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Attualità Popoli e politiche

Da dove viene chi ha compiuto la strage di Oslo.

di CARLO BONINI-laRepubblica

Per raccontare la tenebra da cui è uscito Anders Behring Breivik e che altri come lui incuba, per definire il bolo di odio che avvelena la Norvegia e un pezzo di Europa, bisogna dimenticare la storia del Novecento e le sue categorie politiche.

E convincersi che persino parole come “Destra”, “Fascismo”, “Nazismo” possono risultare vuote, quantomeno inadatte. Bisogna immaginare una subcultura nazionalista contagiosa, cresciuta all’ombra di un Pantheon impazzito che tiene insieme la Bibbia e il rock Black Metal, il Compasso e le Crociate, il “paganesimo Odinista” con le sue reminiscenze di miti nibelungici. Tolkien con John Stuart Mill. Che ha in odio i religiosamente diversi – musulmani ed ebrei – i socialmente assistiti, i padroni della globalizzazione mercatista (le banche), la solidarietà marxista e laburista. Ugo Maria Tassinari, tra i più attenti studiosi dell’evoluzione delle destre in Italia e in Europa, spiega: “Lo sterminio di Oslo è l’espressione di un integralismo nero da terzo Millennio. Che esalta l’identità, nell’odio della modernità. E che ha rimesso al centro la Croce. Si badi bene, non il cattolicesimo. Ma un cristianesimo declinato in chiave ideologicamente violenta, intollerante”.

Non è storia di ieri. Ma di almeno un decennio, ormai. Almeno in Norvegia. Dove a metà degli anni ’90 si fa strada un uomo che organizza “conferenze antisioniste”, parla con l’enfasi del messia e la violenza verbale dell’angelo vendicatore: Alfred Olsen. Il tipo, descritto come “mentalmente instabile” e che ha per altro legami di nascita con l’Italia, battezza il “Movimento di Resistenza Popolare. L’alternativa Cristiana”. Ne definisce il manifesto. Dove, tra l’altro, si legge: “È necessario lottare contro il capitalismo di stato marxista, iI capitalismo liberale, la massoneria e altre idee anti-cristiane. Combattere l’infiltrazione di agenti stranieri nel nostro governo. Opporre la disseminazione di propaganda razzista-sionista in occidente, propaganda tesa a influenzare i cittadini contro la tradizione cristiana. Svelare e combattere la propaganda sovversiva nella scuola, nella stampa, nella radio, nella televisione, nel cinema e nella educazione in genere”. Sono parole che trovano terreno fertile, soprattutto che suonano familiari, perché incrociano una subcultura giovanile nera che, in Norvegia, proprio in quegli anni, la metà dei ’90, e di lì in avanti, si divide tra forme di neointegralismo cristiano e un neopaganesimo satanista che pesca a piene mani nel mito della fratellanza di sangue tra i popoli di origine germanica.

Di questa seconda “famiglia nera” è massimo interprete Varg Vikernes, cantante di “black metal”. Nel 1991 ha fondato il progetto musicale “Burzum” (termine che significa “tenebra” e che Vikernes mutua dal “Signore degli anelli” di Tolkien) e ha assunto il nome d’arte di “Conte Grishnackh” (anche questo ispirato alla letteratura di Tolkien). Il “Neo-Volkish Heaten Front”, formazione neonazi, lo adotta e ne succhia la popolarità. Anche da galeotto, perché Vikernes finisce in carcere per aver ucciso Oystein Aarseth, suo compagno di band. Dietro le sbarre, “il Conte” si fa filosofo e comincia a mettere mano a un manifesto che battezza “Vargsmal”, “il discorso del lupo”, dove il mito di Odino incrocia le fondamenta ideologiche del Nazismo, l’abbraccio ai temi dell’eugenetica diventa appassionato e il Paganesimo viene declinato in pochi e riconoscibili valori: “lealtà, coraggio, saggezza, disciplina, amore, onestà, intelligenza, bellezza, responsabilità, salute, forza”. Vikernes finisce di scontare la pena nel maggio di due anni fa, ma appena sei anni prima, durante un breve permesso di uscita dal carcere, si fa sorprendere in fuga su un’auto rubata dove la polizia trova un fucile semiautomatico da guerra, una pistola, numerosi coltelli, maschere antigas, un sistema di rilevamento di posizione gps e tute mimetiche.

Tutto ciò che si muove fuori da questo perimetro “iniziatico” e “suprematista” bianco (da questo punto di vista c’è più di un’assonanza tra l’orrore di Oslo e la strage di Oklaoma City di Timothy Mc Veigh, 19 aprile 1995, 168 i morti), sia nella sua declinazione “cristiana”, che in quella “pagana”, non ha diritto di cittadinanza politica. Neppure se si tratta di partiti di destra come il “Fremskritt Partiet”, il Partito del Progresso. Colpevoli di una “correttezza politica” che ne snatura l’afflato ideologico e mistico.

“Evidentemente c’è uno specifico nord-europeo in quel che è accaduto e accade in Norvegia – spiega ancora Tassinari – ma non c’è dubbio che una parte almeno di questa eco nera che in generale definirei scandinava, ha in questi anni contagiato buona parte dell’Europa, dove assistiamo a dinamiche molto simili con il progressivo distacco e polverizzazione di culture di destra xenofobe che assumono quasi il tratto di sette, esercitando una forte attrazione su chi, i più giovani, vive lo smarrimento di un tempo difficile, socialmente ed economicamente”. Qualche sigla. In Italia, con “Militia Christi” e “Forza Nuova”. In Inghilterra, con l’English Defence League (EDL). In Olanda, con il movimento xenofobo “Partito della Libertà” guidato da Geert Wilders e la “Dutch defence league”. In Francia, con la “Ligue Francaise de Defence”. Per non dire dei Paesi dell’ex Blocco sovietico e della ex Yugoslavia, dove la pressione nazionalistica resta fortissima e diventa un significativo moltiplicatore di ricerca identitaria.

Quella cui il “Conte” Vikernes, dal carcere, invitava i suoi adepti. Con queste parole: “È giunto il momento di bandire il fantasma nazista che per 60 anni ha spaventato l’Europa, per cominciare a occuparci delle cose che ci sono care”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Natura Popoli e politiche

A dieci anni dal G8 di Genova, a un mese dai referendum, a una settimana dagli scontri con i No Tav in Val di Susa.

Questa intervista con Vittorio Agnoletto è apparsa oggi 10 luglio su 3Dnews, inserto culturale della domenica del quotidiano Terra.

Vittorio Agnoletto, all’epoca dei fatti portavoce del Genoa social forum, e Lorenzo Guadagnucci, giornalista che si trovava nella scuola Diaz al momento del sanguinoso blitz della polizia, hanno scritto un libro sulle tragiche giornate del luglio 2001 a Genova, dove il movimento “no global” si era dato appuntamento per protestare contro il G8. Il libro si intitola “L’eclissi della democrazia” ed è edito da Feltrinelli.

Agnoletto, sono passati dieci anni dai fatti del G8 di Genova ed ecco puntuale un libro su quegli episodi. Non c’è il rischio che tutto sappia un poco di commemorazione?

No. Perché non è un libro rivolto al passato. Ma al futuro. Raccontiamo non solo quello che successe davvero a Genova, dalla morte di Carlo Giuliani a piazza Alimonda, all’assalto alla scuola Diaz, alla “macelleria messicana” così come fu definito da un funzionario di polizia quello che successe nella caserma Bolzaneto. Ma soprattutto, raccontiamo come si è tentato in tutti i modi di nascondere la verità, di bloccare i processi, di ostacolare il lavoro dei magistrati.

Con il dovuto rispetto, Agnoletto mi lasci dire che non è una novità che in Italia la verità sui fatti politici si perda nel “Porto delle nebbie”. Fin dai tempi di piazza Fontana….

Sì, ma qui c’è un fatto inedito. I magistrati di Genova non solo sono riusciti a non far fallire le inchieste, ma addirittura per la prima volta nella storia repubblicana le inchieste della magistratura hanno portato alla condanna in secondo grado di decine di agenti, funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine, inclusi i massimi vertici della polizia di stato e dei servizi segreti. Un esito giudiziario clamoroso, senza precedenti.

Giustizia è stata fatta?

No. Tutti i condannati, anche se svergognati da ricostruzioni dei fatti rigorose, sono rimasti al loro posto, con l’avallo dell’intero arco politico parlamentare.

Non si è mai voluta istituire la commissione parlamentare di inchiesta sui fatti di Genova. Quando lei dice “l’intero arco politico parlamentare” dice che anche i partiti di centrosinistra non hanno voluto che si andasse fino in fondo.

E’ vero. Quando Prodi tornò a Palazzo Chigi,la commissione parlamentare rimase lettera morta.

Rimane comunque il fatto che la feroce repressione annichilì il movimento No Global. Aldilà delle sia pur gravissime violazioni della legalità, possiamo dire che, parafrasando il titolo del libro, l’eclissi della democrazia ha funzionato?

Il movimento seppe resistere ancora qualche mese, fino alla grande manifestazione di Firenze contro la guerra. Poi, è vero: il tessuto sociale si sfilacciò, molte delle componenti del movimento tornarono nei loro territori, nelle loro realtà.

Fenomeno che in Italia abbiamo già vissuto nei decenni passati. Una parte entra nella spirale repressione – lotta alla repressione; le altre componenti si disperdono nelle rispettive realtà. Ciò che però è insopportabile in questa coazione a ripetere è il ruolo della sinistra parlamentare.

Beh, bisogna essere consapevoli che, per esempio al Pd il movimento No Global non è mai piaciuto. La critica puntuale contro il neoliberismo è una contraddizione che il Pd fatica molto a risolvere anche oggigiorno, nonostante che alla crisi energetica e a quella ambientale si sia aggiunto lo tsunami della crisi finanziaria che ben presto è sfociata nella gravissima crisi economica che attualmente sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale.

Poi però succede che quel movimento che ha prodotto un nuova visione del mondo sembra oggi aver germogliato: l’idea della difesa dei beni comuni ha prodotto recentemente lo straordinario risultato della schiacciante vittoria dei Sì ai referendum dello scorso giugno.

Sì. Fu a Porto Alegre che, per esempio affrontammo il tema dei beni comuni. Esso è diventato programma di governo in alcuni paesi dell’America latina, ma ha lavorato, lavorato molto fino a diventare un tema importante anche nel Vecchio Continente, anche in Italia. Credo che anche il movimento No Tav abbia qualcosa che fa pensare che il filo intessuto dal movimento No Global non si sia mai del tutto spezzato.

In Val di Susa sembra però che la luna di miele tra l’opposizione parlamentare e i movimenti sia finito. Insomma, il vento sta cambiando, ma non a tutti fa piacere.

Gli argomento dei No Tav sono chiari, sono ragionamenti maturi, concreti. Gli abitanti della Val di Susa sanno che chi difende il progetto non riesce a più a nascondere che gli unici beneficiari sarebbero solo i costruttori.

Come per il famoso ponte sullo Stretto di Messina o per l’ormai defunto piano di costruzione delle centrali nucleari in Italia.

Esatto. La gente non crede più alle favole. E credo neanche al tentativo di raccontarle meglio da parte di alcuni esponenti del centrosinistra. Comunque, leggere “L’eclissi della democrazia” è utile anche per capire come il governo intende muoversi, per esempio in Val di Susa.

Agnoletto, si riferisce alla improvvisa ricomparsa sulla scenadei famigerati Black Block?

In effetti questa ricomparsa mediatica dei black block è un segnale preciso: si vuole far credere che la questione è semplicemente di ordine pubblico, che il problema è la violenza politica di “frange estremiste”. Insomma, ancora lo stesso schema: deviare il dibattito dalla sostanza della protesta alle forme della protesta è un espediente che serve nascondere la vera natura dell’Alta Velocità in Val di Susa, che serve a ostacolare il dibattito tra gli abitanti su temi importanti, squisitamente politici, che pongono sul tappeto domande precise: che uso del territorio, che tipo infrastrutture, per quale tipo di produzione di merci da trasportare, che rapporto con le risorse energetiche, che dialettica con l’ambiente, che tipo di benessere, quale qualità dei consumi?

