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La crisi morde gli italiani e si mangia i consumi. Se il Governo non cambia politica economica, anche la pubblicità finisce nei guai.

Diminuisce il reddito disponibile lordo delle famiglie italiane, calano il potere d’acquisto, le spese per consumi finali e gli investimenti fissi lordi. Diminuisce anche la propensione al risparmio. È il quadro delineato dall’Istat nell’indagine riferita al secondo trimestre 2009.

Il reddito lordo a disposizione delle famiglie italiane, consumatori e micro-imprese, è calato di 11 miliardi di euro (-1%). Secondo l’Istat insieme al reddito si riduce anche la propensione al risparmio che è scesa dello 0,4% rispetto al trimestre precedente. Nel dettaglio, la propensione al risparmio delle famiglie nel secondo trimestre 2009 è stata pari al 15,2% del reddito lordo, in calo dopo molti trimestri di aumento.

La spesa delle famiglie per consumi finali si è ridotta invece dello 0,5%. Beh. buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Pubblicità e mass media

Per uscire dalla crisi bisogna rilanciare i consumi. Come si rilanciano i consumi? Aumenti salariali uguali per tutti.

Paolo Ferrero (prc) e le gabbie salariali: 200 euro netti di più per tutti, in busta paga, come aumenti di paga e minori tasse-blitzquotidiano.it
Il segretario del Prc, Paolo Ferrero, non solo è contro il ripristino delle gabbie salariali, ma vuole un aumento per tutti. Che poi “tutti” voglia dire che ne sono esclusi i dipendenti senza contratto regolare, non tutelati dallo statuto dei lavoratori né iscritti al sindacato, conta poco. Di fronte all’estremismo della proposta della Lega, una reazione altrettanto netta e estremista ci voleva.

Se si legge la dichiarazione di Ferrero controluce, ci si trova il riferimento a uno degli ostacoli principali dello sviluppo italiano, la scarsa capacità di spesa delle classi alla base della piramide sociale.

La ricetta di Ferrero, al di là della provocazione, tocca quindi il cuore del problema: o si aumentano gli stipendi o si riducono le tasse. In ogni caso è un fatto che può riguardare solo chi è già inserito nel mondo del lavoro con un regolare contratto, che poi vuole dire la maggioranza dei dipendenti italiani. Chi lavora in “nero” non ha, se non altro, problemi di tasse.

Ha dichirato Ferrero: «La discussione sulle differenziazioni dei salari che il governo continua a alimentare, oggi con il ministro Sacconi, serve in realtà soltanto a abbassare il livello medio dei salari stessi. La vera questione non è introdurre differenziazioni, che servono solo a mettere i lavoratori gli uni contro gli altri: la questione è aumentare i salari in modo generalizzato di 200 euro al mese, da introdurre in busta paga sia attraverso detrazione fiscali sia con maggiori erogazioni». (Beh, buona giornata).

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L’Alitalia da azienda di Stato ad azienda governativa era meglio quando era peggio.

La nuova Alitalia più in ritardo della vecchia di MASSIMO MUCCHETTI-corriere.it
L’estate avrebbe dovuto rilanciare la nuova Alitalia all’insegna della qualità. E invece la compagnia di bandiera, dopo il salvataggio tricolore voluto da Silvio Berlusconi, sta rendendo un servizio peggiore di prima. Gli italiani in viaggio per le vacanze avrebbero dovuto scoprire le virtù taumaturgiche della gestione privata e invece sono tentati di pensare che andava meglio quando andava peggio. L’allarme viene dal maggior aeroporto italiano, Fiumicino.

A luglio a Fiumicino la percentuale dei voli Alitalia in partenza puntuali, o con un ritardo inferiore ai 15 minuti, è scesa al 44%. Dodici mesi prima, quando la società era sull’orlo del fallimento, la percentuale di puntualità era al 50% e nel luglio 2007 al 53%. Agosto sta confermando la tendenza. E la compagnia ha ridotto del 23% i collegamenti. I velivoli restano fermi sulla pista, manca il catering, il pilota viene con un altro volo che però è in ritardo. Le scusanti di sempre. E anche peggio, se si passa al servizio bagagli.

Secondo gli standard internazionali, il 90% dei bagagli dovrebbe poter essere ritirato entro 32 minuti dall’atterraggio dei voli nazionali ed entro 42 minuti per gli internazionali. Ebbene tra il luglio 2008 e il luglio 2009 siamo scesi dal 67 al 51%. Eppure, questa volta, non c’è conflittualità sindacale. Certo, Fiumicino non è un gioiello di efficienza. Negli anni Novanta, governi ed economisti pensarono che, separando lo scalo monopolio naturale dalla compagnia di bandiera che qui aveva e ha la sua base d’armamento, si facilitasse la competizione tra i vettori a beneficio dei consumatori. E ritennero che lo si potesse vendere senza curarsi se l’acquirente pagava con soldi suoi o con quelli delle banche. Adesso scopriamo che la società Aeroporti di Roma avrebbe dovuto ultimare il molo C entro il 2005 e invece, se andrà bene, lo farà tra due anni. La sua priorità non era investire per lo sviluppo, ma spremere il limone per pagare i debiti fatti dall’acquirente per comprare le azioni. L’economia del debito non è solo un’invenzione americana.

Stiamo imparando che gestire una compagnia aerea— ma anche un grande aeroporto o, su un altro piano, la rete ferroviaria—è un mestiere terribilmente complicato, che richiede società stabili, capaci di allevare e selezionare nel tempo una classe manageriale competente. Questa è la storia di Air France e Lufthansa. O di hub come Parigi Charles de Gaulle o Francoforte e Monaco che hanno conservato legami di ferro con le compagnie nazionali. Con l’alibi della Cisl che non voleva lo straniero e della Cgil incapace di fare un accordo separato, il governo ha fatto decadere la cessione di Alitalia ad Air France, che avrebbe garantito la continuità aziendale a beneficio di creditori, dipendenti ed erario. In nome della bandiera: anche quando non conviene più. E del Nord: anche se il treno della grande Malpensa il Nord l’aveva perso da anni.

Adesso, abbiamo un’Alitalia mignon, in ritardo, con i soldi contati e Air France che comunque condiziona tutto pur avendo solo il 25%. E Fiumicino sempre al centro, ma con 85 milioni da prendere dalla liquidazione. E il ragionevole sospetto che i soci reggano il gioco contando i giorni che mancano a quando potranno finalmente vendere Alitalia ai francesi. (Beh, buona giornata).

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democrazia Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

La strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa: le legge contro i clandestini sono un’arma di distruzione di massa, nella guerra tra poveri in Italia e contro i poveri del mondo.

Quei morti che gridano dal fondo del mare di EUGENIO SCALFARI
È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell’avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al “chissenefrega” di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall’altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il “Corriere della Sera”, ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all’interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione “Repubblica” ma il nostro, com’è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d’una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un “Pater noster” come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d’ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché “noi qui non li vogliamo”.
Alla vergogna c’è un limite. Noi l’abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l’elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell’Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull’accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c’entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell’Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell’Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l’importanza dell’asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall’Africa sahariana e dal Corno d’Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l’altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno “status” particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d’un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo “Rimbalza il clandestino”.
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l’ha fornita l’onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell’Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell’ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al “Corriere della Sera” di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel ’93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d’aver convinto il premier all’opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C’è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all’interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell’appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l’esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli “spiriti animali” e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal “O Franza o Spagna purché se magna” e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l’errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l’articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c’è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell’Unità d’Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Dopo la Innse di Milano, ora tocca al Lasme di Melfi: la calda estate della classe operaia italiana.

