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I naufraghi di “Fuocoammare” siamo noi.

Una scena di "Fuocoammare", di Gianfranco Rosi.
Una scena di “Fuocoammare”, di Gianfranco Rosi.
Ci sono momenti di poetica alta: quando parla il medico, quando vengono controllate le mani di chi sbarca, quando, in primo piano, le donne piangono, sul ponte della nave che le ha tratte in salvo. Quando si tuffa il pescatore in apnea, di giorno e di notte. Quando Samuele, il bimbo che ha un occhio pigro e un senso d’angoscia, simbolo del sentimento di tutti i suoi compaesani, cinguetta di notte con un uccellino, come un dialogo possibile tra due specie viventi, pur differenti.

Ma anche quando si vedono i corpi morti, tra i poveri resti della traversata, nella stiva dell’imbarcazione alla deriva. “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film il cui significato “politico” supera il talento artistico. Un Orso d’oro a Berlino assolutamente meritato.

Che pone, tuttavia una questione stringente quanto drammatica: è giusto che lo scontro politico sull’immigrazione in Europa si giochi tutto tra chi vuole respingere quei corpi e chi vuole accoglierli? Tutto qui? Ma quelle non sono forse persone, popolazioni, moltitudini di uomini e donne in fuga non tanto da guerre e carestie, quanto piuttosto proprio dal nostro sistema economico, politico, militare, che quelle carestie, epidemie e guerre ha creato nelle loro terre, nazioni, patrie? Non è forse il “nostro stile di vita” che li ha ridotti in miseria prima e poi schiavi in fuga della povertà più dura?

Quello stesso nostro sistema che li ha costretti all’esodo in massa, oggi pretende di decidere di nuovo sui loro destini: o inglobandoli nella catena del comando del valore (leggi: integrazione) o escludendoli definitivamente dal diritto di vivere su questo pianeta (leggi: respingimenti, filo spinato, muri). Non sono cittadini: sono corpi. O buoni per produrre o scarti da ributtare da dove son venuti.

“Fuocoammare” dice molto proprio perché non ha la pretesa di dire qual è il vero problema, ne rimane distante, come distanti dalla terra di Lampedusa vengono tenuti i migranti dalla “missione Frontex”: quelle barche di dannati non toccano più terra, non incontrano più gli abitanti dell’isola. Quelle barcacce vengono fermate in mezzo al mare: quelli che sono vivi, vengono fatti trasbordare su imbarcazioni militari, rianimati, portati in strutture di raccolta, come corpi estranei alla terra verso cui di sono imbarcati. I corpi di quelli morti vanno alle autopsie dentro sacchi neri.

“Fuocoammare” ci sbatte in faccia che non basta salvare i salvabili. Ci ricorda che in quei corpi ci sono persone, culture, idee, desideri, dolori, paure, speranze, sogni, tenerezze.

Ci dice che i naufraghi siamo noi: le nostre leggi, i nostri valori, la nostra società, il nostro modo di vedere il mondo sono alla deriva. È il naufragio dell’Europa come entità politica, ma anche come identità culturale. Andate a vedere “Fuocoammare”. È bello da vedere, è importante da capire. Dobbiamo capire cosa dobbiamo fare di noi. Beh, buona giornata.

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Ambiente Cinema

I dieci vagoni che sconvolsero il cinema.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Bong Joon-ho
Snowpiercer

Il cinema-treno e il tempo-esplosivo che sconvolsero il futuro

di Riccardo TavaniSnowpiercerTrainQuadFullwidepost1

Prima che Gilles Deleuze scrivesse che il cinema è filosofia, il cinema, alla sua stessa origine, è un’immagine, una metafora del treno. Treno e cinema costituiscono un connubio perfetto. La pellicola non ha solo l’immagine ma anche il movimento del treno. I fotogrammi-finestrini corrono veloci sui binari dei fori laterali e noi passiamo da uno scompartimento, da un vagone, da un convoglio, da un’avventura dell’esistenza umana all’altra. Tutta la storia del cinema e dei suoi diversi generi è paragonabile a un immenso snodo di smistamento ferroviario, nel quale si incrociano e si dipartono una massa di vicende, sentimenti, idee e possibilità che l’umanità ha saputo sperimentare e immaginare.

Per questo non poteva sfuggirci di andare in “Sala con il filosofo”, ovvero con il professor Giuseppe Di Giacomo, per salire con lui sull’ultimo treno cinematografico. Treno partito dall’Oriente, direzione 2031, e senza più alcuna fermata in nessuna stazione, in un moto atomico permanente attorno a un pianeta Terra, completamente precipitato in una sua epoca di glaciazione totale. La pellicola-treno s’intitola, infatti, Snowpiercer, alla lettera “buca neve”, ossia treno rompighiacci. La glaciazione è stata causata dall’emissione di un gas nell’atmosfera che doveva, invece, arrestare il surriscaldamento della Terra ma, come spesso accade all’umanità, il rimedio si è dimostrato peggiore del male che doveva curare.

Lo stesso tema, osserva Di Giacomo, si trova nel libro La Strada di Cormarc McCarty e nel film omonimo che ne è stato tratto. In tale vicenda, però, noi non sappiamo né la causa, né l’epoca del disastro planetario, perché – sembra dirci l’autore – è tale il livello di insensata follia in atto che la catastrofe è ormai una possibilità, una potenzialità che incombe non sul futuro ma sul nostro presente. E mentre in McCarty gli uomini e – soprattutto – i bambini sono mangiati da altri uomini, in Snowpiercer si progetta ed esegue cinicamente la loro decimazione e, non a caso, come nei campi di sterminio, essi recano un numero inciso sul braccio.

L’umanità sopravvissuta alla glaciazione è tutta racchiusa in questo treno rompighiacci a propulsione atomica, ma la violenza, la riduzione a una condizione sub umana, la sottrazione dei bambini avviene nei vagoni di fondo. È qui che martella la fame, la sporcizia e serpeggia perenne la rivolta, della quale il film racconta l’ultima in atto, contro i vagoni di testa, per la presa del potere. Potere racchiuso nella roccaforte blindata, inespugnabile della locomotiva e di chi l’ha progettata e la governa. La violenza che in Gang of New York, dice Di Giacomo, sale dai bassifondi e si espande nelle strade, qui rimane chiusa, rimbombante tra le pareti di metallo buio dei gironi infernali di coda, perché non più la natura, ormai distrutta, è il suo sfondo e il suo contenitore ma la necessità imposta dalla sopravvivenza tecnica, strumentale del treno.

Come nei campi nazisti neanche qui vi sarebbe testimonianza visiva tramandabile di questa comunità di dolore, se non vi fosse sul treno un disegnatore che tratteggia rapidamente su dei sudici fogli i fatti più importanti che vi avvengono: le atroci punizioni inflitte, la violenta sottrazione dei bambini alle loro madri, i preparativi e lo svolgimento della rivolta. Sembra, come in certi grandi quadri epici, un citarsi del pittore del film, il regista Bong Joon-ho, e un esplicito riferimento alla funzione non solo estetica ma anche etica del cinema. Jean Luc Godard, in Histoire(s) du cinéma, afferma che la fiamma del grande cinema europeo e russo, quale immagine, testimonianza e pensiero critico sul mondo, si spegne proprio ad Auschwitz, perché ha abdicato al suo dovere di rappresentare, documentare o tramandare immagini dei campi e dell’orrore che è avvenuto al loro interno. Per questo, dopo la Shoah, tutte le immagini non possono che riferirsi a essa, ed è proprio questo che sembra volerci mostrare l’autore, raffigurandosi nel personaggio del disegnatore, testimone silenzioso che ritrae senza mai dire una parola.

Il riferimento ad un altro treno cinematografico, che Di Giacomo richiama, è quello del film A 30 secondi dalla fine di Andrei Konchalovsky, del 1985, da un soggetto di Akira Kurosawa, il cui titolo originale è Runaway Train. Qui i detenuti sono due, ma rappresentano tutti gli altri rimasti nel carcere dell’Alaska dal quale sono evasi. Lo vediamo nella scena finale con la locomotiva che corre inarrestabile verso la morte, nel panorama gelato di una pianura con le sue linee cancellate da una nebbia sempre più fitta. Nella musica e nel coro che si leva come da sotto le volte di una chiesa gotica, scorrono i volti dietro le sbarre dei carcerati, i quali è come se assistessero in silenzio alla vicenda del loro compagno evaso.

Pure, aggiunge Di Giacomo, questa corsa non è insensata, ha un obbiettivo iniziale e lo raggiunge: quello della liberazione di Buck, il più giovane dei due, insieme a una donna che viaggia con loro, sebbene a costo del sacrificio di Manny. Questi si alza sul tetto della locomotiva che corre a schiantarsi da qualche parte, allargando le braccia, come fosse la figura del Cristo crocefisso nell’aria atrocemente gelata. Un motivo di redenzione tipicamente dostoveskiano, perché l’evaso prende su di sé parte del dolore del mondo, quello causato da lui, dai suoi compagni di prigione, dallo spietato direttore del carcere Ranken, quale personificazione di un sistema basato sul rancore e sulla vendetta più disumana. La scritta finale di Runaway Train reca i versi del Riccardo III di Shakespeare: “Nessuna bestia è tanto feroce da non conoscere un briciolo di pietà. Ma io non ne conosco nessuno, perciò non sono una bestia”.

Versi che si attagliano perfettamente a Wilford, il magnate ferroviario che ha progettato, costruito il treno atomico Snowpiercer e realizzato l’implacabile sistema sociale che vige al suo interno. La logica di Wilford neanche prevede nel suo vocabolario la parola pietà. La sua è solo glaciale logica d’ordine e potere, attinente al controllo razionale, strumentale della vita biologica, degli inesorabili sacrifici necessari a mantenere il suo perfetto equilibrio all’interno di quelle strette pareti di metallo. L’inarrestabile corsa ad alta velocità del convoglio lungo tutta la superficie del pianeta non ha altro significato, ovvero non ha più alcun senso: il legame con il mondo-natura è ormai completamente reciso, resta la mera sopravvivenza biologica, animale.

Nei vagoni di testa si reiterano i riti sociali del lusso e dell’abbondanza che hanno preceduto la catastrofe. La gabbia metallica del treno sembra proteggerli ed eternarli nel vuoto di ogni attesa, di ogni at-tendere, ovvero tendere verso qualcosa, una destinazione, una stazione di passaggio o di arrivo.

A bordo, dalla testa al fondo, circola una droga sotto forma di cubetti verdastri cristallizzati. È il residuo di una lavorazione industriale e ha delle proprietà anche esplosive, se agglomerata in una certa quantità e incendiata. Si chiama Cronol. L’allusione al tempo è evidente: su quel treno, soprattutto nei vagoni di testa, ci si deve stordire, per continuare a ruotare sui binari nel tempo vuoto di ogni senso.

A coadiuvare la rivolta sono l’asiatico Minsu, che ha progettato i sistemi di sicurezza del treno, e che sa perciò aprire elettronicamente tutte le varie porte blindate che separano un vagone dall’altro, e sua figlia Yona, che ha la facoltà di percepire, invece, quello che sta avvenendo dietro quelle porte. Sono due drogati che cercano di accumulare più cubetti di Cronol possibile nel risalire il treno verso la locomotiva.

Il procedere di Curtis, il capo della rivolta, di decimazione in decimazione, subita ad ogni nuovo vagone conquistato, somiglia alla fatidica presa bolscevica del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo, sotto la morsa del ghiaccio, nella rivoluzione russa, alla fine dell’ottobre 1917.

Dieci vagoni che sconvolsero il mondo-treno, si potrebbe dire, fino alla porta super corazzata dello Zar ferroviario Wilford. Qui il film piazza il suo colpo di cannone finale, non simile, però, a quello sparato a salve dall’incrociatore Aurora verso il Palazzo imperiale. Tutta la scorta di Cronol avidamente accumulata è ora agglomerata da Minsu e Yona per mettere lo stesso Curtis di fronte a un’alternativa secca: o il tempo-droga o il tempo-esplosivo. O la decisione per la rinascita a uno scenario nuovo, completamente sgombro, o l’incubo di un eterno ritorno dell’orrido uguale. Insomma: o il Potere o la Natura.

Nel tirare le fila della nostra lunga conversazione, il professor Di Giacomo, coglie un tratto comune sia nei vecchi film da lui prima citati che in questo appena visto. Proprio quando la narrazione ci conduce al fondo più buio della disperazione umana, riluce un debole alone di speranza, di nuova possibilità. Dell’elemento redentivo nel finale del film di Konchalovsky abbiamo già detto, mentre in Gangs of New York, la speranza, pur nella spaventosa carneficina appena compiuta, è rappresentata dalla sepoltura dei due nemici, uno accanto all’altro, insieme al pugnale di Vallon, e l’apparire, nella dissolvenza del tempo storico che passa, del ponte di Brooklyn che unirà le due sponde opposte dell’Est River dopo quelle vicende.

Soprattutto, però, nota Di Giacomo, è ne La strada e in Snowpiercer che questo fragile barbaglio di speranza assume il volto della Natura. Nella prima opera, esso si manifesta attraverso il riferimento che McCarty fa ai pesci salmerini e al mistero dell’intero mondo in divenire, le cui mappe sono incise sul loro dorso ambrato. Nella seconda, si mostra con l’apparire tra la neve di una macchia di sole e di un grande orso bianco di fronte a Yona e al bambino sottratto a Wilford. È un alone debole, ma che permane, seppure scarsamente percettibile, sul fondo di quella soglia sia fisica che sotterranea della coscienza che unisce ancora l’uomo alle magmatiche mappe originarie della Natura.

Il cinema-treno ci ha trasportati sui binari di uno spazio-tempo congelato, di un futuro assiderato ma, bruscamente, ci riporta poi all’arsura canicolare di un significato, di una possibilità negativa insita nel presente. Primo Levi ha scritto che, una volta sperimentata, la riduzione dell’uomo al sub umano continuerà ad essere tentata, attraverso nuove vie. Ma – ricorda Di Giacomo – riduzione dell’umano e sottomissione completa della natura alla ragione strumentale e di potere, si implicano a vicenda, proprio come scrive Theodor W. Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo. Il pittore del film Bong Joon-ho ne ha reso qui una testimonianza visiva a futura memoria, come solo l’arte sa e deve fare – e in primo luogo quella del cinema che ha l’immagine come sua intrinseca e potente forma d’espressione. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura

“La grande bellezza” di Sorrentino, oppure “La migliore offerta” di Tornatore? La parola a Giuseppe Di Giacomo, il filosofo che giudica i film.

