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Panebianco di ieri, ovvero l’espulsione da Israele di Richard Falk.

La mia espulsione da Israeledi Richard Falk – da comedonchisciotte.org

 

Quando sono arrivato in Israele come rappresentante delle Nazioni Unite sapevo che vi potevano essere dei problemi all’aeroporto. E c’erano. Il 14 Dicembre sono arrivato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per svolgere il mio incarico di relatore speciale per le Nazioni Unite sui territori palestinesi.

Stavo conducendo una missione che aveva lo scopo di visitare la Cisgiordania e Gaza per preparare un rapporto sull’osservanza da parte di Israele dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Erano stati fissati degli incontri al ritmo di uno l’ora durante i sei giorni previsti, a cominciare da quello, il giorno seguente, con Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Palestinese.

Sapevo che vi potevano essere dei problemi all’aeroporto. Israele si era fortemente opposta al mio incarico alcuni mesi prima e il suo ministro degli esteri aveva rilasciato una dichiarazione secondo cui avrebbe proibito il mio ingresso se fossi venuto in Israele nel mio ruolo di rappresentante dell’Onu.

Allo stesso tempo, non avrei fatto il lungo viaggio dalla California, dove vivo, se non fossi stato ragionevolmente ottimista sulle mie possibilità di riuscire a entrare. Israele era stata informata che avrei guidato la missione e avrei fornito una copia del mio itinerario, e aveva rilasciato i visti alle due persone che mi assistevano: un addetto alla sicurezza e un assistente, che lavorano entrambi nell’ufficio dell’alto commissario per i diritti umani a Ginevra.

Per evitare un incidente all’aeroporto, Israele avrebbe potuto o rifiutarsi di accettare i visti o comunicare alle Nazioni Unite che non mi avrebbero permesso di entrare, ma non è stata presa nessuna delle due misure. Sembra che Israele abbia voluto impartire a me, e in modo assai più significativo alle Nazioni Unite, una lezione: non vi sarà nessuna collaborazione con coloro che esprimono forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Dopo che mi è stato negato l’ingresso, sono stato tenuto in custodia cautelare insieme a circa altre 20 persone con problemi d’ingresso. Da questo momento, sono stato trattato non come un rappresentante delle Nazioni Unite, ma come una sorta di minaccia per la sicurezza, sottoposto ad una perquisizione corporale minuziosa e alla più puntigliosa ispezione dei bagagli che abbia mai visto.

Sono stato separato dai miei due colleghi delle Nazioni Unite, a cui è stato permesso di entrare in Israele, e condotto nell’edificio di detenzione dell’aeroporto, distante circa un miglio. Mi è stato chiesto di mettere tutti i miei bagagli, insieme al cellulare, in una stanza e sono stato portato in un piccolo locale chiuso a chiave che puzzava di urina e di sudiciume. Conteneva altri cinque detenuti e costituiva uno sgradito invito alla claustrofobia. Ho passato le successive 15 ore rinchiuso in questo modo, il che è equivalso ad un corso intensivo sulle miserie della vita carceraria, inclusi lenzuola sporche, cibo immangiabile e luci che passavano dal bagliore all’oscurità, controllate dall’ufficio di guardia.

Naturalmente, la mia delusione e la mia dura reclusione sono cose insignificanti, non meritevoli di notizia per sé stesse, date le serie privazioni sopportate da milioni di persone in tutto il mondo. La loro importanza è soprattutto simbolica. Sono una persona che non ha fatto nulla di sbagliato, se non esprimere la propria forte disapprovazione per la politica di uno stato sovrano. Soprattutto, l’ovvia intenzione era di umiliare me come rappresentante dell’Onu, e di mandare perciò un messaggio di sfida alle Nazioni Unite.

Israele mi ha sempre accusato di essere prevenuto e di aver fatto accuse incendiarie sull’occupazione dei territori palestinesi. Nego di essere stato prevenuto ma insisto invece che ho cercato di essere obbiettivo nel valutare i fatti e la legislazione di pertinenza. Il carattere dell’occupazione è di dare adito ad aspre critiche sull’atteggiamento israeliano, specialmente sul rigido blocco imposto a Gaza, che ha come conseguenza la punizione collettiva di un milione e mezzo di abitanti. Prendendo di mira l’osservatore, invece di quello che viene osservato, Israele gioca una partita scaltra. Distoglie l’attenzione dalle realtà dell’occupazione, praticando in modo efficace una politica di diversione. Il blocco di Gaza non assolve nessuna funzione legittima da parte di Israele. Si dice che sia stato imposto come rappresaglia per alcuni razzi di Hamas e della Jihad islamica che sono stati lanciati oltreconfine sulla città israeliana di Sderot. L’illegalità di lanciare questi razzi è indiscutibile, ma non giustifica in alcun modo l’indiscriminata rappresaglia israeliana contro l’intera popolazione di Gaza.
Lo scopo dei miei rapporti è di documentare a nome delle Nazioni Unite l’urgenza della situazione a Gaza e altrove, nella Palestina occupata. Questo lavoro è di particolare importanza ora che vi sono segnali di una rinnovata escalation di violenza e persino di una minacciata rioccupazione da parte di Israele.

Prima che una tale catastrofe accada, è importante rendere la situazione il più trasparente possibile, e questo è quello che avevo sperato di fare esercitando il mio compito. Nonostante l’ingresso negato, il mio sforzo sarà di continuare a utilizzare tutti i mezzi disponibili per documentare la realtà dell’occupazione israeliana nel modo più veritiero possibile. (Beh, buona giornata).

Richard Falk è professore di diritto internazionale alla Università di Princeton e relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi.

Titolo originale: “My Expulsion from Israel “

Fonte: http://www.guardian.co.uk

Traduzione da andreacarancini.blogspot.com

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Panebianco di ieri, ovvero guarda mamma quanto sono neo-cons.

Ieri, sul Corriere delle Sera è apparso un editoriale di Angelo Panebianco che spara alzo zero contro l’Onu, in particolare contro Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite,  che, a suo dire, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Ecco le tesi di Panebianco, neo-cons made in Italy. N.B.: Panebianco scrive che Richard Falk è persona sgradita in Israele, ma dimentica di dire che Falk è ebreo.

 

Gli infortuni dell’Onu.

di Angelo Panebianco da corriere.it

 

C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato.

I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare.

Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele.

La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale/2.(Fine).

di SIMONE SANTINI – www.clarissa.it

Nelle province rurali ad est della Cina si moltiplicano le manifestazioni di rivendicazione di condizioni di vita più eque e contro la corruzione. L’affermazione di un ceto sociale di nuovi miliardari contro l’impoverimento complessivo attuale è sempre più avvertito come profondamente ingiusto.

Negli ultimi venticinque anni, da quando Deng Xiao Ping annunciò che arricchirsi non era più un peccato contro il socialismo, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato del 50% e in questo campo le politiche del governo per un maggiore bilanciamento del benessere sono fallite. Un rapporto di polizia di inizio dicembre lanciava l’allarme: “I rischi di sommosse su larga scala sono reali”.
Mentre nella regione più produttiva del paese, il Guangdong, le fabbriche chiudono e si licenzia massicciamente, il governo cerca di correre ai ripari. Il presidente della Commissione economica, massimo organo del partito comunista nel settore, ha chiesto alle imprese di stato di non licenziare nessuno nel corso del nuovo anno, le imprese “dovranno mantenere la stabilità dei propri effettivi”. Gli ha fatto eco il presidente della Commissione per le riforme: “Se non gestiremo al meglio le difficoltà attuali, potremmo correre dei seri rischi”.

È la situazione dell’occupazione che si fa grave, ed in modo paradossale. Il tasso di sviluppo per il 2009 è previsto all’8%, straordinario rispetto agli altri paesi industrializzati ma in netto calo rispetto alle due cifre cui era abituata la Cina. Questo non permetterebbe al sistema economico di svilupparsi per assorbire tutti i lavoratori di cui avrebbe bisogno e che potenzialmente potrebbe impiegare. E i nodi vengono al pettine tutti insieme. Le imprese lamentano i lacci anti-inquinamento dovuti alle riforme ambientali che non erano più rinviabili e l’export frena perché lo yuan si sta apprezzando sul dollaro come richiesto dal Fondo Monetario Internazionale. A questo si deve aggiungere che la crisi recessiva in occidente potrebbe anche determinare politiche protezionistiche nei confronti della Cina: il partito democratico americano, tornato alla Casa Bianca, ha tra i suoi massimi esponenti dei noti fautori di questa linea (come Nancy Pelosi e Hillary Clinton).

La crisi economica del colosso asiatico è dunque strutturale e rischia di esplodere in crisi sociale anti-sistema. La situazione internazionale può diventare così una formidabile arma di destabilizzazione ed eventualmente ricatto nei confronti della classe dirigente cinese da parte di forze che sapessero controllare e indirizzare la crisi mondiale. La domanda da cui siamo partiti si colora di una luce rivelatoria: qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi per ottenerne un vantaggio geopolitico di straordinario valore? Alcuni analisti prevedono che il nuovo equilibrio del pianeta post-guerra fredda, che prevedeva la divisione ideologica tra occidente ed oriente del blocco eurasiatico sotto il controllo della “isola” nordamericana, sarà determinato dalla integrazione tra il grande debitore (gli Usa) e i grandi creditori (Cina e Giappone).

Ovvero, dal secolo Atlantico al secolo Pacifico, in cui la zona eurasiatica non sarà più tenuta sotto controllo attraverso la divisione ma attraverso l’accerchiamento. E, ovviamente, questa architettura, come la precedente, sarà plasmata dal potere finanziario transnazionale: il caos economico mondiale, dunque, come fucina del nuovo ordine mondiale. (Beh, buona giornata).

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A Est della crisi economica globale.(Continua).

di Simone Santini – www.clarissa.it

Qualcuno sta soffiando sul fuoco della crisi economica globale? Se la “crisi terminale del capitalismo” sembra essere stata scongiurata con la socializzazione delle perdite del sistema finanziario internazionale e il suo essere riversata in termini di recessione sulla economia reale (ovvero su imprese e lavoratori), dal punto di vista geopolitico dinamiche parallele appaiono altrettanto chiare.

