, ma come questo ha influito sulle vite dei milioni di persone che vivono e lavorano lì. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere lì? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o nella realtà un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti da tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle. Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non si compensa con il fatto che le Università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.

La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non solo importa l’aumento del reddito e del consumo dei privati ma l’ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen, delle capabilities -capacità- di tutti per mezzo dell’azione collettiva. Ma questo significa -deve significare- iniziativa pubblica senza fini di profitto, neanche se fosse solo per redistribuire l’accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale.

In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell’ambiente. Qualsiasi logotipo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all’azione pubblica, un cambiamento più grande di quello proposto dal governo britannico.

E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte. (Beh, buona giornata).

Tradotto per Senzasoste da Andrea Grillo

Eric Hobsbawm (1917), storico e accademico britannico. È presidente del Birbeck College dell’Università di Londra, e autore di numerose opere di storia contemporanea, la prima delle quali è stata Primitive Rebels: studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries (1962). E, tra le altre,The Age of Revolution: Europe 1789-1848, The Age of Capital: 1848-1875, The age of extremes 1914-1991, etc. La sua pubblicazione più recente è On Empire: America, War, and Global Supremacy (2008). [da «MicroMega»].

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L’Italia nella crisi:”sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno.”

Censis: colpiti dalla crisi la metà degli italiani, il 60% riduce i consumi-sole24ore.com
La crisi ha avuto «ripercussioni significative» su un italiano su due, ma ha consentito ai consumatori di «fare pace con l’euro».

Sono le conclusioni a cui arriva la quarta e ultima edizione del “Diario della crisi”, redatto dal Censis, secondo il quale il 47,6% degli italiani è stato «toccato concretamente» dalle difficoltà economiche, «anche se con intensità differenti: quasi il 40% ha subito perdite nei propri investimenti, mentre il 30% ha subito una riduzione del reddito». Allo stesso tempo, «circa il 60% ha cercato di ridurre i consumi, senza grandi differenze tra chi è intervenuto sulle spese in generale e chi solo su quelle voluttuarie», mentre si è ridotta ulteriormente la già modesta tendenza ad indebitarsi: il ricorso al credito al consumo è infatti sceso del 10% nei primi tre mesi dell’anno rispetto al 2008.

Il Censis sottolinea però che «uno degli effetti più imprevedibili della crisi è quello di aver avviato una fase meno risentita nel rapporto tra gli italiani e la moneta unica europea». In particolare, «il mondo dei salariati a reddito fisso ha conosciuto una piccola rivincita su tutti coloro che erano riusciti a speculare con l’euro. Grazie ad un’inflazione sostanzialmente ferma, al calo dei mutui e dei prezzi del carburante, vi è stato un recupero del potere d’acquisto di questa categoria».

Nonostante ciò, rimarca ancora il Censis, al momento resta «la confusione del ceto medio», che sta pagando la fine delle certezze passate, come la crescita costante, il welfare e la sicurezza del lavoro «specialmente per i figli». Secondo l’istituto di ricerca, «sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno». Una paura ancora forte, tanto che per il 68,3% degli intervistati «non è affatto vero che ormai abbiamo toccato il fondo». Per il 55% degli italiani «il soggetto pubblico non ha fatto qualcosa di concreto per famiglie e imprese», il 15% dei cittadini ha mostrato apprezzamento per il lavoro svolto da Comuni, Province e Regioni. (Beh, buona giornata).

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L’Italia e la crisi economica:”nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere.”

Bersani, ecco le domande che nessuno fa mai alla destra di Bianca Di Giovanni -l’Unità
«E’ un governo più impegnato ad accrescere consensi che a risolvere i problemi veri. Passa per il governo del fare? Certo, nessuno pone le domande giuste e nessuno pretende risposte vere». Pier Luigi Bersani dà un giudizio senza appello sul primo anno del governo Berlusconi quater. Detto in due parole: racconta favole. Evidentemente, però, le racconta bene, visto che la popolarità è in aumento (dicono). «Certo, questo è un governo nato per accrescere consenso: è la sua prima missione», spiega Bersani.

Quali sono le domande non fatte?

«Per esempio nessuno ha chiesto a Giulio Tremonti e colleghi come mai l’Europa parla di un milione di disoccupati in più in Italia per quest’anno (nelle previsioni di primavera, ndr) che non compaiono nella sua Relazione unificata. Gran parte di quei nuovi disoccupati è costituita da precari, a cui non è stato dato nulla. Altro che governo del fare. Nella stessa Relazione si stima che gli investimenti diminuiranno di 5 miliardi in un anno. E tutte le chiacchiere sulle infrastrutture e le promesse sul Ponte?».

Altre domande?

«Ci aspettiamo qualche risposta per esempio sulle garanzie date dal Tesoro sull’operazione Alitalia, in cui sono rimasti intrappolati piccoli azionisti e obbligazionisti che ora si ritrovano con un pugno di mosche in mano. Ancora: c’è qualcuno che ricordi a Tremonti che abbiamo speso 1,7 miliardi per coprire i “buchi” delle sue cartolarizzazioni? È più di quanto è costato il bonus famiglie. E qualcun altro che rammenti le perdite della finanza locale, avviata grazie a una circolare del Tesoro dell’altro governo Berlusconi? Nessuno ricorda nulla. D’altro canto questo governo è una macchina del consenso, per cui bisogna ogni giorno attivare un meccanismo di rappresentazione di nuove “conquiste”, che poi si perdono».

Cosa si è perso?

«Dov’è finito il maestro unico, su cui si scatenò all’inizio una guerra di religione? Dov’è l’esercito nelle strade? Dove sono i Tremonti bond? Lo sa la gente che li ha richiesti solo in una banca, il banco popolare? Cosa fanno esattamente i prefetti sul credito? Nessuno lo sa e nessuno vuole saperlo».

Insomma, con la crisi che morde, i problemi sociali, gli italiani crederebbero alle favole?

«Dopo gli ultimi fatti di cronaca su Veronica, consentitemi di dire che ci raccontano cose inverosimili e vogliono farcele credere. Non voglio parlare di divorzi, ma si sentono delle tesi sulle feste, l’arrivo all’ultimo minuto, il gioiello ritrovato per caso, che in altri paesi ci si vergognerebbe pure a raccontarle».

Resta il fatto che di fronte alla crisi (che è reale) il centrodestra non perde consensi.

«La loro tesi è che la crisi viene da altrove, che noi siamo solo delle vittime e dobbiamo resistere e dunque che non si può fare molto. Su questo comunque io andrei a contare i voti reali dopo le elezioni. Se si fa questo esercizio ci si accorge che Berlusconi non ha mai sfondato nell’altro campo. Quello che è riuscito a fare è rendere utilizzabile tutto il voto di destra del paese. Quando il centrosinistra si è unito, è riuscito a batterlo, ma poi si è visto che l’unità era una composizione piuttosto che una sintesi. Questo è il problema».

Non c’entra nulla la poca credibilità dell’opposizione?

«Anche noi ci abbiamo messo del nostro, rimanendo poco credibili sul come si costruisce un’alternativa. Dobbiamo lavorare a costruire e rilanciare un progetto».

Lei è ancora candidato alla segreteria?

«Su questo ho già parlato e non voglio aggiungere altro. Ora pensiamo alle elezioni, poi si vedrà».

Sul centrosinistra resta forte l’accusa di non saper leggere la realtà. Il Corsera scrive che ha bisogno di alfabetizzarsi per parlare alle partite Iva e alle piccole imprese.

«Le piccole imprese sono arrabbiatissime anche con la destra, che non le aiuta a superare la crisi. Mi pare che lo scriva proprio il Corsera. Dunque non mi pare che sia un fatto di alfabetizzazione. La verità è quella che il centrosinistra ripete ormai da mesi: noi siamo l’unico Paese che non ha fatto nulla di espansivo per fronteggiare l’emergenza, ma si è limitato a spostare fondi da una voce all’altra, per di più senza avere la cassa. Si impacchettano nuove voci di spesa, per l’Abruzzo o per la sicurezza, ma in cassa non c’è un euro».