Melfi/ Ferrero esprime solidarietà ai lavoratori del Lasme, un’azienda in crisi. “La lotta dell’Innse sia da esempio”-blitzquotidiano.it

Paolo Ferrero esprime solidarietà ai lavoratori del Lasme, un’azienda in crisi che si trova vicino Melfi, in Basilicata. «Quanto accade alla Lasme, ci parla ancora una volta di come in Italia la politica e il padronato intendano affrontare la crisi – ha detto il segretario di Rifondazione Comunista – riversando i suoi costi sempre e solo sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori. Sono ben 174 i lavoratori a cui è stato comunicato che rischiano il posto di lavoro».

Continua Ferrero, affermando che «la Lasme, in gran segreto, nelle ultime settimane, si era trasformata in S.r.l. con l’evidente intento ad aggirare alcuni degli obblighi previsti per la messa in liquidazione di una società per azioni».

Per l’esponente di Rifondazione «sembra, a prima vista, una storia industriale come tante: una famiglia industriale che arriva nel Mezzogiorno grazie agli incentivi statali e regionali, apre la sua azienda, si avvantaggia della diversificazione contrattuale e, alla prima occasione, chiude per spostare la produzione altrove».

«Il sostegno del partito della Rifondazione comunista non è solo un fatto formale – ha concluso Ferrero – Stiamo partecipando con i lavoratori al presidio permanente organizzato per impedire al padrone di portarsi via i macchinari. La lotta dell’Innse non è che un esempio di quello che i lavoratori italiani possono fare: la crisi se la paghino i padroni». (Beh, buona giornata).

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Per fermare la recessione basta la televisione?

L’indice di fiducia dei consumatori mondiali è salito da 77 a 82 punti secondo i risultati della “Consumer confidence survey”, la ricerca trimestrale condotta da Nielsen a fine giugno. La ricerca dice anche che è calata la percentuale dei consumatori che pensano che il proprio Paese sia in recessione: dal 77% di aprile all’attuale 71%.

In Europa è l’Italia insieme alla Gran Bretagna a segnare il maggior incremento nell’indice di fiducia che passa dai 70 punti di aprile ai 77 di giugno.

“Per quanto riguarda il nostro Paese – ha dichiarato Stefano Galli, Amministratore delegato di Nielsen Italia – il dato di giugno segna una inversione di tendenza del clima di fiducia che torna a posizionarsi sui livelli della fine del 2007”. L’incremento di 7 punti nell’indice di fiducia sarebbe anche legato ai messaggi più rassicuranti e alle decisioni prese a supporto delle famiglie e delle imprese da parte del governo nell’ultimo periodo e alla forte caduta della pressione mediatica sul tema della crisi.

“A questo riguardo i buzz online- ha detto Galli- le discussioni in rete contenti la parola ‘recessione’ sono infatti diminuiti del 35% , come dimostrano i dati Nielsen”.

Insomma, per far risalire gli indici della fiducia dei consumatori italiani bisogna prendere due piccioni con una fava. Vale a dire: la tv deve sempre parlar bene del governo, i giornali non devono mai parlar male della crisi.

Le cose vanno male lo stesso, visto che il 20% degli intervistati si dice molto preoccupato per la possibile perdita del posto di lavoro, come rilevato da Nielsen. Però almeno l’indice della fiducia risale.

Ci sarebbe da chiedersi: a che serve l’indice della fiducia, se è basata sulle mezze verità di giornali e televisioni? Oh, bella: serve proprio ai giornali e alle televisioni, che potrebbero riprendere ad accogliere la pubblicità delle aziende, convinte che se uno ha fiducia nella ripresa, riprende a spendere.

Uno potrebbe dire: ma se la tv parla bene del governo e i giornali non parlano male della crisi, non è che questo è un bel modo per manipolare la realtà? Sì certo: ma secondo una certa “scuola di pensiero” molto in voga da noi in questi mesi, è proprio questa la fava di cui ai due piccioni, cioè giornali e televisioni. O no? Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Sdl accusa la nuova Alitalia di ostacolare il diritto di sciopero.

(riceviamo e pubblichiamo)

A:
Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano
Presidente del Senato
Renato Schifani
Presidente della Camera
Gianfranco Fini
Presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi
Sottosegretario Presidenza del Consiglio
Gianni letta
Presidente Commissione Trasporti della Camera
Mario Valducci e componenti Commissione
Presidente Commissione Lavoro della Camera
Silvano Moffa e componenti Commissione
Presidente 8a Commissione Senato e componenti
Commissione
Luigi Grillo e componenti Commissione
Presidente Commissione Lavoro del Senato
Pasquale Giuliano e componenti Commissione
Ministro dei Trasporti
Altero Matteoli
Ministro del Lavoro
Maurizio Sacconi
Presidente Commissione di Garanzia Legge
146/90
Antonio Martone
Segretari e Presidenti dei Partiti
Organizzazioni Sindacali
Organi di informazione
Lavoratori dei Trasporti

Oggetto: “abolizione” del diritto di sciopero nella società CAI/Alitalia

Scrivo questa lettera a nome dell’Organizzazione sindacale che rappresento per
denunciare una situazione che sta diventando grottesca ed al limite della comprensione,
oltre che inaccettabile nei contenuti e nel metodo. Mi rivolgo a Voi in quanto garanti
massimi dei valori costituzionali di questo Paese.

Sicuramente siete a conoscenza di come si è “evoluta” la questione Alitalia e del
trasporto aereo nel nostro Paese, della drammaticità della condizione di circa la metà dei
dipendenti della Compagnia di Bandiera che non sono più in produzione, di quelli che sono
forzatamente in cassa integrazione e ci rimarranno sino all’ottenimento del minimo della
pensione e soprattutto di quelle migliaia che invece tra qualche anno si troveranno senza
ammortizzatori, senza pensione e senza lavoro in una situazione economica caratterizzata
da forte crisi e ad un’età nella quale una ricollocazione nel mondo del lavoro sarà
difficilissima, se non impossibile. Più che drammatica poi la condizione di migliaia di precari
(tra i quali tantissimi trentenni e quarantenni) che non hanno ammortizzatori sociali, hanno
perso lavoro e speranza di riottenerlo e si trovano a ricercare un’attività che li faccia
sopravvivere in una fase economica che, come già detto, è assolutamente priva di occasioni
e di opportunità.

Forse meno conosciute sono le condizioni di chi è rimasto a lavorare, di quanto e di
come si lavori nella “nuova Compagnia”, del clima di paura e di tensione che si vive ogni
giorno, di come il lavoratore sia frustrato ed abbia perso qualsiasi motivazione, elemento
questo importante in qualsiasi attività di lavoro, ma fondamentale in un’azienda di servizi e
di trasporto.

A prescindere dalle valutazioni di merito sull’intera operazione rispetto alla quale
abbiamo espresso e continuiamo ad esprimere dubbi, perplessità e forte preoccupazione, è
indubbio che se sindacati fortemente rappresentativi nel trasporto aereo come SdL (in tutte
le categorie presenti in Alitalia), come Anpac e UP (con la quasi totalità della
rappresentanza dei piloti), con altre associazioni che hanno siglato sotto ricatto e in un
secondo momento (Anpav e Avia) e con fortissime critiche e differenziazioni all’interno dello
stesso sindacato confederale, allora vuol dire che è esistito un forte dissenso ed ancora
adesso non si è trovato un equilibrio nei rapporti tra lavoratori ed azienda.