La globalizzazione, negli ultimi quindici anni, ha avuto questo motore fondamentale: la Cina produceva e gli Stati Uniti consumavano; la Cina vendeva e gli Stati Uniti compravano a debito. Il fenomeno è estremamente più complesso e con molti altri attori, ma questa sintesi essenziale ne svela il meccanismo più vero e cruciale.
Il risultato è che il colosso asiatico è stato il protagonista assoluto della crescita mondiale in questi anni, al punto che l’Asia (o più precisamente la “Cindia” come la chiama Federico Rampini) potrebbe essere il motore dell’umanità di questo secolo e soppiantare la civiltà occidentale.Ma c’è un rovescio della medaglia. La Cina è diventata anche il più grande creditore degli Stati Uniti, avendo sopravanzato in termini assoluti il Giappone nel corso del 2008 detenendo 1.200 miliardi di dollari del debito pubblico americano (seguono in questa classifica, dopo il paese del Sol Levante, i paesi arabi produttori di petrolio del Golfo). Questo elemento apparentemente di forza è in realtà il punto debole centrale della Cina. L’economia di Pechino è legata a filo doppio con Washington e il collasso degli Usa non farebbe che trascinare con sé il Paese del Dragone.

Non è un caso che i cinesi abbiano promesso 600 miliardi di dollari, il 20% del PIL, per salvare il sistema monetario internazionale (il piano Paulson americano ne prevede 700 e la BCE ne ha erogati 550).
La Cina, dunque, nel momento di sua massima espansione si trova anche nel momento di sua massima vulnerabilità e debolezza. Gli americani hanno tutto l’interesse strategico a mantenere legato, e dunque in una dimensione di controllo e dipendenza, l’amico/nemico cinese; questi non può fare altro che cercare di sfuggire alla tutela a stelle e strisce per provare a giocare la sua sfida al mondo voluta dalla sua odierna leadership.

La partita si delinea attualmente su due livelli nevralgici: Pechino ha assoluta necessità di avere un accesso stabile, sicuro ed indipendente, alle materie prime, in particolare alle fonti energetiche. Questo aspetto viene contrastato dagli americani sul piano militare con l’occupazione diretta di Asia centrale e Medio Oriente di cui le guerre di Afghanistan e Iraq sembrano essere solo il preludio.
Sotto un altro aspetto, la crisi economica mondiale sta avendo effetti dirompenti sul fragile equilibrio della società cinese. Nel paese si è innescata una bomba sociale che ora rischia di deflagrare.

Il capitalismo di stato si era retto finora su alcune variabili molto vantaggiose rispetto l’occidente. Da una parte una grande disponibilità di manodopera a basso prezzo, con livelli di produttività altissimi e una possibilità quasi illimitata di sfruttamento. D’altro lato pochi vincoli ambientali e conseguente abbattimento dei costi di produzione, almeno dal punto di vista strettamente economico. Infine, il mantenimento del valore della moneta nazionale, lo yuan, artificialmente basso rispetto al dollaro per favorire l’esportazione.
Ma l’equilibrio si è rotto. Il risultato dello sviluppo tumultuoso di questi anni è stato lo spopolamento delle campagne.

Si calcola ormai che la migrazione interna, l’inurbamento dei contadini che divengono operai, assommi a 230 milioni di persone. In termini assoluti, se 730 milioni di cinesi vivono ancora nelle zone rurali, sono ormai 570 a vivere e lavorare in città. In settori come l’edilizia ed il tessile, i nuovi migranti rappresentano il 70-80% della forza lavoro.
Questo ha determinato la creazione di grosse sacche di povertà e disagio sociale.

Nel 2009 saranno oltre 40 milioni i cittadini che beneficeranno del programma di aiuto statale per gli indigenti nonostante i parametri della soglia di povertà siano un terzo di quelli fissati dalla Banca mondiale (0,31 euro giornalieri contro 0,90). E nonostante tutto, la migrazione interna non si arresta poiché se un contadino guadagna mediamente 425 euro l’anno, un operaio impiegato nei cantieri dei giochi olimpici arrivava ad oltre 200 al mese. (beh, buona giornata)

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: l’attuale presidenza della Ue è ceca.

di Andrea Bonanni, dal blog europe, su repubblica.it

Dopo aver dichiarato che l’invasione israeliana di Gaza (preceduta da bombardamenti che hanno fatto oltre quattrocento morti) era una <operazione difensiva piuttosto che offensiva>, il governo ceco ha fatto inizialmente una mezza marcia indietro (<il diritto all’autodifesa non giustifica azioni che infliggono gravi sofferenze alla popolazione civile>), poi una netta inversione di rotta, definendo la prima dichiarazione <un errore>. La presa di posizione filo-israeliana (o bisognerebbe dire filo-americana, visto che ricalca le dichiarazioni dell’amministrazione Bush?) era del portavoce del primo ministro Topolanek. Le successive correzioni sono del ministro degli esteri Karel Schwarzenberg.

Più che dividere l’Europa, la presidenza ceca sembra divisa al proprio interno. Ma forse non tanto. Mentre si accingeva a partire per una missione diplomatica in Medio Oriente tesa ad ottenere il cessate il fuoco, mentre il responsabile della politica estera europea Solana assicurava che l’Europa è pronta ad inviare osservatori e truppe di peacekeeping, mentre la commissaria per le relazioni esterne Ferrero Waldner tuonava che <le violenze devono cessare immediatamente>, Schwarzenberg ha seraficamente annunciato che nutriva ben poche speranze di ottenere un accordo per la fine dei combattimenti. Con simili premesse, poteva risparmiarsi il cherosene del viaggio. <Pace in terra agli uomini di buona volontà> sta scritto sulle riproduzioni della grotta di Betlemme: se aspettiamo la buona volontà della presidenza ceca, la pace può attendere. (Beh, buona giornata).

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Israele: la guerra è la continuazione della campagna elettorale con altri mezzi.

Perché Israele ha attaccato Gaza?

di Enrico Franceschini, da mytube, blog su repubblica.it

Un amico telefona dall’Italia e, memore degli anni da me trascorsi in Israele come corrispondente di “Repubblica”, si chiede se i leader israeliani sono stupidi o sono pazzi. I bombardamenti e poi l’attacco di terra a Gaza hanno provocato unanimi condanne mondiali isolando lo Stato ebraico, scatenato proteste di popolo nelle piazze arabe del Medio Oriente e apparentemente distrutto le residue speranze che l’avvento di Barack Obama alla Casa Bianca possa portare a una soluzione del conflitto. Poichè era largamente prevedibile che l’attacco desse questi risultati, per quale motivo i leader israeliani l’hanno deciso lo stesso? Questo si domanda il mio amico, convinto che i leader di Israele non siano affatto stupidi nè pazzi, non prendano decisioni simili alla leggera: ma allora, perchè l’hanno fatto?

La stampa inglese e americana è piena di risposte a questa domanda, risposte che peraltro si ripetono, in modo simile, ad ogni riaccendersi del conflitto in circostanze analoghe. Israele non lancia un’azione simile senza una profonda riflessione e un calcolo di tutti i pro e i contro. Provo a riassumere i “pro”, dal punto di vista israeliano. 1) Israele si è ritirato da Gaza tre anni fa e non può tollerare che ora da “Gaza liberata” i palestinesi la bombardino, per quanto scarsa sia l’efficacia dei razzi sparati da Hamas sulle città israeliane. 2) Israele ritiene che non reagire ai razzi di Hamas darebbe un segnale di debolezza, di arrendevolezza, ad altri suoi nemici, ben più pericolosi di Hamas, per esempio Hezbollah nel Libano del sud e, ancora di più, l’Iran con i suoi programmi nucleari. 3) Israele spera di distruggere Hamas non solo militarmente, ma soprattutto politicamente, dimostrando alla popolazione di Gaza quanto sia insensata la politica seguita da Hamas, e aprire così la strada a un ritorno al potere a Gaza dell’Autorità Palestinese del presidente Abu Mazen, l’unica entità con la quale pensa sia possibile raggiungere un accordo di pace.  4) Israele è alla vigilia di elezioni, e i suoi leader più favorevoli alla trattativa di pace con i palestinesi, il ministro degli Esteri Livni e quello della Difesa Barak, sperano di guadagnare consensi usando la mano dura contro Hamas, in modo da battere alle urne il “falco” Netanyahu, la cui vittoria farebbe fare probabilmente un ulteriore passo indietro alle speranze di pace. 5) L’attuale coalizione vuole ottenere una vittoria militare, per riabilitarsi dopo l’imbarazzante risultato della criticatissima operazione militare in Libano nel 2006.

 Questi sono più o meno i ragionamenti della leadership israeliana per l’offensiva in corso. Può darsi che alcune di queste ragioni si dimostrino valide: per esempio i sondaggi segnalano ora una possibile vittoria della Livni alle urne contro Netanyahu. Ma nuovi sviluppi del conflitto potrebbero capovolgere questa tendenza e consegnare ugualmente la vittoria a Netanyahu. E il rischio che l’offensiva si riveli comunque controproducente, non solo dal punto di vista internazionale ma anche per gli interessi israeliani, resta alto. Un aspetto negativo, dal punto di vista di Israele, è la sproporzione delle vittime: cento palestinesi morti per ogni israeliano. Un altro è che se il numero delle vittime israeliane salisse, l’opinione pubblica israeliana potrebbe finire per considerare l’offensiva un insuccesso. Un terzo è che l’offensiva potrebbe rafforzare politicamente Hamas, anzichè indebolirla, mettendo in una condizione ancora più difficile l’Autorità Palestinese del presidente Abu Mazen. Come ricorda per esempio l’Observer di Londra, molti palestinesi non vedono l’offensiva come una reazione ai razzi di Hamas ma come il proseguimento di una politica punitiva e repressiva: nei tre anni successivi al ritiro da Gaza, gli attacchi israeliani hanno ucciso 1700 palestinesi a Gaza, tra cui, nell’ultimo anno, 68 bambini o ragazzi, inclusi quattro bambini da uno a cinque anni in aprile, colpiti da un missile caduto sulla loro casa mentre facvano colazione. Vittime a parte, il blocco economico creato da Israele attorno a Gaza, anche quello con l’obiettivo di indebolire politicamente Hamas facendo pagare un alto prezzo alla popolazione della striscia, ha dato scarsi risultati: “Certamente non è stato produttivo dal nostro punto di vista, ed è possibile che sia stato controproduttivo”, dichiara all’Observer Yossi Alpher, ex-ufficiale del Mossad ed ex-consigliere militare di Barak quando quest’ultimo era primo ministro. Commento dell’Economist: “Poichè Hamas non sembra in procinto di scomparire, (Israele) deve trovare il modo di cambiare il modo di pensare di Hamas (per spingerla a riconoscere lo Stato ebraico e accettare una soluzione negoziata del conflitto). Le bombe da sole non riusciranno mai nell’intento”.  (Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./3.