Alla luce delle polemiche per la vittoria dell’Oscar di Sorrentino
Giuseppe Di Giacomo rilegge il film di Tornatore, La migliore offerta
Alla ricerca dell’arte perduta
Il vecchio uomo e il nano nascosto sotto la sua scacchiera

di Riccardo Tavani

L’umana commedia del cinema italiano è stata recentemente attraversata da due opere che se ne distaccano, sia nello stile e nella forma che nei contenuti simbolici sedimentati al loro interno. Sono La grande bellezza di Paolo Sorrentino e La migliore offerta di Giuseppe Tornatore. Entrambi pongono le tre dimensioni della bellezza, dell’arte e della inevitabile riflessione umana su esse, all’incrocio con quella quarta dimensione universale che è il tempo.

Del primo film abbiamo già parlato e qui scritto con il professor Giuseppe Di Giacomo, che nel suo insegnamento filosofico dalla cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma non trascura mai un riferimento ai film recenti o passati che ha visto nel tempo e che torna a svolgere per i suoi studenti e uditori, perfettamente avvolti e conservati, nella bobina cinematografica della sua memoria.

Il film di Sorrentino ha suscitato, soprattutto in Italia e in particolare dopo l’assegnazione dell’Oscar, un vero e proprio sabba di polemiche, che ha imperversato e danzato dalle pagine dei grandi giornali agli angoli più nascosti del web. È proprio il carico ridondante di dialoghi e simboli proposti, a fronte di fragilità e inconcludenza narrativa, o vuotezza esistenziale, che sarebbe rimproverato dalla nostra patria a questa sua figlia in veste di pellicola.

Le cose, invece, per il professor Di Giacomo, non stanno così, perché è proprio delle vere opere d’arte il movimento che ci trae dai selciati caoticamente affollati del presente a una costellazione allegorica, figurativa, o – seguendo Kant – a “una rappresentazione dell’immaginazione che dà occasione di pensare molto senza…. che nessun linguaggio possa completamente raggiungere totalmente e rendere intelligibile”. Che alcuni autori italiani – aldilà di circostanziate e specifiche critiche sempre legittime – cerchino di rompere la prevalente uniformità triviale del nostro attuale tessuto cinematografico, è da incoraggiare e sostenere, anche con occasioni di confronti e incontri, non da demolire preventivamente. Questo, indipendentemente da prestigiosi premi, riconoscimenti o meno che un film può ricevere: il suo valore estetico e critico è in altro.

Così, alla distanza ormai di un anno e mezzo dalla sua uscita, ci troviamo con Di Giacomo a riconsiderare anche l’ultimo film di Tornatore, La migliore offerta, che ha avuto appena sei stranazionali Nastri D’Argento, sei David di Donatello, a fronte di un solo riconoscimento europeo (l’Efa), andato, però, a Ennio Morione per la sua colonna sonora. Né il tempo trascorso, né i mancati riconoscimenti internazionali scalfiscono per Di Giacomo il valore di questo film, che sprigiona la sua forza d’immagine proprio in ciò che il suo maestro Emilio Garroni ha chiamato uno sguardo attraverso.

Uno sguardo sulla bellezza, sull’esistenza, sull’arte, attraverso quel mezzo massimamente trasparente, eppure ontologicamente denso, impenetrabile che è il tempo. Per il filosofo dell’arte non si può prescindere dalle grandi lezioni che hanno illuminato il Novecento e che ancora oggi ci raggiungono con i loro bagliori. Prima fra tutte quella di Marcel Proust che reca il tema del tempo nel titolo e in ogni riga della sua immane Recherche letteraria. Ricorda anzi Di Giacomo che le parole ultime, estreme, a chiusura dell’intera opera, sono proprio “ – nel Tempo”. Tutto il romanzo di Proust è un tentativo di riscattare il passato, le possibilità in esso insite che ci sono sfuggite, attraverso la capacità dell’arte di renderle visibili, rammemorabili sotto la luce improvvisa di un nuovo sguardo, per fissarle nell’eternità dell’opera letteraria, eppure – proprio nel fare e per fare questo – l’artista non può che restare nel tempo, avvinto in esso e perciò da esso vinto.

Nel film di Tornatore – e questo è sfuggito ai più –, già il nome del protagonista ha incapsulato in sé il tema del tempo: Old-man, l’uomo vecchio. Vecchio – spiega Di Giacomo – nel senso che il raffinatissimo e coltissimo battitore d’asta londinese Virgil Oldman, egli stesso, nella sua persona, nel suo stile, nella sua impermeabilità ai fatti della vita quotidiana, fino ad interporre tra sé e gli oggetti fisici del mondo sempre la pelle di un paio di inseparabili guanti neri, è una personificazione vivente dell’aspirazione all’eternità dell’arte. Uomo Vecchio, in quanto la modernità del Novecento nel suo insieme, non solo Proust, conduce al tramonto di tale aspirazione dell’arte.

La bellezza, soprattutto, per Virgil deve conservare questa purezza incontaminata, ab-soluta, ovvero completamente sciolta dal divenire temporale e accidentale del mondo. Virgil Oldman è il castello, la fortezza estrema, perfetta di questo ideale d’assolutezza. Non ha amori terreni, ma centinaia di quadri raffiguranti ogni aspetto e forma della suprema bellezza del volto femminile. Dipinti che ha accumulato e serrato in un’ampia camera blindata, un’abissale galleria segreta; quadri resi inaccessibili a ogni altro occhio umano che non sia il suo, sottratti, anche con la truffa, l’inganno a chi non li meritava, perché li avrebbe solo esposti alla sventatezza della finitezza umana. È in questa Cappella Sistina delle più vertiginose fattezze di volti, sguardi, capelli, spalle femminili nella storia della pittura che egli respira, vive autenticamente e ha eletto l’occulto scopo di tutta la sua vita. Oldman gioca abilmente, elegantemente ogni mossa della sua vita, della sua professione su una scacchiera a un angolo della quale ha eretto un arrocco perfetto e impenetrabile a ogni attacco.

Eppure anche Oldman vive nell’ingranaggio del tempo, non vi si può sottrarre, soprattutto ora che la sua mirabile e invidiata carriera pubblica ha toccato l’apice e si sta concludendo. L’arte dell’ingranaggio – dice Di Giacomo – reca insita in sé anche quella dell’illusione dell’inganno. Nel film Oldman si imbatte continuamente in pezzi, ruote dentate, molle di un automa, che con l’aiuto di Robert, un giovane di sua fiducia, cerca di rimettere insieme. Questo automa è realmente esistito ed è stato costruito nel ‘700 dal celebre inventore francese Jacques de Vaucanson, il quale incantava letteralmente la sua epoca con simili meccanismi e che ha anche una singolare somiglianza con l’attore Geoffrey Rush che nel film interpreta il personaggio di Oldman. Robert svela a Virgil che l’apparato meccanico mostra uno spazio vuoto in basso, il quale doveva celare un piedistallo cavo, sotto il quale si accucciava un nano che faceva rimbombare la sua voce dentro l’automa con un insuperabile effetto di meraviglia per chi lo vedeva muoversi.

Il richiamo alle prime righe delle Tesi di Filosofia della Storia di Walter Benjamin è per Di Giacomo naturale e immediato. “Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola [su cui poggia una scacchiera] fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili un burattino”. Anche nel film di Tornatore appare una nana, imbattibile nel ricordare ogni evento, con la massima precisione di calcolo numerico nel suo verificarsi e ripetersi nel tempo. Questo personaggio è il vero segreto custode della grande villa-scacchiera, apparentemente trasparente, nella quale Oldman viene trascinato a giocare la sua ultima ambiziosa partita prima del ritiro nel segreto museo d’arte che ha eretto nel corso del tempo. (Solo di sfuggita Di Giacomo richiama come anche ne La grande bellezza Sorrentino affidi al personaggio della nana direttrice del giornale il compito di dire sempre la verità a Jep Gambardella).

Su questa scacchiera truccata ora Oldman si trova a giocare con una bellezza nascosta, velata dalla porta di una stanza sempre chiusa, che è essa stessa un pregiato pezzo d’arte. La bellezza si manifesta sempre attraverso il velo; è inseparabile da questo – dice ancora Benjamin nel suo saggio sulle Affinità elettive di Goethe. Il cinema anche, attraverso lo schermo, costituisce un velo della bellezza e insieme l’ingranaggio dell’illusione trasparente, l’attrazione erotica inesorabile del mistero per la desiderante mente umana. Dietro il velo, che è il segreto di una bellezza che si lascia solo intravedere, pulsa quello stupore filosofico, quell’aura baluginante della natura, dell’esistenza, che l’arte cerca di fissare su una pagina o sulla tela, come un bagliore dell’eternità che può riscattare la nostra caducità, ma che resta, invece, sempre irraggiungibile, ineffabile.

Una scena de "La migliore offerta" di Giuseppe Tornatore
Una scena de “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore
Su questa scacchiera il precedente inattaccabile arrocco di Oldman risulta scardinato e ogni sua altra ingenua difesa sbaragliata. Ne Il settimo sigillo di Bergman, la partita a scacchi di Block con la morte è a viso aperto ed è il nobile cavaliere ad usare un trucco per lasciarsi battere. Là sono in gioco il dubbio e la fede; qui il paradiso e gli inferi. Il paradiso di un riscatto che prima l’arte suprema sembrava garantire e gli inferi di un divenire senza scopo, né senso, irredimibile da un’arte, perché essa stessa esposta al fallimento, all’oblio dalla rapida mutevolezza delle mode e dei mercati.

Oldman, nota Di Giacomo, assurge al ruolo di Pigmalione nei confronti della giovane Claire, trasfigurata in Galatea, ma come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, ricopre di talmente tanti strati erotici la sua opera da non distinguerne più la figura, il vero volto, il sentimento reale. Solo un dettaglio resta ormai visibile: un piede mirabilmente dipinto nel racconto di Balzac, un sospiro d’amore di Claire al culmine dell’eros e il suo ricordo di un caffè di Praga, dal nome, ancora una volta, esplicitamente evocativo del tempo, Night and Day.

Ora, però – come suggerisce la stessa etimologia greca di pygmalion –, è Oldman il nano nelle mani del grande automa che pezzo dopo pezzo ha contribuito a costruire contro lui stesso, e niente come la sparizione dell’intera sua sublime sacrestia pittorica è, per il professor Di Giacomo, la perdita stessa della bellezza, dell’illusione di eternità che le opere hanno preziosamente inseguito ma perduto contro il tempo, soprattutto quello del presente, nel quale è l’arte stessa ad essersi frantumata, dispersa in tanti pezzi di un ingranaggio museale e mercantile smembrato, che non ha e non vuole avere più alcun senso. Il vortice di follia nel quale Oldman, il vecchio uomo precipita è il dissolvimento stesso del principio di ragione, spirito e forma che prima orientava le opere artistiche e la loro percezione nel gusto del pubblico.

In quel ristorante di Praga, nel quale Virgil Oldman nel finale si reca, invece che da quattro vertiginose pareti di immortali volti femminili, è circondato da una volta di sferruzzanti orologi di ogni tipo appesi attorno a lui. È il tunnel del tempo che lo avvolge da ogni lato e celebra la sua vittoria. Le sfere sublimi del paradiso d’arte cui aspirava sono vinte da quelle meccaniche delle pendole; la gloria e la luce dell’eterno sono oscurate non dal fragoroso suono di campane, ma traforate dall’infinitesimale, incessante ticchettio della contingenza mondana, con l’invisibile roditore del tempo celato al suo interno. La sua resa è muta, attonita ma non disperata. Il tempo, infatti, non riesce a divorare tutto: le possibilità che non si sono realizzate rimangono intatte su un piano logico e ontologico. Proprio l’arte – attraverso quelle che per Joyce sono le epifanie improvvise e per Proust la memoria involontaria – è capace di mostrarcele come sospese fuori del tempo e dello spazio.

Quel ristorante esiste davvero: il ricordo confidatogli da Claire nell’alcova d’amore non faceva parte dell’inganno, del furto brutale, perché lei non aveva alcun bisogno di raccontarlo. Forse, allora, anche quel sospiro d’amore dal sen fuggito era autentico: “Qualsiasi cosa dovesse accaderci sappi che io ti amo”. Nell’ingranaggio illusionistico dell’arte, del cinema forse qualcosa di vero si deposita, resta e si ripresenta come una possibilità non ancora attuata, come una stella, una speranza nel cielo della notte. Alla domanda del cameriere che lo serve al tavolo e gli domanda se è solo il vecchio Virgil risponde: “No, aspetto una persona”.

Così a Oldman non resta immergersi nella corrente del tempo che lo trascina e attendere che il suo messaggio nella bottiglia sia trovato e letto da altri uomini, “ poiché essi – dicono le righe estreme de Il tempo ritrovato di Proust – toccano simultaneamente, giganti immersi negli anni, età così lontane l’una dall’altra, tra le quali tanti giorni sono venuti a interporsi, – nel Tempo”. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Società e costume

Il bello de “La grande bellezza”? Ce lo spiega il filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Paolo Sorrentino
La grande bellezza*

di Riccardo Tavani

Vediamo il film al Cinema Barberini di Roma e andiamo poi a mangiare un piatto di spaghetti a pochi passi da Via Veneto. Gli domando se il raffronto, tanto insistito dalla stampa, tra la Dolce Vita di Fellini e la Grande bellezza di Sorrentino abbia una sua ragione. Il professore Giuseppe Di Giacomo, ordinario della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma, versandomi del rosso, risponde che indubbiamente l’influenza gravitazionale del pianeta Fellini non ha potuto fare a meno di attraversare l’atmosfera di questo distante corpo astrale. Non c’è solo un certo sapore degli scorci e delle riprese, le feste, le suore, i prelati, quanto la mancanza di un vero centro o soggetto narrativo.

La frammentarietà di situazioni diverse, montate insieme, che diventa allegoria, refrattaria a qualsiasi tentativo di unificazione simbolica, secondo quanto indicato da Walter Benjamin nella sua opera filosofica sul dramma barocco del 1928. Il raffronto, in realtà, andrebbe, per Di Giacomo, completamente rovesciato. Il cielo astrale sopra Via Veneto nel 1960 era completamente diverso da quello di oggi. Tutto ciò che nella Dolce Vita e nella realtà della città è all’aperto, pubblico, esplodente sulle strade, nelle periferie mistiche quanto nei caffé del centro, nei locali affollati, nelle auto e nelle situazioni decappottate pronte a scoprirsi per l’assalto delle paparazzate e dei giornali, nella Grande bellezza è invece privato, chiuso, implodente verso un’intimità che non ha neanche più un nome se non quello di vuoto. Persino il fracasso triviale, la cafonalità delle feste avviene in locations prese in affitto, su terrazze e in ville, separate, delimitate innanzitutto da un’aura d’ombra stagnante, prima che da mura e recinti. La Via Veneto di Fellini è pulsante, ricorda Di Giacomo; quella di Sorrentino deserta, spettrale: qualche sparuto puttaniere giapponese, una solitaria, anoressica ragazza con al guinzaglio un’enorme arma da difesa in forma di molosso napoletano e squallidi nigth club con ventenni polacche che non sono certo lì per il vecchio, glorioso spogliarello.