Le preoccupazioni di Tremonti per il debito sono sacrosante.

«E lo dice a noi che abbiamo sempre rimediato al debito della destra? Ma correggere il debito vuol dire anche far crescere il Pil».

Questo lo dicevano loro quando facevano ancora i liberisti.

«Sì, ma loro giocavano con i numeri. Spargevano ottimismo e scrivevano una crescita del 3% quando il Pil era a 1. Noi proponiamo misure concrete per un punto di Pil e un percorso di rientro in due anni. Se non si sa come reperire mezzo punto di Pil in un anno, significa che non si sa governare. Il governo Prodi ha corretto il deficit dal 4,5% al 2,7% erogando anche il cuneo fiscale. Per rientrare di mezzo punto basta diminuire la circolazione del contante rendendo tracciabili i pagamenti e controllare meglio la spesa corrente».

Perché il centrosinistra ha proposto il prelievo sull’Irpef dei ricchi (che sono più poveri comunque degli evasori) e nulla sulle rendite?

«La proposta era di un contributo straordinario per la povertà estrema, e prevedeva anche misure contro l’evasione. Quanto alle rendite, abbiamo contrastato la seconda operazione Ici, dicendo chiaramente che non andava fatta». (Beh, buona giornata).

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Accordo Fiat-Opel: si chiude Termini Imerese e si apre in Serbia?

di Diodato Pirone-ilmessaggero.it
«Non è la possibile fusione Fiat-Opel a sconvolgere il mercato dell’auto. E’ la crisi mondiale che sta scuotendo tutto. Opel ha perso quasi 1,5 miliardi nei primi tre mesi del 2009 e se persino Toyota vende un milone di auto in meno nel mondo vuol dire che chi sta fermo è perduto». Parla così una fonte vicina alla trattativa Fiat-Opel per tentare di diradare un po’ del polverone che avvolge il parto travagliato del nuovo polo europeo dell’auto.

Ma che cosa comporta la Grande Ristrutturazione Globale sul fronte del lavoro? Marchionne lo ha scritto nel Piano Fenice alla base del progetto di fusione Fiat-Opel: la capacità produttiva va ridotta del 22% perché tenere aperte linee di produzione inutilizzate fa esplodere i costi. Per questo da anni l’amministratore delegato di Fiat predica la creazione di grandi stabilimenti da 4-500 mila auto annue. L’ultimo tentativo per costruirne uno nuovo in Italia è fallito a inizio 2008 quando Marchionne si arrese di fronte all’impossibilità (perché bisognava costruire un porto e per mille intoppi politici, sindacali e burocratici) di raddoppiare la fabbrica di Termini Imerese, in Sicilia. E così la nuova auto per Termini, la Topolino con motore bicilindrico, con ogni probabilità sarà battezzata in Serbia dove Fiat, con fondi del governo di Belgrado, sta costruendo una fabbrica extra-large.

Poi è arrivata la Grande Crisi e la cassa integrazione a valanga. Da ottobre i 1.600 operai di Termini (e i 400 dell’indotto) sono stati fermi per 5 mesi. Nel 2008 hanno fabbricato oltre 150 mila Lancia Ypsilon contro le 70-80 mila previste per quest’anno: Termini assomiglia, di fatto, a un morto che cammina anche se fabbricherà Ypsilon fino a tutto il 2010.

E dopo? Il Piano Fenice ne ipotizza la riconversione nella produzione di componenti. Così come riconversioni o chiusure – anche se gli uomini di Marchionne giurano di non aver mai scritto questo termine – toccheranno in tutt’Europa gli anelli più deboli della catena Opel: Luton, in Gran Bretagna, da cui fino al 2012 usciranno furgoni ”cofirmati” da Renault; Graz, in Austria che fa trasmissioni; Anversa, in Belgio, troppo vecchio; Kaiserslautern, in Germania, meno efficiente nella motoristica rispetto all’impianto polacco di Bielsko-Biala che Fiat e Opel già condividono.

In questo quadro anche l’Italia paga un prezzo: di Termini s’è detto. Poi non è definita la missione dell’enorme fabbrica di Pomigliano (350 mila metri quadri coperti) che prima della crisi assemblava 250 mila Alfa Romeo ridotte a meno di 100 mila quest’anno. Resta da capire chi farà (e dove) la ricerca e qui anche Torino rischia di perdere qualche pennacchio.

L’incredibile è che se Fiat-Opel non dovesse nascere le cose potrebbero andare anche peggio. In questo caso lo scheletro dell’industria automobilistica europeo potrebbe fratturarsi in più punti. Per questo ieri Karl-Theodor zu Guttenberg, il giovane ministro dello Sviluppo Economico della Germania, ha ripetuto pari pari una frase cara a Sergio Marchionne: «E’ l’Europa che deve risolvere il problema Opel». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Come “non” si sta uscendo dalla crisi finanziaria.

di CARLO CLERICETTI da repubblica.it

Dopo che si è saputo ufficiosamente che la Bank of America avrebbe avuto bisogno di altri 35 miliardi di dollari di ricapitalizzazione – dopo i 45 già ottenuti – all’apertura di Wall Street il titolo, invece di crollare come ci si sarebbe aspettati, si è impennato del 12% ed ha poi chiuso con un guadagno di oltre il 17%. Altrettanto cospicui rialzi (Citigroup 16,6%, Wells Fargo 15,6) hanno fatto segnare le altre banche che, secondo le anticipazioni dello “stress test” a cui le hanno sottoposte le autorità monetarie, avranno anch’esse bisogno di un’altra montagna di soldi per evitare il fallimento. Un altro segno del completo impazzimento del mercato? Sì, e anche no. Il motivo, per quanto paradossale, di questo andamento sta nel fatto che gli analisti ritenevano che di soldi ne servissero ancora di più, nel caso di Bank of America almeno il doppio. E dunque tutti hanno considerato la notizia una bella sorpresa.

Delle numerose follie che hanno portato alla crisi globale e di come venirne fuori hanno parlato martedì scorso quattro esperti d’eccezione, nel corso della Fixing Finance Conference organizzata dall’Abi. Il Nobel per l’economia Jo Stiglitz, Rainer Masera, banchiere di lungo corso ed ex ministro dopo essere stato molti anni ai vertici di Via Nazionale, Luigi Spaventa, uno dei più autorevoli economisti italiani e – tra l’altro – ex presidente della Consob e Giuseppe Zadra, direttore dell’associazione bancaria, che ha introdotto il dibattito.

Quella di Stiglitz, già consigliere di Bill Clinton e da anni feroce critico degli eccezzi del liberismo e della finanziarizzazione, più che un’analisi economica è stata un’orazione accusatoria. “Il sistema finanziario avrebbe dovuto gestire i rischi, invece li ha creati. Avrebbe dovuto finanziare le imprese, invece impiegava i capitali nei mutui subprime. Andava a caccia dei soldi dei più poveri con prestiti predatori. E la malattia ha contagiato anche le aziende, che impiegavano più di un terzo dei profitti nel settore finanziario invece che per svilupparsi”.

La crescita della disuguaglianza nel reddito (“oggi ce n’è più che nel ’29”) ha influito negativamente sulla domanda aggregata, resa insufficiente – e qui la tesi di Stglitz appare piuttosto sorprendente – anche dal comportamento dei paesi del Far East, che, scottati dalla crisi del ’97, hanno cominciato ad accumulare riserve sottraendo risorse allo sviluppo. Poi l’economista ha fatto a fette i vari piani di salvataggio Usa, sia i due di Hank Paulson (il segretario al Tesoro di Bush), sia quello attuale di Tim Geithner. “Finora sono stati iniettati nel sistema 7 trilioni di dollari, ma è stato confuso il salvataggio delle banche con quello dei banchieri”. Un bell’esempio, ha detto con pesante ironia, di “socialismo all’americana”, in cui lo Stato redistribuisce i soldi dai meno abbienti ai ricchi. Dalla crisi, ha concluso, si esce tornando a considerare la finanza un mezzo per finanziare gli impieghi produttivi. E basta con le banche così grandi che, se falliscono, trascinano nel disastro l’intera economia: serve una nuova legge antitrust che imponga loro una riduzione delle dimensioni.