Dalla crisi allo sviluppo

di Mario Monti da corriere.it

 

«Possiamo limitare le conseguenze economiche e sociali della crisi mondiale per l’Italia, e creare anzi le premesse di un migliore futuro, se facciamo leva sui punti di forza e sulle più vive energie di cui disponiamo ». L’auspicio del Presidente Giorgio Napolitano trova fondamento nelle prove che l’Italia ha saputo dare in passato di fronte a gravi crisi: la terribile eredità della seconda guerra mondiale e in seguito il terrorismo, come ricorda Napolitano, ma anche, negli anni Novanta, le crisi della lira prima dell’approdo nell’euro.

Si è spesso notato che il nostro Paese riesce a dare il meglio solo in condizioni di emergenza, quando non è più possibile rinviare decisioni impopolari. Nei casi citati, si trattava però di emergenze specificamente italiane. Sapremo dare prova della stessa capacità di reazione ora che l’Italia è afflitta da una crisi grave, ma non specificamente italiana?

Perché la risposta sia positiva, occorre evitare due atteggiamenti. Nella diagnosi, non si deve trovare troppo conforto in distinzioni che paiono, per una volta, a favore dell’Italia. Nella terapia, non è prudente ritenere che la pesante eredità del passato, incontestabile, impedisca interventi di ampia portata per contrastare la crisi.

E’ vero che l’economia italiana — rispetto a quella britannica, irlandese, spagnola o americana — è meno sbilanciata verso i due settori (finanziario e immobiliare) dai quali si è scatenata la crisi; che le famiglie italiane hanno risparmi elevati e indebitamenti modesti; che la nostra industria manifatturiera, in alcuni settori, è ancora un punto di forza. Ma rimane il fatto che l’Italia, prima della crisi, era uno dei paesi «avanzati» in corso di «arretramento», con differenziali negativi in termini di competitività e di crescita. La crisi è come un’ orribile marea che copre e offusca tutto. Il suo effetto immediato è stato sì, per noi, meno dirompente che per altri. Ma non dobbiamo credere che, una volta ritiratasi la marea, il nostro sistema produttivo emerga più competitivo di prima.

«Dobbiamo considerare la crisi come grande prova e occasione per aprire al Paese nuove prospettive di sviluppo», ha indicato il Presidente Napolitano. Alla stessa ora, il Presidente Nicolas Sarkozy rivolgeva ai francesi parole molto simili: «Dalla crisi nascerà un mondo nuovo, al quale dobbiamo prepararci lavorando di più, investendo di più. Non aspettatevi che io fermi le riforme strutturali intraprese all’interno della Francia, esse sono vitali per il nostro avvenire, per diventare più competitivi ».

L’Italia affronta la crisi con una duplice pesante eredità, di cui il governo è ben consapevole: l’alto debito pubblico e riforme strutturali non ancora sufficienti. Il debito pubblico consiglia prudenza, ma oggi sarebbe imprudente non prendere misure espansive, reversibili nel tempo, adeguate alla gravità della crisi. Una simultanea accelerazione delle riforme strutturali, meglio se sostenuta da un impegno bipartisan e dall’adesione delle forze sociali, sarebbe ben colta dai mercati ed eviterebbe che il temporaneo maggiore disavanzo renda più gravoso il rifinanziamento del debito.

In questo modo, la durata e la profondità della crisi sarebbero minori. E l’economia italiana ne uscirebbe più moderna, meglio attrezzata per le sfide della competitività mondiale. (Beh, buona giornata).

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Affrontare la crisi oltre il mantra dell’ottimismo./2.

Uguaglianza e sviluppo
di FRANCO BRUNI da lastampa.it
La crisi come opportunità: su questo insiste il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica. E auspica, fra l’altro, che sia colta l’occasione per ridurre le disparità dei redditi e delle condizioni di vita. È davvero possibile? Si può diminuire l’ingiustizia sociale mentre si è affannati dall’emergenza macroeconomica internazionale? Si può accentuare la funzione ridistribuiva della finanza pubblica quando il bilancio è stressato dalle conseguenze del rallentamento produttivo, come mostrano i dati forniti ieri dal governo?La crisi è esplosa in una fase della crescita globale caratterizzata da crescenti disuguaglianze. Esse sono una ragione di fragilità dello sviluppo e rendono la recessione socialmente e politicamente più preoccupante. Combattere la crisi facendo attenzione agli aspetti distributivi e di giustizia sociale sembra l’unica via per ottenere risultati duraturi. Come si fa?Il cattivo funzionamento e l’inadeguata regolazione di alcuni mercati hanno favorito lo scoppio della crisi. È diffusa la tentazione di dedurne che dalla crisi e dall’ingiustizia si esce andando «contro il mercato». È un’idea sbagliata. Va invece migliorato il quadro di regole e politiche pubbliche.All’interno di quel quadro funzionano liberamente i mercati, permettendo ai loro meccanismi di ottenere sia una ripresa della crescita dei redditi che una loro miglior distribuzione.

Lo strumento principale per influenzare la distribuzione del reddito rispettando i mercati sono le imposte progressive. Una riduzione delle imposte e degli oneri sociali sui redditi da lavoro medio-bassi, migliorerebbe la distribuzione, oltre a stimolare la domanda e ad abbassare i costi del lavoro. È però arduo tagliare le aliquote proprio quando già la crisi contrae il gettito fiscale allargando il fabbisogno. Perché la crescita del debito pubblico non appaia insostenibile ai mercati finanziari, la riduzione immediata delle tasse andrebbe associata a una credibile contrazione, graduale e futura, di molte spese pubbliche. Di quelle inutili e di quelle, come alcuni trattamenti pensionistici, che sono, proprio loro, gravi cause di ingiustizia distributiva fra categorie e generazioni di lavoratori. Occorre inoltre insistere nella riduzione dell’evasione fiscale. Ovvio da dire e difficile da fare: ma la spudoratezza con cui l’evasione continua, per alcune categorie di operatori e di transazioni, rende precaria e artificiale la condizione apparentemente migliore di chi evade, è fonte di distorsioni competitive, di ingiustificate disuguaglianze, ed è insopportabile, soprattutto in tempi di crisi.

Per favorire, insieme, il mercato e la giustizia distributiva, è indispensabile, soprattutto in Italia, arricchire e migliorare gli ammortizzatori sociali. In una fase di profonde ristrutturazioni produttive, gli aiuti per chi perde il posto vanno messi a disposizione, senza ingiusti privilegi per le categorie di lavoratori più protette, in forme che aiutino a chiudere le imprese meno efficienti e spostare i lavoratori verso nuovi impieghi. Le regole devono avere applicazione generale e vanno evitati trattamenti ad hoc, come quelli proposti per il caso Alitalia, che sono fonte di maggiori, anziché minori disuguaglianze.

Complementare all’assistenza alla disoccupazione è l’adozione di salari minimi e imposte negative per i più poveri. Inoltre, quando gli ammortizzatori sono adeguati, una forte decentralizzazione della contrattazione salariale può migliorare, insieme, l’allocazione di mercato delle risorse, la velocità di crescita dei redditi e la giustezza della loro distribuzione. Una giustezza che deve riflettere la crescente importanza e diversità delle competenze e delle abilità dei singoli lavoratori.

È stato calcolato, in molti Paesi, che una parte considerevole dell’aumento della disuguaglianza dei redditi dell’ultimo decennio è dovuta alle retribuzioni fuori misura dei dirigenti di imprese e banche. Non è demagogico sperare che la crisi sia occasione per rimediare alle anomalie di sistemi di fissazione dei compensi che, oltre a eccessive disparità distributive, hanno creato incentivi per comportamenti manageriali arrischiati e inopportuni. I rimedi vanno decisi soprattutto all’interno delle imprese, anche se la politica può facilitarne e sollecitarne l’adozione.

Il contenimento delle disparità dei redditi e delle condizioni di vita, oltre al risultato di provvedimenti specifici, è prezioso sottoprodotto di diverse altre politiche utili a gestire la crisi. Esse non sono contro i meccanismi di mercato ma, anzi, li rendono più fluidi e produttivi. Le politiche in difesa della concorrenza, contro i privilegi oligopolistici e i protezionismi corporativi, rafforzano i mercati e hanno ovvie implicazioni di giustizia distributiva. Parlare oggi di liberalizzazioni può apparire stonato: eppure si tratta di provvedimenti che, oltre a rilanciare la crescita, servono proprio a far giustizia. Il miglioramento dell’efficienza e la riduzione degli sprechi nella produzione dei servizi pubblici, dalle scuole alla sanità alla giustizia al verde delle città, beneficia molto di più i meno fortunati e i più deboli. Il drastico ridimensionamento del numero e dei privilegi della casta politica libera risorse per la crescita dei mercati e fa giustizia, nel senso più elementare del termine.

Ha dunque ragione il Presidente: non c’è affatto contrasto fra le politiche per riprendere a crescere e l’attenzione alla giustizia distributiva. Il nostro Paese, come tanti altri, può svincolarsi meglio dalla morsa della crisi se ha anche l’ambizione di uscirne più giusto. (Beh, buona giornata).

franco.bruni@unibocconi.it

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Affrontare la crisi economica oltre il mantra dell’ottimismo.

