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Attualità Popoli e politiche

” L’esercito israeliano sa benissimo dove trovarmi anche stanotte: sto sopra le ambulanze dell’ospedale Al Quds in Gaza city.”

di Vittorio Arrigoni, Gaza City – il Manifesto, da megachip.info

Dal mare non più i suoi generosi frutti, nulla dell’amore per i suoi flutti che rispecchiano il cielo, solo la morte portata in dote da navi da guerra che arano il suo spettro liquido. Del mare proviamo a fare ancora corridoio salvifico, una breccia su questa terra martoriata, confiscata e imprigionata, stuprata in ogni suo palmo, ridotta ad un cimitero per salme che non trovano riposo. Da qualche giorno anche i funerali sono diventati target di attacchi dell’aereonautica israliana, come se i palestinesi uccisi meritassero un’ulteriore punizione anche da morti.

Se un corridoio umanitario stenta a schiudersi per venire in soccorso a una popolazione ridotta allo stremo delle forze, ci penserà la Spirit of humanity, una delle nostre barche targata Free Gaza Movement. Salpata ieri da Larnaca, Cipro, cercherà di condurre sino al porto di Gaza oltre a tonnellate di medicinali una quarantina fra dottori, infermieri, giornalisti, parlamentari europei, attivisti per i diritti umani, rappresentanti di 17 diverse nazioni.
Esseri veramenti umani, come me, come i tanti in Italia che mi testimoniano la loro indignazione, disposti a rischiare la vita piuttosto che continuare a restare seduti e ignavi nel salotto buono di casa, dinnanzi ad un televisore che rimanda solo una minima parte del massacro che ci sta affliggendo.

Il 27 dicembre i miei amici ci provarono con la Dignity, furono attaccati dalla marina israeliana che tentò di affondarli, lanciato l’Sos dovettero rifugiare in Libano coi motori in avaria e una falla nello scafo. Per puro caso non ci furono feriti gravi in quell’occasione, ci auguriamo che oggi siano rispettate le loro vite e i diritti umani. Ci sono terribili catastrofi naturali a questo mondo, come terremoti e uragani, inevitabili. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria innaturale perpetrata da Israele ai danni di un popolo che vorrebbe ridotto alla più completa miseria, sottomissione.

Una popolazione disperata che non trova più il pane e il latte per nutrire i suoi figli. Che non piange neanche più i suoi lutti perché anche agli occhi è stata imposta una ferrea dieta. Il mondo intero non può ignorare questa tragedia, e se lo fa, non includeteci in questo mondo. Ogni giorno invochiamo forze che governano sopra di noi affinché fermino questo genocidio in corso, per questa mattina chiediamo solo che la nostra piccola imbarcazione approdi a Gaza con il suo carico di compassione, pace, amore, empatia, che a tutti i palestinesi siano concessi gli stessi diritti di cui godono gli israeliani, e qualsiasi altro popolo del pianeta. Il mare come ancora di speranza, il mare come meta di distruzione.

Secondo l’agenzia di stampa Ma’an, e la Reuters conferma, gli Stati Uniti stanno per rifornire di 300 tonnellate di armi Israele, tramite due navi cargo in partenza dalla Grecia. Armi e una grande quantità di esplosivo e detonatori, tutto il necessario per spianare la Striscia da migliaia delle sue abitazioni.
Sono già 120 mila gli sfollati da Gaza a Jabalia, ma i più, compresi diversi miei amici non si sono mossi, non sanno dove rifugiarsi. Giornalisti, dottori e becchini. Sono le professioni che lavorano di più qui a Gaza, senza sosta ormai da 16 giorni. Gli avvoltoi, oltre i caccia bombardieri, preoccupano e fomentano disprezzo, specie quelli che fino a ieri sedevano sulla stessa sedia del compianto Arafat, e ora anelano a venire a riprendersi il trono sulle ceneri di quel che di Gaza sarà.

Siamo giunti a 923 vittime, 4150 i feriti, 255 i bambini palestinesi orribilmente trucidati. Il computo delle vittime civile israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4. Gira voce che Olmert avrebbe fatto sapere ai suoi che il raggiungimento di 1000 vittime civili è il termine ultimo per arrestare questa brutale offensiva infanticida. Un po’ come succede alla Vucciria di Palermo, dove i quarti di manzo goccialano sangue all’aperto, e si contratta la carne un tanto al chilo.

Le apparizioni di Ismail Haniyeh sullo schermo sono seguitissime dai palestinesi della Striscia. Non si può parlare di tregua senza contemporaneamente prefissare una fine dell’assedio. Continuare ad assediare una Gaza ridotta in macerie, non permettere il confluire di viveri e medicinali, impedire la fuoriuscita di malati e di feriti, significa condannarla a una più lunga agonia. Questo il sunto delle parole del leader di Hamas, pronunciate stasera da un bunker chissa dove sottoterra, che fanno breccia nell’opinione pubblica gazawi. Il discorso di un leader che avrebbe potuto fuggire a ripararsi altrove, e invece è rimasto qui a prendersi le bombe in testa come chiunque altro.

Questo mie prose odierne sono state troncate sul nascere dalla solita telefonata intimidatoria che ordina l’evocuazione prima di un bombardamento. Mi trovo nel palazzo dove risiedono i principali media internazionali, fra gli altri, Al Jazeera, Ramattan e Reuters. Abbiamo dovuto staccare i pc dalle pareti, precipitarci giù per le scale e riversarci in strada, dove con gli occhi incollati al cielo cerchiamo di scorgere da dove giungerà il fulmine distruttivo.

Questa notte non ci saranno telecamere e reporter a documentare il massacro di civili, aleggia il fondato sospetto che le vittime innocenti saranno più del solito. Ancora per strada fisso Alberto e gli strizzo un occhio, si avvicina e gli sussurrò in un orecchio se ritiene plausibile che la telefonata intimidatoria sia stato un segnale per noi due soli, dopo la scoperta di un sito statunitense che ci ha messo una taglia sulla testa: «Allertare i militari dell’Idf per colpire l’Ism. Numero da chiamare se localizzate i covi di Hamas con i membri dell’Ism. Dall’America chiamate 011-972-2-5839749. Da altri paesi non digitare lo 011. Aiutateci a neutralizzare l’Ism, che è ormai parte integrante di Hamas sin dall’inizio della guerra. Bersaglio Ism n°1 per le forze aeree israeliane e truppe di terra dell’idf: invito all’omicidio di Vittorio Arrigoni (foto sotto, ndr) che attualmente assiste Hamas a Gaza». Dal sito www.stoptheism.com.

Non prendetevi la briga di visitarlo né tantomeno di linkarlo ai vostri siti. È una testimonianza sociologica da tramandare ai posteri. Analizzando questi tempi, il futuro pronuncerà la sua sentenza inappellabile, di come l’odio fosse il sentimento più puro, e il livore verso il diverso muovesse eserciti e fosse il collante di intere masse di uomini,
Non è necessario che i miei detrattori e chi mi vorrebbe martire compongano quel numero, l’esercito israeliano sa benissimo dove trovarmi anche stanotte: sto sopra le ambulanze dell’ospedale Al Quds in Gaza city. Restiamo umani.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Chi è il ministro degli Esteri in Italia?

Melhem Mistou, ambasciatore del Libano e decano degli ambasciatori della Lega araba a Roma, scrive a D’Alema di avere “il piacere di esprimerle a nome degli ambasciatori arabi in Italia pieno apprezzamento per le posizioni che Sua Eccellenza ha espresso e mantenuto sin dall’inizio dell’ultima gravissima crisi che ancora oggi insanguina la striscia di Gaza”.

A nome dei suoi colleghi, l’ambasciatore del Libano chiude la lettera ringraziando D’Alema “per il suo infaticabile impegno alla ricerca del dialogo e di una pace possibile”.

E’  l’ambasciatore  Melhem Mistuo che non sa che D’Alema non è più il ministro degli Esteri italiano o è Franco Frattini che non sa di essere il ministro degli Esteri  in carica?  Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”. Dedicato al ministro degli esteri italiano.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”.

Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’. “Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel.

“Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”. Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’.

“Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel. “Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: D’Alema tira il sasso, poi nasconde la mano.

“Non c’e’ dubbio che il sovrapporsi della guerra contro Hamas con la campagna elettorale in Israele sia particolarmente sgradevole”. Lo ha detto l’esponente del Pd ed ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, durante la conferenza stampa tenuta oggi presso la sede della Stampa estera a Roma. Sollecitato dalle domande dei giornalisti D’Alema ha pero’ precisato che “e’ improprio parlare, a questo riguardo, di guerra elettorale”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Socializzare le perdite, privatizzare i profitti.”

NON TOCCA A NOI PAGARE LA LORO CRISI! PDF Stampa E-mail
da sdlintercategoriale.it 
 

Appello internazionale già sottoscritto da 30 organizzazioni sindacali tra cui SdL intercategoriale

Partita dagli Stati Uniti, la crisi finanziaria si è estesa al mondo intero, per due ragioni. Innanzitutto, tutti i meccanismi che avrebbero potuto arginarla sono stati distrutti dalla deregulation finanziaria attuata dai governi, che hanno rimosso ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

Inoltre, poiché quasi tutte le istituzioni finanziarie del mondo hanno partecipato alla corsa alle speculazioni in ambito finanziario, nessun paese è stato protetto dalla deflagrazione.

 

Questa crisi è la prova del fallimento totale dell’ideologia neoliberista e delle politiche che mirano a mettere le sorti dell’umanità nelle mani del mercato.

Se non fosse in gioco il destino di miliardi di esseri umani, verrebbe da ridere a vedere quelli che erano gli adoratori beati della libera concorrenza, come i nostri governanti, trasformarsi in apostoli dell’intervento dello Stato. Ma questa apparente inversione di tendenza non deve ingannare nessuno.

Perché l’invocato intervento dello Stato è finalizzato a salvare interessi privati, secondo la ben nota regola “socializzare le perdite, privatizzare i profitti”.