Più tecniche le ricette di Rainer Masera, che ha fatto parte del gruppo di otto saggi presieduto dall’ex governatore francese Jacques de Larosière che ha presentato a metà marzo le sue proposte di riforma. Masera ha insistito sull’importanza che la vigilanza “micro” (cioè quella attuale sugli operatori finanziari) sia affiancata da una “macro”, cioè sui rischi sistemici, che andrebbe affidata alla Bce, mentre l’altra resterebbe alle banche centrali nazionali. L’istituto di Francoforte vorrebbe invece poteri diretti anche sui gruppi di dimensione europea, ma “i 25 maggiori gruppi possiedono i tre quarti degli asset europei”, ha osservato Masera, obiettando implicitamente che in questo modo si svuoterebbe il ruolo delle banche centrali dei vari paesi.

Da cambiare anche l’accordo “Basilea 2”, che ha stabilito le nuove regole internazionali per le banche. Rispettando quei criteri, per esempio, l’Ubs, a fronte di mezzi propri per 40 miliardi di franchi svizzeri, aveva impieghi per 1,7 trilioni. Servono inoltre una serie di provvedimenti per ridimensionare il ruolo e controllare le agenzie di rating, che hanno mostrato ancora una volta una scarsissima attendibilità. Quanto alle ultime stime del Fondo monetario sugli asset “tossici” in circolazione, Masera ha detto con franchezza che le ritiene sbagliate per eccesso. “Si parla di oltre 4 trilioni di cui 2,7 in possesso delle banche. Finora quelli emersi sono 1,2 trilioni: non mi pare credibile che ce ne siano altrettanti”. Per risolvere il problema servirebbe comunque un piano europeo simile a quello Geithner, considerando che “per molti asset è possibile una rivalutazione”.

Anche Spaventa considera determinante agire su questo fronte. “L’immissione di grandi quantità di liquidità è stata essenziale, ma non decisiva, perché la causa di fondo è il deprezzamento senza limiti di grandi quantità di titoli”. D’altronde Spaventa è un po’ il padre della “bad bank”, cioè di una società creata appositamente per liberare le banche dai titoli-zavorra, che propose con un articolo sul Financial Times ancora ai tempi dell’amministrazione Bush. L’economista ha anche messo in guardia sui rischi che i piani di salvataggio, pur necessari, stanno creando per il futuro. “In sei mesi l’attivo della Fed è salito di due volte e mezza. Si sta sostituendo indebitamento pubblico a quello privato, ma questo allontana l’obiettivo di un riequilibrio strutturale”. La riforma del sistema finanziario, in estrema sintesi, dovrà prevedere: più capitalizzazione; riduzione dell'”effetto leva”; un’attenta vigilanza di stabilità; una vigilanza estesa a tutti i soggetti, anche non-banche, visto che proprio in questo sistema finanziario ombra si sono create le condizioni a un certo punto esplose nella crisi. “Ma poi servono le istituzioni per sorvegliare le regole”, ha concluso.

L’impressione che è emersa dal dibattito rafforza quella che già alcuni avevano prima che scoppiasse la crisi. Non solo la finanza, ma tutta l’economia almeno negli ultimi due decenni ha giocato alla roulette russa, infischiandosene degli alti rischi perché intanto i guadagni – per un numero limitato di giocatori, ma quelli che contavano – erano enormi. “Ho visto con un certo sgomento – ha detto Giuseppe Zadra – adottare il sistema del fair value”. Detto alla grossa, è quello per cui ai titoli in portafoglio si attribuisce un valore stimato dallo stesso soggetto che lo detiene. “Si buttavano all’aria 600 anni di principi della contabilità”. E poi la spasmodica “ricerca di rendimenti da parte degli investitori istituzionali”, che li spingeva ad assumere rischi eccessivi. Già, investitori sempre più numerosi, in una fase storica di progressivo aumento della privatizzazione dei sistema previdenziali. Il tutto in nome dell’assunto ideologico che il mercato è sempre e comunque il sistema più efficiente e che per assioma “si autoregola”. Beh, si è visto che le cose non vanno esattamente in questo modo. (Beh, buona giornata)

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Alitalia: nuova compagnia, vecchi problemi.

Disservizi, ritardi, organici largamente insufficienti. Ma «conti migliori del previsto».
Intervista a Paolo Maras (segretario SdL) «Il peggio deve ancora venire: Cai è un modello contro i diritti del lavoro» di Francesco Piccioni-Il Manifesto

Ritardi, manutenzione incerta, disservizi, carenza di organico. Alitalia torna in prima pagina, ma con i conti – spiega il socio di riferimento, Jean-Cyril Spinetta, presidente di air France – «al di sopra delle attese». Ne parliamo con Paolo Maras, segretario nazionale dell’SdL- trasporto aereo, steward ora in cassa integrazione.

Quanti problemi ha la «nuova» Alitalia?

Che si faccia il bilancio dei primi 100 giorni è doveroso, ma era già noto che i problemi principali – ritardi, inefficienze, organici e condizioni del lavoro – fossero irrisolti. Non a caso avevamo sempre detto che attraverso questa operazione non passa solo la trasformazione da Alitalia a Cai, ma un treno micidiale addosso a diritti, conquiste, condizioni di lavoro. E anche una visione diversa da quella di una compagnia di bandiera, che presuppone comunque un interesse dello Stato nel garantire servizi ai cittadini. Oggi vediamo anche Formigoni e Castelli strapparsi i capelli per Malpensa, dove non funzione più nulla e i passeggeri rimangono a terra. Certo, se gli organici sono insufficienti, sia a bordo che a terra, succede questo.

Eppure si era detto che si voleva creare una compagnia grande, forte e «italiana».

Fin dall’inizio l’obiettivo era di tenere bassissimi i costi e il personale ridotto all’osso, confezionando un pacchetto appetibile per il migliore offerente. Che in Cai sappiamo essere «mister 25%», ovvero Air France. Che ora dice – traduco – «come fate a ottenere risultati superiori alle aspettative»? In Francia sequestrano i manager, qui avete distrutto sindacato e lavoratori e nessuno dice niente…

Previsioni fosche per i vostri colleghi francesi…

Appunto. In secondo luogo, Spinetta ha sollevato la politica italiana e il governo (quello che diceva «ai francesi, mai») da ogni responsabilità per la cattiva gestione precedente alla vendita. L’unico «colpevole» è stato trovato nel sindacato. Tutti, senza eccezione. Noi siamo convinti che il peggio debba ancora arrivare. Il «problema Alitalia» non c’è più, come la monnezza napoletana. Ma se si pensa che deve ancora la fusione effettiva tra le cinque aziende che compongono oggi la nuova Alitalia, è facile prevedere nuovi «esuberi» causati da queste sinergie.

Ma se già ora nell’«operativo» gli addetti sono pochi…

Se una macchina che ha bisogno di quattro assistenti di volo la fai partire con soltanto due, la legge della «sinergia » funziona anche in quel caso. I numeri delle assunzioni fatte sono fortemente squilibrati rispetto agli stessi impegni iniziali. Gli assistenti di volo – a quattro mesi dalla partenza – sono sotto organico di oltre 400 unità. Si parla ora di 190 assunzioni, che non coprono le necessità.

Le politiche del trasporto dipendono sempre più dalle scelte europee. Come si fa a tenere il punto del conflitto senza una qualche sponda politica?

La vicenda Alitalia è andata come è andata proprio perché c’è una desertificazione della politica. C’è necessità di riportare competenze vere, non ideologiche – insomma esperienze vissute, «sapere di che si parla» – dentro certe istituzioni. Per esempio, credo che la scelta di Andrea Cavola, mio compagno di lotte per oltre 20 anni – di candidarsi come indipendente con Rifondazione, sia assolutamente giusta. La sensazione di questi anni è che non importa quanto tu abbia ragione, quanti lavoratori hai dietro; tutto il sistema – anche l’informazione, con poche eccezioni – si muove a tutela degli interessi del «grande capitale ». Basta vedere il ruolo politico-mediatico del ministro Matteoli: di scioperi nel trasporto non si parla più, nemmeno a livello di annuncio, perché ogni giornalista sa che tanto lui li vieta sempre, con la precettazione. (Beh, buona giornata).