La scienza della felicità nell’anno più buio.
di TIMOTHY GARTON ASH, da repubblica.it
Buon Anno? State scherzando, vero? Il 2009 inizierà con lamenti che col passare del tempo non potranno che aggravarsi. Milioni di persone in tutto il mondo sono già state licenziate, per colpa di questa prima crisi davvero globalizzata del capitalismo, e decine di milioni di altre resteranno molto presto anch’ esse senza lavoro. Quanti tra noi saranno abbastanza fortunati da continuare ad avere un lavoro, si sentiranno più poveri e meno sicuri. Per festeggiare il suo Premio Nobel per l’ economia, Paul Krugman ci garantisce “mesi di inferno economico”. Grazie, Paul, e buon anno anche a te.
I problemi economici esacerberanno le tensioni politiche ovunque. Malgrado tutto, le voci che circolano sulla morte dell’ economia sono però esagerate: io non credo che il 2009 sarà per il capitalismo ciò che il 1989 è stato per il Comunismo. Forse, il 1 gennaio 2010 sarò costretto a rimangiarmi queste parole: fare previsioni è tempo sprecato. (Nell’ almanacco di previsioni e considerazioni dell’ Economist “The World 2009” è stato pubblicato un coraggioso e divertente articoletto intitolato “Per quanto riguarda il 2008, scusateci”).
Ora che inizia un nuovo anno, non vedo però un altro avversario sistemico all’ orizzonte, come invece c’ era – o per lo meno pareva esserci – nei giorni del Comunismo sovietico antecedenti al 1989. Il modello di socialismo alla Hugo Chavez è dipendente in tutto e per tutto dai capitalisti che acquistano il suo petrolio, mentre se vi appare appetibile il modello nordcoreano fareste bene a farvi visitare da un medico.
Sarebbe nondimeno un errore marchiano se in occasione del loro ventesimo anniversario non si rivedessero e riesaminassero le premesse di quel tipo di capitalismo del libero mercato – talora denominato “neoliberal” – che a partire dal 1989 appare trionfare da due decenni.
Prima di tutto e palesemente l’ equilibrio tra Stato e mercato, pubblico e privato, mano visibile e mano invisibile. Anche prima del tracollo del settembre scorso, Barack Obama aveva cercato di esortare i suoi compatrioti ad accettare l’ idea che il governo non sempre è una parolaccia.
Nei mesi successivi si è assistito a un plateale spostamento verso un più importante ruolo dello Stato, di solito con iniziative di improvvisazione governativa a dir poco disperate, in altri casi (come nella Londra di Gordon Brown) ideologicamente legittimate come Keynesianesimo, e in altri ancora (per esempio nella Washington di George Bush), come puro e semplice Disperazionismo.
Quanto di questo spostamento sia temporaneo e quanto sia invece destinato a durare più a lungo non potremo saperlo entro la fine di quest’ anno: quantunque la maggior parte di questo spostamento stia attualmente avendo luogo in direzione di un rafforzamento della mano visibile del governo, potrebbe anche non continuare a essere così.
Un illustre riformista economico cinese poco tempo fa mi ha detto che la crisi finanziaria asiatica di dieci anni fa ha catalizzato una riforma maggiormente orientata al mercato dell’ economia cinese, e che anche questa farà altrettanto. Se ha ragione, si potrebbe arrivare a ipotizzare addirittura una sorta di convergenza globale su qualche variante di economia di mercato sociale in stile europeo, con Stati Uniti e Cina più vicini rispetto alle attuali posizioni in contrasto tra loro. è importante tuttavia tener presente che ho usato le seguenti parole: “qualche variante”.
Anche in Europa, infatti, ci sono notevoli varianti tra le combinazioni possibili di Stato e mercato e il modo col quale esse funzionano. Ciò che si rivela adeguato a un piccolo Paese del Nord, può non essere efficace per un grande Paese del Sud. Non esiste una formula universale. Ciò che conta davvero è che cosa va bene per voi.
Una seconda considerazione per il 2009 riguarda ciò che serve a una crescita sostenibile, verde, a bassa emissione di anidride carbonica, indispensabile a prevenire l’ imminente punto di non ritorno del riscaldamento globale. In discussione, adesso, ci sono due cose: quanta crescita e quale tipo di crescita. Ancora una volta, Obama sta cercando di individuare le chance che questa crisi offre, orientando parte del suo incentivo fiscale keynesiano verso investimenti in energie alternative. Nel suo complesso, però, verosimilmente il 2009 pare prospettarsi come un altro pessimo anno, dal punto di vista della lotta al riscaldamento globale. Orientarsi verso un’ economia sostenibile, a ridotta emissione di anidride carbonica, impone sia alle aziende sia ai governi di accollarsi spese a breve termine per benefici a lungo termine.
Quando le aziende e i governi si ritrovano con le spalle al muro, di solito fanno il contrario.
Quasi certamente, il meglio che possiamo augurarci è che i nostri leader stiano alla larga dal nazionalismo economico-rubamazzo degli anni Trenta: per consentir loro di andare oltre, si renderà inevitabile uno spostamento più incisivo delle aspettative nei loro confronti da parte degli elettori e degli azionisti. Pertanto fino a quando noi, la popolazione, saremo guidati nelle nostre scelte finanziarie e politiche dalla stella polare dei profitti economici a medio termine, non dovremmo biasimare i nostri leader di adoperarsi per darci ciò che chiediamo.
Una terza, essenziale presa di coscienza ci obbliga dunque a guardare alle nostre personali stelle polari: quanti più soldi e “cose materiali” ci occorrono? Siamo sicuri che chi si accontenta gode? (“No”, dicono all’ unisono i pubblicitari). Potremmo farcela con meno? Che cosa vi sta davvero a cuore? Che cosa contribuisce in misura maggiore alla vostra felicità personale? Che lo crediate o meno, esiste ora un intero sottocampo di studi accademici sulla felicità: l’ economista Richard Laynard ha scritto un libro molto interessante che si intitola “Happiness, Lessons from a New Science”.
Sarà questa ciò di cui parlava Nietzsche, alludendo alla “gaia scienza”? Uno studioso olandese, Ruut Veenhoven, ha creato un database mondiale della felicità che annovera classifiche nazionali: ha illustrato i risultati delle sue ricerche su un sito web canadese in un articolo intitolato “Il Canada supera gli Stati Uniti nell’ indice di felicità globale”, nel quale ovviamente è la vittoria sugli Usa a contribuire in buona parte alla felicità materiale dei canadesi.
Una classifica diversa e una “mappa mondiale della felicità” a quanto pare sono state messe a punto dall’ università britannica di Leicester. La Danimarca si colloca in entrambe al top della classifica. Infine, esiste anche un “Giornale di studi sulla felicità” (il cui editore molto verosimilmente se la ride per tutto il tragitto che compie fino alla banca).
Indipendentemente da ciò che pensate del valore sostanziale di questa roba – scusatemi, di questa scienza – potete trascorrere tranquillamente un’ oretta a navigare in Rete per leggerne di più e chiedervi quanto di ciò sia inventato di sana pianta. Tornando a questioni più serie, invece, alcune scelte effettivamente ricadono sui singoli cittadini della middle-class dei Paesi più ricchi. Deve essere chiaro che il pianeta non può tollerare che 6,7 miliardi di persone vivano come vive oggi la middle-class in America settentrionale e in Europa occidentale, per non parlare delle previsioni entro la metà del secolo di arrivare a nove miliardi di abitanti del pianeta: o una più ampia parte del genere umano dovrà essere escluso dai benefici del benessere, o il nostro stile di vita dovrà necessariamente cambiare.
Il mantra col quale la maggior parte dei nostri leader politici e del mondo degli affari entra nel 2009 è “torniamo alla crescita economica, costi quel che costi”. Similmente all’ equipaggio di una barca in piena tempesta, si ripropongono di tenerla a galla e in moto sui marosi, senza curarsi di quale sia la rotta da seguire, ma mentre ci dirigiamo verso l’ epicentro della tempesta, che ancora non ci ha colpiti, dovremmo dare enorme importanza alla rotta che seguiamo.
Ciò rende inevitabile una leadership di alto livello, ma anche cittadini in grado di esigere una tale leadership. Per quanto mi riguarda, sarei felice di apportare al mio stile di vita i cambiamenti che dovessero rendersi necessari? Quasi sicuramente no, ma quanto meno mi piacerebbe sapere quali dovrebbero essere. (Beh, buona giornata)
Traduzione di Anna Bissanti
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Attualità Popoli e politiche

Gaza: quando i nemici non sono due eserciti, ma due popoli.

 
Hamas, dilemma italiano
 
 
RICCARDO BARENGHI da lastampa.it
Se fossi un ebreo che vive a Gerusalemme non so se tratterei con Hamas, e se fossi un palestinese che vive a Gaza non so se tratterei con Israele. Forse, se fossi l’uno farei la guerra all’altro, e viceversa. Anche sapendo che quella guerra non porterebbe a nulla, anzi peggio: porterebbe, come ha portato finora e continuerà a portare nel futuro, ad altre guerre, morti, feriti, distruzioni, odio su odio. E però, neanche i periodi di pace, o meglio di tregua che si sono succeduti in questi decenni hanno mai portato a una soluzione definitiva, decente, concordata, accettabile per tutti. C’è sempre stato qualcuno, da una parte o dall’altra, che ha ricominciato a sparare, ad ammazzare ammazzandosi, a bombardare postazioni militari e case di civili. E così via, in un circolo infernale dal quale non s’è mai usciti nonostante i tentativi di alcuni leader (Rabin e Arafat) di farla finita con la guerra infinita. E allora, che fare?

Facile parlare da lontano, schierarsi, criticare quello o quell’altro, invocare il cessate il fuoco. Facile, e sacrosanto, sostenere che Israele ha diritto a vivere in pace senza subire una minaccia perenne che gli pende sulla testa dall’interno dei Territori palestinesi e dai Paesi arabi che lo circondano. Facile, e sacrosanto, battersi perché i palestinesi abbiano la loro terra dove possano circolare liberamente, lavorare, insomma vivere senza oppressioni militari. Facile ma inutile finché non saranno i protagonisti dello scontro a decidere se vogliono continuare all’infinito a scannarsi oppure tentare un’altra strada.