Così migliaia di miliardi di denaro pubblico, i nostri soldi, vengono oggi riversati senza batter ciglio nelle tasche di banche e grandi azionisti da salvare, mentre è “impossibile” destinare la minima risorsa a far fronte ai bisogni sociali.

Ma non è tutto. La crisi finanziaria ha colpito l’economia reale, c’è la recessione con il suo strascico di licenziamenti; padroni e governi sono ben decisi a continuare ad attaccare i diritti sociali di lavoratrici e lavoratori, soprattutto sul terreno della previdenza sociale, del welfare e del diritto del lavoro.

Il loro obiettivo è di far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori, predicando l’“unità nazionale” in ogni paese per cercare di indorare la pillola.

In quanto sindacaliste e sindacalisti, noi costruiamo invece la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori per contrastarli! Padroni e azionisti si sono ingozzati di dividendi, sgravi fiscali di ogni genere, remunerazioni demenziali e si sono assicurati delle fortune la cui entità supera la comprensione.

Tocca a loro pagare la loro crisi.

A noi tocca il compito di imporre le nostre esigenze sociali. Più che mai, la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori è all’ordine del giorno. Per salvare il loro sistema capitalista, loro si sono organizzati internazionalmente: Il movimento sindacale deve agire al di sopra delle frontiere per imporre un sistema alternativo a quello che sfrutta chi lavora, saccheggia i paesi sottosviluppati, pianifica a tavolino la carestia in gran parte del pianeta… Ovunque ci troviamo, sviluppiamo il conflitto sociale e costruiamo la resistenza comune!

Union syndicale Solidaires (Francia) 

  • Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale SdL Intercategoriale (Italia) 
  • Union Syndicale des Travailleurs Kanaks et Exploités USTKE (Kanaky) 
  • Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique SNAPAP (Algeria) 
  • Confederazione Unitaria di Base CUB (Italie) 
  • Confederazione Italiana di Base Unicobas (Italia) 
  • Confederazione COBAS (Italia) 
  • Conseil des Lycées d’Algérie CLA (Algeria) 
  • Syndicat des Travailleurs Corses STC (Corsica) 
  • Syndicat indépendant des écoliers, des étudiants et des apprentis SISA (Suisse) 
  • Syndical libre Agosto 80 (Polonia) 
  • La Fragua (Argentina) 
  • Confederazione Intersindacale (Stato Spagnolo) 
  • Coordinadora Sindical (Stato Spagnolo) 
  • Sindacato dei Lavoratori Andalusi STA (Andalusia) 
  • Intersindacale Canarie 
  • Intersindacale Aragona 
  • Intersindacale Baleari 
  • Intersindacale Valencia 
  • STEE-EILAS (Paesi Baschi) 
  • Corrente sindacale di sinistra Asturia 
  • Confederazione Intersindacale Alternativa d Catalogna IAC (Catalogna) 
  • Central de los Trabajadores Argentinos CTA (Argentina) 
  • Central Unitaria de los Trabajadores CUT (Colombia) 
  • Confédération des Syndicats Autonomes CSA (Sénégal) 
  • Renouveau de l’Action Syndicale RAS (Congo) 
  • Fédération SUD service public (cantone del Vaud, Svizzera) 
  • Syndicat unique des travailleurs des transports aériens et activités annexes du Sénégal SUTTAAAS (Sénégal) 
  • Organisation Démocratique du Travail ODT (Maroc) 
  • Confederacion General del Trabajo CGT (Etat espagnol)

 

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Di seguito la versione in francese, inglese e spagnolo dell’appello

NOUS N’AVONS PAS À PAYER LEUR CRISE !

Partie des Etats-Unis, la crise financière s’est étendue au reste du monde et ce pour deux raisons. Tout d’abord, tous les pare-feux qui auraient pu permettre de la contenir ont été détruits par la déréglementation financière mise en œuvre par les gouvernements, aucune entrave n’étant plus mise à la libre circulation des capitaux. Ensuite, la quasi totalité des institutions financières du monde ayant participé à la course spéculative engagée dans la finance, aucun pays n’a été protégé de la déflagration. Cette crise marque l’échec absolu de l’idéologie néolibérale et des politiques qui visent à confier au marché le sort de l’humanité. Si le sort de milliards d’êtres humains n’était pas en jeu, il serait comique de voir ceux qui, comme tous nos gouvernants, étaient des adorateurs béats de la libre concurrence, se transformer en apôtres de l’intervention de l’Etat. Mais ce changement de posture ne doit tromper personne. Car s’ils décident que l’Etat intervienne, c’est pour sauver des intérêts privés suivant le précepte bien connu : “socialiser les pertes et privatiser les profits”. Ainsi des milliers de milliards d’argent public, notre argent, sont aujourd’hui déversés, sans discuter, pour sauver les banques et les actionnaires, alors qu’il est « impossible » de trouver le moindre sou pour répondre aux besoins sociaux. Mais ce n’est pas tout. La crise financière a touché l’économie réelle, la récession est là avec son cortège de licenciements ; patrons et gouvernements sont bien décidés à continuer à s’attaquer aux droits sociaux des salarié-e-s, notamment en matière de protection sociale ou de droit du travail. Leur objectif est de faire payer la crise aux salarié-e-s en prônant dans chaque pays « l’unité nationale » pour essayer de faire passer la pilule. Syndicalistes, nous construisons la solidarité internationale des travailleurs/ses pour leur répondre ! Les patrons et les actionnaires se sont gavés de dividendes, de cadeaux fiscaux de toutes sortes, de rémunérations démentielles avec, à la clef, des fortunes qui dépassent l’entendement. C’est à eux de payer leur crise. A nous de leur imposer nos exigences sociales. Plus que jamais, la mobilisation des salarié-e-s est à l’ordre du jour ! Pour sauver leur système capitaliste, ils sont organisés internationalement : le mouvement syndical doit agir à travers les frontières pour imposer un autre système que celui qui exploite les travailleurs/ses, pille les pays sous développés, organise la famine d’une partie de la planète, … Partout, développons les luttes sociales, et construisons la résistance commune !

 

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WE DON’T HAVE TO PAY FOR THEIR CRISIS!

Originated in the US, the financial crisis spread to the rest of the world for two reasons. The first of them is that all the firewalls that could have been able to contain it had been destroyed by the financial deregulation put in force by the governments, with no more interference with the free circulation of capital. The second one is that because of the involvement of the world financial institutions into the financial speculative run, no country had been protected from the explosion. This crisis shows the absolute failure of both the neoliberal ideology and policies whose aim is to entrust to the market the future of the humanity. If the destiny of billions of human being were not at stake, it should be comical to see those who, as for example our governments, were blessed worshippers of free competition, transformed into apostle of State intervention. But this move in the posture must not mislead anyone. Because if they decide that the State has to intervene, it’s only in order to save private interest according to the well-known precept: “socialize the losses and privatize the profits”. Thus, thousands of billions of public money, i.e. our money, are to-day poured, without any bargaining, in order to save the banks and the shareholders. At the same time, it is said that it is “impossible” to find out a single penny to satisfy social needs. But that’s not all. The financial crisis impact the “real economy” , the recession is there, with a lot of redundancies. Employers and governments are well decided to attack the social rights of the employees, especially about social protection and labour laws. Their aim is to make the employees pay for the crisis, advocating in each country “national unity” in order to get them to accept that. We have to build up international solidarity to riposte! Employers and shareholders filled up with dividends, tax exemptions, mad remunerations, with fortunes beyond all understanding as well. They have to pay for their crisis. It’s up to us to impose them our social claims. More than ever, the agenda is to mobilize the employees! To save their capitalist system, they are worldwide organize: the trade union movement must act throughout boundaries in order to impose an other system that this one which exploit the employees, pillage the developing countries, organize the famine in a part of the planet….. Everywhere, we have to develop social struggles and build up a common resistance!

 

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NO NOS TOCA PAGAR SU CRISIS!

La crisis financiera arrancó en EE-UU, y se extendió al mundo entero por dos motivos. Primero, todos los cortafuegos que habrían podido mantenerla a raya han sido destruidos por la desregulación financiera implementada por los gobiernos, pues ya no existe ninguna traba para la libre circulación de los capitales. Luego, habiendo participado la casi totalidad de las instituciones financieras del mundo en la carrera especulativa que se da en la banca, ningún país se halló a salvo de la deflagración. Esta crisis significa el fracaso integral de la ideología neoliberal y de las políticas cuya óptica es entregar al mercado la suerte de la humanidad. Si la suerte de miles de millones de seres humanos no estuviera en juego, sería para reírse ver a quienes, como todos nuestros gobernantes, eran adoradores beatos de la libre competencia, convirtiéndose en apóstoles de la intervención del Estado. Pero ese cambio de postura no debe engañar a nadie. Pues si deciden que intervenga el Estado, es para salvar intereses privados según el conocido precepto: “socializar las pérdidas y privatizar las ganancias”. Así billones de dinero público, nuestro dinero, se vierten hoy día sin regatear para rescatar los bancos, mientras que resulta “imposible” encontrar ni un real para responder a las necesidades sociales. Pero hay más: la crisis financiera ha alcanzado la economía real, la recesión está aquí, con su comitiva de despidos; patronos y gobiernos se ven muy resueltos a seguir atacando los derechos sociales de l@s asalariad@s, tanto en la protección social como en el derecho laboral. Su objetivo es hacer pagar la crisis a l@s asalariad@s, pregonando en cada país “unidad nacional” para tratar de que traguemos la píldora. Sindicalistas, vamos construyendo la solidaridad internacional de l@s trabajadores-as para responderles. Los patronos y accionistas se han atiborrado de dividendos, de regalos fiscales de toda clase, de remuneraciones demenciales, que desembocaron en fortunas propiamente inimaginables. A ellos les toca pagarse su crisis. A nosotros, imponer nuestras exigencias sociales. ¡Más que nunca, la movilización de l@s asalariad@s está en la agenda! Para rescatar su sistema capitalista, se han organizado a escala internacional: el movimiento sindical debe actuar a través de las fronteras para imponer otro sistema que no sea el que explota a l@s trabajadores-as, saquea a los países subdesarrollados, organiza el hambre de una parte del planeta… En todas partes, ¡a desarrollar las luchas sociales y a construir la resistencia común! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Crisi: il piano di Obama non è minimamente adeguato. Parola di Paul Krugman.