Se è vero tutto ciò, è evidente che i lavoratori ed il sindacato hanno il dovere di
utilizzare la leva del dissenso e per fare ciò hanno bisogno di poter contrattare con l’azienda
migliori condizioni di lavoro, richiedere il rispetto di diritti elementari messi in discussione
dalla nuova dirigenza, chiedere a gran voce maggiore occupazione e trasparenti
meccanismi di riassunzione del personale in cassa integrazione e precario. Per fare ciò, cioè
“semplicemente” per fare sindacato, se necessario, dovrebbe essere disponibile anche lo
strumento costituzionale dello sciopero.
A questo punto la situazione si complica notevolmente: SdL non può trattare perché
l’Azienda si rifiuta di avere rapporti con chi non ha sottoscritto accordi che riteneva
assolutamente non soddisfacenti e non equilibrati per i lavoratori, per il Paese e per
l’azienda stessa.

Non resta quindi che utilizzare lo strumento dello sciopero e qui si pone un problema
che sta travalicando l’intera vicenda Alitalia ed assume caratteristica di negazione di diritti
costituzionali che dovrebbero essere garantiti in uno stato di diritto.
SdL ha iniziato una vertenza alla fine del 2008 e sino ad oggi gli è stato negato per
ben sette volte il diritto di sciopero in Alitalia. Di fatto è stato messo in campo un
meccanismo per il quale se esiste il pur minimo appiglio o dubbio sulla legittimità, anche se
ipotetica o potenziale, interviene la Commissione di Garanzia e vieta lo sciopero. Molto più
spesso, invece, non potendo intervenire la Commissione perché lo sciopero è
assolutamente indiscutibile da qualsiasi punto di vista, è il Ministro a vietare l’azione di
sciopero adducendo le più svariate, fantasiose o incomprensibili motivazioni.

Di fatto lo sciopero in Alitalia è da mesi vietato per ordinanza ministeriale.
Ma è possibile eliminare un diritto costituzionale attraverso ripetute ordinanze
ministeriali che non presentano di fatto quelle motivazioni straordinarie che possono
portare a richiedere di revocare e poi vietare uno sciopero, sospendendo così l’esercizio di
un diritto costituzionale? Ed è altrettanto indubbio che un diritto costituzionale non possa
essere sospeso perché l’azienda ha problemi, perché è nata da poco, perché lo sciopero
recherà disagi agli utenti, perché potrebbero esistere generici problemi di ordine pubblico
che si rivelano sempre inesistenti (queste le ripetute motivazioni contenute nelle
ordinanze).

Lo sciopero è strumento e diritto costituzionalmente previsto e tutelato e porta con
se il fatto che reca danno ad un’azienda o può creare disagi all’utenza di quel servizio. Non
sarebbe uno sciopero se così non fosse e non sono certo i lavoratori ad essere contenti di
dover utilizzare questo strumento di riequilibrio dei rapporti con l’azienda, visto che pagano
di tasca loro ogni giornata di sciopero.
Viene da pensare che se si vieta ormai da quasi un anno lo sciopero in CAI/Alitalia,
se anche per il prossimo sciopero del 20 luglio il Ministro Matteoli ha già effettuato l’invito
alla nostra Organizzazione a sospendere l’azione, cosa questa che prelude una nuova
ordinanza di divieto (l’ottava), allora c’è veramente qualche cosa che non funziona.
La piena consapevolezza di ciò è data anche dal fatto che l’invito a differire e la
successiva ordinanza di divieto, vengono effettuate dal Ministro non con tempi sufficienti
per permettere al sindacato di ricorrere eventualmente al TAR, ma si concretizzano
VOLUTAMENTE nei giorni a ridosso dello sciopero, per non dare la possibilità di ricorrere
alla magistratura e richiedere la sospensione dell’ordinanza.

Ciò sta avvenendo anche in queste ore –
– Indizione sciopero per il 20 luglio effettuata il giorno 26 giugno 2009, cioè ben 24 giorni
prima della data dello sciopero stesso.
– Invito a differire arrivato il giorno 14 luglio (6 giorni prima dello sciopero).
– Incontro previsto dalla legge oggi, 15 luglio 2009 (5 giorni prima dello sciopero).
– Probabile arrivo dell’ordinanza il 16 o il 17 luglio (3 o 4 giorni prima dello sciopero).
Risultato ottenuto: impossibile temporalmente presentare richiesta di sospensione
dell’ordinanza e arrivare a sentenza prima del giorno dello sciopero.
Questa procedura è stata applicata sistematicamente dal ministero dei Trasporti,
dimostrando con ciò che esiste una precisa volontà anche di sottrarsi al giudizio del TAR
che, se giunge dopo il giorno dello sciopero previsto, può entrare nel merito ma non certo
discutere e decidere sull’unico provvedimento necessario, cioè la sospensione
dell’ordinanza.

Una cosa è contemperare il diritto dell’utenza alla mobilità con l’esercizio del diritto
di sciopero dei lavoratori, cosa diversa è vietare sistematicamente lo sciopero, sostenendo
di fatto gli interessi dell’azienda.
Ciò produce a nostro avviso più di un effetto:
1. si privano i lavoratori di un diritto costituzionalmente garantito;
2. si indebolisce consapevolmente la forza dei lavoratori e del sindacato;
3. mentre l’azienda, tra i sindacati, effettua una scelta impropria ed arbitraria tra chi
può e non può trattare soltanto in base ad un consenso preventivo alle decisioni
prese dalla stessa azienda, si rende meno forte quel sindacato che non è funzionale
ai desideri della dirigenza e della proprietà aziendale – si produce un danno enorme
al sindacato ed ai lavoratori che ad esso aderiscono;
4. si costruisce progressivamente una situazione esplosiva che oggi viene tenuta a
freno da un sistema basato sulla paura, ma domani potrebbe emergere in modo
drammatico;
5. tra l’altro si sta di fatto costruendo un sistema di “tutela degli interessi di un
vettore”, che a nostro avviso si potrebbe configurare anche come distorsione della
concorrenza, un paradossale impedimento proprio a quel “libero mercato” a cui a
parole si ispirano molti dei soggetti che hanno sostenuto l’attuale “soluzione Alitalia”
– è infatti evidente che se in un’azienda non si può scioperare, i lavoratori ed il
sindacato hanno meno peso specifico di quello espresso in aziende nelle quali è
libero il confronto e, se necessario, il conflitto;
6. si dice che SdL è un piccolo sindacato e significativamente meno importante di altri,
ma allora, se la situazione di Alitalia e dei suoi lavoratori viene da molti
rappresentata come soddisfacente e positiva, perché vietare uno sciopero che, se
fossero vere questi presupposti, non avrebbe alcun effetto?

Per questi motivi sono qui a richiedere un Vostro autorevole intervento perché venga
rimosso questo inaccettabile ed immotivato impedimento ad un diritto costituzionalmente
previsto e tutelato, a cominciare dallo sciopero previsto per il giorno 20. Precisiamo altresì
che siamo disponibili ad un incontro immediato con la dirigenza aziendale per evitare lo
sciopero e per ricostruire un ambito di confronto costruttivo tra le parti sociali.
Rimango in attesa di un Vostro gentile riscontro e disponibile a qualsiasi ulteriore
approfondimento ed incontro sulla materia posta alla Vostra attenzione.