Se il movimento No Tav è ricco, mi pare che finora le risposte sono state molto povere e tanto rabbiose.

Il che non è un bel segnale. Si rischia di spianare la strada alla repressione. Come è successo a Genova nel 2001.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Guerra&Pace Popoli e politiche

Il generale Mini: “In Afghanistan chiudiamo il gas e andiamo via”.

di Carlo Mercuri-Il Messaggero.

Generale Fabio Mini, l’ennesimo soldato italiano ucciso in Afghanistan potrebbe indurci a un ripensamento di strategia militare, magari a fare le valigie prima del tempo? «Prima dovrebbe spingere le Autorità a verificare che cosa si è fatto in Afghanistan negli ultimi 10 anni. A rispondere alla domanda: quale eredità lasciamo agli afghani?».

Quale eredità?
«Nessuna. In Afghanistan abbiamo fatto poco, male e mai niente di nostra iniziativa».

Vuol dire che noi italiani facciamo quello che gli altri ci dicono di fare?
«Esattamente. In Afghanistan abbiamo seguito la linea americana della caccia a bin Laden e ora che bin Laden è morto, noi continuiamo lo stesso a dare la caccia a qualcuno o a qualche cosa. Mai proposto una strategia diversa, né in Afghanistan né in Iraq né nei Balcani».

Ma gli americani sono nostri alleati…
«Già. Però nelle missioni del Libano nel 1982, nel Kurdistan iracheno, in Albania, noi conducemmo operazioni che tendevano a risolvere i conflitti senza rompere gli equilibri regionali. Questa fu una caratteristica delle nostre missioni: operazioni militari che non avevano lo scopo di distruggere ma di costruire rapporti. Ora questa nostra caratteristica si è persa».

Perché, secondo lei?
«Perché ora abbiamo una politica estera ispirata al criterio della mera partecipazione. Dove c’è qualcun altro dobbiamo esserci anche noi. Ce lo impongono i trattati, dicono. Falso. Veda la questione delle nostre basi concesse ai britannici e ai francesi per la crisi libica».

Francesi e britannici non sono nostri alleati?
«Noi abbiamo concesso le basi prima del via alla missione Nato. Non è che noi si debba concedere qualsiasi cosa che gli altri, per le loro ragioni interne, ritengano opportuno».

Fa bene la Lega, allora, a dire: via dalle missioni?
«La Lega mira a far affondare la barca grande per poter comandare la scialuppa. Ma questo autolesionismo, paradossalmente, potrebbe favorire la riappropriazione della nostra sovranità in ambito internazionale».

Lei parlava prima della Libia: anche lì ci sono dei punti oscuri?
«La Libia è la somma di tutte le vacuità. Prima con il trattato bilaterale abbiamo calpestato la Nato, poi abbiamo cancellato d’un colpo tutte le ragioni del rapporto bilaterale decidendo di bombardare, infine abbiamo invocato la Nato per rallentare i raid… Qual è il nostro ruolo internazionale? Non c’è. Finirà come quando abbiamo lasciato l’Iraq, che Rumsfeld disse: tanto non servivate».

Disse proprio così?
«Certo, c’è la dichiarazione ufficiale».

Ora la nuova strategia Usa in Afghanistan prevede i colloqui con i talebani. Lei che ne pensa?
«Bene. E’ un assioma militare: se non si conoscono i nemici è inutile fare alcunché».

In conclusione, come si esce dall’Afghanistan?
«Chiudendo il gas e andando via. E chiedendoci: che cosa lasciamo laggiù, oltre a tutte queste giovani vite spezzate?». (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Società e costume

“La mondializzazione consente la libera circolazione dei beni e non meno pericolosamente quella delle sciocchezze.”

di ANDRÉ GLUCKSMANN (traduzione di Daniela Maggioni)-Il Corriere della Sera

Non vi meravigliate se parole al vento e accuse infondate seminano il panico, condannando pomodori e cucurbitacee alla spazzatura e gli orticultori spagnoli, italiani o francesi al fallimento. Che la democrazia e il regno delle dicerie coesistano, non è una scoperta.

La nostra prima città libera, l’ antica Atene, fu corrosa dalla doxa, immensa palude di giudizi arbitrari e perentori. Socrate passò la propria vita a battagliare contro simili dicerie e ne morì. Sull’ agorà – la piazza pubblica del V secolo a.C. – ognuno sospettava o denigrava l’ altro senza altra forma di processo; quando oggi gli esperti di Amburgo e Berlino incriminano ex abrupto i cetrioli dell’ Andalusia, la loro sciocca precipitazione non stupirebbe né Aristofane né Molière.

La mondializzazione consente la libera circolazione dei beni e non meno pericolosamente quella delle sciocchezze. La cyber-circolazione dell’ informazione, quando riesce a eludere i blocchi dispotici, veicola ammirevoli insurrezioni per la libertà – lo dimostrano Tunisi e Il Cairo -, ma trascina con sé anche pregiudizi logori, odii inveterati e ragionamenti assurdi.

Una parte di europei, fra il 30 e il 70%, a seconda dei luoghi e dei momenti, ha ritenuto che l’ «11 settembre» fosse un «colpo» dei servizi segreti americani. Il 70% degli elettori di sinistra in Francia ha visto in Dominique Strauss-Kahn la vittima di un misterioso complotto. Simile e-analfabetismo aggiunge ai tradizionali deliri della doxa una capacità di mondializzare il panico istantaneo.

Da un giorno all’ altro, l’ esplosione di Fukushima diventa sinonimo del destino nucleare in generale e propaga urbi et orbi una messa all’ indice senza via d’ uscita. Povera Marie Curie, abbassata al demoniaco personaggio del dottor Mabuse! Ecco finalmente scovato il nemico dell’ umanità: l’ atomo. Si cancellano le circostanze specifiche – un sisma, poi uno tsunami di vastità incomparabile – per stabilire un «rischio nucleare» uguale dappertutto e per tutti, comprese le regioni che ignorano i sismi da secoli e gli tsunami da un’ eternità.

Sopraffatta dall’ ondata di panico maggioritario, la signora Merkel cede in tre settimane e i Verdi europei predicono a se stessi insperati trionfi. Inutile discutere: chi guarda la centrale di Nogent-le Rotrou vede Fukushima! Chi acquista verdura si espone alle nuvole dei batteri assassini. Le smentite scientifiche restano vane. Meglio tornare al lume di candela e fare lo sciopero dell’ ortaggio!

Il principio di precauzione diventa il nostro vangelo, ogni panico irrazionale attizza di riflesso la ricerca febbrile e disperata del rischio zero. A Sud del Mediterraneo, le popolazioni insorgono contro i propri despoti. Al Nord ancora sazio, tali turbolenze provocano inquietudine più che entusiasmo: chi può garantire l’ avvenire? Certo nessuno, e allora? Noi esistiamo al di là della Provvidenza, coloro che contano su un senso della storia si rompono il muso: guardate il nostro terribile XX secolo.

Coloro che puntano sulla razionalità dei mercati finanziari sono in fase di stanca: guardate il XXI secolo che comincia. Siamo sicuri di una sola certezza: non c’ è sicurezza assoluta, dobbiamo vivere nel rischio e «lavorare nell’ incerto» (Pascal). Se fosse stato adepto del principio di precauzione, l’ antenato che addomesticò il fuoco avrebbe temuto la possibilità di armare eventuali incendiari, avrebbe subito soffocato la propria invenzione, continuato a mangiare crudo e a morire di freddo sul posto senza correre il rischio della civilizzazione.

Per fortuna, ignorando le nostre sacrosante «precauzioni», egli osò avventure e invenzioni i cui successi ci rendono così prosperi e… così codardi. Che i Paesi d’ Europa si irrigidiscano pure nei loro miopi egoismi e si lascino spaventare da movimenti planetari che non controllano: a nulla serve rinchiudersi in se stessi. Ci sono popolazioni che si sbarazzano dei propri dittatori e rompono gioghi secolari a loro rischio e pericolo, e l’ unico argomento valido per un europeo è decidere se aiutare a confortare quella volontà di libertà che una volta era la sua. Lo stesso, nella più grande democrazia del mondo, mezzo miliardo di indiani vive senza elettricità, e quindi nella miseria più nera.

Senza petrolio, con poco carbone, la scelta del nucleare, per una questione di sopravvivenza, sembra imporsi. Ci sono altri Paesi che ragionano allo stesso modo: per loro, il dramma di Fukushima non cambia l’ ordine delle cose. Sta a noi contribuire a controllare i rischi inerenti alle centrali. L’ uscita locale dal nucleare e la sospensione dal lavoro dei tecnici di questa «industria maledetta» è solo un buco nell’ acqua. Se la Germania rinuncia al nucleare (per legarsi mani e piedi allo zar del petrolio della Russia), se la Francia persiste nel mantenerlo (in nome della propria indipendenza energetica), chi avrà i migliori strumenti per spegnere le sempre possibili catastrofi? Coloro che hanno messo la chiave sotto la porta, o coloro che continuano ricerche innovative?

Poiché la catastrofe non conosce frontiere, come ripetono all’ infinito i nostri ecologisti, o l’ intero pianeta (ipotesi surreale) esce dal nucleare, oppure (ipotesi realistica) nessuno ne esce, neanche ostracizzando le proprie centrali. L’ Unione Europea è presa dal panico, quindi si divide. Ieri, si credeva invasa dalla gente dell’ Est (e si scagliava contro il famoso idraulico polacco); oggi, tiene d’ occhio le orde giunte dal Sud. Ognuno per sé. Che l’ Italia se la sbrighi da sola con Lampedusa! Perché le formiche tedesche dovrebbero aiutare le cicale greche e iberiche? Che importa il contagio?

Chi si lascia prendere dal panico si chiude in se stesso, il Belgio fiammingo rifiuta il Belgio vallone, l’ Italia della Lega fa da sé, e la Francia si municipalizza: Corrèze contro Charente contro Lilla contro Neuilly, salotti contro salotti, tristi opzioni, tristi dibattiti in vista delle elezioni presidenziali.

Il senso dell’ Europa non è più decifrabile, l’ idea della Francia svanisce. Scusatemi, la terra è rotonda, la terra gira, il mondo esterno e le sue sfide esistono, non basta certo chiudere gli occhi per abolirlo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Salute e benessere Scienza

Perché dire No al nulceare e votare SI’ al referendum.

di ALBERTO BAROCAS-repubblica.it

Dopo essere stato allibito per l’incoscienza delle dichiarazioni di uno scienziato, il professor Battaglia (la pubblicazione di una sua opera scientifica con la prefazione di Silvio Berlusconi parla da sé), su un tema così importante per la sorte dell’umanità, mi sento costretto ad intervenire avendo dedicato tutta la mia vita professionale alla ricerca e sviluppo del nucleare ed essendo stato per lungo tempo “abbastanza” a favore dell’energia nucleare.

Dopo una laurea in Radiochimica presso l’Università di Roma e successivo Corso di Perfezionamento in Fisica e Chimica Nucleare, ho lavorato presso i laboratori di ricerca del plutonio di Fontenay-aux-Roses (Francia) nelle ricerche e tecniche del plutonio per l’impianto di riprocessamento del combustibile nucleare di La Hague. Ritornato in Italia ho partecipato, nei laboratori di ricerca della Casaccia (CNEN, ora ENEA), alla messa a punto degli impianti di separazione del plutonio di Saluggia e successivamente allo studio dei siti nucleari in vista della costruzione di centrali di energia nucleare. Dal 1982 sono stato distaccato dal CNEN presso l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) di Vienna dove mi sono occupato prevalentemente di salvaguardie nucleari, in particolare per i reattori nucleari di potenza e di ricerca nel mondo. Per 22 anni ho avuto la possibilità di visitare ed ispezionare una sessantina di reattori in tre continenti, in particolare in Giappone ed in particolare proprio Fukushima.

Durante l’intera attività ero giunto alla conclusione che le precauzioni utilizzate negli impianti nucleari fossero tali da rendere praticamente impossibile un grosso incidente nucleare. Proprio il Giappone si presentava ai miei occhi come il modello per eccellenza di organizzazione, di perfezione, di attenzione al più piccolo dettaglio: l’energia nucleare o doveva essere realizzata così o non doveva esistere. Ed invece… Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima… tre catastrofi in meno di 30 anni.