E qui nasce la questione che in queste ore fa discutere il mondo: trattare o non trattare con Hamas. In altre parole: Israele deve accettare che Hamas sia anche un interlocutore politico oppure è solo un nemico da abbattere con la forza, costi quel che costi? Il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini, propende per la seconda ipotesi, seppur invocando la cessazione dei raid. Secondo lui, Hamas è un’organizzazione terroristica, quindi nessuna trattativa. Diversa l’opinione del suo predecessore, Massimo D’Alema, il quale ricorda che Hamas ha vinto le elezioni, che gode di consenso tra i palestinesi, che è un’organizzazione non solo militare ma anche sociale. Di conseguenza, «non ci si può illudere di arrivare a una pace senza negoziare con Hamas». (Analogo discorso fece in Libano, e la sua foto a braccetto col ministro Hezbollah in mezzo alle macerie provocò parecchie polemiche).

Si tratta di un problema che il mondo politico ha dovuto affrontare decine, centinaia di volte dall’antichità ai giorni nostri. Dando naturalmente risposte diverse caso per caso, perché è ovvio che se uno dei due contendenti ha la certezza di sconfiggere militarmente il nemico, procede su quella strada. E alla fine, dopo averlo battuto, lo costringe ad arrendersi. Giulio Cesare lo fece con i Galli, gli alleati lo fecero con Hitler e Mussolini, gli algerini con i francesi, i vietnamiti con gli americani. Può essere una soluzione, lo è stata nel passato.

Ma non può esserlo oggi. Per la semplice ragione che nessuno può cacciare via il nemico, perché il nemico non è questo o quel governo, questo o quel dittatore, non è un esercito invasore che si può costringere al ritiro. Ma è un popolo, anzi due, che vivono uno accanto all’altro, sullo stesso territorio, nel medesimo Paese. E nessun cittadino ebreo accetterà mai di vivere una vita nel terrore, come nessun palestinese accetterà mai di vivere sotto un’umiliazione perenne. E più sono umiliati, bombardati, uccisi, più i palestinesi diventano integralisti, terroristi, cattivi. Hamas non è uno scherzo del destino, una coincidenza, un fungo spuntato per caso. È il prodotto di una storia provocata da entrambi i nemici. Nessuno è così stupido da sostenere che la colpa sia solo di Israele, degli americani o di tutto l’Occidente. La colpa è anche di quei palestinesi che si sono arresi all’odio, quindi all’integralismo e infine al terrorismo. E che si sono via via moltiplicati, per dieci, cento, mille. Ma oramai è evidente che per ogni miliziano, dirigente, capo militare o semplice simpatizzante di Hamas ucciso (per non parlare dei civili) ce n’è un altro o due o tre pronti a prendere il suo posto. Questo è il circolo mostruoso che si può spezzare forse – forse – solo trattando col nemico: vent’anni fa si chiamava Arafat, oggi si chiama Hamas. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza/3 (Fine).

di Pino Cabras da megachip.info

Nelle indecenti corrispondenze di molti giornali e telegiornali si asseconda il concetto che l’incursione delle forze armate israeliane servirà a distruggere la percezione di utilità di Hamas nella popolazione civile. Ridurre tutti alla disperazione per rovesciare Hamas, insomma. Di fronte a questo intendimento, ci basta rispolverare la definizione ufficiale di “terrorismo” adottata dal Dipartimento della Difesa Usa: «Il terrorismo è l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza per indurre paura, intesa a coartare o intimidire stati o società nonché al perseguimento di obiettivi che sono generalmente politici, religiosi e ideologici».

Non vi piace? Volete quella dell’Fbi? Eccola: «Il terrorismo è l’uso illegale della forza o della violenza a danno di persone o proprietà per intimidire o coartare un governo, la popolazione civile o un loro segmento, seguendo obiettivi politici o sociali».

Definizioni troppo americane? Torniamo in Europa, allora. La Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio Europeo il 13 giugno 2002 lo definiva come «ogni atto terroristico commesso, da uno o più individui, contro uno o più Stati, intenzionalmente, o tale da arrecare pregiudizio a un’organizzazione internazionale o a uno Stato. Deve trattarsi di atti terroristici commessi con l’intenzione di minacciare la popolazione e di ledere gravemente o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di uno Stato (omicidi, lesioni personali, cattura di ostaggi, ricatti, fabbricazione d’armi, attentati fatti eseguire da terzi, minaccia di porre in atto simili azioni …).».

Ecco, sfumiamo i termini statuali dei soggetti, andiamo agli atti concreti. Siamo lì. Siamo nell’ambito di fattispecie che definiscono forme di azione violenta e illegale, tali da mettere in pericolo la popolazione civile, e quindi indurre una condizione di “terrore” diffuso così da ottenere alcuni risultati di tipo politico.
Possiamo certo riconoscere questa definizione anche a carico di chi lancia i razzi Kassam, che lo spudorato corrispondente del Tg1 definisce missili, ma che sono poco più che delle catapulte, dagli effetti drammatici ma strategicamente trascurabili. Ma perché non riconoscerla a carico di chi invece – tranne le sue bombe atomiche – ha usato sinora  tutto il resto di un armamentario spaventoso e senza proporzione?

Questa critica dura e senza sconti alle classi dirigenti israeliane e ai loro alleati significa avere la volontà o la velleità di distruggere Israele? No, è la semplice opposizione alla ‘normale’ e spregiudicata politica di potenza di uno Stato guerresco contemporaneo. Uno Stato che – al pari degli altri Stati – non deve essere considerato in odore di santità né pervaso da fumi demoniaci, ma semplicemente valutato con tutto l’arsenale della critica razionale, per quello che fa e che progetta, per il potere che ha e per lo scontro che il suo potere genera.

Relativizziamo, anche in questo caso.
Il processo di costruzione di Israele come nazione non si è risparmiato indicibili crudeltà e ingiustizie, ma è stato così anche per gli Stati-nazione più forti che conosciamo. La Francia che passa per guerre civili e religiose e accresce la sua economia a spese delle colonie, la Spagna della “limpieza de la sangre” e della Conquista, gli Stati Uniti con la Nuova Frontiera che schiaccia i nativi, la Russia che edifica un impero con impressionanti democidi, la Germania che prende le misure del mondo con enormi massacri e genocidi, la Cina che calpesta le minoranze, la stessa nostra Italia che si unifica con grandi tributi di sangue e dove Cristo è più o meno sempre fermo a Eboli. Dietro tante epopee nazionali c’è un terribile bagno di sangue, che dovrebbe spingere a non demonizzare, ma semplicemente a riconoscere il crimine quando esso si manifesta con tanta capacità di devastazione. In questo caso, oltre al diritto alla vita delle persone, oltre al diritto del popolo palestinese, oltre al diritto internazionale, è in gioco la pace a livello globale, per l’insieme di relazioni che si disputano nello scenario mediorientale. Cui si aggiunge la pericolosissima tradizionale unilateralità del governo israeliano, ancora una volta “pares non recognoscens”, ora in una polveriera più sconvolta.
E, per come si stanno comportando i mass media, è in gioco la possibilità di raccontare ancora delle verità sulla barbarie.

Denunciare la strage di Gaza con una capacità di esecrazione equivalente a quella consumata per la strage di Mumbai. Si può?
Contrastare subito le aggressioni, adesso, non con invisibili autocritiche “a babbo morto”, come è avvenuto per l’aggressione della Georgia all’Ossetia del Sud. Si può?
Non lasciar passare in cavalleria terrificanti crimini di guerra, come si è fatto per Bush che candidamente ha ammesso che la devastazione dell’Iraq è nata da falsi pretesti. Si può? Si può farlo ora?
Raccontare che i razzi Kassam di questi giorni non c’entrano nulla, perché anche «Haaretz» riferisce che l’attacco era pianificato da mesi e mesi. Si può?
Se non si fa disinformazione, si può. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza/2.(Continua).

di Pino Cabras da megachip.info

Pur essendo la parola ‘terrorismo’ una delle più usate nella politica degli ultimi anni, la sua definizione non ha affatto interpretazioni univoche. In molte occasioni i vertici di capi di stato e di governo hanno trovato difficoltà quasi insormontabili quando hanno cercato una definizione minima comune. Se si ragiona un po’ sulla questione, si scoprono tante sfumature che sottostanno alle definizioni polimorfe di un fenomeno sfuggente. A stento troverete fattispecie ben delineate, mentre vi imbatterete più spesso in parole che si adatterebbero tranquillamente alla descrizione di certi atti di guerra e di spionaggio che invece sono coperti da una qualche vernice di legalità.

Dimenticate per un minuto i bersagli di solito segnalati da politici e mass media, scordate l’iconografia di un gruppo di kamikaze che si auto-organizza. Troppo facile.
Provate invece a pensare a certe azioni fatte con la copertura di eserciti, Stati, organizzazioni non governative, servizi, multinazionali della security imparentate con il mondo dello spionaggio. Saranno diversi i gradi di visibilità della copertura dei governi, ma vedrete che quelle definizioni tornano indietro come un boomerang.

La prima grande ondata di attacchi aerei in Iraq nel 2003 venne chiamata «Shock and Awe». Non è facile tradurre questa espressione in due parole, per la densità di richiami che contiene. Normalmente i giornali italiani tradussero “colpisci e terrorizza”, “colpisci e sgomenta”, per mantenere la forza icastica dell’espressione e approssimarsi comunque al significato. Ma è interessante perdere un po’ dell’effetto per cogliere i significati di un’altra possibile traduzione: “sconvolgi e induci in soggezione”. Si coglie così non tanto la furia cieca del fanatico rozzo, quanto la risolutezza metallica del fanatico freddo, che distilla la ‘strategia della tensione’ in un blitzkrieg. Quante volte ritorna l’espressione ‘Terrorismo di Stato’ e di ‘Stato terrorista’, nella Grozny annientata dai carri armati russi, nel Libano devastato dall’aviazione israeliana, nelle lotte di potere in Pakistan, nella memoria degli anni di piombo italiani? A ogni buon conto, l’organo neocon italiano, «Il Foglio», ha plaudito anche stavolta in prima pagina alla rivendicata “strategia shock and awe”.