Soprattutto nell’opera felliniana la bellezza di Roma non ha bisogno di essere messa a tema. Essa è parte integrante dell’apertura della città verso il futuro. La sceneggiatura di Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano (con la collaborazione anche se non accreditata di Pasolini) respira pienamente di questa apertura, si sedimenta sul nitrato d’argento della pellicola, impastandosi invisibilmente al vagare dei movimenti di macchina e delle immagini tessute da Fellini.

Nel film di Sorrentino non si dà futuro, ma neanche più passato. I marmi porosi e le antiche mura screpolate della città vengono avanti galleggiando nelle inquadrature, come sulla superficie di un tempo lacustre immobile. Lo stesso protagonista, Jep Gambardella, non ha un passato, a parte qualche affiorante sprazzo di memoria per Elisa De Santis, la bellezza della quale s’innamora un’estate sugli scogli assolati di un’isola, ma che non si lascia poi baciare al chiaro di luna da lui. In questo, Jep è uno di quei tipici personaggi di Kafka che non hanno nessuna vera identità al di fuori del presente che stanno vivendo, senza alcun vero senso e scopo. Egli si commuove intensamente di fronte all’opera di un artista che ha allineato una sterminata sequenza di fotografie che lo ritraggono per ogni giorno della sua vita, sedimentando una percettibile scia della memoria.

Il riferimenti letterari nel film sono costanti e percorrono tutta la pellicola: dall’esergo iniziale su un brano di Celine, passando per Flaubert, Dostoevskij e Proust. Non sono solo mere citazione, nota Di Giacomo, ma vere e proprie – direbbe un pittore – campiture di significato. In ciò il professore scorge un conflitto tra regia e sceneggiatura. C’è un’eccedenza nella scrittura dei dialoghi e della voce fuori campo che i movimenti macchina e le immagini non riescono a rendere a un pari livello di senso. La stessa cosa, mi dice il professore, e in modo anche più accentuato, è successo per il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. L’intervento poetico di Peter Handke sul copione, espressamente richiesto dal regista, crea poi una diacronia, una sfasatura tra testo e immagine che si incapsula quasi fin dentro ogni singolo fotogramma, venendo a configurarsi come un limite dell’opera. In una delle scene iniziali, ad esempio, Di Giacomo vede un esplicito richiamo a una famosa pagina della Recherche proustiana, relativa proprio al tema della bellezza. È quella che descrive la morte dello scrittore malato Bergotte davanti al quadro La veduta di Delft di Veermer. La bellezza che una piccola ala gialla su un muro conferiva all’opera eccedeva la fragile possibilità umana di contenerla. Nel film, un turista giapponese, contemplando e fotografando Roma dal Gianicolo, collassa improvvisamente sul selciato e muore. La sequenza, però, è realizzata in maniera piana, con la macchina frontale al soggetto e uno stacco di montaggio, senza alcun movimento che conferisca alla scena una densità pari a quella del momento esistenziale in atto.

Consumati con gusto gli spaghetti, passiamo a sorseggiare riflessivamente del whisky. Il vuoto di ispirazione letteraria di Gambardella, ritorna Di Giacomo, si lega non tanto a quello del vuoto lasciato dalla scomparsa della bellezza, quanto a quello di una sua contemplazione in uno stadio ancora meramente estetico, secondo la nota tripartizione di Kierkegaard, che si articola anche in quello etico e religioso. Jep cita e vuole fare propria l’aspirazione di Flaubert a “scrivere un libro su nulla”, nel quale la bêtise, la stupidaggine, la balordaggine degli eventi umani, della storia, della noia e coazione a ripetere, ammutoliscano, indietreggino e lascino di nuovo campo alla vera bellezza, la quale dovrebbe interamente riconquistare a sé il mondo e la letteratura.

Il mondo, però, con il suo dolore e la sua miseria lacera continuamente il velo della bellezza per offuscarne la trama. L’entrata in scena del personaggio di Suor Maria, la cosiddetta Santa, rappresenta l’irruzione di una visione della bellezza che ci propone incessantemente l’opera di Dostoevskij. La pia donna mangia solo radici e vive ventidue ore al giorno con i poveri. Lei si sottrae alla richiesta di un’intervista fatta da Jep sulla sua opera di carità, perché: “La miseria non si racconta – si vive”. La sofferenza non può diventare un fatto estetico, ma si può soltanto condividerla. Sì, la bellezza salverà il mondo, ma essa non è quella di Nastas’ja Filippovna, oggetto di contemplazione, desiderio e contesa, ma quella di chi si prende personalmente carico del dolore dell’uomo, per alleviarlo, ascendendo uno ad uno, in ginocchio, i gradini della sua passione, del suo pathos, ovvero del suo parteciparlo. Sono qui le vere radici che trattengono l’uomo alla terra e impediscono il suo vagare ad ogni soffio.

La decisione di Romano di abbandonare definitivamente la città e di tornarsene deluso in provincia è un altro rovesciamento del vitellonismo felliniano, ma soprattutto, per Di Giacomo, è esattamente la situazione descritta da Flaubert ne L’educazione sentimentale. Gli accadimenti storico-esistenziali sconfiggono i due protagonisti del romanzo e li costringono a tornarsene dove sono nati.

Gambardella, però, nonostante lo vediamo nelle scene finali costeggiare su una nave le sponde natie, non se ne va e decide di iniziare finalmente il suo nuovo libro, proprio come Marcel alla fine de La Ricerca del tempo perduto. Il suo romanzo non sarà più su quell’apparato di spettacolo umano che egli stesso ha finora messo in scena e dominato, fallendo l’appuntamento della sua esistenza con il senso e la letteratura. Jep, a differenza di Proust, sa che in questo mondo non c’è più niente da ricercare, più niente da raccontare, eppure, ugualmente, si deve continuare a scrivere. L’umano – dice amara la sua voce fuori campo – si dà solo tra un frammento e l’altro della bellezza che scompare nell’attimo stesso in cui appare. Il resto è finzione, trucco, trenini sulle terrazze della Roma-cafona-bene che ballando e bla-bla-blando non portano mai da nessuna parte. La materia grafica della sue parole sulla pagina scritta sarà il nulla, il suo sguardo silenzio sullo schermo sgualcito della vita, sul velo d’ombra – soffice di morte – delle antiche mura, sulla pellicola corrosa che avvolge la dissacrata grande bellezza della città.

Ha smesso di piovere e i platani di Via Veneto sono scossi da folate di vento fresco che hanno già asciugato l’asfalto della strada. Un uomo si ferma un istante accanto a noi per accendersi una sigaretta. Indossa una giacca di lino rosso con un fazzoletto candido nel taschino, pantaloni bianchi e scarpe Duilio bicolore. Sentiamo lo scatto del suo accendino d’oro che subito si chiude sull’occhiello di brace e il filo di fumo che vorticando sale verso il residuo di nubi in cielo. Garbatamente ci fa un cenno di saluto e prosegue. Viene voglia di fumare anche a noi, ma ci salutiamo, dandoci soltanto appuntamento alla prossima – pellicola del filosofo. (Beh, buona giornata.)

*Questo articolo risale ai giorni in cui il film uscì per la prima volta nelle sale e fu accolto piuttosto freddamente dalla critica. Oggi risulta di prepotente attualità, dopo l’Oscar come miglior film straniero.

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Cinema

Nebraska.

Giuseppe Di Giacomo, filosofo dell’arte, commenta il film di Alexander Payne “Nebraska”
L’improvvisa forza messianica di un road movie all’indietro

di Riccardo Tavani

“C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha diritto”. Questa chiave di lettura del film ce la offre, nella sua seconda Tesi di filosofia della storia, Walter Benjamin, uno dei più importanti filosofi del ‘900, da sempre al centro della ricerca e dell’insegnamento del professore Giuseppe Di Giacomo, titolare della cattedra di Estetica alla Sapienza di Roma. Vediamo con lui Nebraska al Tibur, lo storico cinema nel quartiere San Lorenzo. Usciti poi dalla sala risaliamo un isolato e ci troviamo da Sanlollo a mangiare una pizza e ottimi arancini siciliani al ragù, accompagnati da una caraffa di birra alla spina. Discutiamo del film.

È la storia di Woody Grant, un vecchio meccanico ubriacone, ora disperatamente zoppicante, come tutto il suo passato, con due figli, fatti con la moglie Kate, e perlopiù da lui trascurati. Sono David commesso insoddisfatto in un negozio di elettronica e Ross, giornalista in ascesa in una rete televisiva del Montana, Stato americano nel quale la famiglia vive. “Perché ci avete fatti?” domanda David a suo padre. “A me piaceva scopare, tua madre era una cattolica convinta… metti tu le due cose insieme!”. Non sembrerebbero due figli molto attesi, almeno dal padre.

Le pattuglie della polizia locale raccolgono, per riportarlo a casa, Woody che cammina da solo lungo le haigways che vanno verso sud-ovest. Ha in tasca la lettera di una lotteria che gli annuncia di aver vinto un milione di dollari, ma deve recarsi a Lincoln, capitale del confinante Nebraska, a ritirarli entro una data ormai molto ravvicinata. Tutti gli dicono che si tratta di una delle più classiche e conosciute bufale del mondo, ma lui resta attaccato a quel pezzo di carta e alla sua illusione. Woody vuole e deve andare a tutti i costi a Lincoln – Nebraska.

David decide di accompagnarlo con la sua auto, di dargli la possibilità di viversi quest’ultima illusione, o ragione estrema di vita prima di morire.

Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern. Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all'attore Bruce Dern.
Nebraska è un film del 2013 diretto da Alexander Payne, con protagonista Bruce Dern.
Presentato in concorso alla 66ª edizione del Festival di Cannes, il film ha ricevuto il premio per la Miglior interpretazione maschile, attribuito all’attore Bruce Dern.
Sembra così anche un tragitto all’indietro nel cinema americano, quello dei grandi panorami, con le magiche inquadrature in campo lungo del western originario. Padre e figlio tornano inquietamente a questo cuore, a questa visione sconfinata della natura che – ci dicono silenziosamente le inquadrature – solo il cinema, nessun altro odierno medium, ci può ancora dare. Un paesaggio, una natura – nota ancora Di Giacomo – che sono stati qui depurati dall’elemento della violenza, della spietatezza, tipico di tanti film ambientati in luoghi simili o della letteratura di Cormac McCarty, che ne conserva e prolunga le radici fino al presente.

Come in molte opere di questo scrittore, tra i più amati e studiati da Di Giacomo, c’è però l’elemento del romanzo di formazione. David non è uno dei sedicenni di McCarty che montano in sella e scavalcano i confini degli Stati o del Messico, per imbattersi nella crudeltà del mondo e forgiare sul sangue la propria personalità. David ha ormai sui trent’anni, fa una vita angusta ed è stato anche mollato per insipienza dalla sua fidanzata. I sedicenni mccartiani hanno un elemento vitale, biologico, selvaggio rappresentato bene dal connubio con il loro cavallo o con le lupe cui danno la caccia tra la solitudine dei monti. David è precocemente spento, la ragazza lo ha privato da tempo anche del rapporto sessuale e lui è incapace di cercarsene un altro. Quel vecchio beone di suo padre, carico di debiti economici ed esistenziali, al confine ultimo del suo strascicante tragitto, ha senz’altro ancora più vita addosso del figlio.

La colonna sonora che ci accompagna lungo tutto il percorso, fa risuonare ancestrali eco blues di quella terra quasi immobile nella decrepitezza dei volti, dei caratteri, delle vicende che la pellicola nel suo svolgersi ci svela. Della vecchia casa nei campi in Nebraska, dove Woody è nato, è rimasto solo uno scheletro cadente, ma qualcuno continua a “coltivarci intorno”. Il pezzo che fa da filo conduttore a tutta la colonna sonora (di Mark Orton) si intitola Their Pie, che letteralmente significa “Le loro torte”, ma che come espressione gergale sta per “Le loro false speranze”.

Il viaggio come ricerca del riscatto, che attraverso la riscossione di una così consistente vincita, Woody vorrebbe dare alla sua vita è solo un’illusione. L’esistenza non ha una meta da raggiungere per ricevere un senso; la storia umana non ha una filosofia, un fine, una teleologia che la guidi verso il riscatto. La terra ci guarda nella sua vasta immobilità e bellezza, ma gli dei e gli eroi con una stella al petto o un Winchester nella fondina del cavallo la hanno abbandonata da tempo. Questo tratto che è caratteristico, per Di Giacomo, dell’evoluzione del cinema western americano, la ritroviamo in un suo aspetto inedito e convincente, coinvolgente in questa pellicola.

Un incidente di percorso costringe Woody e David, a fare una deviazione verso Hawthorne, un centinaio di miglia prima di Lincoln, dove il vecchio è nato e vive ancora la famiglia di suo fratello, altri parenti e molti amici d’infanzia. Saranno poi raggiunti in autobus anche da Kate e Ross, e così tutta la numerosa famiglia Grant si troverà riunita dopo molti anni. Lì, però, antichi rancori, vecchi odi e anche amori riemergono senza che siano mai stati sanati e ci sia più qualche speranza di riscattarli. Si sono solo incartapecoriti, come la pelle dei vecchi che vi abitano, e le liti che scoppiano sono fatte a suon di ridicole smanacciate più che di sane scazzottate da saloon. Il contrasto tra decrepitezza e crudeltà, sebbene patetica, che la presunta prossima ricchezza di Woody fa scoppiare fra amici e parenti, costituisce l’elemento drammatico di fondo della vicenda: una vita che, nella propria angustia, si è consumata senza mai potersi esprimere, senza mai avere una possibilità di riscatto. L’insensatezza ha prosciugato quelle esistenze e le loro ossa, ha arrochito le loro voci, reso acri i loro rimorsi. È un paese di vecchi che non ha lasciato niente alla generazione che ha messo al mondo.

Woody, infatti, vuole quei soldi della fasulla vincita per lasciare qualcosa ai figli, prima di morire. Per sé si accontenta solo di un pick-up e di un compressore ad aria, dato che il suo gli è stato fregato proprio dal vecchio socio d’officina e amico di taverna Ed Pegram. Non la meta ma la ricerca nella memoria, nel passato, nelle vicende rimaste nascoste o in sospeso, alla quale il viaggio costringe offre non “il” senso ma “un” senso a questo road movie all’indietro, spiega Di Giacomo. Kate conduce Woody e David tra le lapidi conficcate nella polvere del vecchio cimitero del villaggio. Amore, sesso e morte si mescolano nel suo racconto di quei sepolti della sua storia di giovinezza. Si alza la gonna e mostra la vagina alla lapide di un suo giovane spasimante di allora: “Guarda che ti sei perso a stare come un fesso sempre dietro alle tue mucche!”