Il piano obama non basta

«Non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma lo sarà se non adotteremo quanto prima provvedimenti drastici. Se non faremo nulla, questa recessione potrà durare anni».Questo è ciò che ha dichiarato giovedì scorso il presidente eletto Barack Obama, spiegando perché l’ America ha bisogno che il governo reagisca alla depressione economica in modo estremamente aggressivo. Ha ragione.
Questa è la crisi economica più pericolosa dai tempi della Grande Depressione, e potrebbe facilmente trasformarsi in una prolungata recessione. Tuttavia la ricetta di Obama non è all’ altezza della sua diagnosi. Il piano da lui suggerito non è energico come le parole che ha usato per la minaccia economica. In realtà, esso è al di sotto di quanto sarebbe necessario. Consideriamo quanto è grande l’ economia americana. In presenza di una domanda adeguata alla capacità produttiva, nei prossimi due anni l’ America potrebbe produrre beni e servizi per un valore di oltre 30 miliardi di dollari. Ma con la flessione dei consumi e degli investimenti si sta aprendo un enorme divario tra ciò che l’ economia americana è in grado di produrre e ciò che è in grado di vendere.
E il piano di Obama non è minimamente adeguato a riempire questo “scarto produttivo”. Agli inizi di questa settimana, il Congressional Budget Office (CBO) ha reso nota la sua ultima analisi del bilancio e del panorama economico. Il CBO ha spiegato che, in assenza di un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe salire al di sopra del 9 per cento già agli inizi del 2010 e rimanere elevato per gli anni successivi. Per quanto tetra, tuttavia, questa previsione, è in realtà ottimistica, se paragonata ad alcune previsioni indipendenti.
Obama stesso ha ripetuto che, senza un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe diventare a due cifre. Nondimeno, anche il Congressional Budget Office afferma che “nei prossimi due anni la produzione economica sarà mediamente del 6,8 per cento al di sotto del suo potenziale”. Ciò si traduce in una perdita di produzione di 2,1 trilioni di dollari.
«La nostra economia potrebbe rimanere di un trilione di dollari al di sotto della sua piena capacità», ha dichiarato giovedì scorso Obama. Bene, in realtà egli ha sottostimato la situazione. Per ridurre uno scarto di oltre 2 trilioni di dollari -forse molti di più, se le previsioni del CBO dovessero rivelarsi troppo ottimistiche – Obama presenta un piano da 775 miliardi di dollari. E ciò non è sufficiente. A volte, lo stimolo fiscale può avere un effetto “moltiplicatore”: oltre agli effetti diretti degli investimenti nelle infrastrutture sulla domanda, per esempio, ve ne può essere anche un altro, in quanto profitti più elevati portano ad una maggiore spesa destinata ai consumi. Le valutazioni medie suggeriscono che un dollaro di spesa pubblica aumenta il Pil di circa 1 dollaro e mezzo. Tuttavia, solamente il 60 per cento del piano di Obama consiste in spesa pubblica. Il resto è composto da tagli fiscali – e molti economisti sono scettici sulla misura in cui molti di questi tagli, in particolare quelli destinati alle attività economiche, potranno effettivamente incoraggiare la spesa (numerosi senatori Democratici condividono questi dubbi).
Howard Gleckman, dell’ organismo indipendente Tax Policy Center, li ha riassunti nel titolo di un recente post del suo blog : “molti dollari, non un grande affare”. La sostanza è che non è probabile che il piano di Obama possa ridurre di più della metà l’ incombente scarto produttivo, e facilmente potrebbe svolgere meno di un terzo del compito che è chiamato ad assolvere. Perché Obama non cerca di fare di più? E’ il timore di far aumentare il debito a limitare il suo piano? Vi sono dei pericoli collegati al prestito governativo su vasta scala – e il rapporto del CBO di questa settimana per l’ anno in corso prevede un deficit di 1,2 trilioni di dollari. Tuttavia, sarebbe ancora più pericoloso intervenire in modo inadeguato nel salvataggio dell’ economia.
Giovedì scorso, il presidente eletto ha parlato in modo eloquente e preciso circa le conseguenze dell’ inazione -esiste un rischio reale di scivolare in una prolungata trappola deflazionistica di tipo giapponese- ma le conseguenze di un’ azione inadeguata non sono molto migliori. E’ la mancanza di opportunità di spesa a limitare il suo piano? Esiste soltanto un numero limitato di progetti di investimento pubblico “shovel-ready”, vale a dire, progetti a cui può essere dato inizio abbastanza rapidamente da riuscire ad aiutare l’ economia nel breve termine. Tuttavia, vi sono altre forme di spesa pubblica, specie nel campo dell’ assistenza sanitaria, che possono fare del bene e allo stesso tempo favorire l’ economia nel momento del bisogno. Oppure il piano è limitato dalla prudenza politica? Lo scorso dicembre alcuni servizi giornalistici indicavano che gli assistenti di Obama erano ansiosi di mantenere il costo finale del piano economico al di sotto della soglia, politicamente sensibile, del trilione di dollari.
C’ è stato anche chi ha suggerito che l’ inclusione nel piano di ampie riduzioni fiscali per le attività commerciali , che vanno ad aggiungere il loro costo ma che faranno ben poco per l’ economia, sia un tentativo di conquistare voti Repubblicani al Congresso. Qualunque sia la spiegazione, il piano di Obama non sembra adeguato alle necessità dell’ economia. Certo, un terzo di pagnotta è meglio di niente. Ma in questo momento abbiamo di fronte due gravi divari economici: quello tra il potenziale economico e il suo probabile rendimento e quello tra l’ austera retorica economica di Obama e il suo deludente piano. (Beh, buona giornata).
Copyright New York Times (Traduzione di Antonella Cesarini) 
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Attualità Popoli e politiche

Il dilemma storico di Israele:”puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?”.

Il fardello dell’uomo israeliano
 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (…). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa. (beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

“I media israeliani non mostrano ai loro spettatori gli orrori né le voci delle dure critiche mosse contro questi crimini”. Appello di cittadini d’Israele contro l’Operazione Piombo Fuso.

(Scritto da 540 cittadini israeliani l’8 gennaio 2008)

A sostegno dell’appello della comunità palestinese per i diritti umani per una azione internazionale

Come se l’occupazione non bastasse, la brutale repressione della popolazione palestinese in corso, la costruzione degli insediamenti e l’assedio di Gaza, ora pure il bombardamento della popolazione civile: uomini, donne, vecchi e bambini, ragazzi.
Centinaia di morti, centinaia di feriti, ospedali sovraccarichi, il deposito centrale di medicinali di Gaza bombardato. Persino l’imbarcazione Dignity del movimento Free Gaza che portava forniture mediche di emergenza e numerosi medici è stata attaccata. Israele ha ripreso apertamente a commettere crimini di guerra, peggiori di quelli che abbiamo visto in un lungo periodo di tempo.

I media israeliani non mostrano ai loro spettatori gli orrori né le voci delle dure critiche mosse contro questi crimini. La storia che viene raccontata è uniforme. Gli israeliani dissidenti vengono denunciati come traditori. L’opinione pubblica compresa quella della sinistra sionista appoggia la politica israeliana acriticamente e senza riserve.

La politica criminale distruttiva di Israele non cesserà senza un massiccio intervento da parte della comunità internazionale. Tuttavia, ad eccezione di alcune condanne ufficiali piuttosto deboli, la comunità internazionale è riluttante ad intervenire. Gli Stati Uniti appoggiano apertamente la violenza israeliana e l’Europa, nonostante qualche voce di condanna, non è disposta a prendere seriamente in considerazione il ritiro del “regalo” concesso ad Israele col potenziamento delle sue relazioni con l’Unione Europea.

In passato, il mondo ha saputo combattere le politiche criminali. Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto: le sue relazioni commerciali sono fiorenti, la cooperazione accademica e culturale continua a intensificasi con il sostegno diplomatico.
Questo sostegno internazionale deve cessare. Questo è l’unico modo per fermare la insaziabile violenza israeliana.

Noi chiediamo al mondo di fermare la violenza israeliana e di non permettere il proseguimento della brutale occupazione. Rivolgiamo un appello al mondo perché condanni i crimini di Israele e non ne diventi complice.

Alla luce di quanto sopra, chiediamo al mondo di applicare l’appello delle organizzazioni per i diritti umani palestinesi che esortano:

• “Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a convocare una sessione di emergenza e ad adottare misure concrete, compresa l’imposizione di sanzioni, al fine di garantire l’adempimento da parte di Israele dei suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario.
• Le Alte Parti contraenti alle Convenzioni di Ginevra per l’adempimento degli obblighi di cui all’articolo 1, per garantire il rispetto delle disposizioni delle convenzioni, prendendo le opportune misure per costringere Israele a rispettare i suoi obblighi nel quadro del diritto internazionale umanitario, in particolare dando importanza fondamentale al rispetto e alla protezione dei civili dagli effetti delle ostilità.
• Le Alte Parti contraenti di adempiere il loro obbligo giuridico ai sensi dell’articolo 146 della quarta Convenzione di Ginevra, a perseguire i responsabili di gravi violazioni della Convenzione.
• Le istituzioni dell’UE e gli Stati membri a rendere efficace l’uso delle linee guida dell’Unione europea per favorire l’osservanza del diritto internazionale umanitario (2005 / C 327/04) al fine di garantire che Israele osservi il diritto umanitario internazionale di cui al paragrafo 16 (b), (c) e ( d) di tali orientamenti, compresa l’adozione immediata di misure restrittive e le sanzioni, così come la cessazione di tutti i rafforzamenti del dialogo con Israele.”