Oggi sono completamente convinto che i rischi dell’energia nucleari siano tali da consigliarne l’utilizzo solo se non ci fossero sulla Terra altre fonti di energia o dopo una guerra nucleare. Voterò quindi SI al referendum per le seguenti ragioni:

a) la progettazione di una centrale nucleare avviene sulla base di dati statistici puri, cioè su una probabilità estremamente bassa di un grosso incidente, anziché basarsi sul fatto che un incidente anche imprevedibile possa avvenire (per esempio: chi avrebbe mai potuto calcolare statisticamente che otto montanari dell’Afghanistan si potessero impadronire contemporaneamente di quattro jet di linea facendoli convergere sulle Torri di New York, sul Pentagono e sulla Casa Bianca? Chi potrebbe calcolare statisticamente la possibilità dell’impatto di un meteorite?) e quindi progettando nello stesso tempo le soluzioni e le difese: naturalmente questo però aumenterebbe enormemente i costi ed allora bisogna ricordarsi che l’energia nucleare è un’industria come tutte le altre, cioè che vuole fare profitti;

b) gli effetti di un grosso incidente non sono come gli altri: terremoti, inondazioni, incendi fanno un certo numero di vittime e danni incalcolabili, ma tutto questo ha un termine. L’energia nucleare no: gli effetti si propagano per decenni se non secoli, con un disastro anche economico per il Paese colpito. I discendenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki ancora subiscono danni. Altrimenti perché il deterrente di una guerra nucleare funziona talmente? Anche i bombardamenti “classici” causano morti molto elevate, ma non portano a danni simili per generazioni…

c) il blocco dell’energia nucleare in Italia del 1987 ha avuto il torto di fermare di botto non solo le quattro centrali in funzione (Trino Vercellese, Caorso, Latina, Garigliano) e la costruzione di Montalto con spese immani per un pazzesco riadattamento dell’impianto nucleare ad una centrale di tipo classico, ma altresì ogni tipo di ricerca nucleare, anche di eventuali impianti innovativi, creando un pericolo, dato l’impauperamento di una cultura “nucleare”: non esistevano più corsi di scienze nucleari, né tecnici, né possibilità di tecnologie di difesa da eventuali incidenti in altre nazioni. E questo non è richiesto dalla rinuncia all’uso di centrali atomiche: la ricerca e lo sviluppo del nucleare dovrebbe poter continuare;

d) la presenza di impianti di produzione di energia nucleare porta ad una militarizzazione delle zone in questione: non c’è trasparenza, ogni dato viene negato all’opinione pubblica. Anche agli ispettori dell’AIEA viene proibito di comunicare con la stampa. Lo dimostra anche quello che è successo a Fukushima: il gestore ha tenuto nascosto per lungo tempo la gravità dell’accaduto. E in un territorio come il Giappone, sottoposto non solo a terremoti ma a tsunami, il costo di una maggiore precauzione per gli impianti di raffreddamento è stato tenuto il più basso possibile senza tenere conto dei rischi solamente per fare più profitto!

e) in tutto il mondo non è stato mai risolto il problema dello smaltimento delle scorie mucleari. Nell’immenso deposito scavato in una montagna di Yucca Mountain in USA si sono dovuti fermare i lavori, il maggiore deposito in miniere di sale della Germania si è dimostrato contaminato con pericoli per le falde acquifere, ecc. Il combustibile nucleare delle nostre centrali fermate è in gran parte ancora lì dopo 25 anni. D’altra parte un Paese come il nostro che non riesce a risolvere il problema dei rifiuti può dare garanzie sui rifiuti nucleari?

f) l’Italia è un paese sismico, dove l’ospedale e la casa dello studente dell’Aquila sono crollate perché al posto del cemento è stata usata sabbia. Può dare garanzie sugli impianti nucleari? E la presenza di criminalità organizzata a livelli preoccupanti può liberarci da particolari preoccupazioni nella scelta e costruzione di centrali atomiche?

g) ultima osservazione: anche se molti minimizzano gli effetti delle radiazioni nucleari, una cosa si può dire con certezza: gli effetti delle radiazioni a bassi livelli ma per tempi estremamente lunghi sugli esseri viventi non sono stati mai chiariti. Non deve essere solo il fumo a preoccupare l’opinione pubblica!

Per tutte queste ragioni penso che in Italia l’uso dell’energia nucleare non sia raccomandabile, perlomeno in questa fase della nostra storia, ed invece un miscuglio di diverse fonti di energia (eolica, solare, idrica, gas, geotermica) potrà sopperire ai nostri bisogni, accompagnato da una maggiore ricerca scientifica ed un diverso modello di vita con maggiore eliminazione degli sprechi. Io voto sì. (Beh, buona giornata).

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“Atomausstieg”, ovvero facciamo come la Germania, abbandoniamo il nucleare. Ecco un buon motivo per andare a votare sì.

Atomo, addio, di Riccardo Valsecchi- Avvenire dei Lavoratori

Ripristinando la decisione assunta dal governo rosso-verde di Gerhard Schroeder, l’attuale cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha deciso che la Germania rinuncerà all’energia nucleare. Il tema scompare così dai programmi di tutti i partiti presenti nel Bundestag. La terza potenza industriale del mondo avvia la sua fuoriuscita dall’atomo.

“Atomausstieg”, abbandono del nucleare: una parola, un sogno, uno slogan politico che oggi, dopo 42 anni dall’apertura del primo reattore atomico per uso commerciale sul territorio tedesco, pone una data definitiva, il 2022, per la chiusura del programma nucleare in Germania. A dare l’annuncio, lunedì scorso, dopo una notturna riunione tra i partiti di maggioranza, il ministro dell’ambiente Norbert Röttgen.

Il futuro dei 17 reattori attivi sul territorio è, come ha scandito il segretario dell’Unione Cristiano Sociale (CSU) Horst Seehofer, “ir-re-ver-si-bi-le”: chiusura immediata degli otto impianti più vecchi, scadenza al 31 dicembre 2021 per altri sei reattori e data finale di uscita dal programma nucleare fissata al 31 dicembre 2022 con la chiusura delle tre centrali Isar 2, Emsland e Neckarswestheim 2.

Una decisione, in realtà, che ripristina i limiti imposti dalla legge sul nucleare del 2002, approvata dall’allora governo SPD-Verdi e soppiantata non più di otto mesi fa da un decreto dell’attuale governo Merkel che prolungava l’attività nucleare per altri 14 anni.

Poi Fukushima e le successive sconfitte elettorali in Baden-Württemberg e Brema hanno imposto un drammatico dietrofront alla maggioranza. Oggi la Germania è la prima potenza industriale non solo che rinuncia in maniera definitiva all’uso del nucleare, ma che cancella l’aggettivo dal programma di tutti i partiti presenti nel Bundestag, di qualsiasi colore e posizione politica essi siano.

Ma, nonostante ciò, le polemiche non mancano.
Il mercato nucleare tedesco è attualmente dominato principalmente da tre colossi: E.ON, che detiene 6 dei 17 impianti attivi – più partecipazioni azionarie in altri quattro -, RWE, che possiede 6 reattori, ed EnBW, l’azienda pubblica del Baden Württemberg che gestisce i 4 impianti localizzati sul proprio territorio. L’impianto di Brunsbüttel, invece, è di proprietà per il 67 % della società svedese Vattenfall e per il 33% di E.On
Secondo Wolfgang Pfaffenberger della Jacobs University di Brema, gli otto reattori nucleari in chiusura forniscono attualmente guadagni per oltre 1,5 miliardi di euro e vendite per circa tre miliardi di euro l’anno. La totalità dei 17 impianti in funzione creerebbe circa quattro milardi di euro di profitto annuo, per un giro d’affari di 7,5 miliardi. Il solo gruppo E.ON, secondo una valutazione interna, avrà, come conseguenza della chiusura immediata di tre degli impianti attivi, una perdita sull’utile di circa il 30%.

Ad aggravare la situazione, l’imposta fiscale che dal gennaio 2011 impone il pagamento di 2,3 miliardi annui sul combustibile nucleare per la produzione commerciale di energia.

Gli analisti della Landesbank Baden-Württemberg valutano, nel complesso, una perdita di valore per E.On e RWE di circa il 6% e l’11%, con conseguente esposizione dei due giganti energetici alle mire espansionistiche dei rivali stranieri EFD e Gazprom.
Se le prospettive future per le due aziende appaiono tutt’altro che rosee, meglio non va per le municipalità dove hanno sede gli impianti.
“Ci aspettiamo un deficit annuo di circa tre milioni di euro” ha spiegato il tesoriere di Neckarwestheim, nel Baden-Wuerttemberg. “EnBW – la compagnia che controlla l’impianto locale – è il più grande contribuente della zona.”

A Phillipsburg il sindaco Martus (CDU) è rimasto anch’egli perplesso: “Grazie alle tasse pagate dal gestore dell’impianto EnBW la nostra piccola cittadina di 12.600 abitanti si è potuta permettere un ginnasio, una scuola secondaria e una scuola speciale.” Secondo il sindaco, Phillipsburg dovrebbe comunque rimanere in futuro un centro d’infrastrutture energetiche, in virtù dell’impianto solare costruito a ridosso della cittadina e inaugurato quest’anno – con 87.500 metri quadrati di pannelli, il più grande impianto solare sul territorio tedesco -.

Hildegard Cornelius-Gaus è il sindaco di Biblis in Assia, dove sono localizzati due reattori RWE. Mercoledì scorso, in una conferenza stampa, ha ricordato lo scompenso fiscale dovuto alla chiusura degli impianti: “L’impianto nucleare comporta più del 50 per cento delle nostre entrate fiscali.” La centrale locale, di proprietà RWE, dà lavoro a più di 1.000 persone e, secondo RWE, garantisce inoltre annualmente all’intera regione metropolitana del Rhein-Neckar-Kreis, tra attività correlate, strutture commerciali e alberghiere, circa 70 milioni di euro.

Le polemiche non si sono esaurite all’interno del confine nazionale. Sebbene, infatti, la decisione di Berlino abbia riacceso i focolari della speranza di un futuro antinucleare negli ambienti ecologisti di tutta Europa, i governi in carica con programmi già attivi sul proprio territorio, dalla Spagna fino alla Finlandia, passando per Francia, Gran Bretagna, Belgio, Paesi Bassi, Svezia e Polonia, si sono affrettati a precisare, intimoriti dall’eventuale boomerang mediatico, che la scelta della Germania non avrebbe avuto alcun effetto sulla loro politica energetica.

Il Commissario Europeo per l’energia, Guenther Oettinger, ex Presidente dei Ministri dello Stato del Baden-Württenberg, ha dichiarato in una conferenza a Vienna lunedì scorso che “la politica tedesca funzionerà solo se ci saranno dei miglioramenti strutturali, maggiori capacità di stoccaggio e più consistenti investimenti nelle nuove energie.” Ha poi aggiunto che “il nucleare continuerà a giocare un ruolo importante in Europa, dato che Paesi come la Francia sono estremamente dipendenti da esso, ma dopo la decisione di Berlino il gas – con tutto ciò che comporta in quanto a dipendenza energetica dall’estero – diventerà il vero fattore guida nella crescita.”
(Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Parigi, Berlino, Johannesburg, Buenos Aires, Atlanta, Monaco di Baviera sono tutte tornate all’acqua pubblica.

di ANTONIO CIANCIULLO-repubblica.it

Mentre il governo Berlusconi varava la legge che bocciava il gestore pubblico dell’acqua, facendolo finire in serie B e costringendolo per legge a restare in minoranza nelle aziende quotate in Borsa, grandi città, comprese quelle che per decenni avevano sperimentato la gestione privata, decidevano di puntare sul pubblico. Parigi, Berlino, Johannesburg, Buenos Aires, Atlanta, Monaco di Baviera sono tutte guidate da ideologi sprovveduti, teorici estremisti che odiano i capitali privati? Proviamo a vedere cosa sta succedendo in alcune di queste città partendo dal caso meno pubblicizzato, Monaco di Baviera.