Da queste decrepite storie, da queste voci che salgono dalla terra e dalla cenere dei morti, David capisce che suo padre era sì un ubriacone indebitato, ma che il suo lavoro di meccanico lo sapeva fare e che non ha mai fregato nessuno, anzi, la sua incapacità di dire no a chiunque in quel villaggio-mondo di Hawthorne è ciò che lo ha ridotto alla sua strisciante condizione di zoppo senza più speranza se non uno sgualcito pezzo di carta privo d’alcun valore. La strada all’indietro lo ha portato in avanti, aldilà del sogno americano della ricchezza come possibilità per tutti, per la quale, in realtà, quei tutti sono certamente pronti solo a tradirsi e perdersi. Ha ritrovato il caos asfittico della sua origine e questo gli permette, quanto meno, di dargli “un” ordine, “una” forma, la possibilità di una voce e di un racconto. Che è proprio quello che fa questo film, questo tipo di cinema: ricercare – attraverso lo svolgersi della pellicola sulla strada delle sue immagini – un’occasione, per quanto flebile, di riscatto per i tanti ai quali è stata tolta o tarpata nella storia la possibilità di esprimersi, di affermare un proprio progetto di esistenza. Il vigoroso, sano cazzotto stile saloon western che David molla a Ed Pegram, davanti a tutti nella taverna di Hawthorne, segna il suo scuotersi dal torpore triste della sua precedente inconsapevolezza.

La debole forza messianica, su cui il passato ha diritto – di cui parla Walter Benjamin –, trova nella conclusione del film una via narrativa semplice ma inaspettata, simbolicamente conseguente e potente. Padre e figlio per la prima volta si vedono con uno sguardo nuovo, improvviso, che aspettava di essere dissepolto da quella memoria inespressa che – come possibilità da lungo attesa – lo negava a entrambi. (Beh, buona giornata.)

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Micaela Latini: “Hannah Arendt, della von Trotta

Micaela Latini commenta il film “Hannah Arendt”
di Margarethe von Trotta

Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male

Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno
di Riccardo Tavani

L’incontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente restaurata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014, in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30.

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dell’opera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini, che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale e per pochi giorni.

Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell’attrice polacca Barbara Sukowa.
Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un po’, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo l’invasione tedesca della Francia.

Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò in seconde nozze il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni ‘50, diviso tra la vita familiare, lo studio, l’insegnamento, l’incontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy.

Il film passa continuamente dall’uso del tedesco a quello dell’inglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. “Non è la lingua tedesca a essere impazzita!” dirà poi Arendt in un’intervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,

Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dell’Europa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoa. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai.

Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.

Hannah Arendt, infatti, è inviata dall’importante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità, dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno shock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.

La pellicola inserisce all’interno della sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce all’opera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a

L’Istruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.

Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nell’anno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità, dall’Olocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dall’enorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è l’aspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. È un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo.

È il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di un’efficiente esecuzione dei compiti da assolvere all’interno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito il e glielo avessero ordinato.

Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto degli ebrei rastrellati, l’ufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà: “non ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreo”.

Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoa: quello di privare l’essere della propria singolare umanità. Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dell’umano al sub-umano, dell’oscena nudità dell’essere spogliato di ogni proprio sé.

La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.

Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nell’humus del mondo, ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo.

Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dell’omuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dell’ingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva.

Questa indifferenza funzionale, indipendente dall’attività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. È quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che quest’ultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.

È proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità, la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche l’intera comunità ebraica americana, europea e israeliana.

L’indicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono – come storicamente è provato – con i nazisti. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nell’occasione della Shoa.

Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male.

Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas, quest’ultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione.

La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta all’idea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dall’intolleranza nazista.

La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.

La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dell’intera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.

Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti all’agorà, sulla scena dell’agone collettivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso.

È esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latina, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nell’anfiteatro a gradinate dell’aula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente all’uditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.

"Hannah Arendt", di Margarete von Trotta.
“Hannah Arendt”, di Margarethe von Trotta.
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)
Hannah Arendt (Linden,14 ottobre 1906-New York 4 dicembre 1975)

Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte. In basso: Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca all’Università di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dell’estetica, della filosofia dell’arte.

Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare.

Neanche l’atto dell’interpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anch’esso si espone all’agorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia. (Beh, buona giornata “della Memoria”.)

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Cinema Cultura Dibattiti

The Counselor Il Procuratore, di Ridley Scott secondo Giuseppe Di Giacomo, filosofo.

Giuseppe Di Giacomo commenta il film “The Counselor” di Ridley Scott
Nel deserto senza legge e frontiera del senso
La bionda bestia di Nietzsche, la lastra di ghiaccio di Wittgestein, l’inferno spietato di McCarthy

di Riccardo Tavani

Se un felino esotico, un biondo ghepardo flessuoso fuggisse da una villa alle porte della città e si aggirasse la notte sull’asfalto viscido di pioggia delle vie del centro… Se, uscendo poi da una sala cinematografica all’ultimo spettacolo, lo vedessimo abbeverarsi alla fontana della piazza antistante, in tutta la sua adamantina purezza di belva feroce, noi avremmo un fremito che scuoterebbe il nostro intero mondo interiore. Se il film appena visto fosse stato, però, “The Counselor – Il Procuratore”, di Ridley Scott, noi ci diremmo che quel felino famelico si nutre e abbevera proprio del nostro strano mondo, non solo interiore, da molto tempo e senza alcun trasalimento della civiltà.

È la riflessione che facciamo con il professor Giuseppe Di Giacomo, uscendo sul selciato umido e striato di luci notturne, alla fine del film.

The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
The Counsoler, diretta d Ridley Scott e sceneggiato da Cormac McCarthy.
C’è stata però un’ottima interazione tra scrittore e regista; il testo letterario non travalica mai quello visivo. Non a caso, McCarthy è stato anche uno dei produttori esecutivi del film.

Le vie del centro sono attraversate a quell’ora da ombre di volti e corpi, come i nostri, possibile rancio della “trionfante bionda bestia che vaga alla ricerca della preda e della vittoria” della quale parla Nietzsche nel primo capitolo della sua “Genealogia della morale”. Una fiera che si aggira rinchiusa nel fondo occulto della civiltà, ma che, ogni tanto, ha bisogno di fuggire, riemergere, riapparire tra noi.

“Sono famelica” ripete nel film, sedendosi a tavola, la bionda Malkina, dal corpo flessuoso, percorso da una lunga striscia tatuata che richiama le macule della sua coppia di giaguari, Silvia e Raoul, che corrono eleganti, ghermendo selvaggina, al confine tra Messico e Usa, ribollente di traffici illeciti e umanità da preda.

Alla tavola del filosofo, attorno alla quale c’invita a sedere Di Giacomo, trovi invece riflessione artistica e critica, senza che manchi, però, un sapido piatto di pasta al tonno e vino bianco, per conversare meglio, aprirsi ai significati dell’opera anche attraverso la convivialità dei pensieri e lo scambio dell’amicizia. Filosofia e cinema non possono prescindere oggi l’una dall’altro, tanto più in un film come questo, improntato alla œuvre e alla visione di McCarthy. Un’alleanza fondata, appunto, sull’amicizia. (Amicizia e amore corrono lungo una medesima linea semantica, eppure un sottile confine li distingue criticamente).

L’avvocato, ovvero il procuratore del titolo, nutre un amore puro, profondo e nello stesso tempo vertiginosamente sensuale per Laura, dall’odore della pelle bruno sotto le lenzuola accecanti di biancore nella luce del mattino. Vuole donarle tutto, anche più di quello che ha. Vola ad Amsterdam a comprarle un prezioso diamante, quale pegno per la sua richiesta di matrimonio.

Il diamante, per Di Giacomo, è qui il simbolo stesso della bellezza inscalfibile, che può redimere dalla drammaticità dell’esistenza, come quella “promessa di felicità” del famoso aforisma di Stendhal. Dice, infatti, il mercante di pietre all’avvocato: “Partecipare del destino eterno della pietra… Esaltare la bellezza dell’amata è riconoscere tanto la fragilità di lei quanto la nobiltà di questa fragilità”. La logica anche ha, per Wittgestein, la durezza non scalfibile del diamante. Eppure, aggiunge il mercante, noi siamo cinici, cerchiamo una piuma di imperfezione, altrimenti la pietra sarebbe solo luce. O, come scrive Wittgestein nelle Ricerche Filosofiche (107): “Siamo giunti su una lastra di ghiaccio… Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell’attrito. Torniamo sul terreno scabro!”.

E la pellicola di McCarthy-Scott, sia nella tessitura scritta che in quella visiva, non abbandona mai il terreno scabro, anzi, lo privilegia. L’avvocato si immette nell’ingranaggio d’affari del narco-traffico di confine, dominato dallo spietato Cartello centro-americano. “Una botta e via?” gli domanda Reiner, re dei locali e degli smerci notturni, presso la cui sfarzosa villa vivono e si nutrono Malkina e i suoi due felini. Sì, l’avvocato vorrebbe partecipare ad un singolo, lucroso quanto lurido affare, rimpinguare il conto in banca e poi ritirarsi nel rifugio d’amore dorato con la sua Laura.

Reiner ride per l’ingenuo, ipocrita moralismo, ma intanto anche lui ha il suo lato morale debole, ammalato: è davvero innamorato di quella sua bionda con macchie di ghepardo tatuate sulla pelle e ad elevato grado di calore erotico, anche se per lei la “verità non ha temperatura” e “le cose non tornano mai”. Secondo Di Giacomo, proprio il personaggio Malkina, con le sue lapidarie, ciniche battute di dialogo, rappresenta il vero senso del film. Non è tanto la violenza, il sesso, l’illegalità, la morte che pure spruzza nel film come sangue da una testa mozzata o da una carotide recisa. La mancanza di legge lungo quel confine va intesa come l’assenza di una Legge, ovvero di un senso, di una teleologia, di una direzione che guidino l’azione del singolo e la storia umana. L’aridità desertica è senza direzione; la casualità vi domina spietata nella sua imprevedibilità senza legge e frontiera.

Il protagonista ne rimane vittima, vedendo completamente terremotata, rasa al suolo la sua vita e la preziosa rarità del suo amore, senza neanche rendersene conto. La stessa cosa succede, però, a Reiner e ad un altro scaltro mediatore d’affari, Westray, che dovrebbe passare un carico di coca all’avvocato. Questo Westray, però, ha anche lui il suo lato morale fragile, dunque facilmente ghermibile per la fiera predatrice.

Come in “Alien”, Ridley Scott rappresenta l’imperscrutabilità in sé dell’ignoto quale male senza difesa e riparo sicuro. È tale condizione, nota Di Giacomo, ad essere originariamente aliena eppure insita all’esistenza umana, come un parassita che aggredisce e sbrana dall’interno, in una lotta che sempre si rinnova e non ha mai fine, perché non c’è un fine, una meta, l’approdo di un qualche destino salvifico nell’Universo.

Solo chi si iberna allo stesso grado di “verità senza temperatura” morale, può cinicamente tastare prima e sfruttare poi ogni minimo neo di debolezza altrui, per sopravvivere e proseguire un viaggio, anch’esso, però, privo di ogni senso. “Viandante, non c’è nessun cammino, il cammino si fa andando”, recitano alcuni versi di Antonio Machado, proferiti al telefono all’avvocato, come un de profundis.
Così anche “La morte qui non ha valore: tutta la mia famiglia è morta, ma è la mia vita che non ha significato”, dice all’avvocato il padrone di una bettola di Ciudad Juarez, capitale messicana del narco-traffico, dove ogni anno sono tremila le persone che si contano tra ammazzate e fatte sparire, su circa un milione e mezzo di abitanti. La gente si raduna nelle piazze, per piangere, pregare, reclamare insieme giustizia e salvezza, ma qui non c’è legge, frontiera etica pubblica, solo un’immane discarica del senso, nella quale sono rovesciati i cadaveri delle ragazze sequestrate, stuprate e anche squartate in quel genere di lucrose quanto infernali pellicole pornografiche dette snuff movies. Lo spiega Westray all’avvocato: “Per la produzione di un simile prodotto il consumatore è essenziale. Non puoi guardare un omicidio senza esserne complice”. Vedi: L’inferno di Ciudad Juarez.
Sopra questo strato di sangue e fango umano, oltre la polvere riarsa del deserto, si stagliano le ville scenografiche, con piscine e colonnati riparati dal calore del sole, ma non sufficientemente ombreggiati dalla micidiale ambizione all’eternità simbolica, alla promessa di riscatto esistenziale racchiusa nei diamanti. Nulla, però, avverte Di Giacomo, è garantito, perché, anzi, ogni cosa e persona sono costantemente minacciate dall’avanzare del disordine e dell’insensatezza che tutto sgretola e divora.

Mentre l’avvocato marcisce disperato in una sozza stanza d’albergo di Juarez, lo scontro si sposta altrove, tra le mura protette delle banche e le stanze felpate dei grandi alberghi internazionali nelle capitali della nostra civiltà. Più pulita, silenziosa ma anche più spietata, vorace e decisiva si fa la lotta, in questa savana di vetro-cemento super tecnologica e interconnessa.

Malkina non ha soltanto la pelle tatuata delle macchie dei suoi felini ma possiede anche le loro movenze rapide ed eleganti nel corpo, un’intelligenza istintuale certa e senza sbavature. Si abbevera di champagne e sbrana le più raffinate pietanze in un esclusivo ristorante parigino.

Potremmo, però, proprio ora, mentre usciamo dal cinema, vederla lentamente transitare, al guinzaglio il suo biondo ghepardo Raoul, dai finestrini posteriori di una limousine. Da dietro quel suo piccolo schermo blindato e trasparente, Malkina vedrebbe scorrere la pellicola insensata del nostro strano mondo, nel quale si ama, si crede, si nutre passione o paura per qualunque cosa. Lei, invece, aspira solo alla “purezza di cuore del cacciatore… Non puoi distinguere quello che è da quello che fa… uccidere… e non c’è niente di più crudele di un codardo”.

Conclusione in linea con l’iniziale bionda belva nietzscheana, soltanto che Malkina, dice Di Giacomo, è cosciente di non andare nella direzione di alcun oltreuomo, perché, anche se non torna mai nello stesso luogo, si trasferisce soltanto da un’altra parte, indifferentemente, sia essa la Cina o, domani, anche Marte. Non trasmuta alcun valore morale, ma solo i soldi in diamanti, per riavviare il processo di eterno ritorno dell’uguale, al confine di un deserto esistenziale brulicante di illusioni, stupefacenti e corpi riarsi, sepolti nei turbini caotici di pallottole e sabbia.(Beh, buona giornata.)