Sottoscritto da 540 cittadini israeliani (prima lista):

Avital Aboody, Sami Abu Shehadeh, Moshe Adler, Haim Adri, Gali Agnon, Bilha Aharoni, Hagit Aharoni, Saida Ahmed, Danny Aisner, Orna Akad, Aviv Aldema, Ra’anan Alexandrowicz, Joseph Algazy, Omer Allon, Dan Almagor, Orly Almi, Tali Almi, Tamar Almog, Udi Aloni, Yuli Aloni-Primor, Colman Altman, Janina Altman, Ahmad Amara, Eitan Amiel, Nitza Aminov, Gish Amit, Yossi Amitay, Naama Arbel, Tal Arbel, Rana Asali, Maisoon Assadi, Keren Assaf, Zohar Atai, Najla Atamnah, Rutie Atsmon, Michal Aviad, Hanna Aviram, Jasmin Avissar, Amira Bahat, Noam Bahat, Daniela Bak, Abeer Baker, Saleh Bakri, Rim Banna, Oshra Bar, Yoav Barak, Daphna Baram, Michal Bareket, Hila Bargiel, Ronny Bar-Gil, Yoram Bar-Haim, Ronnie Barkan, Osnat Bar-Or, Racheli Bar-or, Yossi Bartal, Raji Bathish, Dalit Baum, Shlomit Bauman, Esther Ben Chur, Hagit Ben Yaacov, Tal Ben Zvi, Yael Ben-Zvi, Avner Ben-Amos, Ronnen Ben-Arie, Ur Ben-Ari-Tishler, Ofra Ben-Artzi, Yotam Ben-David, Smadar Ben-Natan, Shmuel Ben Yitzchak, Avi Berg, Daniel Berger, Tamar Berger, Anat Biletzki, Itai Biran, Rotem Biran, Shany Birenboim, Rozeen Bisharat, Yafit Gamilah Biso, Liran Bitton, Simone Bitton, Yahaacov Bitton, Rani Bleier, Yempa Boleslavsky, Hagit Borer, Ido Bornstein, Irith Bouman, Haim Bresheeth, Aya Breuer, Shlomit Breuer, Dror Burstein, Smadar Bustan, Shai Carmeli-Pollak, Smadar Carmon, Zohar Chamberlain-Regev, Sami Shalom Chetrit, Chassia Chomsky-Porat, Arie Chupak, Isadora Cohen, Kfir Cohen, Matan Cohen, Nahoum Cohen, Raya Cohen, Ron Cohen, Stan Cohen, Yifat Cohen, Alex Cohn, Scandar Copti, Adi Dagan, Yael Dagan, Yasmeen Daher, Silan Dallal, Tamari Dallal, Leena Dallasheh, Eyal Danon, Uri Davis, Hilla Dayan, Relli De Vries, Maoz Degani, Ruti Divon, Diana Dolev, Yfat Doron, Ettie Dotan, Keren Dotan, Ronit Dovrat, Daniel Dukarevich, Arnon Dunetz, Maya Dunietz, Udi Edelman, Shai Efrati, Neta Efrony, Rani Einav, Asa Eitan, Danae Elon, Ruth El-Raz, Noam Enbar, Amalia Escriva, Anat Even, Gilad Evron, Ovadia Ezra, Basma Fahoum, Avner Faingulernt, Ghazi-Walid Falah, Naama Farjoun, Yvonne Fattal, Dror Feiler, Pnina Feiler, Micky Fischer, Sara Fischman, Nadav Franckovich, Ofer Frant, Ilil Friedman, Maya Galai, Dafna Ganani, Gefen Ganani, Yael Gazit, Yoram Gelman, Yakov Gilad, Amit Gilboa, Michal Ginach, Rachel Giora, Michal Givoni, Ednna Glukman, Angela Godfrey-Goldstein, Bilha Golan, Neta Golan, Shayi Golan, Tsilli Goldenberg, Vardit Goldner, Tamar Goldschmidt, Lymor Goldstein, Dina Goor, Shelley Goral, Joel Gordon, Ester Gould, Inbal Gozes, Inbal Gozes-Sharvit, Erella Grassiani, Adar Grayevsky, Gill Green, David Greenberg, Ela Greenberg, Dani Grimblat, Lev Grinberg, Yosef Grodzinsky, Hilik Gurfinkel, Galia Gur-Zeev, Anat Guthmann, Amos Gvirtz, Maya Gzn-Zvi, Yoav Haas, Iman Habibi, Connie Hackbarth, Uri Hadar, Mirjam Hadar Meerschwam, Rayya Haddad, Osnat Hadid, Dalia Hager, Tami Hager, Hava Halevi, Yasmine Halevi, Jeff Halper, Yuval Halperin, Rula Hamdan-Atamneh, Rania Hamed, Rola Hamed, Anat Hammermann Schuldiner, Doron Hammermann-Schuldiner, Ben Handler, Tal Haran, Elad Harel, Nir Harel, Shuli Hartman, Lihi Hasson, Amir Havkin, Shira Havkin, Amani Hawari, Areen Hawari, Iris Hefets, Ada Heilbronn, Ayelet Heller, Sara Helman, Ben Hendler, Aref Herbawi, Tamara Herman, Avi Hershkovitz, Yael Hersonski, Galit Hess, Hannan Hever, Ala Hlehel, Gil Hochberg, Tikva Honig-Parnass, Tikva Honig-Parnass, Inbar Horesh, Veronique Inbar, Rachel Leah Jones, Noga Kadaman, Ari Kahana, Dafna Kaminer, Aya Kaniuk, Ruti Kantor, Liad Kantorowicz, Dalia Karpel, Rabia Kassim, Amira Katz, Shai Katz, Uri Katz, Giora Katzin, Dror Kaufman, Adam Keller, Yehudit Keshet, Lana Khaskia, Efraim Kidron, Alisa Klein, Sylvia Klingberg, Yana Knopova, Ofra Koffman, Yael Korin, Alina Korn, Rinat Kotler, Meira Kowalsky, Noa Kram, Miki Kratsman, Rotem Kuehnberg, Assia Ladizhinskaya, Michal Lahav, Roni Lahav, Idan Landau, Yitzhak Laor, Orna Lavi, Ruti Lavi, Shaheen Lavie-Rouse, Yigal Laviv, Tamar Lehahn, Ronen Leibman, Miki Lentin, Ronit Lentin, Yael Lerer, Chava Lerman, Noa Lerner, Yair Lev, Yudith Levin, Abigail Levine, Eyal Levinson, Dana Levy, Inbal Lily-Koliner, Moran Livnat, Omri Livne, Amir Locker-Biletzki, Yael Locker-Biletzki, Yossi Loss, Yael Lotan, Guy Lougashi, Irit Lourie, Orly Lubin, Joseph Lubovsky, Aim Deuelle Luski, Naomi Lyth, Moshe Machover, Aryeh Magal, Liz Magnes, Noa Man, Ya’acov Manor, Arabiya Mansour, Roi Maor, Adi Maoz, Eilat Maoz, Yossi Marchaim, Alon Marcus, Esti Marpet, Ruchama Marton, Nur Masalha, Anat Matar, Doron Matar, Haggai Matar, Oren Matar, Samy Matar, Rela Mazali, Naama Meishar, Rachel Meketon, Yitzhak Y. Melamed, Remy Mendelzweig, Racheli Merhav, Yael Meron, Juliano Merr-Khamis, Esti Micenmacher, Maya Michaeli, Avraham Milgrom, Jeremy Milgrom, Elisheva Milikowski, Erez Miller, Katya Miller, Limor Mintz-Manor, Ariel Mioduser, Dror Mishani, Eedo Mizrahi, Avi Mograbi, Liron Mor, Magi Mor, Susan Mordechay, Susanne Moses, Haidi Motola, Ahuva Mu’alem, Ben Tzion Munitz, Norma Musih, Dorit Naaman, Michal Naaman, Gil Naamati, Haneen Naamnih, Naama Nagar, Dorothy Naor, Regev Nathansohn, Shelly Nativ, Salman Natour, Judd Ne’eman, Dana Negev, Smadar Nehab, Shlomit Lola Nehama, Ofer Neiman, David Nir, Eyal Nir, Tali Nir, Alex Nissen, Tal Nitzan, Joshua Nouriel, Yasmine Novak, Nira Nuriely, David Ofek, Tal Omer, Adi Ophir, Anat Or, Yael Oren Kahn, Norah Orlow, Gal Oron, Akiva Orr, Dorit Ortal, Noam Paiola, Il’il Paz-el, Michal Peer, Miko Peled, Nirit Peled, Nurit Peled-elhanan, Leiser Peles, Orna Pelleg, Tamar Pelleg-Sryck, Sigal Perelman, Amit Perelson, Nadav Pertzelan, Erez Pery, Tom Pessah, Dani Peter, Shira Pinhas, Yossi Pollak, Gil Porat, Dror Post, Eyal Pundik, Yisrael Puterman, Ilya Ram, Nery Ramati, Amit Ramon, Avi Raz, Ayala Raz, Hili Razinsky, Amnon Raz-Krakotzkin, David Reeb, Hadas Refaeli, Shlomo Regev, Dimi Reider, Noa Reshef, Amit Ron, Roee Rosen, Illit Rosenblum, Maya Rosenfeld, Danny Rosin, Yehoshua Rosin, Ilana Rossoff, Ilani Rotem, Natalie Rothman, Areej Sabbagh, Ahmad Sa’di, Sidki Sadik, Walid Sadik, Hannah Safran, Hiba Salah, Sana Salame-Daqa, Galit Saporta, Sima Sason, Sagi Schaefer, Tali Schaefer, Oded Schechter, Agur Schiff, Nava Schreiber, Idit Schwartz, Michal Schwartz, Noa Schwartz, Eran Segal, Keren Segal, Irit Segoli, Irit Sela, Dan Seltzer, Yael Serry, Shaul Setter, Meir Shabat, Aharon Shabtai, Michal Shabtay, Itamar Shachar, Erella Shadmi, Ilan Shalif, Hanna Shammas, Ayala Shani, Uri Shani, Arik Shapira, Bat-Sheva Shapira, Yonatan Shapira, Omer Sharir, Yael Shavit, Noa Shay, Fadi Shbita, Adi Shechter, Oz Shelach, Adi Shelesnyak, Mati Shemoelof, Ehud Shem-Tov, Yehouda Shenhav, Nufar Shimony, Khen Shish, Hagith Shlonsky, Tom Shoval, Sivan Shtang, Tal Shuval, Ivy Sichel, Ayman Sikseck, Shelly Silver, Inbal Sinai, Eyal Sivan, Ora Slonim, Kobi Snitz, Maja Solomon, Gideon Spiro, Neta Stahl, Talila Stan, Michal Stoler, Ali Suliman, Dored Suliman, Marcelo Svirsky, Yousef Sweid, Ula Tabari, Yael Tal, Lana Tatour, Doron Tavory, Ruth Tenne, Idan Toledano, Eran Torbiner, Osnat Trabelsi, Lily Traubmann, Naama Tsal, Lea Tsemel, Ruth Tsoffar, Ehud Uziel, Ivan Vanney, Sahar Vardi, Roman Vater, Ruth Victor, Yaeli Vishnizki-Levi, Roey Vollman, Roy Wagner, Michael Warschawski, Michal Warshavsky, Ruthy Weil, Sharon Weill, Shirly Weill, Elian Weizman, Eyal Weizman, Einat Weizman Diamond, Elana Wesley, Etty Wieseltier, Yossi Wolfson, Oded Wolkstein, Ayelet Yaari, Smadar Yaaron, Roni Yaddor, Sarah Yafai, Galia Yahav, Sergio Yahni, Niza Yanay, Amnon Yaron, Tamar Yaron, Mahmoud Yazbak, Oren Yiftachel, Sarit Yitzhak, Sharon Zack, Uri Zackhem, Jamal Zahalka, Sawsan Zaher, Adva Zakai, Edna Zaretsky, Beate Zilversmidt, Amal Zoabi, Haneen Zoubi, Himmat Zu’bi, Mati Zuckerman. (Beh, buona giornata).