Distinti saluti
Il Coordinatore Nazionale
Fabrizio Tomaselli
____________________
SdL Intercategoriale
Sede Nazionale: Via Laurentina, 185 – 00142 Roma – telefono: 06.59640004 Fax: 06.54070448 –
segreterianazionale@sdlintercategoriale.it – www.sdlintercategoriale.it (Beh, buona giornata).

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“Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, a maggio il debito pubblico ha raggiunto quota 1.752 miliardi e 188 milioni di euro. Di mese in mese, si macinano nuovi record negativi, che riportano i conti pubblici verso il baratro dei primi anni ’90 quando sfiorammo, allegramente inconsapevoli, la bancarotta argentina.”

di Massimo Giannini-repubblica.it
Corri che ti passa, consiglia il “Wall Street Journal” a chi sente i morsi della crisi, e soprattutto a chi ha perso il lavoro. Ma per gli italiani è un po’ più difficile. Provateci voi, a correre con un fardello di quasi 30 mila euro sulle spalle. Perché a tanto ammonta il debito che ciascun cittadino del Belpaese, suo malgrado, contrae e si porta appresso dalla culla alla bara.

Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, a maggio il debito pubblico ha raggiunto quota 1.752 miliardi e 188 milioni di euro. Di mese in mese, si macinano nuovi record negativi, che riportano i conti pubblici verso il baratro dei primi anni ’90 quando sfiorammo, allegramente inconsapevoli, la bancarotta argentina.

Per un debito che esplode, ci sono le entrate che implodono: anche a maggio l’ennesima contrazione del 3,2 per cento, il che vuol dire che sono andati in fumo, da un anno all’altro, oltre 5 miliardi di euro.

Crisi economica, certamente. Calo dei gettiti derivante dalla contrazione delle attività produttive, senz’altro. Ma anche, ormai è chiaro, aumento dell’evasione fiscale, incentivata da una dissennata politica del doppio binario: bastone minacciato (attraverso improbabili Global Legal Standard e inverificabili chiusure ai paradisi tributari) e carota assicurata (attraverso scudi che nascondono condoni e semplificazioni che si traducono in esenzioni).

E in queste condizioni noi dovremmo correre? Può funzionare in America, forse. Il “Wall Street Journal”, appunto, ha fatto una curiosa inchiesta. Mettendo in parallelo i risultati delle grandi maratone internazionali e gli andamenti dell’economia, ha scoperto che nelle fasi di crisi più acuta, come quella che stiamo vivendo e che è iniziata nel 2008, le performance degli atleti sono state assai migliori che in passato. La tesi è che il disoccupato ha più tempo per allenarsi, e in qualche caso è anche meno stressato del corridore che lavora e deve difendere quotidianamente il posto dalle minacce della recessione.

La tesi è suggestiva, ma per noi tutt’altro che consolatoria. Con questi drastici peggioramenti nei saldi della finanza pubblica e con questi chiari di luna sulla congiuntura, che promette un settembre nero per molte imprese a corto di ordini e di liquidità, la corsa non è una risorsa. Serve un premier che ricominci a occuparsi del governo del Paese, più che dell’organizzazione delle sue nottate. Serve un ministro che ricominci a occuparsi più dell’economia, e un po’ meno della filosofia. “Qualcuno con cui correre” era il titolo di un bellissimo libro di David Grossman di qualche anno fa. Non vorremmmo scoprirci ad essere una moltitudine, nell’autunno caldo che verrà. (Beh, buona giornata).

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Stiamo uscendo dalla crisi?: “I 366 operai affermano di aver già posizionato delle bombole di gas collegate tra di loro in varie parti della fabbrica e di essere pronti a far saltare tutto se non si arriverà ad un accordo entro la fine del mese.”

Francia, operai in rivolta-“Facciamo saltare la fabbrica”-(fonte:repubblica.it)

PARIGI – Operai francesi in rivolta. I lavoratori della New Fabris di Chatellerault, nell’ovest della Francia, una fabbrica italiana di componenti automobilistici in fallimento, sono pronti ad un gesto estremo: se i gruppi Psa Peugeot Citroen e Renault – ex clienti dell’azienda – non verseranno 30mila euro di indennità ad ogni dipendente licenziato, faranno esplodere l’impianto. L’ultimatum scade il 31 luglio.

I 366 operai affermano di aver già posizionato delle bombole di gas collegate tra di loro in varie parti della fabbrica e di essere pronti a far saltare tutto se non si arriverà ad un accordo entro la fine del mese.

L’azienda, proprietà della veneta Zen, di Florindo Garro, da giugno è in liquidazione. Un centinaio di operai, in gran parte cinquantenni, resteranno senza lavoro e difficilmente ne troveranno un altro. Il valore dell’indennità richiesta è la stessa cifra che Renault e Psa avrebbero già versato a circa 200 dipendenti licenziati del gruppo Rencast, anche questo specializzato in componentistica auto.

“Non lasceremo che Psa e Renault aspettino agosto o settembre per recuperare i pezzi in stock e i macchinari. Se non avremo nulla noi, non avranno nulla nemmeno loro”, ha detto Guy Eyermann, responsabile sindacale. Le richieste sono state respinte dalla Psa e dalla Renault, proprietari di componenti e macchinari che si trovano all’interno della fabbrica per un valore complessivo di quasi 4 milioni di euro. “Non sta a noi sostituirci agli azionisti”, è stata la risposta della direzione di Psa Peugeot-Citroen. I rappresentanti degli operai della New Fabris, che hanno già incontrato i responsabili del gruppo Psa la settimana scorsa, saranno ricevuti giovedì dalla Renault. I lavoratori a rischio licenziamento hanno ottenuto inoltre un incontro con il ministro dell’Industria e dell’Economia Christian Estrosi il prossimo 20 luglio.

La scorsa primavera, sotto le minacce di licenziamento, centinaia di operai avevano sequestrato i dirigenti di alcune fabbriche come la Caterpillar di Grenoble (al sud), la 3M di Pithiviers (nel centro) e l’impianto Sony nelle Landes (sulla costa atlantica). Beh, buona giornata.

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Che cosa stanno facendo le banche italiane?

PERCHÉ DRAGHI HA FRUSTATO LE BANCHE
di Marco Onado-lavoce.info

Istituti di credito avversi al rischio o pessimisti sulle prospettive delle imprese italiane? Le banche sono state aiutate ma appaiono restie a svolgere il loro ruolo nei confronti del sistema produttivo in una crisi che è ancora tutta da superare. Siamo ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora può avviarsi la terza, quella della riforma.