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Attualità Cinema Cultura Società e costume

Pi

di Riccardo Tavani

Scanzonato, profondo, lacerante, senza illusioni apre alla speranza.
Si tratta di un film che non tanto consiglio di vedere, quanto di fare in modo che si possa vedere nelle vostre città. Se conoscete, direttamente o indirettamente, proprietari e direttori di sale cinematografiche cercate almeno di convincerli ad informarsi, perché si tratta di una pellicola di qualità e anche di incasso garantito.

Al Nuovo Cinema Aquila di Roma, in Via L’Aquila, 68, al Pigneto, lo avevano programmato solo per il periodo festivo, ora hanno deciso di prolungarne la visione, perché sta facendo fare le file al botteghino e caricando di entusiasmo il pubblico.

Si vede anche e soltanto al “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l' Aquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.
Spaghetti Story, per il momento solo a Roma, al cinema l’Acquila; “Dei Fabbri” di Trieste, “Beltrade” di Milano, “Mezzano” di Agrigento” e “Lanterni” di Pisa.

Proviamo a fare una campagna perché altre sale, in altre città, offrano la possibilità di vederlo.

Si sentiva il bisogno di una simile ventata di aria fresca nel cinema italiano. È la vera sorpresa del nostro cinema non solo dell’anno appena apparso ma anche di quelli indietro per almeno una decina abbondante di anni a questa parte.

Girato con una manciata di spiccioli (quindicimila euro), di giornate di ripresa (undici) e con una Canon 5D da discount dell’elettronica, ottiene un risultato di forma, narrazione e significati davvero stringente e convincente.

È la vicenda di quattro ragazzi di quella periferia generazionale smarrita dalla mancanza di reddito e prospettive, con sentimenti e cultura ad alta definizione e proprio per questo maggiormente umiliata, negata, cancellata. Tra battute di dialoghi fulminanti e scene da commedia del nostro primo neorealismo, si morde l’amaro di una condizione che non sembra offrire nessuna facile via di riscatto. Una generazione straniera a se stessa, no, anzi! arruolata a forza in una sorta di “legione straniera” di se stessa, e lasciata poi vagare assetata nel deserto, alla ricerca di un’oasi, o forse di una borraccia appena di fiducia nelle sue doti e qualità.

Quattro protagonisti di questa vicenda quotidiana delle nostre strade che non a caso sanno riconoscersi nel volto straniero, sconosciuto, lontano nel quale all’improvviso, riflettendosi, si imbattono e al quale cercano di offrire una possibilità, una speranza.

Scrive Walter Benjamin: “Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”. Questo significa che la speranza autentica è quella che si nutre per altri, mai per se stessi. Essa, infatti, ha in sé quella particolare forza del dono completamente gratuito di spargere intorno la propria aura, la propria energia umana, sociale. Così è questo film.

Un film “ragazzo”, con autori e attori auratici che strameritano anche loro un’apertura di fiducia che sia insieme viatico al cammino del loro talento, come patrimonio che può fare bene a tutti. (Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Finanza - Economia - Lavoro

Non

di Riccardo Tavani

Un film ingiustamente disconosciuto è senz’altro L’intrepido di Gianni Amelio, con una memorabile interpretazione di Antonio Albanese. Una pellicola disconosciuta innanzitutto dalla critica, che l’ha recensita negativamente, affibbiandogli, visivamente sulle pagine dei giornali o nel web, al massimo un paio di pallini, stellette, quadratini, ecc. Se questo ha influenzato preventivamente il pubblico a non andare proprio a vederlo, c’è da aggiungere subito dopo che il film è stato disconosciuto anche da molti spettatori che lo hanno visto.

D’altronde non è un film facile da recepire ed accettare. Ci descrive, senza falsa retorica, la nuda, cruda realtà della condizione di lavoro, e dunque di esistenza, di un’intera generazione. Anzi, dovremmo dire, di un’intera macro-generazione, in quanto non è più soltanto l’ultima generazione, ovvero quella dei più giovani. No, è un attraversamento di strati diversi di fasce di età, fino alla più adulta, se pensiamo alla beffa crudele inferta ai cosiddetti esodati, ovvero a coloro che, in procinto di andare in pensione, sono stati privati di ogni reddito e lasciati nudi alle nuove forme di intemperie sociali. Una cross-generazione per la quale, considerati gli elevati livelli di istruzione, è stato coniato il termine di cognitivato, in sostituzione di quello orami obsoleto di proletariato. Solo la fame, sia quella di giustizia che quella fisica, materiale, con i suoi morsi allo stomaco vuoto, rimane la stessa.

Antonio Pane, questo il nome del personaggio interpretato magistralmente da Albanese, fa di mestiere il rimpiazzo. Lui rimpiazza quella moderna forma impermanente e polivalente di figura lavorativa che è il precario. Il suo cognome già lo dice: il pane si accompagna con qualsiasi tipo di companatico. Inoltre, il vocabolo pan, in greco antico, significa anche tutto, che sta dappertutto. Il suo livello di cultura è tale che in uno di quei concorsi monstre con migliaia di concorrenti, è in grado di compilare in pochi minuti e senza nessun errore le centinaia di quiz sottoposti e di consegnarli, segnalando ai professori addetti le scorrettezze linguistiche che essi contenevano. In pochi minuti, sì, ma non senza aver prima passato la soluzione a una ragazza che vede in notevole difficoltà. Tanto sa che lui quel concorso non lo vincerà, ma vuol dare una chance a qualcuno come lui, ma che forse possiede meno risorse esistenziali di lui.

Antonio è separato da sua moglie, dalla quale ha avuto un figlio che ora studia al Conservatorio di musica e suona il sax in un gruppo che si esibisce nei centri sociali o altri luoghi alternativi. La passione per la musica l’ha ereditata dal padre e dal nonno, i quali, però, non sapevano leggere gli spartiti e suonavano ad orecchio. Paradossalmente, questo figlio, dato che la madre ha una sua posizione e si è anche risposata bene, ha un conto in banca e una carta di credito, con la quale si reca regolarmente allo sportello per fare… piccoli prestiti al padre.

L'Intrepido, di Gianni Amelio. Con un Antonio Albanese in stato di grazia.
L’Intrepido, di Gianni Amelio. Con un Antonio Albanese in stato di grazia.
di verità. È l’esordio di una nuova forma di neo-realismo italiano, il quale ha richiamato per molti la lezione del 1951 di De Sica e Zavattini in Miracolo a Milano. (Beh, buona giornata)

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Attualità Cinema Leggi e diritto Politica Potere Televisione

Silvio, Nightmare e l’ipotesi Montecristo.

di Giulio Gargia -www.3dnews.it

Avete visto la serie horror Nightmare, quella con Freddy Kruger che ogni volta viene distrutto e ogni volta rinasce dal sogno delle sue vittime ? La stessa cosa potrebbe accadere ora a B. dopo la condanna.

Siccome in questi anni siamo stati abituati a considerarlo ogni volta finito e poi ogni volta siamo stati smentiti, allora meglio fare l’ipotesi peggiore, così, un po’ anche a titolo di scaramanzia.

Cosa può fare l’ex Cav ormai pregiudicato ? ( ex perché viene automaticamente revocato il titolo onorifico a un condannato in via definitiva ). Il primo scenario è quello già descritto da Moretti nel film “ Il Caimano “. Proteste di piazza, atteggiamento eversivo, incitamento alla protesta.

Il secondo scenario è quello che possiamo definire come “ ipotesi Montecristo ” , cioè l’epopea di un innocente ingiustamente perseguitato. Perciò, Silvio subisce una sentenza che definisce ingiusta e fa il martire. Investe la figlia Marina della sua missione politica e lui si fa assegnare ai servizi sociali.

Ecco, se B. ora andasse ai servizi sociali l’incubo potrebbe ricominciare. Immaginatelo che offre da mangiare ai vecchietti della Caritas con venti telecamere attorno. Da quella posizione ogni giorno quello che dice avrebbe un effetto emotivo moltiplicato, e dopo qualche tempo di questa situazione con il governo in attività ( che lui, responsabilmente, avrebbe contribuito a tenere in piedi ) lo redimerebbe di ogni eventuale peccato agli occhi dell’opinione pubblica.

Intanto, riforma della giustizia e poi amnistia, come evoca il comunicato di Napolitano. E così la sua uscita di scena fisica sarebbe la sua vittoria politica e consacrerebbe il ritorno di Forza Italia sull’onda di un voto popolare.

Insomma, il nuovo capitolo dell’epopea del vecchio Freddy Kruger potrebbe così vedere l’arrivo di un nuovo personaggio: la “ periplaneta americana ”. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Movimenti politici e sociali Musica Popoli e politiche

Sugar Man, alla ricerca del poeta perduto.

Quando Einstein chiamò lo spazio-tempo “quella bobina cinematografica”

di Riccardo Tavani

Dove è scritto “genere: Documentario” dovete sostituire con “classe: Capolavoro”. La vittoria dell’Oscar holliwoodiano e del Bafta, il prestigioso premio dell’Accademia Cine Tv Britannica, entrambi come “Miglior Documentario 2013”, sono un riconoscimento mai tanto giusto e mai tanto riduttivo allo stesso tempo. Una pellicola va riconosciuta per la qualità della sua storia e della sua forma artistica, indipendentemente dal fatto che sia una fiction o un documentario. Anzi, andrebbe sempre ricordato che la vera precipua caratteristica del cinema è più nella presa diretta con la realtà che nella finzione narrativa, essendo quest’ultima di evidente derivazione letteraria e teatrale, ovvero di media comunicativi antichi che non rappresentano in sé la specifica modernità del cinema.

Il titolo originale del film è Searching for Sugar Man, ovvero “Alla ricerca di Sugar Man”, e mai titolo fu più azzeccato nel riecheggiare il titolo della grande opera di Marcel Proust “Alla ricerca del tempo perduto”. La ricerca del poeta, del profeta, del musicista cantante perduto di cui narra questo film è davvero una ricerca che riguarda in maniera sconvolgente il senso del tempo, soprattutto inteso come senso della memoria, del destino e del reciproco riconoscersi, restituirsi la voce e rendersi piena giustizia. Una giustizia che si presenta nella forma di una caparbietà del destino che si mantiene salda nel sottosuolo delle coscienze e della storia umana, intese entrambe come scenario dell’esistenza nel quale si succedono eventi, popoli e individui e si smarrisce progressivamente la memoria di essi.

Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
Sixto Rodriguez è un cantautore folk cresciuto nella Detroit degli anni ‘60. Nel 1969 viene scoperto in un club della città da Clarence Avant, produttore della Motown Records, già manager di Miles Davis e di li a poco di un giovanissimo Micheal Jackson. Nel ‘70 e nel ‘71 escono i primi due album, “Cold Fact” e “Coming From Reality”, che riscuotono ottime recensioni ma si dimostrano due clamorosi flop di vendita. L’etichetta abbandona Sixto che, deluso dall’insuccesso, lascia la chitarra e inizia a lavorare come operaio edile. Dopo quasi trent’ anni una telefonata dal Sudafrica cambia all’improvviso la sua vita. Sixto scopre che le sue canzoni sono state il simbolo della lotta all’Apartheid e che il suo nome è entrato nella storia della musica in quel lontano paese. Sugar Man è il racconto di una vicenda eccezionale che parla di speranza, di riscatto e della forza della musica.
La vicenda vera del poeta cantante smarrito Sixto Rodriguez nel farsi film, pellicola cinematografica, opera d’arte per lo schermo, non fa che manifestare la sua vera, profonda natura di film che in se stessa già da sempre essa è, al pari di molte altre misconosciute, trascurate, obliate od occultate vicende di umana storia, cronaca e quotidianità. Anzi, potremmo dire che quella di Sixto è l’emblema stesso dell’essere ogni singola, perduta vicenda esistenziale già avvolta e salva dentro il film, la bobina cinematografica di ciò che chiamiamo “tempo”.

Il paragone tra la bobina cinematografica e il piano esistenziale di tutti gli eventi fisici che accadono nell’intero Universo non è di un filosofo in senso stretto. È invece del padre della fisica moderna Albert Einstein, secondo il quale tutti gli eventi universali giacciono in una dimensione di contemporaneità, simultaneità, ovvero senza passato o futuro, proprio come dentro la bobina di un film. In una pellicola cinematografica tutti i fotogrammi e le scene che essi formano sono già tutti da sempre presenti, ovvero si possono dare soltanto come presente. Il passato e il futuro sono fittizi, ovvero sono relativi alla successione nelle quali noi le guardiamo.

Eppure questa visione di Einstein ha molto a che fare proprio con il senso più profondo e originario della filosofia. A rivelarlo e farlo notare allo stesso scienziato fu Karl Popper, uno dei più grandi filosofi ed epistemologi del ‘900. Popper contestò ad Einstein che la sua visione dell’Universo e del tempo fosse esattamente quella di Parmenide, il padre del primo grandioso e sorprendente sguardo della filosofia greca sul mondo. Popper, nella sua polemica, arrivò a rivolgersi ad Einstein chiamandolo direttamente ‘Parmenide’, cosa che Albert accettò immediatamente e ben volentieri.

Per Parmenide la stessa semplice forma verbale ‘è’ sta come irreversibile dimostrazione logica e ontologica che il Nulla non può darsi in nessun modo, al pari del divenire, del trasformarsi del mondo, dato che tutto è già da sempre e per sempre come eterno presente. L’Universo è una sfera illimitata ma non infinita, perfettamente chiusa, compatta e connessa nella totalità dei suoi eventi. Proprio come in Einstein, l’evento più remoto e invisibile è connesso nel presente a quello più vicino e apparente, perché essi giacciono sullo stesso piano spazio-temporale.

È quello che succede con il long play Cold Fact, inciso negli anni ’70 da un operaio edile con una vena poetica e musicale che non ha niente da invidiare a Bob Dylan ma che non ha il suo stesso successo, anzi, non ne ha per niente e per questo viene licenziato dalla sua etichetta (cosa che Rodriguez aveva profeticamente previsto in anticipo in una sua canzone persino nel giorno del licenziamento). Una sola copia del disco finisce per caso in Sud Africa ai tempi dell’apartheid e comincia – nonostante sia messo sotto severissima censura – a diffondersi clandestinamente tra i giovani della classe bianca e colta che contestavano il regime. Quelle parole e quei profondi ritmi blues alimentano la loro identità politica e fanno sbocciare le prime band musicali alternative. Un’intera generazione di sud africani si forma sulla lezione misconosciuta in patria di Sixto Rodriguez e il disco vende – a sua totale insaputa – più di mezzo milione di copie.