Link originale: http://www.freegaza.org/en/home/658-a-call-from-within-signed-by-israeli-citizens.
Contatto: gazabfw@gmail.com
Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip

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Attualità Popoli e politiche

Israele: i pro e i contro della strategia BDS, secondo Naomi Klein.

Israele: boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni – 10/01/09
di Naomi Klein – «the Nation»

È ora. Un momento che giunge dopo tanto tempo. La strategia migliore per porre fine alla sanguinosa occupazione è quella di far diventare Israele il bersaglio del tipo di movimento globale che pose fine all’apartheid in Sud Africa.
Nel luglio 2005 una grande coalizione di gruppi palestinesi delineò un piano proprio per far ciò. Si appellarono alla «gente di coscienza in tutto il mondo per imporre ampi boicottaggi e attuare iniziative di pressioni economiche contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica all’epoca dell’apartheid». Nasce così la campagna “Boicottaggio, ritiro degli investimenti e sanzioni” (Boycott, Divestment and Sanctions), BDS per brevità.

Ogni giorno che Israele martella Gaza spinge più persone a convertirsi alla causa BDS, e il discorso del cessate il fuoco non ce la fa a rallentarne lo slancio. Il sostegno sta emergendo persino tra gli ebrei israeliani. Proprio mentre è in corso l’assalto, circa 500 israeliani, decine dei quali artisti e studiosi rinomati, hanno inviato una lettera agli ambasciatori stranieri di stanza in Israele. La lettera chiede «l’adozione immediata di misure restrittive e sanzioni» e richiama un chiaro parallelismo con la lotta antiapartheid. «Il boicottaggio del Sud Africa fu efficace, Israele invece viene trattato con guanti di velluto…. Questo sostegno internazionale deve cessare.»

Tuttavia, molti ancora non ci riescono. Le ragioni sono complesse, emotive e comprensibili. E semplicemente non sono abbastanza buone. Le sanzioni economiche sono gli strumenti più efficaci dell’arsenale nonviolento. Arrendersi rasenta la complicità attiva. Qui di seguito le maggiori quattro obiezioni alla strategia BDS, seguita da contro-argomentazioni.

1. Le misure punitive alieneranno anziché convincere gli israeliani. Il mondo ha sperimentato quello che si chiamava “impegno costruttivo”. Ebbene, ha fallito in pieno. Dal 2006 Israele accresce costantemente la propria criminalità: l’espansione degli insediamenti, l’avvio di una scandalosa guerra contro il Libano e l’imposizione di punizioni collettive su Gaza attraverso un blocco brutale. Nonostante questa escalation, Israele non ha dovuto far fronte a misure punitive, ma anzi, al contrario: armi e 3 miliardi di dollari annui in aiuti che gli Stati Uniti inviano a Israele, tanto per cominciare. Durante questo periodo chiave, Israele ha goduto di un notevole miglioramento nelle sue relazioni diplomatiche, culturali e commerciali con moteplici altri alleati. Ad esempio, nel 2007, Israele è diventato il primo paese non latino-americano a firmare un accordo di libero scambio con il Mercosur. Nei primi nove mesi del 2008, le esportazioni israeliane verso il Canada sono aumentate del 45%. Un nuovo accordo di scambi commerciali con l’Unione europea è destinato a raddoppiare le esportazioni di Israele di preparati alimentari. E l’8 dicembre i ministri europei hanno “rafforzato” l’Accordo di Associazione UE-Israele, una ricompensa a lungo cercata da Gerusalemme.
È in questo contesto che i leader israeliani hanno iniziato la loro ultima guerra: fiduciosi di non dover affrontare costi significativi. È da rimarcare il fatto che in sette giorni di commercio durante la guerra, l’indice della Borsa di Tel Aviv è salito effettivamente del 10,7 per cento. Quando le carote non funzionano, i bastoni sono necessari.

2. Israele non è il Sud Africa. Naturalmente non lo è. La rilevanza del modello sudafricano è che dimostra che tattiche BDS possono essere efficaci quando le misure più deboli (le proteste, le petizioni, pressioni di corridoio) hanno fallito. Ed infatti permangono reminiscenze dell’apartheid profondamente desolanti: documenti di odentità con codici colorati e permessi di viaggio, case rase al suolo dai bulldozer e sfollamenti forzati, strade per soli coloni. Ronnie Kasrils, eminente uomo politico sudafricano, ha detto che l’architettura della segregazione da lui vista in Cisgiordania e a Gaza nel 2007 è  “infinitamente peggiore dell’apartheid”.

3. Perché mettere all’indice solo Israele, quando Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi occidentali fanno le stesse cose in Iraq e in Afghanistan? Il boicottaggio non è un dogma, è una tattica. La ragione per cui la strategia BDS dovrebbe essere tentata contro Israele è pratica: in un paese così piccolo e così dipendente dal commercio potrebbe effettivamente funzionare.

4. Il boicottaggio allontana la comunicazione, c’è bisogno di più dialogo, non di meno. A questa obiezione risponderò con una mia storia personale. Per otto anni i miei libri sono stati pubblicati in Israele da una casa editrice commerciale chiamata Babel. Ma quando ho pubblicato “Shock Economy” ho voluto rispettare il boicottaggio. Su consiglio degli attivisti BDS, ho contattato un piccolo editore chiamato Andalus. Andalus è una casa editrice attivista, profondamente coinvolta nel movimento anti-occupazione ed è l’unico editore israeliano dedicato esclusivamente alla traduzione in ebraico di testi scritti in arabo. Abbiamo redatto un contratto che garantisce che tutti i proventi vadano al lavoro di Andalus, e nessuno per me. In altre parole, io sto boicottando l’economia di Israele, ma non gli israeliani.

Mettere in piedi questo programma ha comportato decine di telefonate, e-mail e messaggi istantanei, da Tel Aviv a Ramallah, a Parigi, a Toronto, a Gaza City. A mio avviso non appena si dà vita ad una strategia di boicottaggio il dialogo aumenta tremendamente. D’altronde, perché non dovrebbe? Costruire un movimento richiede infinite comunicazioni, come molti nella lotta antiapartheid ricordano bene. L’argomento secondo il quale sostenendo i boicottaggi ci taglieremo fuori l’un l’altro è particolarmente specioso data la gamma di tecnologie a basso costo alla portata delle nostre dita. Siamo sommersi dalla gamma di  modi di comunicare l’uno con l’altro oltre i confini nazionali. Nessun boicottaggio ci può fermare.
Proprio riguardo ad ora, parecchi orgogliosi sionisti si stanno preparando per un punto a loro favore: forse io non so che parecchi di quei giocattoli molto high-tech provengono da parchi di ricerca israeliani, leader mondiali nell’Infotech? Abbastanza vero, ma mica tutti.

Alcuni giorni dopo l’assalto di Israele a Gaza, Richard Ramsey, direttore di una società britannica di telecomunicazioni, ha inviato una e-mail alla ditta israeliana di tecnologia MobileMax. «A causa dell’azione del governo israeliano degli ultimi giorni non saremo più in grado di prendere in considerazione fare affari con voi né con qualsiasi altra società israeliana.»
Quando è stato interpellato da The Nation, Ramsey ha affermato che la sua decisione non è stata politica. «Non possiamo permetterci di perdere neppure uno dei nostri clienti: è stata pura logica difensiva commerciale.»

È stato questo tipo di freddo calcolo che ha portato molte aziende a tirarsi fuori dal Sud Africa due decenni fa. Ed è proprio questo tipo di calcolo la nostra più realistica speranza di portare giustizia, così a lungo negata, alla Palestina.
(Beh, buona giornata)

Traduzione di Manlio Caciopo per Megachip
Articolo orginale: http://www.thenation.com/doc/20090126/klein?rel=hp_currently

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Contro il terrorismo, Stato di polizia o Stato sociale?