La chiave per comprendere la scelta di Monaco è il rapporto tra l’acqua e il territorio. Per la risorsa idrica quello che conta è la qualità dell’ambiente: più si preserva la natura in cui l’acqua scorre, meno è necessario intervenire sugli acquedotti. Nel 1992 Monaco di Baviera ha deciso di acquisire i terreni vicini alla falda e di riservarli alla coltivazione biologica: niente chimica, allevamento controllato. In questo modo è stata vinta la battaglia contro i nitriti che per tre decenni avevano continuato a crescere e l’acqua può arrivare in tavola senza cloro e senza trattamenti chimici.

Analoga la scelta di Parigi che, dopo la decisione di far tornare l’acqua in mano pubblica togliendola alle due multinazionali francesi (Veolia e Suez) che gestivano il servizio da 25 anni, ha preso il controllo dei terreni collegati alla falda idrica e li ha concessi in affitto a canone agevolato o a titolo gratuito agli agricoltori che si sono impegnati a lavorare seguendo gli standard più rispettosi dell’ambiente. Secondo i dati del Comitato per il sì, le perdite di rete registrate in Francia dai due principali gruppi privati del settore vanno dal 17 al 27 %, contro il 3-12 % della gestione pubblica. E l’assessore alla municipalità di Parigi, Anne Le Strat, ritiene che il passaggio da un sistema privato a uno pubblico consentirà di risparmiare 30 milioni di euro l’anno.

“Questo tipo di scelte può essere fatto solo se la gestione dell’acqua è pubblica perché impone investimenti e programmazioni a lunghissimo termine”, ricordano al Comitato per i sì al referendum. “Una società privata non ha interesse a investire per acquistare terreni che poi potranno non servirle più a nulla se alla scadenza il contratto non viene rinnovato. Inoltre avrebbe difficoltà a giustificare agli azionisti un investimento così importante per risolvere un problema che si può affrontare con una spesa molto minore utilizzando il cloro”.

I punti cruciali sono dunque due. Il primo, come abbiamo visto, è lo spazio. Più è vasta l’area ambientalmente sana in cui l’acqua scorre minore è la necessità di un intervento correttivo sulla rete idrica. Il secondo è il fattore tempo. Gli importanti investimenti di cui il settore idrico ha assoluto bisogno per chiudere il cerchio dell’acqua collegando alle fogne quel 30 per cento di scarichi non ancora in regola, richiedono uno sguardo lungo. La manutenzione costa, l’espansione della rete costa. E i ritorni si misurano nell’arco di vari decenni. Spesso troppi per un’azienda privata che è abituata a rendere conto del suo operato in tempi decisamente più brevi e che difficilmente ottiene contratti con una durata di più di 30 anni. A meno che il controllo delle scelte sull’acqua non rimanga saldamente in mano alla mano pubblica.
(Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Popoli e politiche

“Sono rimasto scioccato dall’uso, durante la campagna elettorale a Milano, di messaggi xenofobi contro i rom, ma anche contro i musulmani”.

“Sono rimasto scioccato dall’uso, durante la campagna elettorale a Milano, di messaggi xenofobi contro i rom, ma anche contro i musulmani”: lo ha detto Thomas Hammarberg, commissario europeo per i Diritti umani, all’indomani della visita che giovedì e venerdì scorso ha compiuto in Italia. “Certi poster che ho visto affissi mentre ero a Milano non rappresentano certo il volto migliore dell’Italia”, ha aggiunto il commissario dichiarando che presto pubblicherà un rapporto sulla visita che lo ha portato a Milano e poi a Roma, dove ha incontrato Gianni Letta e il sottosegretario Sonia Viale. Le immagini erano quelle affisse dal centrodestra a sostegno del sindaco uscente, Letizia Moratti, per attaccare lo sfidante di centrosinistra Giuliano Pisapia.

“L’impressione è che non si tratti solo di parole. Il campo rom abusivo che ho visitato giovedì a Milano – ha detto Hammarberg – è stato fatto oggetto di due sgombri quello stesso giorno e la situazione non sembra essere migliore nei campi autorizzati dove le persone che ho incontrato, oltre a esprimere la loro paura, mi hanno detto di roulotte distrutte delle forze dell’ordine e di come queste cerchino di convincere le persone ad andarsene”. “Ritengo che una volta superate le elezioni, si debba riflettere attentamente su come certi partiti hanno condotto la propria campagna elettorale”, ha concluso il commissario. Beh, buona giornata,

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Media e tecnologia Popoli e politiche

E’ come se l’uccisione di Osama andasse in onda a puntate su Fox Crime.

La ricerca di una verità credibile sul come sia stato fatto fuori Osama bin Laden è stata deliberatamente ostacolata dalla stessa sceneggiatura da telefilm d’azione, dagli stessi effetti speciali, modello fiction con cui si è costruita la gestione mediatica dell’attacco militare. Vi mettereste a caccia di incongruenze narrative, per esempio della serie 24, piuttosto che dell’ultima stagione di NCIS ? Tutti vi diranno: e piantala! fammi vedere come va a finire questa nuova puntata. E tutto diventa come se fosse stato appena trasmesso da Fox Crime.

Sarà perché quanto è successo a proposito delle controverse ricostruzioni dell’Attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre ha fornito un precedente prezioso e istruttivo, quanto sta avvenendo dopo l’uccisione di Osama bin Laden sembra perfettamente scontato. Le reticenze dell’Amministrazione Obama, le mezze verità rilasciate alla stampa da Leon Edward Panetta, il capo della Cia, le contraddizioni sulla ricostruzione ufficiale della meccanica degli avvenimenti che hanno portato all’individuazione del nascondiglio, all’attuazione del piano di attacco e alla successiva morte del ricercato globale n.1, senza contare la decisione di non divulgare foto e video del corpo di Osama bin Laden, tutti questi fatti messi insieme congiurano perché nascano dubbi, dietrologie, teorie complottiste. La domanda è semplice: perché? C’è chi dice che Barak Obama ha fatto un grande cosa dando l’ordine di eliminare fisicamente Osama, ma che ha sbagliato a farlo uccidere, invece che catturare. E che il suo secondo errore è stata la decisione di non divulgare le foto, alimentando la possibile leggenda di un Osama ancora vivo.

Ma se ben guardiamo le cose, dobbiamo contestualizzarle, in almeno tre scenari contemporanei e in un certo senso contigui. Il primo scenario è la ripercussione sulla politica interna agli Stati Uniti, ben sapendo che la politica interna degli Usa è vissuta con la stessa importanza che assume la politica estera. Alla notizia della morte di Osama, data dallo stesso presidente Obama in diretta televisiva, le tv di tutto il mondo hanno trasmesso le scene di giubilo a Washington e a New York. Di li a qualche ora le Borse di tutto il mondo hanno registrato un incremento del valore del dollaro Usa e un calo del prezzo del petrolio. I sondaggi hanno dato il gradimento Obama in risalita di un decina di punti. Un grande viatico alla rielezione del 2012, dopo la debacle elettorale di medio termine. Poiché tutti i commentatori dicono che i temi della prossima campagna elettorale saranno prettamente sociali ed economici, ecco che è di tutto interesse per lo staff di Obama che la memoria dell’uccisione di Osama rimanga attivo il più a lungo possibile: polemiche, sospetti e dietrologie sono utilissime allo scopo. Rilasciare informazioni col contagocce dilata i tempi di attenzione sull’evento, a tutto vantaggio della reputazione del presidente in carica.

Il secondo scenario è la guerra in Afghanistan: da nove anni si trascina una guerra, senza apprezzabili né visibili risultati. La morte di Osama può essere una svolta: l’uccisione del nemico globale n.1 può dare impulso a una exit strategy, che coinvolga i Taliban del mullah Omar, per dare quel tanto di stabilizzazione, che permetta agli Stati uniti e alla Nato, dunque ai governi europei coinvolti nelle operazioni belliche di sganciarsi dalla regione, senza perdere la faccia davanti alle rispettive opinioni pubbliche, stanche di aver perso tanti uomini sul terreno, ma anche di aver speso un sacco di soldi, sin qui inutilmente. Anche in questo caso tutti i mezzi sono utili, per tener vivo e presente a tutti il più a lungo possibile il successo dell’uccisione di Osama, anche, appunto polemiche, sospetti e dietrologie sulla morte del capo di al Qaeda.

Il terzo scenario è proprio collegato alla situazione in Afghanistan: è il Pakistan. Per anni gli Usa hanno finanziato il Pakistan, prima per sostenere i Taliban contro i Russi, poi per sostenere gli alleati occidentali contro i Taliban e al Qaeda. Siccome il Pakistan è strategico per la stabilizzazione dell’Afghanistan, la decisione di far fuori dallo scacchiere la pedina Osama è stata un passaggio decisivo. Ma agli occhi del mondo arabo non si possono far passare i potenti servizi segreti come “traditori”. Quindi le contraddizioni della ricostruzione circa il ruolo dei servizi segreti, circa il ruolo della polizia pakistana, circa la proprietà del villone di Abbottabad sembrano molto funzionali a creare quella confusione che possa permettere al Pakistan di assumere un ruolo pubblicamente diverso nella “guerra”al terrorismo in Afghanistan.

Dunque, siccome i media sono un terreno di scontro politico, molto moderno e sofisticato, ma non per questo meno feroce, le presunte defaiances della strategia di comunicazione dell’Amministrazione Obama altro non appaiono che leve sapientemente utilizzate per guidare il consenso verso i prossimi salti mortali in politica estera Usa, senza rinunciare a una eccellente spendibilità nella prossima campagna elettorale. Chi da noi critica la versione ufficiale sembra avere lo stesso atteggiamento scettico dei repubblicani negli Usa, così come la totale accettazione della verità ufficiale da parte dell’opinione pubblica orientata a destra in Italia è, paradossalmente, omologabile ai sentimenti dei democratici americani, come a dire: abbiamo fatto fuori il nemico globale n.1, che altro andate cercando?

Il che è un altro modo per dire che chi fa dietrologia sta semplicemente giocando, forse inconsapevolmente lo stesso gioco di chi depista la verità. Tutto il mondo è paese, le campagne elettorali sono per i partiti politici nelle democrazie occidentali come gli esami per Edoardo De Filippo: non finiscono mai. Beh, buon giornata.

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

La beatificazione di Wojtyla e il marketing del potere.

Ci sono quelli preoccupati per le sorti future del Vaticano e, più in
generale della religione cattolica. Uno di questi è Bruno Ballardini,
che su questo argomento ha scritto un nuovo libro (“Gesù e i saldi di
fine stagione”, Piemme 2011), nel quale si prodiga di buoni consigli
per il marketing della fede cattolica.

Durante una conversazione con
l’autore si è esaminato, a grandi linee, lo stato dell’arte della
religione cattolica nel Terzo Millennio, ovviamente da un punto di
vista assolutamente superficiale, perché il marketing è superficiale
per antonomasia.

Ballardini sostiene che la Chiesa Cattolica ha nemici
interni: l’Opus Dei, Comunione e Liberazione, I Legionari di Cristo e
organizzazioni similari sono potentati che mettono in pericolo
l’universalità della Chiesa. Ma anche nemici esterni: le nuove
organizzazioni sia cristiane che di origine, ma sarebbe meglio dire di
‘matrice’ buddista rischiano di invadere il campo della fede, intesa
come offerta di “spiritualità”. Che fare? Un Concilio Vaticano 3.0,
aperto, partecipato, condiviso, che sancisca un ritorno alla
spiritualità, un passo indietro nella politica e nella finanza. Bene.

Difficile dire se queste idee siano solo di marketing o non invece un
modo per stimolare un dibattito ‘pentecostale’ sulla crisi che
attraversa il mondo cattolico, al di là delle stesse intenzioni
dell’autore. Fatto sta che lo stato di salute dello Stato Vaticano
torna continuamente di attualità, come una sorta di paradigma
dell’inversamente proporzionale: più la Chiesa attacca su certi
fronti, più dimostra la sua debolezza. Più si scusa per nefandezze,
come la terribile lunga storia della pedofilia, più appare poco
credibile. Più riempie le piazze, più dà il senso del vuoto nelle
chiese, nelle parrocchie.