Cos’è dunque il terrorismo? Il terrorismo non è solo una questione di terroristi. In un certo senso ce lo dicono anche le Convenzioni di Ginevra. Anche se non definiscono la nozione di “terrorismo”, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si riferiscono a “misure di terrorismo” e ad “atti di terrorismo”. L’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra in modo esplicito vieta che la popolazione civile venga fatta oggetto di «pene collettive, come pure [di] qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo». La vicenda di Gaza è un caso lampante di pena collettiva inflitta alla popolazione. E gli ultimatum che dicono “stiamo per bombardarvi”, lungi dal significare “vogliamo salvarvi la vita, spostatevi” sono atti d’intimidazione e induzione del terrore. Come stupirsi delle parole non prevenute di Richard Falk, pronunciate nel 2007, quando ancora l’assedio di Gaza non era giunto alle punte di crudeltà più recenti? Falk dichiarava: «È forse un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi alle pratiche di atrocità collettiva dei nazisti? Non credo. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo sconvolgente un’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre una comunità umana nella sua interezza a condizioni di massima crudeltà che ne mettono in pericolo la vita. La suggestione che questo modello di comportamento sia un olocausto in erba rappresenta un appello disperatissimo ai governi del mondo e all’opinione pubblica internazionale affinché agiscano d’urgenza per impedire che queste attuali tendenze al genocidio finiscano in una tragedia collettiva».

L’articolo 4 del Secondo Protocollo Aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra stabilisce che contro tutte «le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità […] siano proibiti in ogni tempo e in ogni luogo […] atti di terrorismo». Ancora una volta, senza arrivare alle definizioni “teologiche” di terrorismo, quelle della Guerra al Terrorismo per intenderci, il diritto internazionale ha cercato di codificare fattispecie precise. In entrambi i disposti delle Convenzioni di Ginevra si enfatizza che né singoli individui né la popolazione civile in quanto tale possono essere fatti oggetto di punizioni collettive che, fra l’altro, indurrebbero in essa una condizione di terrore.

Questo concetto si rafforza nel Primo Protocollo Aggiuntivo, laddove, all’articolo 51, è stabilito che «sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi» e che «sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile.»
Qualche azzeccagarbugli del diritto umanitario proverà a confondere le acque, giocando fra le definizioni di politica interna e internazionale degli interventi militari. Ma il disposto ricompare quasi alla lettera nel Secondo Protocollo Aggiuntivo: la qualificazione del conflitto come internazionale o interno non ha grande rilevanza.

La strage di Gaza è una misura di terrorismo. Un atto di terrorismo. Affermare che si volevano colpire i soldati di Hamas è una giustificazione sottile come la carta velina. I poveri poliziotti massacrati nel giorno del loro giuramento non erano certo persone che “partecipano direttamente alle ostilità”. Erano parte di una fragile infrastruttura di sicurezza interna del territorio. Fragile come il miraggio del misero stipendio– cosa rara in un luogo in cui ormai tutti sono disoccupati – che forse li allontanava dallo spettro della denutrizione toccata in sorte ai loro connazionali. In tutto e per tutto vittime civili anche i poliziotti morti, come i bambini morti nelle macerie delle scuole.

Che l’obiettivo fosse distruggere qualsiasi dimensione civile dei territori, lo dimostra in modo flagrante la disintegrazione dell’Università. Che si aggiunge alle devastazioni inflitte anni addietro a tutte le infrastrutture palestinesi. Sono rimasti i forni, senza elettricità e senza pane. (Beh, buona giornata)

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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza.(Continua).

di Pino Cabras – Megachip.info

Nei giorni dell’atroce strage di Gaza l’orrore si condensa inevitabilmente sulle immagini e le voci delle vittime. Tanti piccoli tasselli che non riescono a ricomporre ancora il quadro della tragedia. Capire e riflettere in mezzo a tanta sciagura è difficile. Ma dobbiamo farlo, per ricostruire i fatti e il contesto.

Dopo anni di occupazione, l’11 settembre 2005, l’esercito israeliano ammainò la bandiera a Gaza, non appena fu completato il rapido sgombero delle colonie ebraiche sulla Striscia, troppo costose da tenere. Lunghe colonne di mezzi militari si allontanavano. Era il disimpegno unilaterale di Ariel Sharon: nessun riconoscimento politico che mettesse alla pari gli interlocutori palestinesi. Gli israeliani salutavano, ma non se ne andavano. Il mare e il cielo erano interamente sotto controllo israeliano. E che controllo.

In mare, la misera marineria palestinese non aveva più diritto a pescare nemmeno sulla battigia. Nessun molo funzionante, nemmeno per commerciare un po’ di derrate alimentari fresche.

In cielo, nel corso degli ultimi tre anni non si contano le azioni di bombardamento. In cielo, soprattutto, i jet con la stella di David hanno volato di proposito e di continuo a velocità supersonica, specie di notte, per creare insopportabili rumori. Un trauma senza posa che non ha risparmiato i bambini.

In terra, tutto il confine con Israele era una barriera chiusa e impenetrabile. Non bastava lo sfiato esiguo del confine con l’Egitto a trasformare questo territorio in qualcosa di diverso da una prigione. Serrato in via definitiva il passaggio di Karni, da cui potevano entrare le importazioni palestinesi sbarcate nel vicinissimo porto israeliano di Ashdod, pochi chilometri a nord, i palestinesi dovevano affidarsi ai porti egiziani di Port Said o Alessandria, a 200 chilometri l’uno, a 400 l’altro, con costi insostenibili per una popolazione già stremata. Questa era Gaza resa libera. La più grande prigione del mondo, un popolo intero, un milione e mezzo di persone. E più di ogni altra prigione, piena di innocenti.

Quando nel 2005 ci fu il “ritiro” unilaterale, uno sguardo spassionato alle circostanze avrebbe permesso di capire al volo che quello non era un refolo di speranza, ma la base per un aggravarsi della situazione. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».

Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo. Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del “Movimento di Resistenza Islamico”. Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.

Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.

Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese:  «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).
Weissglass in fondo è uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato… [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.

I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.
Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui è ormai vietato entrare in Terra Santa per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Al solito, di fronte a vicende di guerra, i media occidentali più importanti manipolano pesantemente le notizie. Sono complici di quelle classi dirigenti che – dopo l’11 settembre  – hanno fatto di tutto per distruggere un ordinamento giuridico internazionale che ammetteva norme non basate sul solo diritto di potenza, inquinare i punti di riferimento concettuali per la definizione di ciò che è aggressione o tirannia o resistenza, mentre potenti interessi imperialistici condizionano l’economia – vicina a un baratro finanziario – entro la gabbia delle priorità militari. Gli Stati Uniti non stanno sollevando alcuna obiezione, rispetto all’ennesima azione scellerata del governo israeliano. Ma anche le voci europee sono flebilissime.

Ernesto Balducci, quando nel 1991 scorreva il bollettino delle vittime nella Guerra del Golfo notava che a fronte di qualche centinaio di americani, c’erano centinaia di migliaia di morti iracheni: non più una guerra codificata dalla ragione e dal diritto, ma una strage. Credo che anche oggi la parola strage sia la più adatta a descrivere la scena di Gaza. Un’immane strage.
Fra i responsabili dell’eccidio c’è il ministro della difesa israeliano, l’ex premier Ehud Barak. Giustifica anche lui tutta questa ferocia pianificata in nome della lotta al terrorismo. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Pubblicità e mass media

La fiducia delle imprese italiane è ai minimi storici.

Dopo il crollo dei livelli occupazionali e il crollo dei consumi, ecco che il crollo della fiducia delle imprese arriva a coronare lo sconfortante quadro economico di fine anno. Secondo l’ ISAE Istituto di studi e analisi economiche (*) la fiducia delle imprese crolla ancora a dicembre e scende ai minimi storici. E vengono confermate anche le difficoltà di accesso al credito, emerse già a novembre: l’indice della fiducia delle imprese cala da 71,6 a 66,6, «attestandosi sui minimi storici della rilevazione», come recita il rapporto ISAE.

Dall’inchiesta emerge un forte calo sia dei giudizi sul livello corrente della domanda sia delle attese a breve termine sulla produzione, mentre tornano ad accumularsi le giacenze di prodotti finiti. La crisi, spiega l’ISAE, si estende a tutti i principali settori produttivi: l’indice scende infatti da 65,7 a 62 nei beni d’investimento, da 82,5 a 78,9 in quelli di consumo e da 66,3 a 60,7 negli intermedi.

Su base territoriale, l’indice scende da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorano anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese confermano le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, niente affatto compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali, frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella libertà di stampa?

La pubblicità vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori. Beh, buona giornata.

 

(*)L’ISAE, Istituto di studi e analisi economica  è un ente pubblico di ricerca che svolge principalmente analisi e studi a supporto delle decisioni di politica economica e sociale del Governo, del Parlamento e delle Pubbliche Amministrazioni. L’ISAE effettua, anche attraverso accordi e convenzioni con soggetti pubblici e privati, indagini presso imprese e famiglie, previsioni macroeconomiche, analisi nazionali ed internazionali e studi di macro e microeconomia della finanza pubblica. Vengono esaminate inoltre le politiche economiche di regolamentazione e le tematiche ambientali.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi economica: una volta l’operaio voleva il figlio dottore, oggi anche il dottore ha il figlio precario.

L’INCHIESTA/ Il futuro impossibile degli under 35
Tre milioni di lavoratori a termine senza tutele

Giovani precari vittime predestinate
generazione a rischio per la crisi

Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che adesso
stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare
di MAURIZIO RICCI da repubblica.it

ROMA – “Una vita senza futuro, senza progetti. Del resto, chi si può permettere dei progetti, quando non puoi comprare un mobile a rate o fare un mutuo per la casa? Sei appesa al nulla”. Giovanna, quarantenne, precaria all’ufficio cassa di un ospedale abruzzese, campa da dodici anni di proroghe di tre, sei mesi del contratto: il presente le offre molto poco. Ma è molto, molto meglio del futuro, che è diventato un incubo.