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“La strategia del governo di fronte alla crisi ci consegnerà un paese con squilibri ancora più stridenti di quelli che già avevamo.”

LE CONSEGUENZE DELL’IMMOBILISMO
di Tito Boeri e Pietro Garibaldi da lavoce.info

Finalmente abbiamo la Relazione unificata sull’economia e la finanza. Era un documento atteso e importante per capire come è evoluta la strategia di politica economica del governo dopo l’aggravarsi della crisi e per avere un quadro più preciso sullo stato dei conti pubblici. Certifica le conseguenze dell’immobilismo di fronte alla crisi. La spesa pubblica aumenta accentuando il suo squilibrio a favore di pensioni e dipendenti pubblici, mentre disavanzo e debito peggiorano in modo consistente. E le stime potrebbero essere troppo ottimistiche sul lato delle entrate.

LA PEGGIORE RECESSIONE DEL DOPOGUERRA
È molto, molto difficile fare previsioni nel mezzo di una crisi così profonda. Il governo con la Relazione unificata sull’economia e la finanza (Ruef) mostra sostanzialmente di condividere le previsioni del World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale, rese pubbliche una settimana prima della pubblicazione della Ruef, per quanto riguarda l’andamento dell’economia nel 2009. Il prodotto interno lordo cala, secondo le previsioni, del 4,2 per cento (contro il meno 4,4 per cento delle previsioni del Fondo e della Commissione Europea). Se così fosse, sarà la peggior recessione del Dopoguerra. La Ruef prevede un peggioramento di ben due punti percentuali del disavanzo: l’indebitamento in rapporto al Pil passerà dal 2,7 per cento al 4,6 per cento. Il peggioramento è dovuto interamente a un incremento delle spese, che dovrebbero aumentare di tre punti in rapporto al prodotto interno lordo, mentre le entrate dovrebbero aumentare di un punto percentuale rispetto al Pil.

LA CAVALCATA DELLE PENSIONI E DELLA SPESA PER I DIPENDENTI PUBBLICI
È normale che la spesa pubblica in recessione aumenti. In quasi tutti i paesi avanzati, con il peggiorare della crisi, stiamo assistendo a un forte incremento della spesa pubblica in percentuale al Pil. Èun fenomeno legato all’operato dei cosiddetti “stabilizzatori automatici”, quelle spese che crescono in recessione per poi ridursi quando le cose vanno meglio, come le risorse per pagare i sussidi di disoccupazione. In Italia la crescita della spesa ha una natura diversa dagli altri paesi perché riguarda spese destinate a durare nel corso del tempo, ben oltre la recessione. Accentueranno gli squilibri della nostra spesa pubblica a favore di pensioni e pubblico impiego e a svantaggio di misure di contrasto alla povertà e disoccupazione. Secondo la Ruef, il 93 per cento degli incrementi della spesa sono “discrezionali”, anziché legati ad automatismi (p. 58). Se fosse vero, si tratterebbe di una massiccia operazione di redistribuzione di risorse a favore del pubblico impiego e dei percettori di pensioni.
Questa recessione verrà ricordata per un ulteriore aumento della spesa pensionistica in rapporto al Pil e per un incremento dei redditi dei dipendenti pubblici. In valore assoluto la spesa corrente nel 2009 aumenterà di 22 miliardi di euro. La metà circa dell’aumento (approssimativamente 10 miliardi) è dovuto alla spesa per pensioni: cresceranno nel 2009 del 4 per cento, pur in presenza di un calo del prodotto interno lordo superiore al 4 per cento. Questo provocherà un forte spostamento di risorse verso la previdenza, che in rapporto al Pil passa da 14,2 a 15,2 per cento. Ogni recessione in Italia provoca un ulteriore incremento degli squilibri nella nostra spesa sociale. Come documentato dalla Ragioneria Generale dello Stato, la spesa pensionistica sul Pil è destinata a crescere da qui al 2013 in presenza di tassi di crescita annuali della nostra economia inferiori all’1,8 per cento. Come dire che se la recessione dovesse continuare, rischieremmo di trovarci con pensioni che ammontano al 20 per cento del prodotto nazionale, assorbendo quasi la metà della spesa corrente. Non solo non si è intervenuti per ridurre questo spostamento delle risorse pubbliche, ma addirittura lo si è rafforzato con provvedimenti come la rimozione del divieto di cumulo fra pensioni e redditi da lavoro (che vale circa 500 milioni).
Anche i dipendenti pubblici vedranno un aumento di due punti percentuali delle risorse pubbliche loro destinate pur in presenza di una recessione così profonda. Da notare che i dipendenti pubblici con contratti a tempo indeterminato, i maggiori beneficiari degli aumenti, non corrono alcun rischio di perdita del posto di lavoro. Il totale della spesa per retribuzioni registra così un ulteriore incremento (fino all’11,4 per cento) della quota delle risorse nazionali destinate, il tutto rigorosamente in nome della battaglia per ridurre i costi del pubblico impiego.

L’OTTIMISMO SULLE ENTRATE
Pur concordando con il Fondo monetario internazionale sulla profondità della recessione, la Ruef è decisamente più ottimista del Fmi nelle stime del disavanzo e del debito pubblico (vedi tabella qui sopra) in virtù di un miglioramento delle entrate.
A cosa si deve l’ottimismo del governo sulle entrate? Leggendo fra le righe della Relazione si scopre che il governo ritiene che il calo del gettito sia già stato anticipato dalle famiglie nell’autotassazione di novembre. Può darsi. Ma cosa accadrà al gettito dell’autotassazione del 2009? Se le previsioni del governo sull’andamento dell’economia sono corrette, ci dovrebbe essere un effetto di trascinamento, con una forte riduzione delle entrate nel 2009. Fatto sta che alla forte revisione al ribasso delle stime sul Pil 2009 (-2,2 per cento rispetto alla nota di aggiornamento del Programma di Stabilità) si accompagna una più modesta revisione delle stime sulle entrate (-1,7 per cento). E questo nonostante i dati sul primo trimestre 2009 segnalino un forte calo delle entrate tributarie, diminuite di circa il 7 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2008. Il governo assume che nel 2009 ci sarà un aumento della pressione fiscale, dal 42,8 al 43,5 per cento. Il che significa che le entrate caleranno proporzionalmente meno del prodotto interno lordo. Normalmente, in fasi recessive le entrate calano proporzionalmente più del prodotto interno lordo.
Insomma la Ruef dimostra che la strategia del governo di fronte alla crisi – il suo scegliere di non scegliere – ci consegnerà un paese con squilibri nell’allocazione delle risorse pubbliche ancora più stridenti di quelli che già avevamo. Non sarà neppure servita a contenere la crescita del debito pubblico, avviato a tornare sui massimi storici, come previsto dal Fondo monetario internazionale, forse con più realismo di quello mostrato dal nostro governo. (Beh, buona giornata).

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Quanto fa paura il bossnapping.

Il sequestro non è mai un gioco
di BARBARA SPINELLI-La Stampa

E’ dagli inizi di marzo che sugli schermi televisivi, in Francia, va in onda un peculiare e ripetuto spettacolo: il sequestro dei manager, ormai comunemente chiamato bossnapping. È accaduto allo stabilimento della Sony e a Caterpillar, a 3M e Continental, a Molex e in una filiale della Peugeot. Il sequestro può durare ore o giorni, e in genere è presentato quasi fosse una fiaba a lieto fine: gli operai che l’hanno organizzato sono soddisfatti per l’aumento di stipendio ottenuto o il licenziamento evitato, il boss esce dalla prigionia sotto i fischi non solo dei sequestratori ma della gente che sta da quelle parti. Poco fiabeschi sono tuttavia i volti dei sequestrati: lo sguardo è sperduto, i capelli spettinati, si vede che la paura li ha abitati e un male è stato commesso.