L’ultimo episodio di questa ‘via crucis’
discendente è la beatificazione di Giovanni Paolo II. Capire come si
riesca a gestire nel Terzo Millennio la beatificazione di un papa con
le esigenze di modernizzazione della fede cattolica è davvero molto
complicato. Rinverdire la superstizione popolare attorno a un paio di
miracoli operati in vita, come viatico per essere proclamato santo, ha
tutto il sapore di una suggestione che vuole rimandare a una procedura
smaccatamente medioevale.

In questo senso, c’è un atteggiamento
pervicacemente relativista proprio da parte di chi critica il
relativismo tutti i”santi” giorni. Ma tant’è.

Convivono strumenti
dell’attualità, come la trasmissione televisiva durante la quale Papa
Ratzinger risponde alle domande di persone di tutto il mondo, con
l’antico rituale della piazza gremita di fedeli per beatificare il
papa di prima, evento che a sua volta torna “moderno” per via delle
dirette tv, dei commenti via internet, delle pagine dei quotidiani di
tutto il mondo.

Di fronte a questa potente macchina propagandistica
della fede cattolica, ogni ‘consiglio per gli acquisti’ della
spiritualità cattolica diventa un poco puerile, sia detto con tutti il
rispetto per chi ci prova. La Chiesa Cattolica sarà pure in crisi, ma
finché i media e la politica daranno uno spazio sproporzionato alla
effettiva pratica religiosa dei precetti del cattolicesimo, questa
crisi, paradossalmente, diventa un vantaggio competitivo nei confronti
delle altre confessioni religiose, per non dire un ingombrante
ostacolo alla normale vita civile, alla dialettica laica dei diritti e
dei doveri in una società moderna.

A chi suggerisce un passo indietro
alla Chiesa cattolica bisognerebbe ricordare che, siccome i miracoli
non esistono, sarebbe meglio che fossero la politica, l’informazione,
diciamo pure la stessa democrazia moderna a fare un deciso passo
avanti, per superare i lacci e i laccioli che legano, spesso a doppio
filo, gli interessi della Chiesa con quelli di un certo modo di
concepire il potere politico.

All’establishment politico-cattolico
importa un fico della spiritualità. Uno che se intende, una volta lo
ha detto a chiare lettere: il potere logora chi non ce l’ha. Abbiate
fede: questo si chiama marketing del potere. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

La madre di Vittorio Arrigoni: “Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi.”

di Egidia Beretta Arrigoni-ilmanifesto.it

Bisogna morire per diventare un eroe, per avere la prima pagina dei giornali, per avere le tv fuori di casa, bisogna morire per restare umani? Mi torna alla mente il Vittorio del Natale 2005, imprigionato nel carcere dell’aeroporto Ben Gurion, le cicatrici dei manettoni che gli hanno segato i polsi, i contatti negati con il consolato, il processo farsa. E la Pasqua dello stesso anno quando, alla frontiera giordana subito dopo il ponte di Allenbay, la polizia israeliana lo bloccò per impedirgli di entrare in Israele, lo caricò su un bus e in sette, una era una poliziotta, lo picchiarono «con arte», senza lasciare segni esteriori, da veri professionisti qual sono, scaraventandolo poi a terra e lanciandogli sul viso, come ultimo sfregio, i capelli strappatagli con i loro potenti anfibi.

Vittorio era un indesiderato in Israele. Troppo sovversivo, per aver manifestato con l’amico Gabriele l’anno prima con le donne e gli uomini nel villaggio di Budrus contro il muro della vergogna, insegnando e cantando insieme il nostro più bel canto partigiano: «O bella ciao, ciao…»

Non vidi allora televisioni, nemmeno quando, nell’autunno 2008, un commando assalì il peschereccio al largo di Rafah, in acque palestinesi e Vittorio fu rinchiuso a Ramle e poi rispedito a casa in tuta e ciabatte. Certo, ora non posso che ringraziare la stampa e la tv che ci hanno avvicinato con garbo, che hanno «presidiato» la nostra casa con riguardo, senza eccessi e mi hanno dato l’occasione per parlare di Vittorio e delle sue scelte ideali.

Questo figlio perduto, ma così vivo come forse non lo è stato mai, che come il seme che nella terra marcisce e muore, darà frutti rigogliosi. Lo vedo e lo sento già dalle parole degli amici, soprattutto dei giovani, alcuni vicini, altri lontanissimi che attraverso Vittorio hanno conosciuto e capito, tanto più ora, come si può dare un senso ad «Utopia», come la sete di giustizia e di pace, la fratellanza e la solidarietà abbiano ancora cittadinanza e che, come diceva Vittorio, «la Palestina può anche essere fuori dell’uscio di casa». Eravamo lontani con Vittorio, ma più che mai vicini. Come ora, con la sua presenza viva che ingigantisce di ora in ora, come un vento che da Gaza, dal suo amato mar Mediterraneo, soffiando impetuoso ci consegni le sue speranze e il suo amore per i senza voce, per i deboli, per gli oppressi, passandoci il testimone. Restiamo umani. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

L’appello alla mobilitazione apparso sul sito di Libertà e Giustizia, firmato dal presidente onorario dell’associazione, Gustavo Zagrebelsky.

L’ora della mobilitazione di GUSTAVO ZAGREBELSKY

Navi affollate di esseri umani alla deriva, immense tendopoli circondate da filo spinato, come moderni campi di concentramento. Ogni avanzo di dignità perduta, i popoli che ci guardano allibiti, mentre discettiamo se siano clandestini, profughi o migranti, se la colpa sia della Tunisia, della Francia, dell’Europa o delle Regioni. L’assenza di pietà per esseri umani privi di tutto, corpi nelle mani di chi non li riconosce come propri simili. L’assuefazione all’orrore dei tanti morti annegati e dei bambini abbandonati a se stessi. Si può essere razzisti passivi, per indifferenza e omissione di soccorso. La parte civile del nostro Paese si aspetta – prima di distinguere tra i profughi chi ha diritto al soggiorno e chi no – un grande moto di solidarietà che accomuni le istituzioni pubbliche e il volontariato privato, laico e cattolico, fino alle famiglie disposte ad accogliere per il tempo necessario chi ha bisogno di aiuto. Avremmo bisogno di un governo degno d’essere ascoltato e creduto, immune dalle speculazioni politiche e dal vizio d’accarezzare le pulsioni più egoiste del proprio elettorato e capace d’organizzare una mobilitazione umanitaria.

“Rappresentanti del popolo” che sostengono un governo che sembra avere, come ragione sociale, la salvaguardia a ogni costo degli interessi d’uno solo, dalla cui sorte dipende la loro fortuna, ma non certo la sorte del Paese. Un Parlamento dove è stata portata gente per la quale la gazzarra, l’insulto e lo spregio della dignità delle istituzioni sono moneta corrente. La democrazia muore anche di queste cose. Dall’estero ci guardano allibiti, ricordando scene analoghe di degrado istituzionale già viste che sono state il prodromo di drammatiche crisi costituzionali.

Una campagna governativa contro la magistratura, oggetto di continua e prolungata diffamazione, condotta con l’evidente e talora impudentemente dichiarato intento di impedire lo svolgimento di determinati processi e di garantire l’impunità di chi vi è imputato. Una maggioranza di parlamentari che non sembrano incontrare limiti di decenza nel sostenere questa campagna, disposti a strumentalizzare perfino la funzione legislativa, a rinunciare alla propria dignità fingendo di credere l’incredibile e disposta ad andare fino in fondo. In fondo, c’è la corruzione della legge e il dissolvimento del vincolo politico di cui la legge è garanzia. Dobbiamo avere chiaro che in gioco non c’è la sorte processuale di una persona che, di per sé, importerebbe poco. C’è l’affermazione che, se se ne hanno i mezzi economici, mediatici e politici, si può fare quello che si vuole, in barba alla legge che vale invece per tutti coloro che di quei mezzi non dispongono.

Siamo in un gorgo. La sceneggiatura mediatica d’una Italia dei nostri sogni non regge più. La politica della simulazione e della dissimulazione nulla può di fronte alla dura realtà dei fatti. Può illudersi di andare avanti per un po’, ma il rifiuto della verità prima o poi si conclude nel dramma. Il dramma sta iniziando a rappresentarsi sulla scena delle nostre istituzioni. Siamo sul crinale tra il clownistico e il tragico. La comunità internazionale guarda a noi. Ma, prima di tutto, siamo noi a dover guardare a noi stessi.

Il Presidente della Repubblica in questi giorni e in queste ore sta operando per richiamare il Paese intero, i suoi rappresentanti e i suoi governanti alle nostre e alle loro responsabilità. Già ha dichiarato senza mezzi termini che quello che è stato fatto apparire come lo scontro senza uscita tra i diritti (legittimi) della politica e il potere (abusivo) magistratura si può e si deve evitare in un solo modo: onorando la legalità, che è il cemento della vita civile. Per questo nel nostro Paese esiste un “giusto processo” che rispetta gli standard della civiltà del diritto e che garantisce il rispetto della verità dei fatti.

Questo è il momento della mobilitazione e della responsabilità. Chiediamo alle forze politiche di opposizione intransigenza nella loro funzione di opposizione al degrado. Non è vero che se non si abbocca agli ami che vengono proposti si fa la parte di chi sa dire sempre e solo no. In certi casi – questo è un caso – il no è un sì a un Paese più umano, dignitoso e civile dove la uguaglianza e la legge regnino allo stesso modo per tutti: un ottimo programma o, almeno, un ottimo inizio per un programma di governo. Dobbiamo evitare che le piazze si scaldino ancora. La democrazia non è il regime della piazza irrazionale. Lo è la demagogia. La democrazia richiede però cittadini partecipi, attenti, responsabili, capaci di mobilitarsi nel momento giusto – questo è il momento giusto – e nelle giuste forme per ridistribuire a istituzioni infiacchite su se stesse le energie di cui hanno bisogno.

Libertà e Giustizia è impegnata a sostenere con le iniziative che prenderà nei prossimi giorni le azioni di chi opera per questo scopo, a iniziare dal Presidente della Repubblica fino al comune cittadino che avverte l’urgenza del momento. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

“…e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati”.

Il Cavalier Laqualunque, di FRANCESCO MERLO-la Repubblica.

NELL’ISOLA dei disperati il più disperato è lui. Con la camicia scura aperta sul collo e il doppiopetto nero che è diventato enorme, Berlusconi a Lampedusa è più Cetto Laqualunque dello stesso Albanese.

È venuto a svuotare l’isola così come andò a svuotare Napoli. Lì i rifiuti e le lordure furono caricati sui Tir, dispersi via terra con destinazione ignota, e qui sulle navi, onda su onda il mare li porterà al largo dell’Italia degli egoismi regionali e del ricatto secessionista.

“Sono lampedusano” dice, e sembra la caricatura di Kennedy a Berlino, “stamattina ho comprato una villa su Internet, si chiama “Le due palme””. Più tardi, a un cronista che lo aspetta sulla sabbia nascosto dietro una delle due palme confesserà compiaciuto: “Ma è tutta da rifare”. Le tv mandano ossessivamente l’immagine della facciata, il muro di cinta, e poi sabbia, stoppie, l’intervista ai vicini di casa. Ha già speso due milioni di euro. Il solito vento che, in qualsiasi stagione, qui fa perdere la voce, agita le piante basse e dunque anche Berlusconi, che è gonfio come una mongolfiera, per un momento perde l’equilibro e sembra migrare, lui che vorrebbe migrare lontano da tutte le regole, anche quella di gravità.

Noi italiani sappiamo che Berlusconi si butta sulle disgrazie quando sente di essere in disgrazia. Ma Lampedusa gli serve anche a dissimulare, a tenere occupata l’Italia nel giorno in cui la maggioranza parlamentare, ridotta in servitù, lo sta spudoratamente liberando dei suoi processi. Le promesse ai terremotati furono le sue campagne del grano. Ma questa volta la scenografia lo tradisce. Lampedusa infatti è due volte palcoscenico, due volte finzione: è il solenne e forse fatale teatro espiatorio per attirare e distrarre la più vasta delle platee ma è anche il remake dell’autarchia del “ci penso io” come estrema risorsa per illudersi ancora. Berlusconi fa il palo a Lampedusa, mentre a Roma i suoi scassinano il Parlamento e rubano i pesi della Bilancia.