L’incubo della tagliola: “Il contratto scade a fine gennaio. Chi sa cosa succederà? Io ho paura”. Gianluca, 29 anni, laureato in Scienze della comunicazione, tre anni nel call center di una grande azienda, il contratto l’ha già perso. Scade a fine dicembre e sa già che non glielo rinnoveranno. “Cosa faccio? Torno dai miei. Non ne ho nessuna voglia e la sento come una sconfitta. Ma non posso stare in mezzo alla strada. E poi? Boh. Ho provato a chiedere in giro, ma i miei amici stanno come me”.

La crisi economica, la recessione, stanno arrivando in queste settimane. Ma questa non è una crisi come le altre che l’hanno preceduta. E’ diversa, perché ha delle vittime predestinate. I sindacati lanciano un allarme a tutto campo. La cassa integrazione è cresciuta del 25% questa estate. In Lombardia è raddoppiata. I posti di lavoro a rischio, nei prossimi due anni, sono 900 mila solo nell’industria. Compresi commercio e servizi, potrebbero arrivare a un milione e mezzo.

Sono cifre enormi per un paese con 17 milioni di lavoratori dipendenti. Ma questa è la parte forte del mercato del lavoro, protetta da sussidi e garanzie che attutiscono l’impatto del taglio dei posti di lavoro. La mattanza dell’occupazione comincerà altrove, nella parte più debole ed esposta delle maestranze. Le vittime predestinate sono gli apprendisti, collaboratori, meglio noti come cococò, somministrati, interinali, a tempo determinato. L’esercito dei tre milioni di precari, che hanno monopolizzato il mercato del lavoro degli ultimi anni e per i quali non è necessario il licenziamento o l’anticamera della cassa integrazione: basta non rinnovare il contratto.

Perché questa è la prima crisi dell’era della flessibilità e tutto sta funzionando come prevedono i manuali. Flessibilità significa che è più facile assumere. Il problema è che, adesso, stiamo vedendo il rovescio della medaglia: è più facile anche licenziare. In teoria ? dicono sempre i manuali ? questo è un bene. Le imprese sono in grado di alleggerire rapidamente i costi, tagliando il personale. Così sgravate, reggono meglio la crisi e, non appena il vento dell’economia girerà, potranno riprendere più velocemente la corsa, tornando ad assumere. La teoria funziona, quando la crisi riguarda un’impresa o un gruppo di imprese. Quando è generale, l’impatto sociale è devastante, perché gente come Giovanna e Gianluca deve riuscire a galleggiare senza salvagente.

I numeri non sono facili da mettere insieme. Nel caso degli interinali (oggi si chiamano somministrati), Ebitemp, l’ente bilaterale per il lavoro temporaneo, calcola che il personale gestito dalle agenzie del lavoro in affitto, fra luglio e settembre sia calato del 7,6%. Soprattutto, sono scese di oltre il 21% le richieste di personale. Stefano Sacchi, Fabio Berton, Matteo Richiardi, in un articolo per lavoce.info stimano che solo metà degli interinali abbia qualche forma di protezione, quando resta senza lavoro.

Questa percentuale scende sotto il 40% per il milione e mezzo di lavoratori a tempo determinato: oltre 600 mila dipendenti a contratto rischia di restare in mezzo alla strada. Lo stesso vale per mezzo milione di cococò. In totale, oltre un milione di persone, per cui la crisi significa solo un buco nero. “Senza indennità, senza pensione, senza liquidazione: se non mi rinnovano il contratto, come mangio il prossimo mese” si domanda angosciata Giovanna?

Il momento della verità arriverà nei prossimi giorni, a spegnere, per molti, il Natale. Un precario su dieci balla, infatti, proprio adesso, sulla corda. Dicembre è un mese come tutti gli altri, ma, a fine anno, per motivi burocratici, viene a scadenza il 40% in più dei contratti, rispetto agli altri mesi. Sacchi e i suoi colleghi hanno calcolato che, il 31 dicembre, oltre 300 mila precari, sui 3 milioni totali, si troveranno a rinnovare i loro contratti: 193 mila tempi determinati, 10 mila apprendisti, 16 mila interinali, 64 mila cococò. In tempi normali, l’84% degli interinali e il 50% dei collaboratori coordinati ottiene automaticamente il rinnovo. Ma questi non sono tempi normali. Ancora: in tempi normali, un interinale aspetta 9 mesi per trovare un nuovo posto, un cococò anche 19. Ma ora? “Boh” come dice Gianluca.

Questa è una crisi diversa dalle altre perché non colpisce, come avviene di solito, alcuni settori, alcune categorie più di altre. Questa crisi colpisce una classe di età, come ai tempi del militare. E’ la crisi dei “bamboccioni”, per dirla con Padoa-Schioppa. O, meglio, di quelli che, in questi anni, hanno trovato un lavoro. E’ la crisi dei giovani, perché è la crisi dei precari e il precariato è l’unica forma di lavoro che i giovani hanno trovato. L’interinale tipo ha 32 anni. Uno su due ha meno di 30 anni. Se la crisi sarà dura come dicono, un’intera generazione rischia di essere ributtata indietro, espulsa dal mercato del lavoro.

In affitto come interinali o somministrati, collaboratori coordinati e continuativi o a progetto, a tempo determinato, questi, e non altri, sono i lavori che hanno trovato ragazzi e ragazze usciti, negli ultimi anni, dalla scuola. “Almeno due terzi dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro ? dice Sacchi ? in questi anni sono avvenuti con contratti atipici”. All’Istat sono appena più prudenti: “sia nel 2006, che nel 2007 ? spiega Mario Albisinni ? il 45% delle nuove assunzioni è stato a carattere temporaneo”.

I numeri, qui, aiutano a raccontare la storia di questi anni. Fra il secondo trimestre del 2004 e il secondo trimestre del 2008, gli occupati sono aumentati del 5% e, fra questi, i lavoratori dipendenti dell’8%. Quanti, di questi ultimi, con un contratto a tempo indeterminato, di quelli normali, con pensione, Cig e liquidazione? Ci sono state oltre 800 mila assunzioni di questo tipo: i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti di quasi il 6%. Ma, attenzione, è una faccenda da adulti. Quanti di questi nuovi contratti permanenti riguardano, infatti, giovani under 35? La risposta è che il numero di lavoratori sotto i 35 anni con un contratto a tempo indeterminato è, in realtà, diminuito. I bamboccioni in rotta per la pensione, rispetto a quattro anni fa, sono quasi mezzo milione in meno: un taglio del 9%.

E dove sono finiti? Fra i precari. I lavoratori dipendenti a carattere temporaneo sono cresciuti, negli ultimi quattro anni, da 1 milione 900 mila a quasi due milioni e mezzo. Oltre metà di questo aumento è dovuto agli under 35. Poi c’è poco meno di mezzo milione di cococò, formalmente lavoratori indipendenti, ma, lo dice anche l’Istat, in concreto dipendenti a tutti gli effetti. Tre milioni di precari. Sei su dieci hanno meno di 35 anni. Saranno loro i primi a subire l’impatto di una crisi che, dicono gli economisti, può essere la più grave degli ultimi settant’anni. (Beh, buona giornata).

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La crisi non paga, il Governo non si spende.

da corriere.it

«Il governo riduca le tasse sui redditi da lavoro e pensione»

Cgil: «Retribuzioni ferme nel 2008»

L’aumento delle buste paga azzerato dall’inflazione. E aumenta il divario tra operai e imprenditori

ROMA – Retribuzioni al palo nel 2008: secondo le stime Ires Cgil – che anticipano i dati del rapporto sui salari che saranno diffusi a gennaio – l’anno in corso si chiuderà con una crescita delle buste paga del 3,4%-3,5%, sostanzialmente alla pari con l’andamento del tasso di inflazione. Per il segretario confederale della Cgil e presidente dell’Ires, Agostino Megale, «questo significa retribuzioni ferme».

CALA LA DISPONIBILITA’ REALE – «Le retribuzioni nel 2008 – spiega Megale – chiuderanno sostanzialmente alla pari con il tasso di inflazione: entrambi saranno probabilmente tra il 3,4% e il 3,5%. Questo significa che le retribuzioni saranno più alte solo nominalmente del 2007, ma più basse in termini di disponibilità reale. Nella sostanza ciò significa: retribuzioni ferme».

FORBICE – Non solo. Aumenta la forbice di reddito tra operai-impiegati e imprenditori-liberi professionisti: tra il 2002 e il 2008 le buste paga dei primi hanno fatto registrare una diminuzione di 1.600 euro mentre i redditi dei secondi sono aumentati di 9 mila euro. «Il segno dell’impatto della crisi sulle retribuzioni è evidenziato anche dalla forbice che si è prodotta nell’aumento delle disuguaglianze reali poiché tra il 2002 e il 2008, mentre le famiglie con capofamiglia imprenditore o libero professionista registrano un aumento del reddito di oltre 9 mila euro, le famiglie di impiegati o di operai subiscono una diminuzione di 1.600 euro» afferma Megale. «Ecco perché – continua – continueremo ad insistere affinché ciò che il governo non ha fatto fin qui, lo faccia a partire dal nuovo anno, riducendo le tasse sui redditi da lavoro e pensione in modo tale da poter rilanciare i consumi». (Beh, buona giornata).