La lontananza degli eventi nella bobina spazio-temporale e anche la loro sconnessione è solo apparentemente. Sugar Man ci racconta come quei fatti freddi e remoti all’improvviso si riavvolgano e trovino finalmente nella pellicola una trama logica ma calda, proprio a partire da quegli ex ragazzi senza voce poetica e politica ai quali Rodriguez ne aveva data una. Ora sono essi a ridarla al vecchio Sixto, rimasto tutta la vita a fare anche i lavori più umili nelle viscere di una grande città industriale americana, ma sempre fedele al suo pensiero e al suo stile. “Grazie di avermi tenuto in vita”, sussurra nel microfono prima di riattaccare a suonare e cantare la sua “Sugar Man”, con la sua voce e le sue profonde inflessioni immutate, come se tutto quel tempo perduto non fosse davvero mai passato. Un film da non perdere in nessun modo, perché niente come quell’ora e mezza seduti davanti allo schermo il tempo – insieme a Parmenide, Proust ed Einstein – ce lo fa ritrovare. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura

Salvo, una canzone e una pistola tra la polvere e l’ombra (con aggiornamento).

di Riccardo Tavani

“Salvo” è un film di poche parole, parecchia ombra, polvere, ferraglia, ruggine. È stato meritatamente insignito a Cannes 2013 con il Gran Premio e una Menzione Speciale. Scenario la Sicilia e la lotta spietata tra cosche locali. Salvo, il protagonista del titolo, è il micidiale, efficientissimo killer di uno dei boss dominanti.

È difficile si faccia uscire qualche parola dalla bocca, sembra un muto. Non ha bisogno di pensiero, linguaggio, ma solo di una pistola, perfettamente funzionante e oliata. Lui è quella pistola. Rita, invece, la sorella di un capo-clan avverso, è realmente cieca. Conta le banconote che il fratello scarica quotidianamente in casa e ascolta sempre la struggente “Arriverà” dei Modà con Emma, canzone che da sola costituisce anche l’intera colonna sonora del film.

L’incontro tra i due fa scoccare un miracolo, che non è tanto quello esplicitamente mostrato dal racconto, quanto quello della brusca interruzione del nulla in cui stagnano le loro rispettive esistenze. Jacques Derrida nelle sue “Memorie di un cieco” spiega la relazione tra vista, accecamento e pianto, il quale è quella particolare modalità nella quale si esprime la commozione, la compartecipazione al dolore, allo strazio altrui.

Il protagonista di questo film è il simbolo di chi pur vedendo in realtà non vede proprio niente e neanche sa di non vedere. Se Rita deve riacquistare miracolosamente la vista, Salvo, al contrario deve perderla, accecarsi, per vedere finalmente qualcosa. Deve perdere, radere al suolo, fino al confine del buio il vecchio modo di percepire visivamente la realtà. Il vero miracolo al quale vuole alludere il film è proprio la perdita della vista da parte di Salvo, proprio per cominciare a intravvedere finalmente qualcosa nell’ombra impenetrabile della sua vita. Un cane eternamente al guinzaglio e abbaiante, nel cortile della squallida pensione familiare in cui dorme e consuma il pasto, diventa improvvisamente per Salvo l’immagine vera di se stesso.

Il vecchio occhio deve essere continuamente accecato per acquistarne uno nuovo che amplia l’orizzonte della mente, della coscienza e della vista. Solo che la realtà che ora percepisce il nuovo sguardo resta completamente invisibile a quello condizionato dalla cultura della cerchia cui si apparteneva. Il conflitto tra vecchio e nuovo sguardo si pone sempre in termini di inconciliabile tragicità, come già nel mito della caverna di Platone. L’uomo che ridiscende nell’ombra degli altri uomini, dopo aver visto la vera luce del mondo, sa di mettere drammaticamente in gioco la propria vita. Anche Salvo ora lo sa, ma ormai non può più sottrarsi al destino che anche inciso nel suo nome: Salvatore.

Il buio della vecchia prigione fraterna nella quale era relegata appare ora chiara a Rita, proprio attraverso quella nuova in cui la scaraventa Salvo. Un buio come mancanza, privazione della luce dei sentimenti, surrogati soltanto da quell’unica canzone continuamente ascoltata. La canzone dei Modà all’inizio dice: “Piangerai, come pioggia piangerai e te ne andrai”; poi nel nel finale del ritornello ripete: “Penserai che la vita è ingiusta e piangerai”. La luce del sentimento per Rita si esprime come acuto atto di compassione nei confronti del suo carceriere-salvatore. Scrive Derrida: “Ora, se le lacrime vengono agli occhi, se dunque possono velare anche la vista, forse rivelano nel corso di questa esperienza, un’essenza dell’occhio, in ogni caso dell’occhio degli uomini… In fondo, in fondo all’occhio, quest’ultimo non sarebbe destinato a vedere, ma a piangere.

Nel momento in cui velano la vista, le lacrime sembrano svelare il proprio dell’occhio”. La compattezza, la densità drammatica di questo film è portata all’acme proprio dalla impossibilità di una redenzione, di un riscatto finale. Eppure quel velo di pianto e compartecipazione allo strazio ce ne fanno sentire tutto il lancinante bisogno. L’occhio, come la luce di cui è simbolo, permette di vedere ma non si lascia a sua volta vedere. Il schermo del pianto come una pellicola cinematografica lo svela.
(Beh, buona giornata).

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L’eccezione culturale e la strategia cinematografica del Festival di Cannes.

di Riccardo Tavani.

Uno dei temi di scontro tra gli Usa e gli Stati europei resta la cosiddetta “eccezione culturale”(*) sul cinema e sui prodotti audiovisivi. Le major americane del settore vogliono una completa liberalizzazione del mercato, mentre l’Europa – capofila la Francia – sostiene che la cultura non è una merce come le altre: è patrimonio stesso della Res publica, dello Stato e va dunque protetta e opportunamente incentivata. Gli Stati europei hanno ottenuto che il tema fosse stralciato da quelli all’ordine del giorno nel recente G8 irlandese. Obama, in considerevole difficoltà a causa del “data-gate”, lo scandalo dello spionaggio capillare sull’intero traffico telefonico ed elettronico di tutti i cittadini americani, non ha per il momento voluto aprire le ostilità sul tema, ma la partita e’ solo rimandata. Gli Usa – come ha paventato anche Romano Prodi – potrebbero, per ritorsione, sollevare anche essi una loro specifica e magari economicamente più pesante “eccezione”, ad esempio sull’agricoltura. Anche il ministro italiano Bray si e’ schierato per l’eccezione francese, mentre all’interno del Governo non tutti sono sulla sua posizione.

Per capire perché la Francia sia quella più determinata su questo punto, basterebbe guardare ai film del Festival di Cannes che in queste giornate si sono visti in rassegna a Milano e a Roma.

La manifestazione alla Croisette non è semplicemente una “mostra’ dell’arte cinematografica, come Venezia e Berlino. E’ anche questo ma soprattutto l’espressione dell’intervento produttivo e culturale francese sulle cinematografie di quasi tutto il mondo, quelle economicamente più deboli in particolare. Cannes solca come una vera e propria portaerei produttiva i mari di tutto il mondo, pasturando di capitali per il cinema quelle acque, per trainarne poi in patria i risultati migliori. La grande maggioranza delle pellicole presentate a Cannes sono frutto della coproduzione francese nel mondo. Tra queste anche le nostre “La grande Bellezza” e “Salvo”. La prima non e’ stata degnata di alcun riconoscimento, mentre la seconda e’ meritatamente onorata di un “Gran Premio” e di una “Menzione Speciale”, in proporzione – sembrerebbe – proprio alla quantità e qualità dell’intervento francese.

Il film vincitore del Festival è “La vie d’Adele” del franco tunisino Abdel Kechiche, della non giustificata durata di tre ore. Una pellicola, dunque, dal sapore pienamente europeo, francese, ma co-prodotta anche con inglesi e americani. E’ la formazione erotico-sentimentale in versione lesbo di una liceale con una ambiziosa universitaria e pittrice, più tesa al successo e alla sua stabilita quotidiana che all’amore con una ragazzina non del suo côté.

Una vittoria forse già in qualche modo “instradata” dalla direzione strategica di Cannes. Moltissime sono state le pellicole “seminate” e poi scelte per questa edizione che vedono come protagonisti non solo i giovani ma addirittura gli adolescenti. Una scelta che ha tutto il sapore di un investimento strategico-globale, di egemonia culturale e produttivo di lungo respiro, che forse ha qualcosa a che fare proprio con la “eccezione culturale” e lo scontro con le major americane. (Beh, buona giornata).

(*) Cosa è l’eccezione culturale? (di R.T.)

Steven Spielberg, presidente della giuria all'ultimo Festival di Cannes
Steven Spielberg, presidente della giuria all’ultimo Festival di Cannes

L’eccezione culturale è una politica che consiste nel tenere la produzione culturale al di fuori delle leggi di mercato. Essa permette agli Stati di mettere in atto dei meccanismi di aiuto e sostegno alla loro cultura, sotto forma di sovvenzioni come gli aiuti all’industria cinematografica e più generalmente ad ogni forma di opera creativa. Ma questo può anche concretarsi nell’applicazione di quote di diffusione cioè imporre per legge che un certo numero di opere diffuse per radio o televisione siano prodotte in Europa. All’epoca gli americani volevano inserire la questione della proprietà intellettuale nel commercio internazionale, ma l’Unione europea si oppose. Per gli USA la cultura è un prodotto come gli altri che non può essere sovvenzionato.

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Attualità Cinema Politica Società e costume

La ministra, la santa e la leghista.

di Riccardo Tavani

Dolly Velandro, la leghista che ha elevato una così commossa invocazione al cielo, affinché mandi in terra un angelo giustiziere, nelle sembianze di uno stupratore della ministra Cécile Kyenge, ha immediatamente precisato di non essere una persona “cattiva”. No, e come si potrebbe soltanto sospettarlo?! Anzi, al cielo invocato lei indubbiamente salirà come una santa! Una santa figlia che, considerata la fede-idea fissa della sua anima e missione, non potrà che somigliare a Santa Maria Goretti, la martire della palude pontina, concupita e uccisa non da un bruto bracciante foresto, ma dal figlio del più intimo amico di famiglia.

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Cinema Cultura Società e costume

Roma alla ricerca della sua “grande bellezza” perduta.

Lo schermo cinematografico come velo della bellezza e sedimento della memoria. Un flaneur dell’apparenza sul filo narrativo-filosofico di Proust e Benjamin.

Un punto di vista filosofico su "La grande bellezza" di Sorrentino.
Un punto di vista filosofico su “La grande bellezza” di Sorrentino.
Una scena di "La grande bellezza":
Una scena di “La grande bellezza”:

di Riccardo Tavani

Nel suo saggio sulle Affinità Elettive di Goethe, Walter Benjamin scrive che la bellezza è inseparabile dall’apparenza. Il termine apparenza va qui inteso nel suo senso etimologico e filosofico più profondamente originario, ossia del rendersi manifesto, del presentarsi di qualcosa allo sguardo. L’apparenza è così una sorta di velo che si offre come mezzo diafano sul quale la bellezza si proietta, rendendosi così visibile, ma che allo stesso tempo la cela, per custodirne il segreto inespresso e mai del tutto esprimibile. In questo senso niente come la pellicola e lo schermo cinematografico si offrono in tutta la storia dell’Occidente come quel velo primordiale che manifesta e cela al tempo stesso la bellezza nella sua vibrazione più intensa e struggente. Ciò vale anche per il film di Paolo Sorrentino, ma certamente non solo perché il tema della Grande bellezza è già inciso nel titolo.

Questa pellicola, però, è segnata anche da un significato oggi più in uso dell’apparire, ovvero quello del voler sembrare, dare l’impressione, prevalentemente, se non completamente, volgarmente ingannevole, falsa. Fin dalle prime scene si mostra il tema della bellezza di Roma, città eterna, accanto alla triviale apparenza umana. Vorremo anche notare che il titolo del romanzo giovanile scritto da Jep Gambardella, il protagonista della vicenda, è L’apparato umano. Il sostantivo apparato non ha una radice etimologica lontana da quella di apparenza, tanto che originariamente apparato è l’insieme di addobbi, ornamenti, paramenti che servono a fare da involucro e sfondo alle feste – sacrali o profane che siano – e agli spettacoli in genere. In termini propriamente sceno-tecnici l’Apparato è il complesso delle scene, dei vestiari, delle comparse, con il quale si rappresenta un’opera o un ballo a teatro: la mise-en-scène dei Francesi.

Siamo proprio al centro della scena di questo film: l’ammasso rutilante, ributtante, ridicolo e pietoso insieme, di personaggi e comparse che ruota attorno al raffinato napoletano, trapiantato Roma, Jep Gambardella, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Re delle feste e delle prestigiose terrazze romane, Jep percorre le vie e le situazioni notturne della città come quel flaneur baudeleriano, descritto proprio da Walter Benjamin nei suoi Passagen su Parigi.

Lo spirito di Jep non è però tanto quello di chi deambula attentamente distratto per le strade e le ombre della città, lasciandosi assorbire dai sui fracassi e dai suoi silenzi. No, l’animo di Jep è quello di un flaneur completamente disincantato, ironicamente agrodolce e feroce. Beve un certo numero cocktail fino all’alba, ma non tanti da stordirsi del tutto e perdere la coscienza critica. Lui solca il suo film, come Marcel Proust attraversa la sterminata tessitura della sua Recherche, descrivendo luoghi, volti, modi, mode, smorfie, linguaggi, flatulenze, singhiozzi e sberleffi. E la pellicola è contrappuntata da alcune peculiari citazioni proustiane.

“Jep, perché non hai più scritto nessun romanzo celebrity pokies, eri davvero bravo?”, gli domandano continuamente. Lui, che ora fa il giornalista per una raffinata rivista culturale, una volta, all’improvviso, risponde: “Io cercavo la bellezza”. La bellezza non c’è più, muore attorno a lui. Il suo amico, aspirante scrittore, Romano non riesce ad afferrarla, né quella fisica di una donna che gli piace, o di Roma che parimenti lo respinge, né nei suoi tentativi di scrittura per il teatro. Ramona, che Jep incontra in un nigth di Via Veneto, è l’emblema della bellezza che gli si spegne tra le braccia, senza neanche poter fare più l’amore.

La bellezza, per lui ora sessantacinquenne, è rimasta Elisa, quella lontana ragazza, innamorata di lui, ma che poi lo ha lasciato, con la quale si scambiavano sguardi intensamente perduti sugli scogli di Capri. Lei, una volta, gli si svela, nella luce sul mare da cui sorge Venere e, come una vera dea, senza mai dirgli neanche una parola. Gli mostra la sua nudità, si toglie la camicetta, il velo della bellezza, poi fa un passo indietro sullo scoglio e sparisce, ovvero, senza una ragione, un perché non appare mai più nella sua vita. Ora la notizia della sua morte lo precipita di nuovo nell’enigma, nel segreto di quel remoto ricordo, del suo amore, custoditi, come per l’Ottilia delle Affinità Elettive, in un diario per sempre muto.