I COSTI ECONOMICI DEL TERRORISMO

di José de Sousa , Daniel Mirza e Thierry Verdier da lavoce.info

Negli ultimi anni il terrorismo internazionale ha cambiato luoghi e motivazioni. Mira a colpire l’Occidente, ma gli attacchi dei fondamentalisti avvengono principalmente nei paesi in via di sviluppo con il risultato di peggiorare le condizioni economiche proprio di queste regioni. Una maggiore cooperazione internazionale è necessaria, ma non basta. Occorre adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale degli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di prospettive economiche.

Non passa giorno che non si abbia notizia di qualche attentato o di minacce da parte dei terroristi contro gli occidentali  (giornalisti, diplomatici o turisti), oppure contro i simboli e gli alleati dell’Occidente. Gli attentati di Bombay non costituiscono un’eccezione: si è trattato di attacchi concentrati contro i siti più occidentalizzati della città. Anche se, alla fin fine, la maggior parte delle vittime non è occidentale, gli attacchi erano principalmente indirizzati contro i cittadini dei paesi più ricchi. Uno dei principali moventi dei terroristi è quello di minare gli interessi dell’Occidente. Quali sono realmente le conseguenze economiche di tali attentati?
Il fenomeno non è nuovo. In base alle statistiche disponibili, si direbbe anzi che – da 40 anni a questa parte – è una costante: gli Occidentali sono il principale bersaglio dei terroristi transnazionali. Sono cambiati però i luoghi e le motivazioni. Da una quindicina d’anni avvengono principalmente nei paesi del Sud. Negli anni ’70, infatti, gran parte degli atti terroristici proveniva da gruppi separatisti o estremisti europei. A partire dagli anni ’80 invece è apparso il terrorismo religioso fondamentalista, con lo spostamento del centro di gravità del fenomeno verso i paesi del Sud.

PAESI PIU’ POVERI DOPPIAMENTE VITTIME

Gli attentati di New York (2001) Madrid (2003) e Londra (2005), anche se spettacolari, sono eccezioni. Non sono affatto rappresentativi dei circa 400 attentati transnazionali, perpetrati ogni anno nel mondo. Gli studi sull’argomento dimostrano che, a parte gli attentati compiuti nei periodi bellici come quelli che oggigiorno colpiscono l’Iraq, tre quarti degli attentati avviene nei paesi in via di sviluppo. Se le vittime di tali atti sono quasi sempre cittadini dei paesi più avanzati, le conseguenze economiche, però, si ripercuotono proprio sui paesi in via di sviluppo.
Gli Stati Uniti sono stati pesantemente colpiti dai fatti dell’11 settembre, ma la ripercussione sulla loro economia è stata solo transitoria. Solo se gli attentati colpissero ripetutamente uno stesso luogo, si registrerebbe un effetto duraturo. Secondo alcuni studi, il reddito globale dei paesi baschi sarebbe stato più elevato di almeno il 10% se, durante gli anni ’70 e ’80, l’ETA non avesse compiuto numerosi attentati.
I continui atti terroristici che avvengono in alcuni paesi in via di sviluppo, come Colombia e Pakistan, colpiscono duramente il loro commercio estero, frenando le transazioni di beni e servizi, sia a livello nazionale che internazionale. L’Occidente è, infatti, il loro principale mercato d’esportazione e gli attentati hanno effetti non trascurabili. Ad esempio, in Colombia, l’aumento dell’1% degli incidenti, che colpiscono spesso interessi americani, provoca la diminuzione dell’1% delle esportazioni verso gli Stati Uniti. Senza contare che la maggior parte dei turisti proviene dall’Occidente e che gli attentati perpetrati contro bersagli occidentali diminuiscono considerevolmente le attrattive del paese in seno al quale essi avvengono, perché creano un forte senso di insicurezza.
Le misure di sicurezza messe in atto dai governi occidentali per far fronte al terrorismo non fanno che rinforzare questi effetti nefasti. Rendono, infatti, più difficile il movimento di beni e persone, soprattutto alle frontiere. Ad esempio, a causa degli attentati compiuti in Grecia contro bersagli americani, i fuoriusciti greci ancor oggi possono godere solo di un visto turistico per recarsi negli Stati Uniti.
E infine, a coronamento di tutto ciò, esistono anche gli effetti indiretti sui paesi confinanti con quelli da cui provengono i terroristi. Negli ultimi due decenni, infatti, molte organizzazioni terroriste hanno ampliato la loro rete di contatti. Per esempio Al Qaeda si è recentemente radicata nell’Africa del Nord. Di conseguenza i paesi occidentali devono estendere e in un certo senso “globalizzare” le loro misure di sicurezza, se vogliono impedire la diffusione di tali organizzazioni. In un lavoro recentemente pubblicato mettiamo in evidenza questo processo di contagio: gli attentati avvenuti in un determinato paese possono ripercuotersi sugli scambi dell’Occidente con quei paesi, che simpatizzano culturalmente, geograficamente o religiosamente con le organizzazioni terroristiche.
I paesi del Sud sembrano essere entrati in un circolo vizioso. Demoltiplicando l’impatto negativo del terrorismo, le politiche di sicurezza generano il calo delle attività economiche nei paesi del Sud, che – a sua volta – genera un terreno fertile perché attecchisca il terrorismo. E così la protezione della vita al Nord peggiora sensibilmente le condizioni di vita al Sud.

POSSIBILI SOLUZIONI

Che fare per rompere questo circolo vizioso? Le misure di sicurezza unilateralmente decise dai paesi del Nord sembrano solo spostare il problema, non risolverlo. E’ invece urgente instaurare una cooperazione internazionale mirata a ridurre il verificarsi di attentati nei paesi del Sud e del Nord. A breve termine, sarebbe auspicabile trasmettere ai paesi del Sud le tecnologie di prevenzione più progredite, onde ridurre il verificarsi di tali eventi. A lungo termine, bisognerebbe elaborare una politica più volontaristica, al fine di estirpare le radici del terrorismo. Parimenti occorrerebbe aiutare i paesi in via di sviluppo ad adottare misure economiche che stimolino occupazione, formazione e inserimento economico-sociale di quegli individui suscettibili di essere arruolati nelle attività terroristiche, come ad esempio i disoccupati e i giovani non qualificati, privi di qualsivoglia prospettiva economica. Per conseguire tutto ciò è indispensabile che i contribuenti del Nord capiscano che la loro sicurezza dipende anche dal miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni del Sud. (Beh, buona giornata)

(traduzione dal francese di Daniela Crocco)

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Barak Obama:”Gli Stati Uniti saranno contro la tortura e rispetteranno la convenzione di Ginevra”.

Riprogongo “Torturare è giusto, torturare è possibile”, pubblicato su “Beh, buona giornata” il 22 agosto 2006. E’ bene ricordare che durante l’Amministrazione Bush c’è stata una rincorsa a giustificare guerre, torture e  violazioni delle norme internazionali a tutela dei diritti civili. Anche in Italia giornalisti e intellettuali di destra hanno fatto la loro parte, scrivendo pagine a sostegno della guerra di civiltà con ogni mezzo, compresa la tortura. I tempi cambiano, ma quelle ferite all’intelligenza rimangono. Non bisogna dimenticarle. Con l’augurio che gli intellettuali italiani embedded al bushismo da neo-cons diventino neo-scons(olati) nel nuovo corso inaugurato da Barak Obama. Chi criticava l’Amministrazione Bush era tacciato di anti-americanismo.  La domanda è: adesso che Obama ha detto” gli Stati Uniti saranno contro la tortura e rispetteranno la Convenzione di Ginevra”, chi è anti-americano?

Torturare è giusto, torturare è possibile.

Per sostenere il ripugnante principio secondo la quale ci vuole un “compromesso tra lo stato di diritto e la sicurezza nazionale”, qualche giorno fa sul Corriere della Sera, nei giorni immediatamente successivi all’allarme antiterrorismo lanciato negli aeroporti inglesi, Angelo Panebianco ha scritto:“Immaginiamo che tra qualche mese venga fuori che l’Apocalisse dei cieli, il grande attentato destinato a oscurare persino gli attacchi dell’undici settembre, con migliaia di vittime innocenti, sia stato sventato solo grazie alla confessione, estorta dai servizi segreti anglo-americani, di un jhadista coinvolto nel complotto, magari anche arrestato (sequestrato) illegalmente.”

Panebianco si è poi chiesto:”Chi se la sentirebbe in Europa di condannare quei torturatori? La risposta è: un gran numero di persone. In Italia più che altrove.”
A proposito di tortura e di giustificazione politico-giuridica della tortura, esemplare il caso di Craig Murray, che è stato recentemente intervistato per RaiNews24 da Mario Sanna e Maurizio Torrealta.

Craig Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan. Nel periodo cha va dall’agosto del 2002 all’ottobre del 2004 ha scoperto la tortura dei servizi segreti uzbeki sui prigionieri politici e ha denunciato l’uso che delle informazioni estorte, spesso inattendibili, facevano la Cia e il ‘Foreign Office’ inglese.

Craig Murray è stato ascoltato dalla Commissione d’inchiesta dell’Europarlamento sui voli e i sequestri della Cia in Europa alla fine di aprile. Murray è stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dal 2002 al 2004. Cosa ha dichiarato Murray alla Commissione? Ha detto che i servizi segreti americani e britannici hanno utilizzato testimonianze di detenuti ottenute mediante tortura e non ha escluso che i servizi segreti di molti paesi europei fossero informati di quanto facessero i loro colleghi in Uzbekistan.

L’ambasciatore ha parlato di “cooperazione” tra i servizi nazionali quando si è avuto a che fare con detenuti sospettati di terrorismo in Uzbekistan. L’alto funzionario si è detto certo del fatto che i servizi uzbeki torturassero i detenuti e che la CIA e l’MI6 britannico ottenessero le informazioni sebbene non partecipassero agli “interrogatori”.