E però tra il governatore Lombardo e il sindaco De Rubeis, circondato da assessori, imprenditori locali e guardie del corpo che qui non si distinguono dai corpi che hanno in guardia, nel mezzo di una nomenklatura scaltra, truce e goffa, Berlusconi esibisce una fisicità terminale che va ben oltre Cetto Laqualunque. È quella dei dittatori africani e degli oligarchi russi. Ha portato a Lampedusa più Africa lui che gli immigrati.

È atterrato all’ora dei Tg quando i soldati avevano finito di pulire il Porto vecchio, la stazione marittima e la famosa “collina della vergogna”. Il Tg3 documenta la pulizia anche degli slogan di protesta, si vede il sindaco che grida alla folla: “Basta cu ‘sti minchia di cartelli”. Ruspe e camion dei netturbini hanno spazzato via la tendopoli proprio come a Napoli spazzarono le strade, e ora le tv mostrano il “com’era” e il “com’è”.

Resistono, a testimoniare l’inciviltà della miseria, stracci, bottiglie, escrementi accanto ai ciuffi d’erba di una primavera che a fine marzo a Lempedusa è già estate: domina il giallo che solo al tramonto si tinge di arancione. Berlusconi garantisce che porterà “il colore, come a Portofino”. Promette pure il premio Nobel per la Pace, il campo da golf e il casinò che è un vecchio sogno non solo dei lampedusani più eccentrici, vale a dire la risorsa di chi non ha risorse, ma è soprattutto l’aspirazione della malavita intossicata di danaro che ha impiantato in tutti gli angoli della Sicilia le sue bische clandestine, i luoghi sordidi dove si sfogano il bisogno sociale e la pulsione individuale.

Quando Berlusconi scende dall’aereo, i disperati già avanzano sul molo in fila indiana, ciascuno con la mano sulla spalla dell’altro, “una mano sola per evitare l’effetto trenino” mi ha spiegato un funzionario degli Interni. Sono immagini che testimoniano l’umiliazione di uomini ardimentosi. Quasi tutti i primi piani li mostrano con le palpebre semichiuse forse perché non riescono più a vedere lontano. Ai lati, per tenerli in riga, ci sono i poliziotti con i guanti di gomma e le mascherina sulla bocca per proteggersi dal male fisico, per non entrare in contatto con la sofferenza dei corpi che, proprio come aveva ordinato Bossi, si stanno togliendo dalle balle.

E mentre Berlusconi si mette in gioco nella più triste di tutte le sue demagogie, giura di cacciare per sempre gli immigrati che ci sono e quelli che verranno, promette aiuti europei e corrimano, vasi di fiori, niente tasse per tutti, una scuola, investimenti turistici, trasmissioni promozionali della Rai e di Mediaset …, mentre, insomma, Berlusconi delira, la nave da crociera sembra una carboniera del diciassettesimo secolo, con la broda sciaguattante di acqua di mare, le zaffate, un equipaggio militare efficiente a bordo e riservato a terra, e quel carico di neri che non sono più profughi, non sono più clandestini, non sono più rifugiati, non sono più immigrati, ma sono solo deportati.

Se si mettono a confronto queste immagini che, comunque la si pensi, sono angoscianti e dolorose, con quelle della piccola folla festante attorno allo Sciamano, si capisce che non c’è solo lo stridore tra la violenza della realtà e la pappa fradicia della demagogia. Qui c’è anche il sottosviluppo di piazza, il sud di Baaria, – “santo Silvio pensaci tu” – la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del voto, del miracolo, del divo: “Silvio!, Silvio!, Silvio!”. C’è la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale degli imbonitori, dello zio d’America come quel Thomas DiBenedetto che ha appena comprato la Roma, del messia e del conquistador, il mito antico dell’uomo che viene da fuori, dell’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore e non importa chi, purché venga appunto da fuori, perché è all’interno che questo Sud non trova pace. Ed è probabile che questa visita diventi un mito rituale, la chimera di una Lampedusa protagonista, porto franco, una specie di Las Vegas del Mediterraneo, il sogno come variante del sonno. Dev’essere per questo che i miei sciagurati paesani lo hanno applaudito invece di mandarlo. .. alla deriva nel suo cargo. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

“Quello che accade in Libia mi colpisce personalmente”. Berlusconi dixit. Sulla Libia c’è chi spara cazzate e chi spara missili.

“Sono addolorato per Gheddafi e mi dispiace. Quello che accade in Libia mi colpisce personalmente”. Lo ha detto, secondo quanto riferiscono i presenti, il premier Silvio Berlusconi durante la cena a sostegno del candidato sindaco a Torino del Pdl Michele Coppola.

Intanto succede che la coalizione oggi ha preso di mira le principali roccaforti di Gheddafi: Tripoli, attaccata per il terzo giorno consecutivo, Sabah, nel sud del paese, e Sirte, la città natale del rais dove le autorità libiche lamentano molti morti. Il colonnello risponde usando scudi umani e martellando Misurata, dove secondo gli insorti vi sono stati quarantina di morti. La città, secondo un portavoce governativo, sarebbe ora sotto il controllo dei lealisti. Secondo l’ammiraglio americano Mike Mullen, capo degli Stati maggiori unificati, la prima ondata di attacchi ha permesso di imporre la no-fly zone. E adesso si passa alla seconda fase, che prevede l’attacco ai rifornimenti per le truppe di Gheddafi.

I primi a riprendere i raid sulla Libia sono stati i francesi. Poco prima delle 14, sono decollati anche tre Tornado italiani da Trapani Birgi. In serata, i raid aerei si sono concentrati nuovamente su Tripoli. Nella capitale si sono udite forti esplosioni vicino al bunker del Colonnello, seguite dal rumore della contraerea. Il portavoce del governo ha poi dato notizia di attacchi anche contro Sirte e Sabah.

Nonostante i raid, le truppe lealiste sono riuscite ad entrare a Misurata, terza città libica 170 chilometri ad est di Tripoli. Secondo un portavoce dei ribelli, i gheddafiani sono entrati con i carri armati nel centro della città, dove si contano molti morti. Le forze di Gheddafi hanno portato civili a Misurata dalle città vicine per usarli come scudi umani.

Fonti mediche a Misurata hanno detto che le milizie di Gheddafi hanno ucciso 40 persone. «Hanno compiuto un massacro, sparavano anche con armi pesanti», ha detto al telefono un abitante di nome Saadoun. Bombardamenti da parte dell’esercito sono segnalati anche da abitanti della città orientale di Zenten, difesa strenuamente dai ribelli.

I lealisti bombardano il centro della città di Zintan, in Tripolitania, ha annunciato una fonte dei ribelli citata da al-Arabiya. Secondo la fonte, «le brigate circondano la città e ci stanno attaccando. Negli scontri in corso oggi siamo riusciti a catturare alcuni loro soldati».

Il Pentagono ha fatto sapere che Gheddafi «non è nella lista dei bersagli della coalizione. Alcuni giornalisti occidentali, però, in nottata sono stati portati nel complesso di Bab el Aziziya a Tripoli, la residenza di Gheddafi: a loro è stato mostrato un edificio completamente distrutto da un missile. La palazzina ospitava alcuni uffici. Secondo il portavoce libico sorgeva ad appena una cinquantina di metri dalla tenda dove il leader libico riceve gli ospiti di riguardo. Non si sa dove Gheddafi si trovasse al momento dell’attacco. I raid, criticati apertamente dalla Lega Araba, hanno permesso di neutralizzare le difese antiaeree.

Voci in Libia sulla morte di Khamis Gheddafi, figlio del colonnello Muammar, che sarebbe deceduto ieri a Tripoli. Voci smentite dal governo. Secondo il sito dell’opposizione al-Manara, Khamis sarebbe morto per le ferite riportate nei giorni scorsi, quando un pilota dell’aviazione passato con l’opposizione avrebbe aperto il fuoco nei pressi della caserma di Bab al-Aziziya, nel centro di Tripoli. Khamis Gheddafi era a capo di una delle brigate del regime impegnate contro gli insorti. Sesto dei figli del colonnello, aveva il grado di capitano dell’esercito ed era responsabile del reclutamento e dell’addestramento dei mercenari africani.

Gli Usa: estenderemo no fly zone. Il generale americano Carter Ham, comandante dell’ Us Africa Command, ha detto che le operazioni sulla Libia puntano ora ad estendere la no fly zone. «L’operazione finora è riuscita. È stata eseguita facendo molta attenzione a evitare vittime civili. L’avanzata delle forze di Gheddafi verso Bengasi è stata fermata». Interpellato sulle vittime civili di Misurata il generale Ham ha precisato che «l’estensione della no fly zone punta proprio a proteggere i civili». L’area della no fly zone avrà un’estensione di mille chilometri, ha specificato il generale, estensione resa possibile grazie all’intervento di aerei aggiuntivi delle forze della colazione, tra cui quelli italiani.

Addestramento militare per civili libici pro Gheddafi. I civili libici che a partire da ieri si sono recati presso le sedi locali dei Comitati popolari per ricevere le armi promesse dal regime dovranno iniziare presto un corso di addestramento militare, ha annunciato la tv di stato, che ha pubblicato un messaggio sullo schermo nel quale si informa che «Il Comitato di Difesa annuncia alle migliaia di persone che si sono registrate presso i comitati popolari per ottenere le armi che presto saranno contattati per iniziare un addestramento militare in modo da essere pronti ad usarle nel momento opportuno».

Riuscita la prima missione italiana. «La missione è stata raggiunta positivamente e gli obiettivi sono stati raggiunti», dice il Colonnello Mauro Gabetta, comandante del 37esimo Stormo della base militare di Trapani, per fare un resoconto dell’operazione condotta dall’Italia con i sei tornado decollati poco prima delle venti. Dei sei tornado, due tanker, che appartengono al 6/o Stormo di Ghedi (Brescia), sono stati i primi a rientrare alla base dopo aver effettuato il rifornimento aereo degli altri velivoli, Tornado Ecr, che provengono dal 50/o Stormo di Piacenza, e che sono rientrati poco prima delle 23 di ieri sera.

«L’operazione condotta dai nostri velivoli è stata un’operazione di soppressione delle difese aeree avversarie – ha spiegato Gabetta – È stata condotta positivamente e i nostri ragazzi sono tornati a casa». Sulle capacità offensive di Tornado entrati in azione, il colonnello Gabetta si è limitato solo a dire che «sono questi missili che sono costruiti per la soppressione delle difese aeree avversarie».

La Russa: contraerea Gheddafi neutralizzata. I quattro Tornado italiani in azione ieri sulla Libia avevano il compito di «neutralizzare le fonti radar nemiche», nell’ambito di «una più vasta operazione il cui obiettivo era di mettere a tacere la contraerea libica per consentire di realizzare la no fly zone: questo obiettivo è largamente realizzato, l’opera potrebbe considerarsi addirittura completata», ha detto il ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Il ministro ha aggiunto che i Tornado sono stati «accompagnati dai nostri caccia che funzionano da scorta». L’obiettivo italiano era quello di controllare la presenza di radar ed eventualmente lanciare missili ma non è stato necessario passare al bombardamento.

Pilota italiano: non abbiamo lanciato missili. «Nell’operazione di ieri sera abbiamo solo pattugliato nei cieli della Libia e non abbiamo ritenuto di lanciare missili antiradar – ha detto il maggiore Nicola Scolari, uno dei piloti dei sei Tornado – È stata una missione di pattugliamento in cui eravamo pronti a reagire per sopprimere radar ma ieri non abbiamo verificato presenza di radar nemici e così non abbiamo ritenuto di lanciare missili».

Il segretario generale dell’Onu Ban ki-Moon è stato aggredito in piazza Tahrir al Cairo da manifestanti filo Gheddafi. I manifestanti che si sono riuniti davanti alla sede della Lega araba prima dell’arrivo del segretario generale dell’Onu, hanno anche assaltato un paio di automobili mentre passavano davanti alla sede della Lega Araba. Ban ki-Moon usciva in quel momento da un altro cancello poco vicino dopo il suo incontro con Amr Moussa. «Stop alle violenze e avvio del dialogo», ha detto Ban Ki-Moon durante la riunione.