Per il sequestrato la piccola rivoluzione non è stata un pranzo di gala: fatto di serena cortesia. I sequestratori insistono su questa delicata serenità, si definiscono non maoisti ma pragmatici – volevamo solo esser riconosciuti, non c’era in noi risentimento – ma dal punto di vista del sequestrato il distinguo è insensato.

Dal loro punto di vista la violenza è stata inaudita: se ti chiudono in una stanza per strapparti concessioni non sai come andrà a finire e chi deciderà l’epilogo. La frontiera che separa il gioco dal processo e dall’esecuzione è labilissima. Jean Starobinski racconta come in un attimo si passò, nel ’700, dalle graziose altalene di Fragonard alla ghigliottina.

Questa labile frontiera svanisce, nei racconti dei carcerieri. Marx aveva detto che «la storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa». E i carcerieri pur volendo esser seri usano scientemente il vocabolario della farsa giocosa. Dopo il sequestro di quattro dirigenti alla Scapa, un sindacalista ha dichiarato: «Li abbiamo solo trattenuti, non sequestrati. Il nostro atteggiamento era zen. I sequestrati potevano uscire dalla stanza a fumare, bere il caffè. La mattina gli portavamo il croissant, anche se ovviamente dalla fabbrica non potevano uscire». Ecco il peculiare, nelle rivolte di questi tempi di crisi: sono certo violente – come definire altrimenti una prigionia che esordisce con un cornetto ma non sai come finisce? – e però son presentate addirittura come zen. Nell’epoca di Mao la rivoluzione non era un pranzo di gala o un ricamo, ma un atto di violenza. Oggi è proprio questo: croissant, ricamo cortese. Tutto ciò sarebbe plausibile e non sinistro se non fosse per quei volti visti in televisione, impalliditi. Per loro non è stato ricamo ma violenza illegale, gioco che impaura. Prima ti danno il cornetto poi magari qualcuno perde la pazienza e non gioca. La storia che si ripete in farsa è una delle inanità dette da Marx. La violenza non è meno lesiva se la chiami farsa.

Tuttavia è l’elemento farsesco a esser sottolineato, con effetti insidiosi perché la leggerezza facilita il contagio. Oskar Lafontaine (ex ministro delle Finanze, oggi leader della sinistra radicale tedesca) è giunto fino a sollecitare l’imitazione, il 24 aprile: «Quando i lavoratori francesi in collera sequestrano i padroni, desidererei che accadesse anche qui». Più allarmato, Epifani teme le emulazioni e mette in guardia contro un sindacato che dovesse esser debole come in Francia, e tanto più corrivo. È la corrività diffusa che impressiona in Francia. Corrività estesa ai politici, che sembrano come confortati da quel che accade: non è lo Stato il Leviatano sotto tiro. Il Leviatano è l’astratto, inafferrabile Mercato.

Il sociologo Carlo Trigilia ha detto cose pertinenti in proposito. Ha scritto che il fenomeno francese deve suscitare più inquietudine vera, e perciò più azioni. Che bisogna riconoscere gli effetti sociali della crisi, esporli con maggiore trasparenza, e dare ai minacciati maggiore giustizia e sicurezza. Gli operai dopo decenni di latitanza tornano a lottare con mezzi illegali, e questo rende i sequestri un evento di grande rilievo (Il Sole-24 Ore, 2 aprile 2009)

Ma c’è qualcosa di più negli eventi francesi, ed è la scherzosa popolarità di cui godono, non solo in Francia, le violenze anti-manager. Specialmente premonitorio è il film Louise-Michel di Kervern e Delépine, adorato anche in Italia. La storia narra di lavoratori che un mattino s’accorgono che la fabbrica è delocalizzata. Sperduti ma battaglieri, decidono che la via a questo punto è una sola: buter le chef, far fuori il capo. Probabilmente ogni azione violenta comincia così, con una freddura buttata lì a casaccio. Tutto è buttato lì a casaccio e si trasforma in comica, nel film. Il killer ingaggiato è un asso di maldestra idiozia, e il pubblico ride: quasi troppo. La violenza è edulcorata, ordinaria: proprio così si fa epidemica.

Due cose colpiscono innanzitutto nei bossnapping, rivelatrici ambedue dello spirito del tempo. In primo luogo: la distinzione che vien fatta tra legale e legittimo. Il sequestro è certo illegale, in Francia è punito severamente. Ma il legale s’appanna, completamente sommerso dalla categoria della legittimità come da quella, dichiarata superiore alle norme, dei valori. Può non esser legale il mio agire, ma il contesto e i valori lo rendono comprensibile e poi giustificato. La distinzione è antica vena francese: le mobilitazioni per Cesare Battisti o altri ex terroristi italiani hanno questa radice.

Il secondo aspetto riguarda la figura del ribelle. È una figura che s’è banalizzata, contaminando la politica oltre all’escluso. Ci sono leader che su tale caratteristica hanno edificato un carisma, meticolosamente coltivato. Sarkozy e Berlusconi si sono costruiti come ribelli, sovrapponendo spesso il legittimo al legale. In qualche modo son figli del ’68 che tanto esecrano, e della cultura Do It Yourself che secondo lo studioso Xavier Crettiez nasce dal ’68. La cultura DIY significa: fai le cose a modo tuo, null’altro ti servirà e tanto meno rispettare le leggi e il «teatro della politica». Quel che è legale, sono io a dirlo. Il mio scopo è realizzarmi, senza badare ad altri. Se sei licenziato trovati qualcosa da fare, dice Berlusconi. Trovati un marito ricco. La chiamano ribellione del futile: fuck off è il suo motto.

La banalizzazione della violenza spinge il politico e gli stessi manager a passarci sopra, illudendosi che la furia si spenga per stanchezza o noia. Quasi nessun sequestrato ha sporto denuncia e Sarkozy, che tiene a esser uomo forte, è imbarazzato. Lo è ancor più perché è sotto influenza dei sondaggi, e questi sono al momento univoci. Il più significativo è quello dell’istituto Csa, all’inizio di aprile. Quasi la metà dei francesi approva i sequestri, e la cosa impressionante è la divisione per età. È la generazione di mezzo – quella del ’68 – che antepone la legittimità alla legalità. I più favorevoli ai sequestri hanno tra 40 e 64 anni (la percentuale più alta, 52 per cento, è fra i 50 e 64. In questa generazione c’è il numero più basso di contrari). Tra i giovanissimi, invece (18-24 anni), i favorevoli ai sequestri sono il 38 per cento, e quelli che li giudicano inaccettabili sono la cifra più alta in tutte le età: 62.

Il nuovo ribelle esprime risentimento ma anche altre passioni. L’uomo in rivolta di Albert Camus lo descrive come qualcuno che in prima linea invoca riconoscimento: «Non difende solo un bene che non possiede e la cui privazione lo frustra. Chiede che sia riconosciuto qualcosa che possiede, e che per lui è più importante di quel che potrebbe invidiare»: il lavoro, uno statuto riconosciuto nella società. Quel che il ribelle moderno dimentica di Camus è il senso della misura che deve correggere il vitalismo ribellista. In Camus è scritto: «Per esser uomo, bisogna rifiutare di essere Dio»: una frase che suscitò l’ira di Sartre e Breton. Sartre ha oggi di nuovo seguaci, ma chi vede lontano resta pur sempre Camus. (Beh, buona giornata).

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La solitudine dei manager.

Assedio al manager
di Stefano Livadiotti e Maurizio Maggi-da l’Espresso.
Additati come causa di ogni male dai dipendenti. Usati come capri espiatori dagli azionisti. In pochi mesi hanno perso stipendi, potere e status. Radiografia dei dirigenti ai tempi della recessione Josef AckermannEbbene sì, “sono un manager. Uno di quei mostri sbattuti in prima pagina come incapaci, incompetenti e dediti al facile guadagno… Per colpa di qualche approfittatore, devo sentirmi annoverato tra la feccia di questa società. No, non ci sto”. La lettera, pubblicata il 31 marzo nella rubrica della posta su ‘La Stampa’, fotografa alla perfezione lo stato d’animo prevalente nel mondo dei dirigenti d’azienda italiani.