“Solo il ricordo dà all’amore la sua anima”, scrive Benjamin. La bellezza – per parafrasare una celebre espressione del suo amico Theodor Adorno sulla forma artistica– è memoria sedimentata. Il soffitto della camera da letto diventa per lui lo schermo cinematografico, dalla cui impercettibile increspatura riaffiorano le immagini silenziose del mare e della sua giovane, inafferrabile dea.

Schermo, velo, pellicola, sedimento: non è solo una delle tante, possibili storie del presente che si mette nella forma d’arte peculiare del cinema per raccontare e veicolare un senso. È anche il cinema che assume le sembianze di un racconto d’oggi per parlare di sé, dell’apparenza, del trucco, del non senso che gli sono propri. Il vero cinema, parlando della vita, è sempre anche una metafora velata di se stesso. E il film di Sorrentino riesce bene a ri-velare questo suo imprescindibile aspetto.

Sotto le stelle di Caracalla, Jep, come il Gattopardo nel film di Visconti, sente che l’ombra tra le antiche rovine è soffice di morte. Vorrebbe sparire, come in un trucco tipico del cinema, tra quelle mura, pregne del bello in ogni loro sacro, corroso poro. La stella della sera, però, ci dice sempre Benjamin, è anche quella della speranza, di una pur fragile possibilità di riscatto, di una debole forza messianica, che offriamo al passato e a chi in esso è rimasto ammutolito.

Così, proprio come il Marcel della Ricerca del tempo perduto, Jep termina il filo narrativo dei suoi smarriti passagen attraverso l’eterna, grande bellezza di Roma, affermando che ora può cominciare a scrivere il suo romanzo. Romanzo che, esattamente come in Proust, altro non è che quello appena finito di scorrere sotto i nostri occhi di lettori o di spettatori.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Cinema Cultura

Quella hippie venuta dal caldo.

di RICCARDO TAVANI

La domestica dei fratelli Karamazov dà il nome a questa città cui s’intitola il lavoro di Larry Clark. Qui passa il treno, al confine con il Messico.

Il treno, dice Giuseppe Di Giacomo, è in questo film uno di quei personaggi che non parlano ma sono lo sfondo stesso della narrazione. Il treno di Larry Clark passa soltanto e non si ferma mai a Marfa. Passando, scopre la linea dei binari. È una linea di confine, una frontiera, non tanto geografica, quella tra Texas e Mexico, quanto tra storia e mito, tra racconto e natura, tra tempo e atemporalità. Il treno è la Storia; Marfa è una natura desertica, abbandonata nella sua polvere secca, nei suoi spogli prefabbricati monofamiliari tra gli steccati e le recinzioni, nei suoi riti meticci, erotici, allucinogeni.

Adam a sedici anni si trova a camminare sulle traversine di questi binari, di questo confine nudo che sferragliando gli passa dentro, minacciando di schiacciarlo. Adam è anch’egli meticcio, figlio di una yankee bionda e di un messicano, del quale, però, non sappiamo niente. Adam, come gli altri personaggi del film che gli ruotano attorno, non ha passato, è davvero il primo Uomo di questo Eden dai tramonti rosso fuoco nell’immobilità e ripetitività del non tempo, del non racconto, dell’oblio della Storia. Senza passato e senza futuro. Le uniche storie che in modo struggente si raccontano sono quelle di gatti e volatili, di cani che sbranano uomini al pari di volpi nel deserto edenico di Marfa. Anche le cure del corpo e dello spirito sembrano affidate alla ritualità india che la giovane messicana Tina ha ricevuto in eredità dal padre e questi dagli avi, dalla tradizione.

Lo stesso stile cinematografico elaborato dal regista, nota Di Giacomo, è insolito e inizialmente disorientante, proprio perché non ha a che fare con una narrazione, con una trama classica. La macchina da presa scorre fluidamente, senza cadenze ritmiche ben scandite, da una situazione all’altra del ciclo ripetitivo di Marfa, tra sesso, musica, pittura di nudi, cannabis e peyote.

In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
In streaming con il filosofo
Giuseppe Di Giacomo commenta il film di Larry Clark “Marfa Girl”, vincitore del Festival Internazionale di Roma.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.
Questa volta al filosofo non abbiamo chiesto di en- trare in una sala cinematografica ma di collegarsi in streaming a un sito web: larryclark.com. Unico modo di vedere, a pagamento, il film vincitore del Festival di Roma. Per Giuseppe Di Giacomo, ordi- nario di Estetica a La Sapienza di Roma, entrare in contatto con i giovani significa incontrarli durante le sue affollate lezioni nell’Aula I di Filosofia a Villa Mirafiori, saggiarne l’attenzione, coglierne visivamente le reazioni durante i passaggi più problematici dei testi studiati. Connettersi al sito del regista di Marfa Girl significa, invece, mettersi virtualmente in streaming insieme a migliaia di giovani sconosciuti e dislocati in chissà quali angoli del pianeta. Nel 1881 il treno si fermava in questo posto desertico e ancora senza un nome solo per fare rifornimento d’acqua, eppure la moglie del cantoniere, a un solo anno di distanza dalla sua uscita in Russia, già leggeva il capolavoro di Do- stoevskij, altro scrittore citatissimo nelle lezioni di Di Giacomo. Ignatievna Marfa, la domestica dei Karamazov, finisce allora per dare un’identità a un luogo anonimo e remoto. Le ragazze e i ragazzi di oggi sono i protagonisti del film di Clark e, così come diversa è stata la forma cinematografica del film e i contenuti in essa sedimentati, Larry Clark ha voluto che fosse diverso anche il modo di ve- derlo. Girato con macchine da presa digitali, il film non ha ancora una distribuzione nelle sale, perché Larry ha deciso che i giovani se lo vedessero dove a loro piace di più, ovvero sullo schermo di un porta- tile o di un tablet. Al costo di 5.99 dollari, ovvero di circa 4 euro e mezzo, il film può essere visto e rivi- sto, sviscerato e memorizzato in scene e dialoghi per un’intera giornata. In uno spirito simile. L’arti- colo che qui pubblichiamo non è un semplice pezzo giornalistico ma una prosecuzione con altri mezzi del mestiere di maestro che Di Giacomo semina con la voce e il pensiero tra i ragazzi che si succe- dono da ogni nuovo angolo del tempo, al confine tra l’arte e la filosofia, il cinema e la letteratura, la musica e la pittura.

Essere al confine della Storia, avverte Di Giacomo, non significa esserne completamente fuori, ma subire da essa un attraversamento, il quale non lascia dietro di sé soltanto la linea dei binari vuota, bensì residua qualcosa che turba l’equilibrio ciclico naturale. Il sedimento, per il fatto stesso di apparire come un improvviso, un imprevisto nella staticità atemporale di Marfa, non può che accadere, irrompere in forma di violenza. Tom, il poliziotto di frontiera bianco, è per Di Giacomo, questo elemento. (Beh, buona giornata)

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Cinema

“Django” di Quentin Tarantino, l’ultima Tarantinata.

di RICCARDO TAVANI

(Jamie Foxx e Franco Nero, il nuovo e il vecchio Django, in un'ironica "scena citazione" del film di Quentin Tarantino. Il Nome del personaggio fu preso da Sergio Corbucci dal grande musicista jazz belga di origine sinti Django Reinhardt, del quale stava ascoltando i dischi)
(Jamie Foxx e Franco Nero, il nuovo e il vecchio Django, in un’ironica “scena citazione” del film di Quentin Tarantino. Il Nome del personaggio fu preso da Sergio Corbucci dal grande musicista jazz belga di origine sinti Django Reinhardt, del quale stava ascoltando i dischi)

Una volta di un film si diceva: “Un’americanata!”. Adesso possiamo dire: “Una Tarantinata!!!”. Dichiaratamente ispirato a “Django”, lo spaghetti western girato da Sergio Corbucci nel 1966 con Franco Nero, Tarantino riprende il tema del razzismo presente in quel film e lo radicalizza.

L’eroe pistolero assume così i tratti neri di uno schiavo liberato da uno strano dentista tedesco e diventa con lui cacciatore di taglie. Il razzismo è visto nel volto sanguinario dello schiavismo come si praticava nelle piantagioni del Sud nel 1856 (soltanto dieci anni dopo è ambientata la vicenda dell’altra grande produzione ora sugli schermi e sugli stessi temi, “Lincoln”).

Quentin ci infila dentro anche Brumilde, Sigfrido e Wotan come nelle opere di Wagner. Ottima interpretazione di Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson e Christoph Waltz. Un film e un genere cinematografico che possono naturalmente non piacere, ma le polemiche scatenate contro la pellicola sono semplicemente assurde.

Il regista nero Spike Lee e il reverendo Al Sharpton hanno lanciato una campagna di boicottaggio del film. Il primo perché dice che lo schiavismo americano è stato un Olocausto e non un “macaroni western” alla Sergio Leone; il secondo per la commercializzazione di “action figure”, pupazzetti di plastica raffiguranti i personaggi del film, compresi magistralmente delineati dei suoi atroci negrieri.

Insomma: non si gioca con la tragedia e la ferita ancora aperta dello schiavismo yankee. Si riapre qui un tema legato direttamente alla Shoha, allo sterminio degli ebrei nei campi nazisti. È il tema della sua impossibilità a rappresentarlo in qualsiasi modo, visto l’abisso dell’orrore nel quale l’umanità è sprofondata attraverso esso. Non solo, ma “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro”, sentenziò Theodor Adorno, qualsiasi forma d’arte non è più possibile.

Lo stesso Adorno ebbe in seguito a correggere questa sua drastica affermazione, ma sta di fatto che il cinema e lo schiavismo e la guerra civile americana li ha rappresentati attraverso celebri pellicole storiche. La discussione potrebbe vertere sul fatto un film di genere, lo spaghetti western, splatterizzato da Tarantino, sia degno di tale rappresentazione.

Sugli extra all’interno del DVD del “Django” di Corbucci c’è una significativa intervista dello stesso Tarantino. Il regista americano afferma che il suo collega italiano usava quelle storiacce di genere per mettere in scena i fascisti della realtà presente, non solo e non tanto del passato.

I neri chiusi prima dentro una sozza gabbia da animali, ora spalancata, guardano Django allontanarsi a cavallo che va a liberare Brumilde e a fare giustizia. Quello sguardo comune ci dice che lo sta facendo ed è un esempio per tutti loro, ancora oggi, nel presente della rappresentazione filmica e non solo dell’epoca storica nella quale è ambientata.

C’è da registrare, inoltre, che le polemiche più crescono, più fanno aumentare gli incassi del film. Anche in questo lo splatter spaghettaro western Quentin ha centrato in pieno il bersaglio. La tarantinata fa esplodere di dinamite gli schermi e di dollari i botteghino. (Beh, buona giornata).

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Cinema Cultura Guerra&Pace Società e costume Televisione

Degli Europei se parla troppo, de “Il mundial dimenticato” troppo poco.

Le possibilità negate della Storia e come il cinema le restituisce,
di RICCARDO TAVANI

Partiamo da un termine tecnico del glossario cinematografico: “mockumentary”. Cosa significa e cos’è un mockumentary? È la fusione di un verbo e di un sostantivo entrambi della lingua inglese: “to mock”, fare il verso, e “documentary”, documentario. In termini pratici, un film che sembra un documentario, perché ne “rifà il verso”, ne riprende il registro tecnico e stilistico, ricostruendo una vicenda verosimilmente reale, ma che in verità è una pura finzione cinematografica.

Il mockumentary si è affermato come un vero e proprio genere del cinema e della televisione, fin dal suo primo riuscito colpaccio nel 1965, quando con “The War Game”, Peter Watkins, simulando un più che realistico attacco atomico all’Inghilterra, si aggiudicò l’Oscar come migliore documentario. Famoso e più recente il tiro messo a segno anche da “The Blair Witch Project”, con cui un gruppo di ragazzi sbancarono i botteghini di mezzo mondo, simulando una situazione horror da loro direttamente vissuta e ripresa con videocamera in un bosco di notte.

Premessa necessaria, questa, per parlare di un altro geniale mockumentary di due scapestrati registi italiani, coprodotto dalla Rai e presentato a Venezia nel 2011. Si tratta de “Il mundial dimenticato”, dei toscanacci Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, in cui si ricostruiscono con il respiro e il puntiglio professionale di una appassionante inchiesta giornalistica le vicende di un Campionato Mondiale di Calcio disputato nel 1942 in Patagonia, Argentina, mentre l’Europa è già avvolta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

Il racconto si mostra più avvincente hilary duff pokies di qualsiasi pellicola esplicitamente di finzione narrativa. Perché? Perché quello che viene messa in scena, nelle sembianze della realtà storica, è proprio una possibilità realistica della storia, non solo passata ma anche presente e futura. Che questa grande passione planetaria che è il gioco attorno a una sfera di cuoio possa essere usata contro il razzismo, la violenza, la follia guerrafondaia delle grandi potenze politiche ed economiche è qualcosa che può e, anzi, dovrebbe avvenire.

Appare così estremamente realistico che il film ci mostri un conte trasmigrato in Argentina da quella terra martoriata per secoli da guerre di ogni tipo che sono i Balcani, il quale concepisca e realizzi questo progetto visionario di una Coppa Rimet contro la voragine bellica e razzistica in cui l’Europa sta precipitando.

La situazione “precipizio” è una “possibilità” sempre incombente nella storia, e così anche la “possibilità” di un antidoto a esso deve essere realisticamente contemplata, come possibilità e atto concreto di salvezza messianica, secondo quanto scriveva il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, prima di suicidarsi per sfuggire alla cattura dei nazisti.

L’amore per il calcio è in questo film una coniugazione particolare dell’amore in sé, della sua forza naturale che si oppone e tenta di arginare quella del male. Così alla vicenda calcistica si intreccia una straordinaria narrazione d’amore umano che è anche una storia d’amore per il cinema e per il suo compito artistico di dare visibilità e voce proprio a ciò a cui la Storia ha finora protervamente negato “possibilità”.

Locandina de “Il Mondial Dimenticato”.
(Beh, buna giornata).

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Il carcere, il cinema, il filosofo.

In sala con il filosofo
Paolo Virno commenta il film dei fratelli Tavani “Cesare deve morire”
Il carcere è solitudine, il teatro azione politica
Dalla sua detenzione a Rebibbia al perturbante di Freud e l’agorà di Arendt

di Riccardo Tavani

Per Paolo Virno il carcere, in particolare quello di Rebibbia a Roma, è stato un capitolo importante della sua vita. Oggi è uno dei pensatori contemporanei maggiormente apprezzati, soprattutto all’estero, ma lo studio della filosofia, fin dagli anni giovanili, non è stato mai separato da un suo impegno politico diretto nei movimenti della sinistra operaista, per il quale ha pagato anni di reclusione nelle sezioni speciali dei carceri anche di Novara e Palmi.