La Ue è pronta a inviare una missione militare umanitaria in Libia, hanno deciso i ministri degli esteri dei 27. «L’Ue è pronta a fornire un sostegno nell’ambito della politica comune di sicurezza e difesa (Csdp) all’assistenza umanitaria in risposta a una richiesta dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) e sotto il coordinamento Onu», si legge nelle conclusioni adottate dal Consiglio Ue affari esteri a Bruxelles. Inoltre «tali azioni rispetteranno pienamente le linee guida Onu sull’uso degli asset militari e di difesa civile (Mcda)».

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Attualità Popoli e politiche

Gheddafi si crede di essere Berlusconi.

Gheddafi ancora una volta in tv: «Non lascio, morirò da martire»-corriere.it

Nuovo discorso dopo la fugace apparizione della notte: «Non sono un presidente, ma un leader rivoluzionario»

La situazione in Libia è critica. Il bilancio dei bombardamenti sulla folla di manifestanti si aggrava e Muammar Gheddafi torna in tv, dopo la brevissima apparizione, appena 22 secondi, della scorsa notte. Questa volta è un lungo messaggio quello che il raìs rivolge alla nazione, per dire, soprattutto, che non ha alcuna intenzione di lasciare la guida del Paese. «Non sono un presidente e non posso dimettermi» ha detto il Colonnello, sottolineando di essere invece il leader della rivoluzione e di voler rimanere, «fino all’eternità un combattente, un mujihid». «Resterò a capo della rivoluzione fino alla morte, morirà come un martire, come mio nonno» ha aggiunto il raìs, lanciando una sorta di guanto di sfida al popolo che da una settimana contesta il suo potere e che ne chiede le dimissioni dopo più di 40 anni. «Io – ha ricordato – sono un rivoluzionario. Ho portato la vittoria in passato di questa vittoria si è potuto godere per generazioni».

ACCUSE A ITALIA E USA – Gheddafi ha assicurato che il suo Paese non è in guerra e ha aggiunto di aver lasciato sempre il potere al popolo. «Voi avete deciso che il petrolio sia gestito dallo Stato, lo hanno deciso i comitati popolari» ha sottolineato. Riferendosi ai fatti di Tripoli, il Colonnello ha negato di aver fatto ricorso all’uso della forza. «Ma lo faremo» ha promesso pure, dedicando gran parte del suo intervento proprio ai giovani scesi in piazza a manifestare. «Hanno dato le armi ai ragazzini, li hanno drogati. Andate ad attaccare questi ratti. Le famiglie dovrebbero raccogliere i propri figli dalle strade» ha spiegato Gheddafi, accusando anche gli Stati Uniti e l’Italia di aver «distribuito ai ragazzi a Bengasi» razzi rpg. L’invito al popolo libico è quello di «uscire dalle case » e di «attaccare i manifestanti». Alla polizia e all’esercito il Colonnello ha chiesto invece di «schiacciare la rivolta».

IL DISCORSO DALLA CASA BOMBARDATA – Occhiali, turbante color cammello e casacca con mantella tono su tono. È apparso così il leader libico nel discorso alla tv di Stato libica. Gheddafi ha parlato, in piedi, con toni accalorati da guerriero beduino e spesso gesticolando con le mani. Il leader libico ha parlato dalla propria abitazione nel centro di Tripoli che fu bombardata da aerei Usa nel 1986 e poi trasformata in un una sorta di monumento nazionale. Dopo una quindicina di minuti dall’inizio del discorso, al raìs è stato portato un bicchier d’acqua.

«SONO A TRIPOLI» – La notte scorsa, al termine di una giornata di caos con morti e feriti nelle maggiori città del Paese, il Colonnello ha fatto una breve apparizione in diretta sulla tv libica dalla sua residenza di Bab al Azizia, a Tripoli. «Sono qui e non in Venezuela», le sue prime parole, riprese da Al Arabiya. «Non dovete credere ai canali televisivi che appartengono ai cani randagi. Volevo dire qualcosa ai giovani di Piazza Verde e stare con loro fino a tardi ma poi è cominciato a piovere. Grazie a Dio, questa è una buona cosa». La brevissima apparizione tv aveva lo scopo di smentire le voci diffusesi lunedì di una fuga del raìs in Venezuela. «Vado ad incontrare i giovani nella Piazza Verde. È giusto che vada per dimostrare che sono a Tripoli e non in Venezuela», ha specificato il Colonnello. Proprio nella piazza della capitale libica citata da Gheddafi si erano svolte in precedenza, secondo la tv di Stato, manifestazioni pro governo. Sempre la tv libica, annunciando il discorso del raìs, aveva anticipato le parole con le quali il leader avrebbe confutato «le malevole insinuazioni che sono state diffuse dai media». Le principali emittenti arabe avevano rilanciato per tutta la giornata la notizia di raid aerei sui civili a Tripoli, oltre alle voci su una possibile fuga di Gheddafi.

CAPPELLO DI PELLICCIA E OMBRELLO – Quello che era stato annunciato come un discorso alla nazione in realtà si è risolto in una brevissima apparizione. La immagini diffuse dalla tv libica mostravano Gheddafi sporgersi da un veicolo con un ombrello in mano e uno strano cappello di pelliccia nero. Affidabili fonti libiche hanno spiegato che il leader parlava dalla sua residenza-caserma di Bab Al Azizia. Il complesso che ospita la residenza e gli uffici di Gheddafi a Tripoli, fu uno degli obiettivi fatti bombardare dal presidente americano Ronald Reagan nel 1986. In quel momento il dittatore e la sua famiglia dormivano nell’edificio e riuscirono a scappare fuori pochi attimi prima del massiccio attacco, avvertiti dal presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi; Hanna, tuttavia, la figlia adottiva 15enne del Colonnello, fu ferita a morte.

BALLETTO IN COSTUME – «Vado ad incontrare i giovani nella piazza Verde. È giusto che vada per dimostrare che sono a Tripoli e non in Venezuela: non credete a quelle televisioni che dipendono da cani randagi». Dopo aver pronunciato queste poche parole, Gheddafi ha salutato, ha chiuso l’ombrello ed è rientrato nel veicolo senza aggiungere altro. Prima di trasmettere le immagini del leader, la tv libica aveva mandato in onda un balletto in costume. Dopo, ha mostrato invece immagini patriottiche di soldati in marcia con musica araba come colonna sonora. Quella della scorsa notte è stata la prima apparizione televisiva del raìs da quando la rivolta contro il suo regime è scoppiata, una settimana fa. Suo figlio Seif al Islam, domenica notte, ha invece parlato in diretta per 45 minuti, promettendo riforme, denunciando un complotto internazionale contro la Libia e ammonendo che il regime intende resistere «fino all’ultimo uomo e all’ultima donna». (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Chi fornisce gli aerei militari all’aviazione di Gheddafi?

“Dall’alto caccia militari dell’aviazione libica avrebbero eseguito dei raid contro i manifestanti”. Finmeccanica colpisce ancora. Beh, buona giornata.

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Qualcosa che nessuno mai dovrebbe dimenticare di dire ogni giorno a se stesso.

http://tv.repubblica.it/dossier/sanremo-2011/luca-e-paolo-leggono-gramsci/62408?video

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democrazia Popoli e politiche

“Silvio Berlusconi mostra di non comprendere la differenza che intercorre tra il tornaconto personale e il dovere nei confronti del pubblico. Egli abusa la sua carica politica per i suoi fini e sfida chiunque a fermarlo: è da tempo passato il momento in cui questa farsa avvilente e distruttiva arrivi a una fine”.

di ENRICO FRANCESCHINI-la Repubblica

Times: “Abuso di potere, deve finire” Sondaggio Wsj: l’80% per le dimissioni

“Il processo che promette di imbarazzare perfino il primo ministro italiano”. Cioè un uomo che fino ad ora non è sembrato in imbarazzo davanti a nessuna delle accuse e delle critiche che gli sono state mosse, dalla corruzione al conflitto di interessi, dall’inefficienza del suo governo ai festini con escort, minorenni e vallette. Così l’Economist racconta l’ultimo capitolo nella storia di Silvio Berlusconi, lasciando intendere che potrebbe diventare l’ultimo per davvero: ossia un problema insuperabile per la sua sopravvivenza politica. E l’impressione che la richiesta dei magistrati milanesi di rinviare a giudizio il leader del Pdl sia la goccia che fa traboccare il vaso è condivisa oggi dalla maggioranza dei media internazionali.

I maggiori giornali stranieri, così come le più importanti reti televisive, dalla Bbc a Sky alla Cnn, dedicano lunghi servizi agli sviluppi della vicenda.

Il Wall Street Journal, maggior quotidiano finanziario americano, ha una pagina sulla richiesta di processare Berlusconi: un lungo articolo nota che, se il premier sarà incriminato, si tratterà del quarto procedimento giudiziario in cui si ritroverebbe imputato nei prossimi mesi, e aggiunge che il processo per concussione e induzione di un minore alla prostituzione può in ogni caso “destabilizzare” la sua fragile maggioranza di governo. Il Wall Street Journal pubblica sul proprio sito anche un sondaggio: l’80,3 per cento dei rispondenti dicono che Berlusconi dovrebbe dimettersi, il 19,7 per cento dicono che deve restare al suo posto.

“Silvio Berlusconi mostra di non comprendere la differenza che intercorre tra il tornaconto personale e il dovere nei confronti del pubblico. Egli abusa la sua carica politica per i suoi fini e sfida chiunque a fermarlo: è da tempo passato il momento in cui questa farsa avvilente e distruttiva arrivi a una fine”. E’ la conclusione di un durissimo editoriale del Times di Londra – titolo: ‘Abuso di potere’ – dedicato alle vicende giudiziarie del presidente del Consiglio italiano. “La volgarità – prosegue il quotidiano conservatore – è sempre stata una componente distintiva della sua avventura politica, ma un procedimento penale è un’aggiunta che oltrepassa l’ordinario squallore. Dovrebbe essere superfluo affermarlo, ma Berlusconi è distante dalla consapevolezza quanto lo è dal decoro, quindi ribadiremo l’ovvio: la sua condotta è incompatibile alla carica istituzionale che ricopre quindi dovrebbe dimettersi immediatamente”. Per il Times, poi, l’incompatibilità di Berlusconi non deriva solo da questioni di affari interni, per i quali “gli amici dell’Italia dovrebbero restare in silenzio”. “Berlusconi, oltre a degradare la politica nazionale, ha infatti ricoperto di vergogna la diplomazia”.

Segue un lungo elenco di ‘gaffe’ dall’Obama abbronzato a il gesto del mitragliatore alla giornalista russa che incalzava Putin con domande taglienti. “La tentazione di definire il primo ministro italiano come un buffone le cui azioni sono dettate da vanità e venalità è alta. Purtroppo la verità è peggiore”. Il Times dedica poi una pagina intera al caso, scrivendo che il settimanale Oggi avrebbe ricevuto l’offerta di foto e video: “Una foto del capodanno 2008 in cui il premier è con Noemi Letizia e miss Oronzo, entrambe 17enni all’epoca” e due video ripresi a Villa Certosa e quattro a Palazzo Grazioli, in uno dei quali Noemi “fa una danza sensuale su un palcoscenico”. Berlusconi è sopravvissuto a molti scandali, osserva il Times, ma questa è “la minaccia legale più gravde da quando salì per la prima volta al potere nel 1994”. E il quotidiano di Rupert Murdoch pubblica anche una vignetta, nella pagina degli editoriali, in cui Berlusconi appare in difficoltà mentre alle sue spalle la Torre di Pisa si piega verso il suolo come un fiore appassito.

“Sta per finire in galera?” titola senza mezzi termini l’Independent di Londra, in un’analisi dettagliata di tutti i nuovi capi di imputazione contro il premier. L’Independent chiede il parere di James Watson, docente di scienze politiche all’American University di Roma, che afferma: “E’ chiaro a questo punto che Berlusconi non si libererà delle minacce legali. L’unico dubbio è se le combatterà da Roma o dall’esilio in Antigua”.