 

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Sei mesi per stabilizzare la finanza, due anni per uscire dalla crisi: due appuntamenti che non sono nell’agenda della politica italiana.


di Anna Guaita da ilmessaggero.it
NEW YORK (27 dicembre) – L’economia è destinata a peggiorare, e l’impatto «si sentirà nel mondo intero». Ma se oggi «tutto appare molto cupo, entro un paio d’anni il panorama apparirà più rassicurante». Il premio Nobel per l’economia Michael Spence spiega al Messaggero che ancora moltissimo della crisi «deve essere chiarito», ma aggiunge che una cosa è chiara: «il capitalismo all’americana» che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni «non tornerà com’era», l’economia mondiale sarà più regolamentata, ma anche più sincronizzata e legata da accordi di collaborazione. Spence, che ha vinto il Nobel nel 2001 con Joseph Stiglitz e George Akerlof, è professore di management alla facoltà di Business della Stanford University, e presidente della ”Commissione per la Crescita e lo Sviluppo”.
Professore, lei dice che l’economia peggiorerà.
Cosa raccomanda per farla uscire dalla crisi?
«L’economia peggiorerà perché si è messa in moto una dinamica che non si può arrestare velocemente. Prevedo che il mercato finanziario sarà stabilizzato entro sei mesi, ma l’economia reale richiederà probabilmente un paio d’anni. Non parlerei di una recessione profondissima, ma comunque ci vuole l’intervento dei governi, indispensabile per ridurre la profondità e la lunghezza della crisi».
In che settore vorrebbe questi interventi?
«In qualsiasi settore che produca impiego e reddito, e generi consumo. Senza questi interventi, vedremo una continua riduzione della domanda e del consumo, con ulteriore contrazione dell’impiego».
In Europa ci sono vari Paesi con forti deficit, raccomanda anche ad essi di spendere?
«Bisognerebbe che in Europa si sospendessero temporaneamente le restrizioni sul tetto massimo di deficit. Quelli sono accordi fatti per tempi normali, ma siamo in una stagione eccezionale. E comunque, se i governi non investiranno, registreranno lo stesso un allargamento del deficit, perché la crisi causerà perdita di posti di lavoro, e di conseguenza il gettito fiscale precipiterà».
Si parla molto di ri-regolamentare l’economia. Dove, e quando?
«Nessuno vuole imporre eccessive regolamentazioni, e appesantire gli imprenditori e i consumatori. Ma si è innescata una dinamica di instabilità, e dobbiamo capire che cosa abbia causato questo rischio sistemico. Si pensa alla creazione di uno strumento che sia in grado di ”frenare” in presenza di nuovi rischi. Ma ancora non sappiamo dove dobbiamo agire. Una cosa è certa: il capitalismo american style, che diceva che i mercati si autoregolamentano, non ha funzionato e non gode più della fiducia della gente».
E non sappiamo dove saranno applicate le nuove regolamentazioni?
«Per adesso, il mondo dell’economia, della politica, dello studio, stanno ancora cercando la strada migliore per affrontare la crisi. Ci siamo nel bel mezzo, siamo tentando di reagire a delle dinamiche che cambiano con grande velocità. Solo quando avremo la crisi sotto controllo, quando avremo recuperato un po’ di stabilità, quando il capitale privato ricomincerà a muoversi e si sarà chiarito il mistero del reale valore delle aziende, allora ci dedicheremo tutti a cercare i punti cruciali su cui applicare maggiori controlli».

Professore che mondo verrà fuori da questa crisi?
«Spero un mondo in cui i Paesi abbiano deciso di non corazzarsi per navigare le acque della crisi da soli, ma abbiano accolto il progetto del G20 di Washington, cioè di realizzare un sistema di controllo e regolamentazione coordinato dell’economia mondiale. Un mondo in cui si avrà una visione più aperta dell’importanza dei governi nel prevenire e curare le crisi».
Cosa direbbe a un giovane che deve scegliere il suo futuro?
«Di guardare nel settore delle scienze biomediche, ingegneristiche e ambientali. E nel campo sociale specializzato, per esempio nella scienza del comportamento economico. Ma soprattutto raccomanderei di scegliere qualcosa in cui si creda, e in quello cercare di eccellere». (Beh, buona giornata)

 

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

La crisi economica e il modo migliore per affrontarla.

La crisi come occasione
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo dC) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).

Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.

Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.
Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo – dagli esordi è la tesi dei filosofi – questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.

Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.

Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto – l’illusione – non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.

La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito – essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio – sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.

Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.

Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).
Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La Costituzione, i diritti e l’uguaglianza. Allegato a “I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere”.

Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale ha scritto questo intervento pubblicato su «la Repubblica» del 26 novembre 2008. L’importante riflessione di Zagrebelsky sulla «Costituzione in bilico» è un contributo al mio molto più modesto “I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere”. (Beh, buona giornata).

Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il “regime”, inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è “il” o “un” fascismo; oppure, più in generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc.
Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all’analisi, della demonizzazione politica, funzionale all’isteria e allo scontro.

Ma “regime” è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di “Ancien Régime”, di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista.
Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo. Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da “esiste attualmente un regime” in “il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente”? Che l’Italia viva un’esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste.
Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del ‘48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito.

Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico. Che cosa significa “costituzione in bilico”?

Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell’Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l’esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell’incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento.

I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono.
Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.

Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.

* * *

Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario.

Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli.
Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia.
Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità.
Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi.
Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale.
Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione.
Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione.

Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima (il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.

Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola “politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l’etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l’integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all’uguaglianza.

* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell’uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge “ferrea”.

E’la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell’azione politica.
La costituzione – questa costituzione che assume l’uguaglianza come suo principio essenziale – è in bilico proprio su questo punto.

Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo “clandestini”, quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali, anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino.

Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove chi più ha, più può.
Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.

Analogamente, anche l’organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso. E’una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L’indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata.

Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato. La causa è sempre e solo una: l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del “regime”. Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.

Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i “dispotismi asiatici”, dove tutto sembrava dipendere dall’arbitrio di uno solo, khan, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese.
Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più “orientale” dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni».
Sarà pur vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.

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Attualità Popoli e politiche

I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere.

Giovedì 27 scorso a Milano, al Palazzo delle Stelline, Kerry Kennedy ha presentato la mostra Speak Truth To Power, realizzata dalla Robert F. Kennedy Foundation Europe, con le foto di Eddie Adams, famoso fotoreporter vincitore del Pulitzer.
L’iniziativa, ospitata dal Centro culturale francese, patrocinata dalla Provincia di Milano e sponsorizzata da Altavia è propedeutica a un modulo didattico sui diritti civili nel mondo che farà il giro delle scuole della Lombardia.

Durante il suo intervento, Kerry Kennedy ha detto che anche in Italia esistono problemi di tutela dei diritti civili: nel trattamento dei migranti e i relativi gravi episodi di xenofobia, ma anche sui temi della condizione delle donne, la violenza nei confronti delle quali è statisticamente in aumento nel nostro Paese. Parole sante.

L’elenco delle violazione dei diritti civili in Italia è tuttavia più lungo. A parte il fatto che le donne italiane sono discriminate nei posti di lavoro, a cominciare dalle retribuzioni per arrivare alle possibilità di carriera, l’elenco delle violazioni non può che comprendere i brutti episodi di brutalità poliziesca durante il G8 di Genova, ma anche la violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro, con il suo tristissimo corollario dello stillicidio quotidiano di morti e feriti. Per non parlare della silenziosa discriminazione nei confronti dei diversamente abili che si muovono con enorme difficoltà nelle città, nei luoghi pubblici e privati. Per arrivare alla violazione dei diritti e alla vera e propria discriminazione nei confronti dei lavoratori precari, dei lavoratori costretti al lavoro sommerso, cioè in nero. Per passare all’intolleranza verso i musulmani, verso i nomadi, verso le minoranze etnico-linguistiche.

Insomma, la violazione dei diritti è come un piatto di ciliegie, una tira l’altra. Con il risultato, orribile da dire, di creare una sorta di assuefazione, che genera indifferenza, quel girarsi dall’altra parte tipico di società che hanno perduto la certezza dei diritti, compreso il diritto-dovere di farsi carico, anche individualmente, della solidarietà immediata e contestuale agli episodi discriminatori di qualsiasi tipo.

C’è un’aria cattiva che viene dalla politica, in particolare da quelle forze che per demagogia o per vile compiacenza agli istinti più bassi, predica intolleranza, discriminazione, separazione.

Ecco perché mi ha colpito la notizia dei marinai di Lampedusa che, con l’ausilio della Guardia Costiera di Mazara del Vallo, hanno sentito il dovere di uscire di notte col mare grosso, e con i loro pescherecci hanno tratto in salvo 650 migranti alla deriva sui barconi fatiscenti. La propaganda anti migrazione non gli ha avvelenato né la coscienza né il coraggio di agire a proprio rischio e pericolo. Lo hanno fatto perché sentivano il dovere di farlo. Un esempio da imitare.

Ero presente alla presentazione di Speak Truth To Power, invitato da Altavia ho preso la parola per dire che il messaggio che la Fondazione RFK lanciava con quella importante iniziativa ha due parole chiave: idee e coraggio. Le idee come attitudine a pensare oltre i recinti dell’esistente, coraggio come metodo per affrontare le conseguenze delle proprie idee.
Sono infatti convinto che i cambiamenti si prefigurano quando idee e coraggio trovano una sintesi felice, capace di disegnare un nuovo più promettente perimetro in cui coesistano libertà individuali e quelle collettive: nelle vita, nella società come nella professione e nell’azienda senza libertà di fare e di pensare non ci possono essere significativi successi. Vale per tutti, anche per chi opera nella comunicazione, compresa quella commerciale.

Quando sono uscito dal Palazzo delle Stelline a Milano ho preso un taxi. L’autoradio era sintonizzata sul notiziario di una stazione locale: la notizia di apertura diceva che un dipendente di una nota catena di supermercati si era scazzottato con il suo caporeparto, perché quello si era rifiutato di dargli il permesso di interrompere il servizio, il tempo necessario per andare in bagno.

C’è davvero bisogno di riportare i diritti individuali e collettivi al centro della nostra attenzione, perché è proprio una situazione di merda quella che nega anche il diritto di fare la pipì. Non sentite anche voi forte il dovere dei diritti civili, di cittadinanza, del lavoro, di genere, politici e religiosi? Non fosse altro per non buttare nel cesso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, né la Costituzione della Repubblica italiana. Beh, buona giornata.

Per informazioni su Speak Truth To Power: www.rfkennedyeurope.org.

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