L’intervento del Governatore Mario Draghi all’assemblea dell’Abi solleva alcuni problemi delicati, che tolgono molto smalto all’ottimismo di facciata di questi giorni sia per quanto riguarda la situazione italiana, sia per quanto riguarda lo scenario internazionale.
Sul primo fronte, c’è da rilevare che fin dalla relazione di fine maggio, Draghi ha utilizzato toni insolitamente aspri nei confronti delle banche italiane, andando al di là delle abituali esortazioni. Nelle considerazioni finali aveva ammonito contro il rischio che un eccesso di prudenza nella valutazione del rischio di credito determinasse fenomeni di “asfissia finanziaria” in una parte significativa del sistema produttivo italiano. L’8 luglio ha insistito sul tema, mettendo in evidenza che il tasso di crescita del settore privato è ormai negativo (-0,9 per cento a maggio su base annua) contro un tasso medio di crescita del 9,6 nella media dell’ultimo decennio. Una frenata che appare determinata soprattutto dai grandi gruppi e che colpisce le imprese più che le famiglie. Inoltre, anche in termini di costo, cioè di tassi di interesse, si nota “ampliamento del divario nel costo del credito tra piccole e grandi imprese, con effetti negativi per chi oggi ha maggiormente bisogno di accedere al finanziamento bancario”.

LO STRANO REGALO DELLA BCE

In questo quadro indubbiamente preoccupante, si inserisce un autentico giallo: la Bce ha deciso a giugno un ulteriore, eccezionale rifinanziamento per 442 miliardi di euro al tasso dell’1 per cento. Molti, fra cui Willem Buiter, hanno ritenuto l’operazione un autentico “regalo” al sistema bancario di Eurolandia (dell’ordine di almeno 7 miliardi); altri hanno con cinico realismo osservato che tutto serve purché il credito al settore privato riprenda. Alla bella festa organizzata a Francoforte sono infatti accorsi numerosi: ben 1121 controparti, secondo il dato comunicato da Draghi: sembra di vedere gli invitati che sgomitano al tavolo del buffet. Le banche italiane si sono invece tenute in disparte e hanno utilizzato solo il 3 per cento dei fondi. Perché? Il Governatore, deviando dal testo scritto, ha detto di non avere una risposta e se non ce l’ha lui, figuriamoci un povero commentatore esterno. Ma rimane un interrogativo inquietante: cosa sta succedendo alle banche italiane? Non hanno problemi patrimoniali, perché Draghi ce lo dice continuamente e proprio all’Abi ha annunciato i risultati, sostanzialmente favorevoli, dello stress test condotto in questi giorni. Non hanno un problema di liquidità perché ricorrono in misura largamente inferiore alle altre di Eurolandia ad operazioni straordinarie per importo e convenienza. Ma hanno anche bisogno sia di consolidare i rapporti con la parte migliore del settore produttivo, sia di aumentare i ricavi e in particolare quelli da interessi.

TROPPA PRUDENZA?

E’ ovvio che la crisi determini un aumento del rischio di credito e dunque una doverosa prudenza. In effetti, ha ricordato Draghi, nel primo trimestre 2009 gli accantonamenti per perdite su crediti dei maggiori gruppi sono più che raddoppiati, assorbendo metà del risultato di gestione. Ma delle due l’una: o le banche sono diventate eccezionalmente avverse al rischio e stanno mettendo in atto un razionamento senza precedenti. Oppure valutano in modo estremamente pessimistico la situazione prospettica delle imprese (anche perché giustamente lavorano sui dati ufficiali, cioè quelli inquinati dal lieto passatempo dell’evasione fiscale così ben praticato nel nostro paese). Nel primo caso, le misure di concertazione proposte dal Ministro del Tesoro sempre all’Assemblea dell’Abi possono risultare insufficienti, nonostante l’entusiasmo iniziale delle parti coinvolte. Nel secondo caso, bisogna almeno concludere che i “verdi germogli” della ripresa sono ancora una speranza e che il rischio, sollevato dall’Ocse, che la crisi porti una distruzione di capacità produttiva e dunque una riduzione del potenziale di crescita italiano (già molto bassa nel confronto internazionale) è tutt’altro che remoto.

MA LA CRISI NON E’ FINITA

La domanda cruciale è quindi se la crisi è davvero finita o no. Le parole di Draghi non autorizzano a rispondere affermativamente e, quello che è peggio, la relazione della Banca dei regolamenti internazionali pubblicata a fine di giugno dà una risposta sostanzialmente negativa. In sostanza, afferma l’autorevole istituzione di Basilea, la crisi è ancora alla prima fase: quella dei salvataggi bancari; la seconda, quella della ripresa, non potrà iniziare fino a quando non ci sarà chiarezza sulla situazione effettiva delle banche internazionali; solo allora puٍò avviarsi la terza, cioè quella della riforma. Tre “R” nella versione inglese: rescue, recovery, reform. La colpa del mancato accertamento dello stato di salute delle banche non è certo italiana: da ultimo sono stati i tedeschi a stendere cortine fumogene sulle loro banche, ma comunque anche sul nostro paese ricade il rischio di una situazione che il Giappone ha sperimentato per oltre un decennio; banche con bilanci zoppicanti, che sopravvivono solo per la colpevole indulgenza delle autorità nazionali: le famigerate “zombie banks”. Anzi, proprio perché il sistema produttivo italiano è oggettivamente più frammentato e stava attraversando un delicato periodo di ristrutturazione, i rischi di un’involuzione alla giapponese sono ancora più forti.
In tutto questo, c’è da rallegrarsi che siano stati approvati a L’Aquila i global legal standards, principi generalissimi che l’Ocse tradurrà in principi più stringenti, nella speranza che i singoli paesi lo traducano nelle rispettive legislazioni in modo omogeneo e completo. Ma le decisioni concrete sul sistema bancario internazionale che possono consentire di chiudere la fase della prima “R” (rescue, cioè puro salvataggio) sono ancora da venire. E la seconda “R” della ripresa, dice la Bri che non risulta ancora inquinata da cieco furore antigovernativo, è ancora lontana. (Beh, buona giornata).

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I ventuno arresti degli studenti dell’Onda: il vecchio trucco di costruire il nemico interno per nascondere le difficoltà esterne.

Scontri G8 università Torino: 21 arresti. Da Milano a Palermo studenti occupano-ilmessaggero.it

Università occupate in tutta Italia dopo che 21 persone sono state raggiunte da misure cautelari (16 in carcere e cinque ai domiciliari) per gli incidenti avvenuti lo scorso 18 maggio a Torino in occasione del G8 dell’Università. Il Gip motiva le ordinanze con il rischio di reiterazione dei reati al summit dell’Aquila, ossia pericolo che gli indagati ripetano quelle azione al vertice. Il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli ha parlato di manifestanti «organizzati in modo paramilitare». Negli arresti colpiti in particolare due centri sociali “storici”: il Pedro di Padova e l’Insurgencia di Napoli.

Gip: rischio reiterazione reati all’Aquila. GLi arresti vengono motivati dal giudice per le indagini preliminari con il pericolo di reiterazione dei reati, anche «in vista dell’imminente apertura dei lavori del G8» dell’Aquila. Gli arrestati, si legge infatti nell’ordinanza, «appartengono a un comune ambiente, riconducibile al movimento antagonista non solo torinese, in grado di elaborare un disegno criminale collettivo ben organizzato, preparato in anticipo, suscettibile di porre in serio pericolo l’incolumità personale delle forze dell’ordine e di turbare gravemente l’ordine pubblico». Ciò «rende evidente l’estrema concretezza e gravità del rischio di reiterazione di analoghe condotte criminose». Tanto più, conclude il giudice, «in vista dell’imminente apertura dei lavori del G8».