Additati da una parte crescente dell’opinione pubblica come una casta di intoccabili che provoca le crisi e non ne paga le conseguenze, inchiodati a responsabilità spesso non riconducibili a loro, i manager oggi appaiono allo sbando.

Il fatto è che si sentono tra l’incudine e il martello. Sanno di non poter contare sulla difesa dei vertici aziendali, cinicamente pronti a far di loro un capro espiatorio. Mentre dal basso, dalla platea operaia e impiegatizia chiamata a tirare la cinghia, vedono salire la marea di quanti chiedono che anche i ricchi piangano, come diceva uno sciagurato slogan elettorale della sinistra antagonista. Così, sempre più spesso, un po’ per tacitare la protesta e un po’ per tenersi stretta la scrivania, accettano di tagliarsi stipendi, bonus e fringe benefit.

La crisi è arrivata fino a loro scendendo per i rami. Da principio furono gli Stati Uniti. Secondo il ‘Wall Street Journal’, nel 2008 le retribuzioni complessive dei Ceo delle prime 200 società americane hanno lasciato sul campo il 3,4 per cento. Ma è stato solo un assaggio, rispetto a quello che accadrà quest’anno. L’indignazione popolare per i 165 milioni di dollari di premi concessi ai dipendenti del colosso assicurativo Aig ha spinto il governo a vietare i bonus e fissare un tetto ai premi in azioni per i dirigenti di società che hanno ricevuto aiuti federali. E un sondaggio condotto dalla società di consulenza Watson Wyatt Worldwide tra 145 grandi imprese dice che il 33 per cento intende ridurre gli incentivi di lungo termine. L’entità media dei tagli in cantiere è del 35 per cento. Alla Goldman Sachs i dirigenti si sono visti imporre un tetto di 20 dollari per la fattura dei ristoranti e il diritto a farsi riportare a casa dalla limousine aziendale è stato limitato a chi si ferma in ufficio fino alle 10 di sera. Gli avvocati del celebre studio legale Liner Yankelevitz Sunshine & Regenstreif di Los Angeles hanno perso, invece, il benefit del massaggio shiatsu.

Sulla scia degli Stati Uniti, è poi toccata ai top manager europei. Josef Ackermann, il numero uno della Deutsche Bank che con i suoi quasi 20 milioni era stato a lungo il banchiere più pagato, l’anno scorso s’è dovuto accontentare di un milione e 400 mila euro. In Italia, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha annunciato la sua rinuncia alla parte variabile dello stipendio. Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, presidente e amministratore delegato della Fiat, si sono dimezzati i compensi per il 2008. Come, del resto, ha fatto Dieter Zetsche della Daimler.

Il fuoco sulle seconde e terze linee è iniziato in Francia, con il sequestro dei dirigenti delle aziende in crisi da parte delle maestranze. Finora in Italia, per fortuna, significativi episodi di ‘bossnapping’ non si sono visti. Ma la polemica s’è immediatamente incendiata davanti alle tesi giustificazioniste di alcuni esponenti sindacali, come i leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, ha accusato il suo pari grado della Cgil di soffiare sul fuoco. Guglielmo Epifani gli ha risposto per le rime. E ‘l’Unità’, passando in rassegna la casistica francese, è arrivata a scrivere: “Almeno finora, sequestrare paga”. Se è per questo, anche rapinare le banche.

“C’è una ricerca del colpevole rispetto a un gioco in cui sono tutti collusi”, dice Marco Ghetti, professore all’università confindustriale Luiss (il suo corso di chiama ‘Leadership for change’). Il risultato è che oggi i 120 mila manager privati italiani, gente che guadagna in media 103 mila e 424 euro lordi l’anno, sono sul chi vive. Secondo una ricerca di Manageritalia, che ne associa 23 mila sparsi in 8 mila e 700 aziende, il 57,3 per cento è preoccupato. Il 10,4 per cento teme per la propria incolumità sul luogo di lavoro e il 13,7 non si sente sicuro neanche fuori dall’ufficio. Oltre la metà di loro (il 50,7 per cento) ritiene possibile un ritorno del terrorismo e nove su cento pensano che i principali responsabili della caccia al manager siano i media. “Il bossnapping è un fenomeno che preoccupa, perché potrebbe aprire la strada a comportamenti ben più pericolosi”, dice Claudio Pasini, presidente di Manageritalia. “Le paure dei manager”, aggiunge Paolo Legrenzi, ordinario di psicologia cognitiva a Venezia, “non rappresentano un sentimento inventato, ma risultano quanto mai attuali e giustificate: dal privilegio siamo passati alla berlina, alla gogna”. E alla stretta economica.Una indagine ancora fresca di inchiostro del Gidp (Gruppo intersettoriale direttori del personale) rivela che il 31,5 per cento dei responsabili delle risorse umane ha ricevuto dal vertice dell’azienda un input a ridurre la parte variabile della retribuzione di direttori e dirigenti. Uno su tre ha già impugnato le forbici, tagliando i bonus di oltre il 20 per cento. Uno su quattro c’è andato con la mano più leggera, ma ha comunque limato i premi tra il 15 e il 20 per cento. Loro hanno fatto buon viso a cattiva sorte: solo il 17 per cento ha abbozzato una qualche forma di resistenza.

Secondo Federmanager, nel 2008 sono stati licenziati 5 mila dirigenti e a fine 2009 i disoccupati saranno tra gli 8 e i 9 mila. E per chi resta a spasso sono dolori. Gli ultrancinquantenni hanno un sussidio di 1.500 euro lordi per 12 mesi, che si riducono a otto per i più giovani. E le statistiche dicono che a un anno dalla perdita della poltrona quelli che ne trovano un’altra sono l’82,1 per cento, ma il 69,7 si deve accontentare di un inquadramento inferiore al precedente, o addirittura precario. “La vita si è fatta assai più dura per i dirigenti, alcuni dei quali stanno cedendo sotto i colpi della crisi”, ha scritto il sociologo Enrico Finzi. Il caso del colosso Telecom la dice lunga: più spesso di prima i dirigenti, pur di non perdere il posto, accettano il declassamento. Un fenomeno ancora insignificante dal punto di vista numerico, ma comunque in crescita rispetto al passato.

I casi di aziende che chiedono ai loro dirigenti di seconda o terza linea di ridursi gli stipendi sono sempre più frequenti. Una delle prime è stata la Ducati. A febbraio, il presidente e amministratore delegato della cassa motociclistica di Borgo Panigale, Gabriele Del Torchio, ha fatto saltare il 10 per cento della retribuzione fissa dei 36 dirigenti, che hanno perso pure il bonus. Austerità anche per chi segue la squadra corse in giro per il mondo: si dorme in camere doppie e addio ai biglietti di business class in aereo. Ma la Ducati ha solo aperto una strada. Seguita poi da molti altri. Alla filiale di Avezzano della multinazionale americanaMicron Technology, specializzata in sensori di immagini per i telefonini, la crisi s’è mangiata il 60 per cento del giro d’affari. Negli stabilimenti degli Stati Uniti hanno tagliato del 5 per cento gli stipendi di tutti: operai, impiegati, quadri e dirigenti. In Italia, dove questo non è possibile, è scattata la cassa integrazione per 1.400 dipendenti su 2 mila.

Il direttore generale, Sergio Galbiati, s’è ridotto il compenso a 800 euro, tanto quanto prende un cassintegrato. Ai 60 dirigenti è stato proposto un taglio del 30 per cento. Hanno accettato tutti, senza fiatare. Come alla Indesit, il colosso degli elettrodomestici di Vittorio Merloni che fattura 3,2 miliardi, ma è alle prese con un calo delle vendite del 15 per cento. Tremilacinquecento operai sono finiti in cassa integrazione, subendo un taglio della busta paga del 10 per cento. L’amministratore delegato, Marco Milani, ha chiesto agli 80 dirigenti italiani e ai 40 sparsi in Europa di accettare una riduzione dei compensi del 7 per cento e si è tagliato il suo del 10 per cento.