La scena dell’uccisione di Giulio Cesare in questo film girato all’interno del carcere di Rebibbia, lo riporta, non solo con la memoria, ma con tutta la sensibilità corporea a quei cortili, a quei cubicoli per l’ora d’aria dove per due anni e mezzo ha passeggiato, discusso, avuto anche momenti di tensione con altri detenuti, politici come lui o comuni come quelli che interpretano questa libera versione del “Giulio Cesare” di Shakespeare. A riportarlo in quella atmosfera è l’ambivalenza della figura di Cesare, che trova una piena corrispondenza nell’esperienza esistenziale di quei carcerati.

Giulio Cesare è stimato, amato in massimo grado proprio dai congiurati che lo assassinano, i quali antepongono all’amore per lui quello per la Repubblica, che il grande condottiero si appresta a porre sotto il suo potere assoluto. Dove c’è l’amico migliore si nasconde anche il nemico peggiore, dice Virno, richiamando la grande lezione di Freud sul concetto di “perturbante”. Dove pensi ci sia la sicurezza, la familiarità più rassicurante, là si cela anche il pericolo, l’ostilità più inquietante. Nella vita fuori dal carcere accade continuamente a questi carcerati il rovesciamento improvviso del criterio amico-nemico. Sasà Striano, il detenuto che interpreta magistralmente Bruto, interrompe la recitazione, quando deve pronunciare la celebre battuta: “Si potesse strappare lo spirito di Cesare senza squarciarne il cuore!”.

La scena lo riporta direttamente all’uccisione del suo più intimo amico di contrabbando, considerato un “quaquaraquà”, ossia una delatore, un traditore. L’amico intimo si svela improvvisamente un nemico letale, e lo stesso gruppo criminale che li proteggeva, ora li associa insieme e diventa una minaccia per entrambi. Il carcere stesso, i reparti di alta o massima sicurezza che Virno ha sperimentato direttamente, sono questi perturbanti luoghi della massima insicurezza, della minaccia, della vendetta antirepubblicana della Repubblica reale, per le condizione di sovraffollamento, degrado, quotidiana istigazione al suicidio in cui sono oggi ridotti.

Con l’accentuarsi della crisi economica queste condizioni si aggraveranno ancora di più, perché aumenterà la massa dei senza reddito che andranno a gonfiare le patrie galere. La crisi del sistema giudiziario repubblicano che si abbatte in maniera nefasta su quello carcerario, svela la sua vera faccia di radicale ingiustizia sociale, alla quale un provvedimento di amnistia, pur urgente e anzi improrogabile, non sarebbe certo in grado di occultare. Se Shakespeare mette in scena anche la vendetta che si abbatte sugli sconfitti, nel film questi particolari attori non fanno che mettere in scena se stessi in quanto vinti e soggetti ai soprusi anticostituzionali della attuale repubblica carceraria italiana.

Dopo l’uccisione in Senato di Cesare, i congiurati intingono le mani nel suo sangue e insieme intonano: “Quanti secoli venturi vedranno rappresentati da attori questa nostra grandiosa scena in regni ancora non nati, e in linguaggi non ancora inventati!”. Di tutti gli attori possibili, questi esclusi-reclusi appaiono a Virno i più verosimili e i maggiormente autorizzati a discutere cosa sia pro o contro la libertà, anche confrontandoli con grandi prove d’attore, quale quella di Al Pacino nel Riccardo III. C’è una scena, che scorre via quasi inappariscente, che è per Virno molto significativa.

Sasà Bruto salendo i gradini di una scala interna incrocia altri due detenuti che scendono. Una volta che i due sono ai piedi della scala, mentre Sasà è in alto, uno dice all’altro: “Guarda quello… che si è messo in testa?! Invece di farsi il carcere si è fatto boffone”. Il carcere si presenta quasi come un mestiere, che mette in gioco una capacità di saperlo fare seriamente, dedicandovi anima e corpo. I detenuti sono ipocondriaci e dunque maniaci della salute, della forma fisica e mentale. “Farsi” il carcere significa assumere con impegno e dedizione la “cura del sé”, come direbbe Foucault. Un ostacolo insormontabile alla cura del sé è il colloquio, per il carico eccessivo di aspettative in gioco, da una parte e dall’altra, destinate ad andare inevitabilmente deluse. Il colloquio anche quando va bene, dice Virno, va sempre male. Il carcerato che interpreta Antonio se ne sta in disparte, assorto in una lontananza irraggiungibile. Il regista cerca di richiamarlo a sé, ma non c’è niente da fare. “Lasciatelo perdere – dice un altro carcerato – ha avuto il colloquio”.

Il carcere per Virno è uno spazio di solitudine senza politica, anche fosse pieno soltanto di detenuti politici. Ciò che manca per una dimensione politica è quello che Hannah Arendt chiama l’infra, lo spazio di relazione “fra” le persone nella società. A dispetto dell’addossamento, perfino del cozzo fisico, violento dei corpi, i detenuti sono sempre disperatamente soli. Però è proprio la Arendt, in Vita Activa, ricorda Virno, a mostrare che “Il teatro è l’arte politica per eccellenza”, proprio perché è “L’unica arte che ha come soggetto l’uomo nella sua relazione con gli altri uomini”. Nell’esperienza prepolitica di provenienza e nella organica solitudine carceraria, il teatro reintroduce tra questi detenuti uno spazio relazionale, l’infra sociale e comunitario. Dramma deriva dal greco dran che significa fare, agire ma nell’agorà, in uno spazio pubblico aperto, avendo il coraggio di esporre se stessi allo sguardo degli altri.

È questo che mette Sasà in alto sia nei gradini di quella scala che nell’inquadratura cinematografica, questa esperienza della politica attraverso l’azione scenica, dentro la quale si rivaluta interamente la sua vicenda biografica. Il ritorno in cella è amaro come la fine di una evasione, l’essere ricatturati e imprigionati di nuovo nella propria solitaria individualizzazione. Conclude il film una straziante battuta di Cosimo-Cassio, un “fine pena mai”, un ergastolano: “Da quando ho conosciuto l’arte, ‘sta cella è diventata ‘na prigione”. (Beh, buona giornata).

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“Il paradossale prodigio sulla pelle della realt

In sala con Giuseppe Di Giacomo*, di RICCARDO TAVANI

Un'immagine di "Miracolo a le Havre".
Giuseppe Di Giacomo.
Giuseppe di Giacomo ci propone un assunto che poi immediatamente rovescia. L’assunto è che il miracolo ha a che fare con la paradossalità e Kaurismaki prende talmente sul serio questo postulato da far diventare il paradosso normalità, e addirittura ovvietà, banalità quotidiana del suo racconto. Il rovesciamento, però, ci avverte il professore, dobbiamo coglierlo non solo nella struttura della narrazione ma sopratutto nella semplicità, nella povertà spoglia delle immagini e dei mezzi cinematografici di cui il regista volutamente si serve.

La superficie, la pelle delle immagini qui gioca un ruolo decisivo. L’autore vuole che proprio la semplicità, la banalità quotidiana ci sia messa davanti, perché è in essa che noi dobbiamo saper vedere il miracolo possibile, ovvero sapere cogliere un aspetto che non è immediatamente visibile, solo perché non sappiamo o non vogliamo vederlo.

Il miracolo ha a che fare con la paradossalità dello sguardo umano che non riesce a vedere proprio quello ha davanti a sé. Non a caso Wittgenstein, ricorda Di Giacomo, invoca che Dio sappia far cogliere ai filosofi proprio quello che hanno sotto gli occhi e non riescono a vedere. È il miracolo che ci guarisce dalla nostra stessa cecità.

Sotto l’aspetto della vicenda umana che qui si racconta, il miracolo assume la forma narrativa della favola. Un adolescente africano, Idrissa, fugge da un container scaricato su una banchina del porto di Le Havre, dentro il quale ha attraversato clandestinamente le acque territoriali francesi. La polizia, guidata dall’enigmatico commissario Monet, gli dà la caccia per tutta la città. Ad aiutarlo e dargli rifugio è il lustrascarpe Marcel Marx, proprio il giorno in cui sua moglie Arletty è ricoverata in ospedale per un grave tumore che i medici (tacendolo però al lustrascarpe) diagnosticano come inguaribile, senza alcuna speranza.

Il “C’era una volta” della fiaba rimanda a una dimensione di atemporalità, anche se, dovendo rendercela con delle immagini, il regista le mette qui le vesti di gente e di ambienti rimasti per lo più agli anni 50-60 del secolo scorso. La favola, però, tratta di un tema estremamente attuale: quello della immigrazione clandestina. Dunque, l’elemento senza tempo del “C’era una volta” è attraversato da un cruciale carattere di temporalità, attualità. E Kaurismaki, nota Di Giacomo, nella scena in cui due amiche di Arletty le leggono in ospedale il brano di un libro, sofferma volutamente l’inquadratura sulla copertina.

Si tratta dei Racconti di Franz Kafka. Ora in Kafka è proprio l’elemento della temporalità a precludere la possibilità di un significato unico, di una spiegazione definitiva, di un senso compiuto del racconto. Kafka ci mette sempre davanti a un finale, a un problema aperto che non si chiude da sé e su sé. L’autore del film alterna continuamente il registro narrativo della fiaba alle immagini della drammatica realtà attuale relativa alla immigrazione. Favola e realtà le avvertiamo entrambe, simultaneamente, sulla stessa epidermide sensibile, la nostra.

Kaurismaki, suggerisce Di Giacomo, vuole che noi ci poniamo davanti al problema, facendoci però scorgere che sotto quella pelle scorre una speranza, c’è la possibilità di scrivere veramente quella che noi ora chiamiamo “favola”, o l’avverarsi di quello che definiamo “miracolo”. La realtà non è mai buona o cattiva in senso assoluto ma in relazione alla nostra consapevolezza, alla nostra presa di posizione, al nostro impegno.

In un mondo reale come quello attuale c’è bisogno di un rapporto di solidarietà per risolvere il problema tragico della immigrazione. Il lustrascarpe Marcel compie la scelta di mettere in atto la solidarietà, perché anche lui si è trovato un giorno ai margini della società e Arletty gli ha dato aiuto e rifugio, non badando ai pregiudizi e agli inconvenienti sociali derivanti dal suo essere un clochard. Lui è già, in quanto lustrascarpe, un personaggio della favola scritta a suo tempo da Arletty, la quale insiste sempre che Marcel, proprio come Idrissa, è rimasto un bambino.

È questo l’aspetto spiccatamente etico del top direct lenders for payday loans film, sottolinea Di Giacomo. La decisione di Marcel di impegnarsi attivamente e di ritirare fuori tutto il proprio coraggio civile e la propria dignità umana è bene espressa dal suo ritirare fuori dall’armadio l’abito buono poco indossato, per aiutare meglio il ragazzo a oltrepassare la Manica e raggiungere la madre a Londra.

Il comportamento gretto, attaccato alla loro grigia realtà dei piccoli negozianti nei confronti dei quali il lustrascarpe ha maturato un debito lungo e mai rimesso, viene trasformato dal constatare che Marcel non si mette paura neanche di fronte alla pressione rude e incalzante della polizia. Il rovesciamento dal grigiore spento della realtà a quello luminoso della favola lo fa scattare Marcel con la sua scelta di entrare il quella che Hanna Arendt chiama la “vita activa”.

La solidarietà verso il ragazzo scatta anche negli altri. Il lustrascarpe si fa elemento attivo di azione e comunicazione. Il vecchio cantante rock Little Bob torna a sfoderare il meglio della sua musica e della sua mimica per esibirsi e tirare su i soldi necessari a far passare il canale a Idrissa. Di Giacomo coglie una sorprendente citazione cinematografica, un fulminante flashback che ci fa veramente ruzzolare alla metà del secolo scorso. Il rapporto tra il lustrascarpe e il commissario Monet è lo stesso che si instaura in “Casablanca” tra Rick Blaine e il Capitano Louis Renault. Anche in quel film è la decisione di Rick di uscire dal suo disincanto esistenziale e di rientrare nella “vita activa” a determinare la complice solidarietà dell’ufficiale francese.

Nel finale il regista torna a giocare pienamente l’assunto iniziale e il suo rovesciamento. Il miracolo ha a che fare con il paradossale e un ciliegio improvvisamente fiorito al primo e unico raggio di sole tra le costanti nebbie del porto non potrebbero mostrarcelo meglio. Ma il vero paradosso è lo scorrere del prodigio a fior di pelle della realtà e il nostro esiliarlo nella fiaba. (Beh, buona giornata).

*Chi è Giuseppe Di Giacomo ovvero la impossibilità del senso e il dovere etico della forma nell’arte del presente.

Giuseppe Di Giacomo si è formato agli studi estetici con Emilio Garroni, ha ereditato la sua cattedra a “La Sapienza” di Roma e come il suo maestro è diventato uno dei docenti più seguiti dagli studenti e dai cultori di ogni età nella Facoltà di Filosofia.

È uno dei maggiori studiosi contemporanei del pensiero di Benjamin e Adorno, ma fondamentali sono anche le sue ricerche e i suoi scritti su Nietzsche, Lukács, Warburg e Wittgenstein. Nel campo dell’arte i suoi studi investono sia la pittura che la letteratura, da Klee, a Mondrian, a Malevič; da Proust, Dostojewskij Kafka, Joyce e Beckett.

Occupandosi dello scrittore contemporaneo Cormac McCarthy, soprattutto della “trilogia della frontiera” e delle trasposizioni cinematografiche, Di Giacomo sta delineando nelle sue lezioni universitarie una visione del cinema western come forma di narrazione epica moderna.

A partire dalla filosofia critica di Kant, dal prospettivismo nietzscheano, dall’opera estetica di Adorno e dalla concezione dei giochi linguistici di Wittgestein, Di Giacomo proprio perché vede nell’arte del presente l’impossibilità paradossale di giungere o di tornare a un senso finale compiuto, pensa che il lavoro sugli aspetti formali dell’opera costituisca un vero e proprio dovere estetico ed etico dell’artista.

Solo il processo di composizione, di montaggio formale di linee e colori, di parole, versi, ritmo, successione di immagini in movimento può conferire all’arte quella autonomia che la metta in grado di guardare criticamente alla realtà del mondo amministrato, tentando di ridare voce al silenzio di chi non ha potuto esprimersi, a cui è stata tolta la parola e la speranza insieme.

Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, 1989; Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, 1999; Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, 1999; Introduzione a Paul Klee, 2003; Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, 2008; Beckett ultimo atto, 2009; L’oggetto nella pratica artistica, 2010. Sta dando alle stampe un libro sul grande pittore russo Malevič.

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