Sul web messaggio e foto di una bomba carta. Sulla pagina lombarda del sito web Indymedia, uno dei portali di riferimento della galassia antagonista, è apparso un post intitolato «E allora ‘l’onda si fece bomba», accompagnato dalla foto di una bomba carta. Il messaggio è rimasto visibile per circa mezz’ora, poi è stato cancellato. Nell’immagine, a sinistra ci sono una miccia, quella che sembra polvere da sparo, un foglio di carta e un piccolo cilindro. A destra l’ordigno pronto. Sotto, la scritta: «Pensate che gli arresti ci spaventano? Pensate di impedirci di manifestare? Pensate che gabbie e manganelli salveranno la vostra società di sfruttamento? Pensate male». Il post anonimo, inserito alle 16.26, è stato immediatamente più volte commentato prima di essere rimosso.

Le occupazioni. Prima l’occupazione del rettorato dell’ateneo di Torino, poi quella di tante altre università da parte degli studenti dell’Onda che chiedono ai rettori di prendere posizioni contro gli arresti. Occupati l’ufficio del pro-rettore de La Sapienza (gli studenti hanno deciso che resteranno anche stanotte) la facoltà di Architettura di Roma Tre, il Rettorato di Bologna, della Federico II a Napoli, di Pisa, Venezia, e La Statale di Milano dove la situazione è tornata alla normalità dopo che gli studenti hanno incontrato il preside della facoltà di Lettere e Filosofia. Gli universitari si sono uniti a un presidio già previsto davanti alla Prefettura contro la nuova normativa in tema di sicurezza. A Venezia il Rettore Carlo Magnani ha preso posizione contraria agli arresti. Protesta anche a Genova con gli studenti dell’Onda che sono entrati con striscioni alla conferenza strategica sul futuro della città. Il rettore dell’ateneo genovese, Giacomo Deferrari, ha risposto esprimendo solidarietà. Solidarietà anche da parte del sindaco di Genova Marta Vincenzi. Si mobilitano anche gli studenti di Cagliari che entrano in assemblea permanente nella facoltà di Scienze della Formazione. Protesta anche a Palermo con l’occupazione delle facoltà di Lettere e
Filosofia e di Scienze politiche.

Cortei, striscioni e proteste. Sarebbero un centinaio a Napoli dove domani si prevede una mobilitazione, una ventina quelli del movimento pisano dell’Onda a Pisa, a Bologna gli studenti hanno improvvisato un corteo, alla Sapienza i ragazzi hanno invaso l’ufficio del pro-rettore Avallone, a Roma Tre una cinquantina di aderenti della Rete V Strategy che fa parte del cartello anti G8 hanno occupato Architettura. Alla Statale di Milano esposti striscioni dal rettorato con la scritta “Liberi tutti, liberi subito”.

Agnoletto: si alimenta la tensione verso il summit dell’Aquila. Gli arresti «a due giorni dal G8 dell’Aquila è un chiaro messaggio da parte del Governo, che così facendo alimenta ed esaspera il clima di tensione verso l’evento (come aveva fatto a Genova, otto anni fa)». Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8 di Genova parla di «strategia finalizzata a spostare l’attenzione dei media e dei cittadini dalle due vere notizie: il fallimento annunciato di quest’ennesimo vertice e l’evidente perdita di credibilità di Berlusconi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale»

Luca Casarini, il leader dei disobbedienti, ha sottolineato che si tratta di «arresti preventivi di stampo fascista, un’operazione politica fatta prima del G8 e dopo il vertice si smonterà». Per Luca Casarini «dietro» quanto accaduto «c’è la mano dei servizi segreti italiani: non siamo disposti ad accettare questo tipo di imposizioni e di vergogne nazionali». «Chiunque ci sia dietro – spiega – pagherà molto caro quello che sta succedendo».

Onda: Maroni il mandante. E’ Roberto Maroni sottolinea l’Onda Anomala di Torino, «il mandante di questa operazione che, oltre a reprimere il dissenso, compie una azione preventiva in vista dell’imminente G8 dell’Aquila». Di «arresti ad orologeria» parla anche Lele Rizzo, leader del network antagonista torinese: «Potevano fare tutto dieci giorni fa», afferma Rizzo, che scagiona i suoi compagni arrestati: «Al corteo – dice – di paramilitare c’era ben poco».

Gli arresti. Dodici persone sono state arrestate a Torino, mentre le altre a Padova, Bologna, Napoli e L’Aquila. A Padova ordine di arresto per il leader del centro sociale padovano Pedro Max Gallob e un esponente dell’ala universitaria della disobbedienza padovana, attualmente in Iran, suo paese di origine. Un altro attivista è stato sottoposto a perquisizione domiciliare. All’Aquila arrestato Egidio Giordano, napoletano di 25 anni, uno dei leader del centro sociale Insurgencia di Napoli che ha partecipato alla fiaccolata di ieri dei cittadini aquilani. Alcuni degli arrestati, ha inoltre reso noto la procura di Torino, hanno partecipato agli scontri di Vincenza, sabato scorso in occasione della manifestazione No Dal Molin.

Legale leader centro sociale Padova: strana l’ordinanza dopo tanto tempo. È «particolare» che le ordinanze di custodia per i tafferugli di Torino del maggio scorso «vengano emesse, per un episodio di scontri di piazza, a distanza di più di un mese dall’accaduto». La riflessione è dell’avvocato Aurora D’Agostino, legale che assiste Max Gallob, e che ha annunciato il ricorso al tribunale del riesame. Il legale ha anche detto che l’ordinanza del gip è datata 3 luglio, ma non si sa quando la procura ha chiesto le misure cautelari. L’avvocato D’Agostino ha anche detto che la procura aveva chiesto i domiciliari per tre persone, mentre il gip ha ritenuto di applicare tale misura a cinque giovani, mentre per gli altri 16 ha firmato l’ordinanza di custodia in carcere. Dopo aver ricordato che nell’ordinanza si contesta ai giovani l’uso di bastoni ed estintori ed il lancio di pietre e fumogeni, il legale ha sottolineato che le lesioni riportate dagli uomini delle forze dell’ordine, reato indicato tra le accuse, vanno da prognosi di tre o quattro giorni alla più grave di 15 giorni.

Tra gli indagati anche uno studente di Gemonio, 25 anni, denunciato per violenza privata in concorso. Nella sua abitazione la Digos ha trovato fogli e volantini che dimostrerebbero, secondo gli investigatori, che lo studente è vicino all’area del centro sociale Askatasuna. Avrebbe partecipato a una delle manifestazioni in cui erano state chiuse con delle catene le entrate di una banca nel capoluogo piemontese.

Nelle scorse settimane erano già state arrestate due persone. Domenico Sisi, parente del sindacalista Vincenzo Sisi processato a Milano con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica, e Alessandro Arrigoni, dipendente della prefettura di Milano. Entrambi avevano poi avuto l’obbligo di dimora.(Beh, buona giornata).

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“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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Il capolinea del governo Berlusconi.

(fonte: blitzquotidiano.it)
A Berlusconi non far sapere…ma la crisi bussa tre volte in un giorno solo. Alla porta del suo governo ma, quel che più importa, anche alla porta di casa nostra. Come il premier, anche ciascuno di noi preferisce tenerla fuori dell’uscio, ignorare i rintocchi, aspettare che si stufi e si stanchi di importunarci. Però la crisi non se ne va, anzi bussa, tre volte in un giorno.

La prima volta suona per chi i soldi li ha: 102 miliardi di quotazioni azionarie come si dice “in fumo” in un giorno. Miliardi che un giorno vanno e un giorno vengono, non è il caso di farne un dramma. E poi riguarda appunto chi ha azioni e chi ce l’ha più tra la gente normale? Solo i matti.