Stessa storia alla Elica di Fabriano, leader mondiale nelle cappe per cucine, con 400 milioni di giro d’affari e 5 milioni di pezzi venduti in tutto il mondo. Nell’ultimo trimestre il business ha fatto segnare un calo del 20 per cento e 100 operai e 50 impiegati sono finiti in cassa integrazione. Il presidente, il senatore forzista Francesco Casoli, ha convocato i suoi 80 manager, ha annunciato che si sarebbe autoridotto la retribuzione del 30 per cento e chiesto loro di rinunciare al bonus, che vale tra il 10 e il 30 per cento del trattamento economico complessivo. Alla Wurth, 3.500 dipendenti che fatturano 450 milioni commercializzando bulloni, i dirigenti hanno accettato invece un taglio del 9 per cento della retribuzione fissa, lo stesso imposto agli operai dai contratti di solidarietà. Come alla Telit, la società di telecomunicazioni romana quotata a Londra, dove i 30 dirigenti hanno accettato di sacrificare il 10 per cento della retribuzione fissa e ricercatori e impiegati il 5 per cento. AllaNerviano Medical Sciences di Milano, ricerca e prodotti oncologici, una crisi di liquidità ha imposto il taglio al monte retribuzioni del 6 per cento: a farne le spese saranno anche i 40 dirigenti, per i quali la parte dello stipendio legata ai risultati è congelata per tutto il 2009. I 23 manager della Cerim di Imola, 20 milioni di metri quadrati di prodotti in ceramica l’anno, con 330 milioni di fatturato, i 23 dirigenti hanno deciso di fare a meno del 10 per cento dello stipendio per alimentare un fondo a favore degli operai più a lungo colpiti dalla cassa integrazione: l’obiettivo è portare il loro introito mensile da 850 a mille euro.

Alla Cefin Systems di Torino (gestione di flotte di veicoli) il titolare-amministratore s’è azzerato gli emolumenti. E il personale tutto, dirigenti compresi, lavorerà al minimo sindacale. Per l’intero 2009. Incrociando le dita e sperando che basti. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Confindustria vuole un’Europa “che metta al centro l’impresa”.

Crisi/ Confindustria lancia il Manifesto ‘Per un’Europa più forte’ -affariitaliani.it

Confindustria chiama l’Europa a raccolta contro la crisi. E lo fa con un Manifesto ‘Per un’Europa più forte’ stilato in vista delle elezioni europee del 6-7 giugno. L’organizzazione degli industriali guidata da Emma Marcegaglia vorrebbe un’Europa più forte, più compatta, in grado di superare la crisi difendendo la coesione interna e mettendo al centro l’impresa, “unico baluardo valido nella recessione globale”.

“Solo un’Europa più compatta – spiega Emma Marcegaglia che ha elaborato il documento con la regia di Andrea Moltrasio, vicepresidente Confindustria per l’Europa – può far fronte alla crisi e alle sfide che dobbiamo affrontare nei prossimi anni: sfide immediate, come la crisi economica e finanziaria in atto, e di medio lungo termine, come quelle rappresentate dai cambiamenti climatici, dall’invecchiamento della popolazione, dai fenomeni migratori.

Un’Europa forte sulla scena mondiale – continua – è un’ Europa che riesce a portare avanti con successo una politica fondata sui due pilastri del libero commercio e della concorrenza leale. E un’ Europa forte è ugualmente un’Europa che mette l’impresa al centro della sua azione e che riscopre il valore del suo tessuto produttivo, unico al mondo”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Dopo l’accordo Fiat- Chrysler, che fine faranno i Suv?

Fiat-Chrysler, un’alleanza nel solco dei fuoristrada
di Mario Cianflone-sole24ore.com

Fiat e Chrysler sono pronte ad allearsi e a formare una galassia di marchi tra le due sponde dell’Atlantico. La casa americana che ha già un matrimonio europeo alle spalle, quello celebrato nel 1988 con Daimler Benz e fallito nel 2007, è dopo Gm la seconda malata – quasi terminale – di Detroit, con una crisi generata da una costante emorragia di vendite dovuta a una gamma composta da modelli di scarso appeal tra le due sponde dell’atlantico e al conseguente dissesto di finanziario, iniziato ben prima dell’attuale crisi economica.
Chrysler Llc controlla, oltre al proprio brand, marchi che hanno fatto la storia dell’auto a stelle e strisce come Dodge, dove spicca la super sportiva Viper, uno dei pochi successo della casa anche in Europa, e soprattutto Jeep. Quest’ultima, icona e sinonimo stesso del concetto di fuoristrada: è un marchio leggenda con modelli di grande e grandissimo successo come Cherokee o Wrangler.
Al gruppo Fiat, la dote Jeep potrebbe fare non poco comodo per espandere, grazie a Jeep, l’offerta in quella che, volenti o nolenti, rappresenta un settore imporante dell’industria dell’automobile: quello dei Suv e dei fuoristrada. Una area di mercato dove il Lingotto esibisce un vuoto pressoché pneumatico visto che schiera solo la Sedici, clone della Suzuki SX e ulteriore figlio del matrimonio fallito con Gm, nonché l’Iveco Campagnola che però è più un veicolo militare e un fuoristrada puro che un Suv. E il mercato chiede, si veda il successo della Nissan Qashqai o della Ford Kuga, sempre più sport utility di taglia urbana e prezzo accessibile come il recente Peugeot 3008.

Fiat invece porterebbe in “dono” alla decotta Chrysler tecnologie evolute nei motori diesel di piccola cubatura, come i MultiJet, e innovazione recenti come il MultiAir, un sistema di gestione delle valvole che permette di ottimizzare il rendimento dei motori a benzina, anche di piccola cilindrata apportando anche un risparmio industriale non indifferente: l’utilizzo di un solo albero di distribuzione anziché due.
Al di là delle singole tecnologie, il gruppo Fiat può contribuire globalmente alla rinascita tecnica del gigante americano che ha in listino molti modelli datati per stile, cifra tecnica e finiture. E Chrysler ha decisamente bisogno di una ventata di innovazione per svecchiarsi con inediti prodotti e nuove idee.

Certo non può andare avanti continuando a proporre auto “datate” come la Pt Cruiser.
Inoltre, a Chrysler, anche nel’offerta europea fanno decisamente comodo i poderosi turbodiesel (soprattutto quelli derivati dal 1.910cc che anche Opel utilizza, persino sulla nuova Insignia) visto che per motorizzare la Compass è dovuta ricorrere alla banca degli organi di Volkswagen. La semi-suv americana monta, infatti, una non recentissima unità tedesca con iniettori pompa, derivata da quella delle vecchie Golf/Passat, per intenderci.

Ma anche la Casa Usa, può dare il suo contributo: alcuni modelli di nicchia come la Chrysler 300 C, berlina e wagon, che anche da noi hanno avuto un riscontro positivo, potrebbero contribuire ad ampliare l’offerta del Lingotto che sul fronte delle vetture grandi e di prestigio è deficitaria (schierava fino a poche settimane solo la poco fortunata Thesis, ora scomparsa senza clamore e rimpianti dal listino Lancia). Inoltre sinergie sono possibili anche sul fronte dei grossi monovolume.
L’alleanza potrebbe anche sancire il ritorno di Alfa Romeo negli Stati Uniti grazie a una rete di dealer in grado di supportare le vendite del biscione. Più difficile è invece ipotizzare la commercializzazione di modelli italiani come la 500, decisamente troppo compatta, mentre la Bravo potrebbe fronteggiare vetture piccole, per gli standard Usa, come la Ford Focus, ma si tratta di tipologie di macchine non troppo gradite agli automobilisti americani che prediligono, anche per una questione di corporatura media, vetture ampie e spaziose. (Beh, buona giornata).

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Toh, il ministro Tremonti si è accorto che l’Italia è nella crisi fino al collo.

(da sole24ore.com)

Anno nero per l’economia italiana nel 2009. Il Pil è previsto in calo del -4,2%, ben oltre le ultime previsioni e in linea con il recente Word Economic Outlook del Fondo monetario internazionale.