Murray ha raccontato d’aver posto il problema al ministro degli esteri britannico, Jack Straw, il quale concluse, dopo un incontro con il capo dei servizi MI6, che ricevere informazioni ottenute sotto tortura non avrebbe contravvenuto alla Convenzione ONU contro la tortura. A proposito di una domanda posta dal relatore della commissione, Claudio Fava, l’ambasciatore Murray ha affermato di non avere informazioni sulla condivisione delle informazioni tra la CIA e i servizi segreti di Paesi occidentali: “Tuttavia – ha aggiunto – la Germania aveva particolari e stretti legami con i servizi di sicurezza uzbeki e credo che lo scambio di informazioni sia avvenuto”.

Murray ha raccolto le testimonianze di intere famiglie, rivoltesi a lui per assistere i loro congiunti ’scomparsi’ e sequestrati dai servizi segreti uzbeki. Ha condotto un’indagine e ritiene che oltre 7000 persone, oppositori del regime uzbeko guidato da Islam Karimov, siano state sequestrate e torturate per ordine del governo. Secondo Murray questa azione di feroce repressione interna è stata anche finalizzata alla raccolta di informazioni da parte della Cia.

Secondo la testimonianza di Murray, i prigionieri sotto tortura erano costretti a confessare di tutto: che erano membri di al Qaeda; che avevano contatti con l’Afghanistan e con lo stesso Bin Laden; che andavano in Afghanistan per incontrarlo o che conoscevano persone implicate in questo. Inoltre, chi era torturato era disposto ad ammettere che un gruppo uzbeko di opposizione fosse collegato ad al Qaeda e addirittura confessavano che persone che loro nemmeno conoscevano erano attivisti di Bin Laden.

Ecco un brano dell’intervista di Mario Sanna e Maurizio Torrealta per RaiNews24.

Craig Murray ha voluto raccogliere una dettagliata documentazione sulle violazioni dei diritti umani in tutto il mondo in suo sito e lo sta facendo anche in polemica con il sistema dei media. Come ha reagito la stampa inglese tradizionale davanti alla sua vicenda e alle sue denunce.

I media britannici hanno difficoltà a affrontare a viso aperto questo punto. Nessuno ha mai domandato in modo diretto: “Voi usate materiale di ‘intelligence’ ottenuto con la tortura?” , oppure: “Ma voi non istigate di fatto regimi come quello uzbeko, saudita, algerino? Non incoraggiate questi regimi alla tortura?”. Nessun giornalista ha posto mai queste domande difficili e così il ‘Foregn Office’ è stato in grado di manipolare l’opinione pubblica su questo punto.

Dopo l’11 settembre l’intero sistema dei media in Gran Bretagna è stato dominato dal timore di non mostrare immagini e a non porre sul tappeto questioni che fossero considerate poco patriottiche. Il direttore della BBC e’ stato mandato via perché aveva detto che in Iraq non c’erano armi di distruzione di massa. Ora sappiamo che ciò che diceva la BBC era vero, che non c’erano armi i distruzione di massa in Iraq, ma le due persone ai vertici della BBC sono state mandate via per aver detto una cosa del genere, quindi e’ comprensibile che i giornalisti non si sentano pronti a scavare in profondità su questo argomento nel Regno Unito.

La sua deposizione davanti alla commissione d’inchiesta che indaga sui voli Cia, non è passata inosservata, anzi, ha destato grande sensazione tra gli europarlamentari. Di tutta questa vicenda drammatiche che lei ha vissuto, che ci ha raccontato, qual è stato l’aspetto che più l’ha ferita?

La cosa peggiore per me è stata la scoperta che altri funzionari pubblici, persone che conoscevo da 20 anni erano al corrente di questa situazione. Sono rimasto sbalordito quando ho scoperto che Michael Wood che e’ una brava persona, un uomo che conoscevo da molto tempo trovava una giustificazione legale al modo in ui si poteva eludere il divieto giuridico contro la tortura

A questo punto inizi a pensare: “Perché le persone non si assumono la responsabilità morale delle loro azioni?”.

Se qualcuno riesce a trovare una giustificazione legale alla tortura, allora e’ facile capire come un funzionario pubblico in Germania possa avere ricevuto ordini di andare ad Auschwitz con i carri bestiame e dire: “io sto facendo solo il mio lavoro, sono solo un funzionario pubblico”.

L’articolo di Panebianco, accanto, fatte le debite proporzioni a quelli di Magdi Allam e di Giuliano Ferrara, per non parlare di quelli dell’agente Betulla, e di tutta la macchina propagandistica a favore della guerra di civiltà hanno segnato in questi anni il punto di non ritorno tra lo stato di diritto e la logica della guerra infinita al terrorismo. La testimonianza di Craig Murray è un balsamo per la coscienza critica di ciascuno di noi. Per questa azione in difesa dei diritti umani, Murray è stato costretto ad abbandonare la diplomazia. Beh, buona giornata.

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Crisi:”La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro.”

Due visioni della ripresa
 
di MAURIZIO MOLINARI da lastampa.it
Barack Obama espone da Fairfax, Virginia, il progetto di «ricostruire» l’economia nazionale e Nicolas Sarkozy da Parigi ribatte che l’America non è più l’unico leader del mondo e dovrà scendere a patti per realizzare il «nuovo capitalismo». Il dialogo a distanza fra il presidente eletto degli Stati Uniti e l’inquilino dell’Eliseo inaugura il confronto globale su che cosa bisogna costruire sulle ceneri del 2008 che, secondo quanto afferma uno studio degli economisti del «Council on Foreign Relations» di New York, «sarà ricordato come l’anno in cui il sistema finanziario moderno è crollato».

I due leader partono da bisogni differenti. Per Obama la priorità è scongiurare la depressione nazionale facendo leva su energie alternative, grandi opere, riforma sanitaria, tagli fiscali e sviluppo di Internet al fine di «trasformare l’America indirizzando la ricchezza verso la classe media», come suggerisce il rapporto «Progressive Growth» firmato dal co-presidente del team di transizione John Podesta.

Per Sarkozy invece la priorità è disegnare un nuovo sistema economico internazionale che metta al riparo l’Europa da nuovi terremoti.

Un sistema che getti le basi di una nuova stabilità e soprattutto impedisca il ripetersi di quanto avvenuto, creando regole finanziarie ed equilibri monetari nei quali «non sarà più un solo Paese e prevalere», come avvenuto nel caso degli Stati Uniti dopo gli accordi conclusi a Bretton Woods nel luglio del 1944.

La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro. Lo stimolo economico che Barack chiede al Congresso di Washington, e che potrebbe sfondare il tetto di 1 trilione di dollari, avrà effetti assai parziali se non coinciderà con il varo di misure simili da parte degli altri Paesi più industrializzati, i cui investimenti e acquisti sono indispensabili alla crescita americana. Basti pensare che il rapporto Onu «World Economic Situation and Prospects 2009» suggerisce che l’aumento medio della spesa dei Paesi ricchi dovrà essere fra l’1,5 e il 2 per cento dei rispettivi Pil per tentare di archiviare la crisi di liquidità.

Sarkozy non può immaginare di scrivere le regole del «nuovo capitalismo», a partire dal summit del G20 in programma ad inizio aprile a Londra, senza raggiungere una solida intesa con Barack, che non solo sarà presto alla guida della nazione comunque più ricca del Pianeta ma è anche portatore di un progetto ambizioso di rivoluzione energetica destinato ad avere ripercussioni sulle bollette che si pagano a Marsiglia come a Genova. Senza contare i rischi inflazionistici e valutari per l’Europa connessi alla montagna di dollari che la Federal Reserve si appresta a stampare per riportare in fretta sufficiente denaro da spendere nelle tasche degli americani. Da qui la possibilità che Obama e Sarkozy abbiano iniziato, partendo da opposti estremi, a delineare il confronto che può portare a fare del 2009 l’anno-laboratorio del nuovo sistema economico. È una partita nella quale ogni potenza industriale è chiamata a fare la propria parte, mettendo sul piatto le idee che ha, e per l’Italia ieri è stato il ministro Giulio Tremonti a ipotizzare da Parigi «standard legali» per i sistemi finanziari del G8 come anche una moratoria lunga mezzo secolo per i prodotti tossici che impediscono ai mercati di risollevarsi.

Resta da vedere quale ruolo sceglieranno di giocare nella partita dei nuovi equilibri i giganti di Russia, Cina, India, Brasile e Messico come anche potenze regionali inquiete come Iran, Venezuela, Arabia Saudita e Indonesia. La sfida più difficile, per Obama come per Sarkozy, sarà trovare convergenze con questi nuovi attori che in comune hanno una forte aggressività. Lo dimostrano il monito di Pechino a Washington sulla possibilità di non acquistare più debito federale e la disinvoltura con cui Mosca gioca la carta delle forniture di gas contro l’Europa. (Beh, buona giornata).

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L’Obama-pensiero contro la crisi.

Obama: “Il mio attacco a più punte
contro il tracollo dell’America”

di JOHN HARDWOOD

Alla vigilia del suo discorso sull’economia, il presidente eletto degli Stati Uniti ha rilasciato un’intervista a John Hardwood per il New York Times e la CNBC. Ecco il testo integrale, da repubblica.it 

Pare che il suo pacchetto di incentivi all’economia si aggiri intorno ai 775 miliardi di dollari.
“È così”.
Il rischio è fare troppo poco… Perché dunque fermarsi a una cifra come 775 miliardi di dollari? Perché non arrivare a quell’1,2 trilioni di dollari che gli economisti hanno raccomandato? Forse perché crede che una cifra così sia troppo politicamente carica di significato? O pensa che spendere di più sarebbe più un finanziamento più che un incentivo? O crede di aver individuato la cifra esatta che serve?
“Penso che sia importante tener presente che ogni economista, conservatore o liberal che sia, a questo punto concorda sul fatto che dobbiamo predisporre un piano di recupero sostanziale, che ci aiuti a ridare slancio alla nostra economia, che sul breve periodo ci costerà caro, ma sarebbe estremamente più costoso veder l’economia avvitarsi su se stessa a vuoto come sta accadendo adesso.