Se non fosse che le Borse sentono odore di bruciato. Dopo settimane e mesi di risalita perché annusavano la fatidica uscita dalla crisi, adesso sono giorni che si vende, si vende. Si vende perché non si crede che molte aziende, quelle che fabbricano cose e non finanza ce la facciano ad arrivare a fine anno. A leggere tra le righe delle cronache dei giornali si vede che molte chiusure per ferie quest’anno rischiano di essere chiusure e basta. Storie di piccole aziende, comunque la prima bussata è per investitori e azionisti, il più di noi può non sentirla.

La seconda bussata riguarda chi lavora a stipendio e a salario. Un po’ di più, parecchia più gente. La seconda bussata dice che in Europa la disoccupazione è arrivata al 9,5 per cento. Altissima. Traduzione: chi ha un lavoro rischia di perderlo, chi non ce l’ha un lavoro è quasi sicuro che non lo trova. Almeno fino al 2010, arrivarci al 2010.

La terza bussata è per i nostri figli e nipoti: il deficit dello Stato italiano nei primi tre mesi dell’anno ha viaggiato a quota 9,3 per cento della ricchezza prodotta. Una volta il tre per cento era il limite, il 4 segnale d’allarme. Ora quel nove e passa dice che lo Stato si indebita sempre più e pagheranno i figli e i nipoti nei prossimi anni e decenni. Tasse? Non ce ne sarà bisogno: sarà una tassa chiamata inflazione ad asciugare l’alluvione del debito.

Tre colpi alla porta in un solo giorno, uno per chi i soldi li ha, uno per chi vive di lavoro, l’altro per il futuro delle famiglie. Meglio non sentirli, accendiamo la tv. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: il Sole 24 Ore, giornale di Confindustria piomba a- 8% e minaccia sfracelli.

Il Sole 24 Ore ha diffuso alle agenzie stampa una nota dove comunica che il CdA del gruppo editoriale, preso atto delle proiezioni riguardanti l’esercizio in corso, si aspetta una flessione dei ricavi di circa l’8%, tenuto conto della variazione di perimetro rispetto al passato esercizio, derivante prevalentemente dalla minor raccolta pubblicitaria.

Per far fronte a questa dimunizione dei ricavi, il Consiglio di Amministrazione ha dato mandato al Presidente e all’Amministratore Delegato di predisporre ulteriori incisive iniziative, anche strutturali, di contenimento dei costi. Beh, buona giornata.

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La politica italiana sembra sempre di più un reality show, “e Berlusconi non soltanto è il campione in carica dei reality show, ne è anche il produttore esecutivo”.

Economist: “Il vero scandalo? Berlusconi che nega la crisi” di ENRICO FRANCESCHINI-Repubblica.

Il padrone di casa del G8, il summit dei grandi della terra che si tiene la settimana prossima all’Aquila, ha “tanti luridi scandali” domestici: ma il più grosso dovrebbe essere il suo rifiuto di riconoscere i problemi economici dell’Italia. Così scrive l’Economist in un ampio servizio dedicato a Silvio Berlusconi nel numero oggi in edicola. Il settimanale concentra l’attenzione su un aspetto singolare del vertice: vedendo i danni causati dal terremoto all’Aquila, i leader del G8 potrebbero pensare che anche le loro economie sono state scosse fino alle fondamenta dalla recessione globale. Ma uno di essi non lo pensa: “Il primo ministro italiano insiste che la recessione, nel suo paese, non sarà severa né prolungata come altrove”.

L’Economist osserva che, a prima vista, ciò può apparire veritiero. Il sistema bancario italiano, avendo vissuto isolato e protetto dal resto del mondo, non ha sofferto i disastri di banche americane o britanniche. E un’economia fatta di tante piccole industrie non porta la crisi in prima pagina come fa, negli Usa, il collasso di un gigante quale la General Motors. Ma l’autorevole periodico (un milione e mezzo di copie di tiratura, vendute in tutto il mondo, la maggior parte fuori dal Regno Unito, il che gli dà il titolo di primo vero giornale globale) nota i fattori negativi della nostra economia: la dipendenza dalla esportazioni, l’enorme debito pubblico, la mancanza di riforme per liberalizzare il mondo del lavoro e riformare il sistema pensionistico. L’Economist elenca le previsioni allarmistiche sul futuro dell’Italia fatte negli ultimi tempi da organismi internazionali e dalla stessa Banca d’Italia, sottolineando che Berlusconi ha reagito a questi dati arrabbiandosi, affermando che bisogna “chiudere la bocca a chi parla di crisi”, e suggerendo alle aziende di non fare pubblicità sui giornali che spargono pessimismo.

Conclude il settimanale: “Avendo già incrinato la propria credibilità con la sua vita privata, rifiutando di mantenere l’impegno di spiegare in parlamento la sua relazione con un’aspirante modella 18enne, e ritorvandosi ora a dover rispondere a un mucchio di storie su call-girl intrattenute nella sua residenza di Roma, il premier non può permettere che le sue affermazioni sulla salute dell’economia siano contraddette da prove lampanti davanti agli occhi e alle orecchie degli elettori”.

Di Berlusconi si occupa anche l’americano Time. Ospitando il G8 all’Aquila, il premier italiano sperava di attirare attenzioni positive su di sé e sul suo paese, scrive il settimanale, ma invece “sono le storie sulle feste del premier che catturano l’immaginazione”. Time ricostruisce i vari scandali da Noemi a Patrizia D’Addario, riferendo dell’inchiesta dei pm pugliesi e notando che Berlusconi liquida tutte le polemiche come “spazzatura” e pettegolezzi. “E’ possibile, se le indagini sulla prostituzione porteranno a conclusioni imbarazzanti, che Berlusconi debba dimettersi, aprendo la strada a un governo a interim guidato da qualcuno come il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi o il ministro dell’Economia Giulio Tremonti”, afferma Time. Ma aggiunge anche che è presto per dare Berlusconi per spacciato: la politica italiana sembra sempre di più un reality show, “e Berlusconi non soltanto è il campione in carica dei reality show, ne è anche il produttore esecutivo”. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Negli USA e nella UE, la fiducia nella ripresa è disoccupata.

Disoccupazione da record negli Usa nel mese di giugno. Il tasso è infatti salito al 9,5 per cento e sono stati persi 467 mila posti di lavoro. E’ il livello massimo dal 1983. “Ci vorranno ancora mesi per uscire dalla crisi” è stato il commento del presidente Usa Barack Obama. E da Francoforte il presidente della Bce ha confermato: “La ripresa ci sarà solo a metà del 2010”.

Aumento disoccupati anche nell’Ue. La disoccupazione è in aumento anche in Europa. A maggio il tasso nei Paesi di Eurolandia si è attestato al 9,5 per cento secondo i dati Eurostat. La situazione migliore è in Olanda (3,2 per cento) e la peggiore in Estonia (15,6 per cento). L’Italia è sotto la media europea al 7,4 per cento. Per tutta l’Unione europea l’aumento è dell’8,9 per cento rispetto all’8,7 di aprile ed il 6,8 del maggio 2008. In questo caso siamo al livello più alto da giugno 2005. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Niente fiori, ma dimissioni sulle tombe dei morti di Viareggio.