L’Economist, il settimanale globale che vende un milione e mezzo di copie in tutto il mondo, scrive: “Il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, è stato raramemente fuori dai problemi nei suoi 18 anni di carriera politica, ma le ultime accuse mosse contro di lui dagli inquirenti milanesi sembrano il problema peggiore che ha mai avuto fino a questo punto”. In una corrispondenza da Roma, il settimanale nota che le 800 pagine di imputazioni descrivono Berlusconi come “uno che passa il tempo libero come se fosse uno dei più sordidi imperatori romani”. L’Economist giudica “probabile” che il processo per il Rubygate si farà e richiama l’attenzione sul “linguaggio pericoloso” usato dal premier e dalla Lega Nord quando parlano di prepararsi a una “guerra totale”.

Anche il quotidiano progressista britannico Guardian mette l’accento sulla minaccia di “guerra totale” pronunciata dagli alleati di Berlusconi all’indirizzo di giudici, media, opposizione, mentre il conservatore Telegraph riferisce anche dell’altra vicenda emersa di recente, i presunti rapporti a pagamento tra il primo ministro e Sara Tommasi, “che prima lo chiamava ‘amore’ e poi lo ha accusato di abuso di potere”. Il Financial Times online, accanto all’articolo di cronaca, pubblica una mappa interattiva dal titolo “La politica e gli scandali di Berlusconi” dove si ripercorrono, dal 1994 ad oggi, le vicende del Cavaliere “perseguitato da una sequenza di casi giudiziari”.

In Spagna la vicenda è tornata sui principali quotidiani. El Pais si sofferma sulla reazione del premier e titola “Berlusconi: ‘i giudici sono uno schifo e infangano l’Italia'”. In Francia, la notizia è ripresa da Le Figaro che si chiede “se il premier affronterà i giudici”. Mentre per France Soir l’interrogativo è: “Berlusconi sarà presto giudicato?”.

Oltreoceano, la Cnn online ricorda che “l’accusa” per il caso Ruby “non è l’unica questione legale che sta affrontando Berlusconi” e osserva che, nonostante “il premier abbia superato due voti di fiducia negli ultimi mesi e il suo partito goda di un vasto supporto in Italia, gli scandali, uno stile di vita da playboy e una serie di gaffe ben pubblicizzate hanno esposto il premier al ridicolo. E ci sono segnali che gli italiani siano stanchi del costante focalizzarsi sulle sue faccende personali”. Il Boston Globe, in un editoriale dal titolo “Crimini, non giochi”, osserva che gli italiani non “hanno bisogno di essere puritani per decidere che Berlusconi non è adatto a governare”.

Nel resto del mondo, la notizia è in evidenza sul canale di news australiano Abc, sul sito della tv del Qatar Al Jazeera ed è riportata anche dall’agenzia ufficiale cinese Xinhua. Mentre in Sud America i principali quotidiani, dal Perù all’Argentina, si soffermano sul caso e in Brasile diversi media riferiscono che anche “il nome di Ronaldinho è coinvolto negli scandali di Berlusconi”. (Beh, buona giornata).

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A Davos, il World Economic Forum sfiducia il governo Berlusconi e commissaria la classe dirigente in Italia.

di FEDERICO RAMPINI-Repubblica

Gli altri leader europei vengono qui per “dare la linea” al World Economic Forum. In 48 ore si succedono a Davos Nicolas Sarkozy, David Cameron, Angela Merkel: espongono una visione dell’Europa, le loro ricette per la ripresa, le strategie verso l’America e i paesi emergenti. All’Italia tocca un ruolo diverso a Davos: quello dell’imputata. Il campionario di dirigenti mondiali che si riunisce in questo summit – statisti, grandi imprenditori, opinion leader – riserva al nostro paese una sessione a porte chiuse. Intitolata “Italia, un caso speciale”. La riunione viene presentata così dagli organizzatori nel documento introduttivo: “Malgrado la sua storia, il suo patrimonio culturale, la forza di alcuni settori della sua economia, il paese ha difficoltà di governance e un’influenza sproporzionatamente piccola sulla scena globale. Le sue prospettive economiche e sociali appaiono negative”.

A istruire il processo, l’establishment di Davos delega alcuni esperti e opinionisti autorevoli. Di fronte a loro, sul versante italiano, un parterre di imprenditori e banchieri. Nessun rappresentante di governo è all’appello: il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, pur presente a Davos, fissa una conferenza stampa altrove, nello stesso orario. Tocca a Michael Elliott, direttore del magazine Time, aprire il fuoco: “Contate molto meno di quel che dovreste nell’economia internazionale, i problemi del vostro governo vi precludono di svolgere il ruolo che vi spetta”. Segue l’economista Nouriel Roubini, una star di Davos da quando nel 2007 fu l’unico a prevedere con precisione la crisi mondiale: “Di solito parlo solo di economia ma nel vostro caso il problema del governo è diventato grave, è una vera distrazione che v’impedisce di fare quello che dovreste. Siete di fronte ad accuse di una vera e propria prostituzione di Stato, orge con minorenni, ostruzione alla giustizia. Avete un serio problema di leadership che blocca le riforme necessarie”. Roubini dà atto sia a Tremonti che a Mario Draghi di avere limitato i danni sul fronte della finanza pubblica e del sistema bancario. “Ma un contagio della sfiducia dei mercati è ancora possibile – aggiunge – perché il divario è enorme tra le riforme strutturali di cui avete bisogno, e ciò che è stato fatto”.

Un altro economista, Daniel Gros che dirige a Bruxelles il Centre for European Policy Studies, invita a non illudersi sul fatto che l’Italia possa a lungo sottrarsi al destino di Grecia, Portogallo, Irlanda: “La vostra situazione è preoccupante. Siete il paese più direttamente in competizione con la Cina, per la tipologia dei prodotti. Da dieci anni si sa quali riforme andrebbero fatte. Di questo passo l’Italia potrebbe diventare il prossimo grosso problema dell’eurozona”. Josef Joffe, editore e direttore del giornale tedesco Die Zeit: “Da dieci anni crescete meno della media europea, questo è il problema numero uno”. Segue Matthew Bishop, capo della redazione americana del settimanale The Economist, che nel 1997 fu l’autore di un rapporto sui nostri “esami d’ingresso” nella moneta unica: “Da allora – dice – il paese è rimasto troppo immobile. Le tendenze dell’economia globale rischiano di trasformarvi nell’anello debole dell’Unione europea. Se l’Italia non usa i prossimi cinque anni per un reale cambiamento, vi ritroverete dalla parte perdente dell’eurozona”. Quindi Bishop lancia la palla nel campo degli italiani: “I gravi reati di cui Silvio Berlusconi è accusato sono ben noti. Ma a voi sta bene lo stesso? E’ questo il governo che volete?”

La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia nel replicare sottolinea quanto la forza del tessuto produttivo resti notevole: “Siamo il secondo esportatore europeo dietro la Germania, il quinto nel mondo, con punte di eccellenza non solo nei settori tradizionali ma nella meccanica, nella robotica, nei macchinari elettronici”. Anche lei però descrive un’Italia “introversa, ripiegata su se stessa, distratta rispetto a quel che accade nel resto del mondo, soprattutto per colpa dei suoi politici”. E conferma che “il mondo di Davos, quello delle nuove potenze come l’India e l’Indonesia, è ignoto ai nostri politici, perciò siamo assenti dai tavoli dove si decide il futuro”. Corrado Passera di Banca Intesa elenca gli handicap: “Scuola, infrastrutture, giustizia, burocrazia, bassa mobilità sociale, poca meritocrazia”. Voci ancora più critiche si levano tra i nostri top manager che hanno scelto una carriera all’estero. A loro il pianeta-Davos è familiare, nei nuovi scenari della competizione globale si muovono con sicurezza. Ma sono qui per conto di multinazionali straniere. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Ci ha insegnato il significato di non dimenticare. Sarà impossibile dimenticare Tullia Zevi.

Tullia Zevi nasce a Milano il 2 febbraio del 1919, figlia di un avvocato antifascista.
Da liceale, durante una vacanza in Svizzera, viene a sapere dal padre che non farà ritorno a Milano. E’ il 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali. “Quel giorno abbiamo scoperto la diversità – dirà in un’intervista del 2008 a Il Manifesto – che cosa volesse dire essere considerati e apparire come ‘diversi’. E direi che abbiamo misurato sulle nostre vite, quasi sui nostri corpi, questa sensazione: ci è entrata nella pelle”. Inizia così il periodo dell’esilio, che la vedrà prima in Francia, a Parigi – dove prosegue gli studi alla Sorbona – e poi negli Stati Uniti. Lì frequenta la Juillard School of Music di New York e il Radcliff College di Cambridge, in Massachussetts, suona l’arpa in diverse formazioni, anche nella New York City Simphony Orchestra, con Leonard Bernstein. Frequenta i circoli antifascisti di New York e si avvicina alla professione giornalistica. Conosce e frequenta gli esuli italiani come Gaetano Salvemini e Amalia Rosselli. Partecipa alla pubblicazione dei Quaderni di giustizia e libertà e del bollettino Italy against Fascism. Per la Nbc cura una rubrica che parla ai partigiani per un programma a onde corte destinato all’Italia. E incontra Bruno Zevi, architetto e critico d’arte, che sposa nella sinagoga spagnola di New York il 26 dicembre del 1940.

Il ritorno in Italia è dopo la fine della guerra, nel 1946. Suo marito era già rientrato per partecipare alla Resistenza. Tullia Zevi si dedica completamente al mestiere che lei stessa definirà “cotto e mangiato”, il giornalismo. Ma si impegna, al tempo stesso, all’interno della comunità ebraica dalla quale proveniva, devastata dalla guerra e dagli orrori del nazifascismo. Documenterà la tragedia della Shoah al processo di Norimberga e sarà anche in aula a Gerusalemme, nel tribunale allestito nel Beit Haam, con Adolf Heichmann alla sbarra. Per oltre trent’anni, dal 1960 al 1993, lavora come corrispondente del quotidiano israeliano Ma’ariv e per il londinese The Jewish Chronicle, dal ’48 al ’63 è corrispondente della Jewish Tepegraphic Agency e, dal ’46 al ’76, del Religious News Service di New York.

Dal ’78, per cinque anni, è vicepresidente della Comunità ebraica italiana, della quale diventa presidente nell’83, unica donna ad aver mai ricevuto l’incarico. Sarà anche eletta presidente dello European Jewish Congress e membro dell’esecutivo dello European Congress of Jewish Communities; nell’88 è incaricata della presidenza della Commission for Intercultural and Interfaith Relations dello European Jewish Congress. E nel ’92 è la candidata italiana al premio “Donna europea dell’anno”. Alla fine dello stesso anno riceverà, dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il titolo di Cavaliere di Gran Croce, massima onorificenza italiana. Ma numerosi sono i riconoscimenti che le sono stati tributati. Dal “Premio 8 marzo. La donna nella scuola, nella cultura e nella società” al premio “Donna coraggio” alla medaglia d’oro assegnatale del ministero dei Beni culturali nel ’94 per “il suo contributo all’educazione, all’arte, alla cultura”.

Tullia Zevi è stata anche membro della Commissione per l’interculturalismo del ministero dell’Istruzione, della Commissione parlamentare d’inchiesta sula missione italiana in Somalia, della commissione italiana dell’Unesco, della commissione nazionale per la bioetica, del comitato promotore del Partito democratico. Una vita in prima linea, raccontata nell’autobiografia Ti racconto la mia storia, dialogo con la nipote Nathania in cui si riassumono le sue lunghe e spesso travagliate esperienze, fra storia personale e storia universale – tante le foto, all’interno del libro, che la ritraggono durante i suoi incontri con i grandi personaggi della storia contemporanea, Golda Meir e re Hussein di Giordania, Papa Paolo VI e Ferruccio Parri, Yitzhak Rabin e Arafat, Hillary Clinton e Rita Levi Montalcini. L’avventura umana e l’impegno politico di una donna che per decenni ha rappresentato un punto di riferimento per l’ebraismo e per la cultura laica.

Tullia Zevi è morta oggi a Roma. Beh buona giornata.

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