È quanto stima il Tesoro nella Relazione unificata sulla finanza pubblica. Timidi segnali di ripresa solo l’anno prossimo, quando la crescita del Prodotto interno lordo tornerà positiva a +0,3%. «Nel 2009 – si legge nel documento – il Pil è stimato contrarsi del 4,2%, 2,2 punti percentuali in meno rispetto alla stima indicata nell’Aggiornamento del programma di stabilità dello scorso febbraio (-2%). Il profilo trimestrale prospetta una modesta ripresa a partire dal secondo trimestre del prossimo anno. Nel periodo 2010-2011 il Pil è proiettato crescere dello 0,7%».

Secondo la relazione del Tesoro è destinato a salire, come previsto, anche il debito pubblico: si attesterà quest’anno al 114,3% del Pil, per poi salire ancora al 117,1% l’anno prossimo e a 118,3% nel 2011. Il Tesoro ha rivisto quindi le stime in aumento: secondo le previsione contenute nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno, pubblicate a febbraio, il debito/Pil era visto quest’anno al 110,5%, l’anno prossimo a 112% e nel 2011 a 111,6 per cento.

In aumento, ovviamente, anche il rapporto deficit/Pil. Nel 2009, secondo le previsioni contenute nella Relazione unificata sulla finanza pubblica, il disavanzo si attesterà al 4,6% del Pil, superiore di 0,9 punti percentuali rispetto alla stima elaborata a febbraio nell’Aggiornamento del Patto di stabilità interno (3,7%). Il livello di indebitamento nel 2010 si attesterà sullo stesso livello del 2009, per iniziare a scendere a partire dal 2011, anno in cui dovrebbe collocarsi al 4,3 per cento.

Le prospettive economiche globali, si legge nel documento, «si sono deteriorate negli ultimi mesi», ma allo stesso tempo «sono aumentati gli sforzi tanto dei governi nazionali quanto degli organismi e delle sedi sovranazionali». Ora, quindi, «si guarda con qualche speranza alla possibilità di rallentamento dell’attuale fase di crisi». Il rallentamento della crisi – spiega ancora il ministero – «dipende da fattori numerosi e variabili: dal ristabilimento di un’adeguata crescita a livello mondiale alla conservazione del commercio mondiale; dal miglioramento della situazione occupazione fino a una nuova spinta verso il progresso sociale». (Beh, buona giornale).

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Una strano Primo Maggio:”Nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione.”

Il Primo Maggio di casa Agnelli di Gabrile Polo-Il Manifesto
Nel settembre 1920, al culmine del «biennio rosso», molte fabbriche italiane erano occupate dagli operai. La rivoluzione bolscevica e la crisi del sistema liberale davano un forte segno politico alle rivendicazioni dei lavoratori che – nello specifico – scioperavano e occupavano perché l’Associazione degli industriali aveva respinto le richieste sindacali di aumentare i salari a fronte dell’aumento dei prezzi e riconoscere i consigli dei delegati.

Il vecchio Giovanni Agnelli, fondatore della Fiat, nel giro di pochi giorni propose due diverse – e opposte – soluzioni a una lotta che bloccava completamente la produzione. Prima ventilò la possibilità di trasformare la Fiat in una cooperativa: se ne discusse un po’, ma l’idea rimase sospesa nell’aria. Poi si recò da Giovanni Giolitti, primo ministro dell’epoca, chiedendogli di liberare in qualche modo la fabbrica: il capo del governo gli rispose che a Torino c’era il «Saluzzo cavalleria» che avrebbe potuto bombardare la Fiat-centro in poche ore. Agnelli si ritrasse spaventato, pensando alla sorte di stabilimento e macchinari. Come finì lo sappiamo: gli operai isolati e sconfitti, Agnelli di nuovo alla sua scrivania, il fascismo alle porte. Nel ’900 la lotta di classe andava così.

Oggi siamo in tutt’altro mondo e il conflitto capitale-lavoro trova altre ipotesi risolutive e altri esiti. Forse meno cruenti, forse più sottilmente velenosi. Così, nel pieno di una crisi economica globale e nello sbandamento del sistema politico mondiale, di fronte al crack industriale dei colossi automobilistici Usa, la piccola Fiat si mangia la Chrysler facendone prendere la maggioranza azionaria ai sindacati, offrendo «in cambio» ai lavoratori un salario ridotto, orari più intensi e tagli all’occupazione. Saranno i fondi pensione della United Auto Workers a gestire i licenziamenti e la riduzione del costo del lavoro. Il vecchio Giovanni Agnelli sarebbe andato in brodo di giuggiole.

Curiosamente tutto ciò avviene alla vigilia del Primo Maggio, festa inventata in Europa nel segno della piena occupazione e della giornata lavorativa di otto ore, ma ispirata a un massacro di lavoratori avvenuto negli Stati uniti. Non si può dire che le condizioni di vita, il peso culturale e politico del lavoro abbiano, nel novello secolo, proseguito la «corsa emancipativa» che gli «inventori» dell’odierna Festa immaginavano inarrestabile.

L’accordo Fiat-Chrysler ne è un esempio evidente. Ma per capirlo non serve andare così lontano, basta guardarsi intorno. Come basta non essere ciechi per capire che in quelle condizioni troviamo lo specchio più evidente della vita contemporanea, dei suoi rapporti sociali, del nostro grado di civiltà. La politica se ne cale poco, se non in campagna elettorale. Quelli che – manifestando o festeggiano – scendono in piazza oggi, ben lo sanno. Anche se hanno poca voce, provando a ritrovarla. Anche se considerati maleodoranti dal papi del consiglio che, almeno oggi, non ci sarà. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Leggi e diritto

Primo Maggio dedicato ai morti sul lavoro: il Capo dello Stato li onora, il Governo li nega.

(fonte. unita.it)
Per la Festa del Lavoro, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è recato nel piazzale antistante l’ingresso dell’Inail, nel quartiere Eur, e ha deposto una corona d’alloro ai piedi del monumento ai caduti del lavoro.
Il monumento fu inaugurato il primo maggio dell’anno scorso dallo stesso Napolitano e riproduce in una targa le parole che egli pronunciò dopo la tragedia alle acciaierie Thyssen di Torino: «Non ci sono più parole per esprimere sdegno e commozione. È Ora di decidere e agire».

Non si vuole solo onorare i morti, spiegò Napolitano, ma far riflettere i vivi ed esaltare il ruolo degli enti come l’Inail incaricati della prevenzione degli infortuni sul lavoro. Quest’anno il capo dello Stato è tornato davanti al monumento insieme a numerosi familiari delle vittime di morti bianche proprio in segno di continuità con l’impegno assunto con l’inaugurazione dell’anno scorso.

Poco prima, al Quirinale, Napolitano aveva invitato a «non abbassare la guardia», giudicando «un segnale positivo ma non sufficiente» il dato secondo il quale quest’anno ci saranno meno di 1200 morti sul lavoro. C’è anche il rischio, ha detto, che la crisi economica renda ancor più insicure le condizioni di lavoro di molti lavoratori dipendenti».

Contemporaneamente, il sottosegretario alle Infrastrutture e Trasporti, il leghista Roberto Castelli, afferma che si esagera con il conteggio dei morti sul lavoro.

Secondo l’ex ministro «serve un’operazione verità sul numero delle vittime degli incidenti sul lavoro. Bisogna depurare le cifre dei morti sul lavoro. Bisogna smettere di far credere che i morti in incidenti stradali verso e dal luogo di lavoro siano legati al problema della sicurezza sul lavoro – sostiene Castelli in una nota -. Non capisco perché le associazioni degli imprenditori accettino questa ipocrisia, che ci mette ingiustamente in fondo alle statistiche europee».

Il ministro non capisce perché chi lavora in condizioni non idonee, senza tutele, magari in nero e per orari molto superiori a quelli consentiti possa perdere il controllo dell’auto tornando a casa. Non lo capisce e ci tiene a farlo sapere proprio il Primo Maggio. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Il nuovo progetto deve portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro.”

La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa

E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).

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