Questo invito è rivolto a: i ministri Sacconi (lavoro) e Matteoli (infrastrutture e trasporti); l’on Mario Valducci (commissione trasporti Camera dei Deputati); il sen. Luigi Grillo (commissione lavori pubblici e comunicazione Senato della Repubblica); il Vice presidente della Commissione europea, responsabile per la politica dei Trasporti, Tajani; il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bertolaso (capo del dipartimento della Protezione civile); l’on. Berlusconi, Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana. Beh, buona giornata.

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Attualità Lavoro Leggi e diritto

Perché sono possibili tragedie ferroviarie come quella di Viareggio.

(fonte.ilmessaggero.it)
La rottura di un asse di un carrello del vagone merci è «un incidente tipico» che «non è stato mai tenuto nella giusta considerazione nonostante l’elevatissimo rischio connesso».

Lo affermano in una nota i delegati Rsu/Rls dell’Assemblea nazionale dei ferrovieri, precisando che questo tipo di incidente «si è ripetuto innumerevoli volte, sempre fortunatamente con conseguenze meno gravi, da ultimo nei giorni scorsi sempre in Toscana, a Pisa S. Rossore ed a Prato».

«Il fatto che i carri possano essere di proprietà delle singole aziende produttrici delle merci trasportate e non del gruppo FS – prosegue l’Assemblea nazionale dei ferrovieri, organismo trasversale composto da lavoratori e iscritti a tutte le sigle sindacali – non può essere utilizzato come giustificazione, anzi, questa circostanza pone drammatici interrogativi sulle modalità di controllo e di verifica adottate per l’ammissione a circolare sulla rete».

I ferrovieri, che esprimono «profondo dolore per le tante vittime innocenti» di questa tragedia e ringraziamento ai soccorritori, fanno quindi appello a tutte le autorità istituzionali affinchè «non ignorino le segnalazioni di pericolo», poichè «il trasporto ferroviario è un servizio complesso in cui anche il più piccolo incidente o guasto, può determinare immani tragedie e come tale va analizzato e preso, sempre, nella massima considerazione. Rinnoviamo – aggiungono – la più ferma critica al gruppo dirigente delle Ferrovie che ha dirottato risorse e tecnologia sul servizio ‘luccicantè dell’ alta velocità lasciando che il resto del servizio ferroviario, in particolare merci e pendolari, deperisse sia in termini di qualità che di sicurezza». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Entrate fiscali: -37 miliardi; Pil: -5%; dicoccupazione:+10%; rapporto deficit-pil:+5%; indici di fiducia dei consumatori italiani: al disotto dei minimi storici. Questa è l’Italia del 2009. Cosa ne pensa il capo del governo?

(Ansa.)
NAPOLI – “La crisi che è stata globale ha spiegato la sua massima forza” e se si avrà “fiducia si potrà uscire bene”. E’ quanto sottolineato dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi nel corso della conferenza stampa sul G8 a Napoli. La crisi oggi ha come fattore di debolezza la “sfiducia”, ha spiegato il premier sottolineando che metterla in primo piano, continuando a dire che non finirà mai, porta nei consumatori una paura che si riflette nelle loro abitudini agli acquisti e sui consumi”. Un meccanismo che, con effetto volano – ha aggiunto il premier – si riflette sugli ordini delle imprese con una “regressioné” e quindi sui bilanci delle imprese che calano indebolendo la loro capacità di accesso al credito. Se invece ci “sarà fiducia potremo uscire bene dalla crisì”, ha aggiunto Berlusconi. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Gli operai della Fiat di Termini Imerese sono catastrofisti?

Termini è sola di Loris Campetti-Il Manifesto

L’editto con cui Berlusconi ordina ai sudditi l’ottimismo per superare la crisi richiama, più che la parola d’ordine di Mike Bongiorno ai tempi in cui il Cavaliere non gli aveva ancora dato il benservito (Allegria!), la canzone di Dario Fo “Ho visto un re”: “Perché noi allegri dobbiam restare/ ché il nostro piangere fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam”. I poveracci a cui i potenti hanno tolto il poco che avevano devono essere ottimisti sulle capacità demiurgiche del Re. Ridi dunque, o taci, stai al gioco o sei un disfattista. Sarà difficile che Berlusconi riesca a convincere gli operai di Termini Imerese a starsene buoni, a essere fiduciosi perché la crisi non c’è. Neanche portando ballerine, hostess e escort nella piazza grande del paese riuscirebbe a strappare il sorriso a quelle tute blu che vedono nero e non sono disposti a scomparire in silenzio. Ma se chiude la fabbrica di automobili, ci fa sapere Marchionne sorretto dal consenso, dalla subalternità o dal disinteresse della politica, non c’è problema: ci sarà una bella riconversione. Mica si può vivere di sole automobili. Già, ma che faranno quei 2.200 lavoratori che dipendono direttamente o indirettamente dalla Fiat? Arancini? E per conto di chi?

Il governo italiano si vanta di non aver messo becco sulle scelte della Fiat, per lasciar lavorare il Grande Timoniere. Mentre i governi di tutti i paesi in cui si producono auto intervengono sulle scelte strategiche e mettono mano al portafogli imponendo in cambio vincoli sociali e ambientali, il nostro governo non disturba il manovratore. Così ha buon gioco San Marchionne – a cui vanno riconosciuti coraggio, creatività e intelligenza economica – a evitare confronti sindacali e compromessi sociali, limitandosi a snocciolare le sue categorie: c’è la crisi – lui può dirlo, i suoi operai no – e si fanno troppe automobili. Dovendo tagliare è facile individuare l’agnello sacrificale. E’ Termini Imerese, cattedrale industriale nel deserto geografico e infrastrutturale di Sicilia, dove costa più che altrove produrre e trasportare le vetture. Non fa una piega.
Eppure di pieghe ce ne sono, e molte. Sono 2.200. Nessuno prova a spiegare loro che altro dovrebbero fare invece di assemblare automobili. Nessuno che ricordi che a fronte di un dipendente Fiat coperto, finché durerà la cassa integrazione, dagli ammortizzatori sociali, ce ne sono molti altri totalmente privi di sostegni, dunque espropriati di qualsiasi futuro lavorativo.

Si parla di Termini per parlare di tutta l’industria automobilistica nazionale. Un milione di persone lavora in Italia nel ciclo dell’auto. E il governo, liberale com’è in un mondo in cui si nazionalizzano anche le banche, non mette becco, non disturba. L’opposizione tace, pensando chi al prossimo congresso e chi alle prossime liste elettorali. E del lavoro chi se ne frega. Poi ci si chiede perché il voto operaio è in fuga.
L’autunno che verrà non sarà segnato da cori di osanna al Re.
Perciò destre e governo lavorano alla rottura del sindacato e all’isolamento dei “disfattisti”, togliendo alle opposizioni sociali il diritto di parola e di protesta. Varata con un accordo separato la controriforma dei contratti senza neanche chiedere il parere agli interessati, ora il blocco di potere che riscrive le regole della convivenza lavora a spaccare i metalmeccanici, isolando e criminalizzando la Fiom che non accetta di diventare complice e ostaggio di quel blocco di potere. Ma le lotte di oggi degli operai di Termini Imerese e quelle di pochi giorni fa di Pomigliano d’Arco annunciano sorprese a molti inguaribili ottimisti e ai loro lacché. Non lasciamoli soli. Gli operai, non gli ottimisti e i lacché. (Beh, buona giornata).

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