“Abbiamo sentito parlare di fasce che vanno da 800 a 1,3 trilioni di dollari e il nostro approccio, considerato il processo legislativo nel quale ci troviamo è che se iniziamo dal basso, possiamo vedere come si evolvono le cose. Ci preoccupa…”.

Sicuramente (il pacchetto) aumenterà….
“Beh, ancora non lo sappiamo. Ma ciò che ci sta davvero a cuore è essere sicuri che i soldi siano spesi con saggezza, che ci sia controllo, trasparenza. Useremo questo denaro per alimentare temporaneamente l’economia, per creare o salvare tre milioni di posti di lavoro, ma anche per qualche anticipo per cose che avremmo già dovuto fare nel corso dei decenni passati che possono contribuire a creare un’economia statunitense più competitiva.


“Le faccio qualche esempio: accertarsi che raddoppiamo le energie alternative, creare edifici e sistemi di trasporto molto più efficienti dal punto di vista energetico, ridurre i costi dell’assistenza sanitaria utilizzando le tecnologie dell’informazione sanitaria, costruire scuole e classi all’altezza di quelle del resto del mondo, così che tutti i nostri bambini ne possano trarre giovamento e possano essere competitivi nell’economia globale.

“Vogliamo essere sicuri che il denaro che spendiamo sia, prima di tutto, utilizzato per creare posti di lavoro, stabilizzare l’economia, ma anche usato con prudenza, così che quando usciremo da questa fase difficile nella quale ci troviamo, vedremo un’economia più solida, migliore, più efficiente”.

Si sono fatti molti paralleli tra lei e John F. Kennedy, che ha anch’egli fatto la storia: era giovane, di una famiglia attraente e nella sua amministrazione si era circondato di cervelloni usciti da Harvard. Ma negli anni Sessanta abbiamo imparato che i migliori e i più intelligenti non sempre prevedevano correttamente le cose.
“Si deve stare attenti ai laureati di Harvard… ti sorprendono sempre!”.

Quanta fiducia ha che il suo piano funzioni davvero? Come eviterà il rischio di essere troppo fiducioso nelle sue possibilità?
“L’approccio che abbiamo scelto è quello di non limitarci a parlare con i soliti sospetti, ma di parlare con persone che di norma non sono d’accordo con me. Se l’ex consigliere economico di Ronald Reagan o l’ex consigliere economico di John McCain o l’ex consigliere economico di George Bush ti danno il medesimo consiglio di quello che i consiglieri di Bill Clinton o di Jimmy Carter ti stanno dando, allora puoi essere pressoché sicuro che in tutto lo spettro politico vi è del consenso.

“Certo, tutto ciò non avverrà nell’arco di una sola notte. La situazione è complessa e sappiamo che, indipendentemente da quanto riusciremo a fare dal punto degli investimenti e della ripresa, dovremo nondimeno fare molte altre cose per essere sicuri che l’economia sia in forma migliore. Una delle cose più importanti che dovremo fare è riformare il modo col quale funzionano i nostri sistemi finanziari. Dobbiamo far sì che il flusso del credito ricominci. Questo significa ripristinare la fiducia, ripristinare le aperture nel sistema. Significa che il nostro contesto normativo deve essere riformato profondamente…

“C’è un pacchetto consistente di riforme che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi renderò noto. Significa che dobbiamo occuparci molto più seriamente della crisi immobiliare che c’è al momento e stabilizzarla. Significa che dovremo pensare a quale approccio avere nei confronti della responsabilità fiscale. Ecco perché ho annunciato che nominerò un funzionario capo addetto alla performance, incaricato di attuare l’impegno che ho sottoscritto in campagna elettorale di andare a fondo nel budget federale, riga dopo riga, pagina dopo pagina, e determinare quali programmi funzionano e quali programmi non funzionano, eliminando di conseguenza quelli che non funzionano e facendo sì che quelli che funzionano funzionino ancora meglio.

“Si tratta dunque di un attacco a più punte nei confronti di questo enorme tracollo al quale stiamo assistendo al momento. L’obiettivo a lungo termine è essere certi che salveremo e proteggeremo i posti di lavoro, e che le imprese e le famiglie americane siano in grado di beneficiare del flusso del credito nuovamente. Non voglio aumentare le dimensioni del governo a lungo termine: preferirei che fosse il settore privato a fare tutto ciò per conto suo. Ma credo che ci sia un consenso pressoché unanime tra le persone, anche quelle che non sono andate ad Harvard, e che è necessario varare iniziative coraggiose adesso per essere sicuri che facciamo il possibile per evitare che accada il peggio”.

 
Non ha preoccupazioni su questa eccessiva fiducia?
“No, anzi, mi sento schiacciato dalle sfide che ci stanno di fronte. Ma ho fiducia in una cosa: sono un buon ascoltatore, sono bravo a sintetizzare i consigli provenienti da prospettive e ottiche diverse e prenderò le migliori decisioni possibili pensando proprio a che cosa andrà bene per i comuni americani”.

Il presidente Bush ha dovuto per parecchi anni rispondere alle domande sulla sua strategia di disimpegno dall’Iraq. La stessa domanda vale per gli attacchi su più fronti ai quali lei accennava. Pertanto le chiedo: qual è la sua strategia di uscita dalla crisi dell’auto, delle assicurazioni, del settore finanziario? Come decide quando è tempo di smettere di concentrarsi sul breve periodo? Come deciderà che i suoi programmi hanno dato buoni frutti e che è giunto il momento di concentrarsi sulla responsabilità fiscale a lungo termine?

“Deve essere chiaro che non agiremo in fasi successive, ma agiremo su binari paralleli. Pertanto prepareò un budget che sottoporrò al Congresso a febbraio e quel budget conterrà proiezioni a medio termine, a lungo termine come pure a breve termine”.

“Non aspetteremo che passino due anni per iniziare a preoccuparci di quello che dobbiamo fare per il deficit. Vogliamo vedere tutte le cose che possiamo fare durante il mio mandato iniziare a influire riducendo il deficit. In sostanza, io credo che quando si vedrà che il settore privato riprenderà a erogare prestiti, quando il flusso del credito arriverà alle famiglie e alle aziende, quando si potranno acquistare automobili a rate, quando si potrà essere in grado di onorare le rate del mutuo, quando il mercato del lavoro si sarà stabilizzato allora piano piano ci tireremo indietro. Ed è per questo che è estremamente importante per noi monitorare i progressi con grande attenzione.

“Cerchiamo però di capire che le migliori previsioni che abbiamo al momento sono che malgrado tutti gli sforzi più grossi che possiamo fare ancora adesso abbiamo davanti la prospettiva di una disoccupazione considerevole. Non sarà pari a un numero a due cifre come accadrebbe se non facessimo assolutamente nulla… ma potrebbe occorrere buona parte del prossimo anno prima di vedere l’economia riprendere a funzionare come dovrebbe”.

Ci sarà una crescita nella seconda metà del 2009 secondo lei?
“Non ho una sfera di cristallo… ma sono fiducioso in una cosa: se non facessimo niente, le cose peggiorerebbero, e di molto. Con il piano che abbiamo predisposto, le cose andranno in ogni caso meglio di come sarebbero andate altrimenti. Sono fiducioso che potremo creare o salvare tre milioni di posti di lavoro.
Ne abbiamo già persi almeno due milioni. Alla fine di questa settimana potremo leggere un rapporto sui posti di lavoro, dal quale probabilmente emergerà che ne abbiamo persi quanto meno un altro mezzo milione. Se iniziamo a vedere che l’anno prossimo si perderanno tre, quattro, cinque milioni in più di posti di lavoro, allora possiamo stare certi che si tratta di una crisi come non ne abbiamo mai viste e dovremo intervenire e stroncare questo processo sul nascere”.

Parliamo di tasse: quando ci siamo incontrati a giugno lei mi disse che avrebbe potuto posporre alcuni aumenti di tasse che lei ha proposto per far fronte all’attuale situazione economica. Sappiamo che nel suo programma si parla all’incirca di tagli alle tasse pari a 300 miliardi di dollari, ma le chiedo: è pronto adesso a dirci che non procederà alla revoca immediata degli sgravi fiscali apportati dal presidente Bush ai contribuenti che guadagnano più di 250.000 dollari e lasciare la situazione così come è fino al 2010?

 

“Non posso in questo momento qui con lei prendere un impegno così importante e in modo così rapido, John, ma le ripeto che mi preoccupa meno se ciò accade quest’anno o l’anno prossimo. La cosa che più mi preme è riportare parità e equità nel sistema contributivo.

“Ecco perché abbiamo presentato precisi sgravi fiscali nell’ambito del pacchetto delle nostre proposte. Il 95 per cento delle famiglie che lavorano avranno uno sgravio fiscale. Vogliamo anche studiare altri modi con i quali far sì da rimettere quei soldi in tasca velocemente alle famiglie senza dover attendere la prossima dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo, perché altrimenti non si avrà quel genere di effetto incentivo che invece occorre.

“Ma vogliamo altresì essere sicuri che teniamo bene sotto controllo il deficit. Per persone come lei e come me, che guadagnano più di 200-250.000 dollari l’anno, i tagli alle tasse voluti da Bush non erano necessari…. non sono tuttora necessari e pertanto faremo sì che non continuino a essere parte del nostro codice tributario ancora a lungo”.

Non so che cosa intenda lei con i termini importanti e rapido, ma mi sembra che lei non procederà a modificare le cose quest’anno.
“Non ho ancora preso una decisione finale in proposito. Oltretutto ciò rientra tra le cose sulle quali dovremo consultarci con il Congresso”.

In tema di politiche bipartisan: mi sembra che almeno per un momento il dialogo tra i due partiti sia diverso. Quando conta per lei il dialogo bipartisan? È pronto ad accettare idee dalla controparte, anche se non pensa che quelle siano le idee migliori?

“Vede, io la penso in questi termini: la cosa più importante è che cosa serve a ottenere il risultato voluto. Questa è l’ottica dalla quale io considero ogni cosa. È creare tre milioni di posti di lavoro o salvare tre milioni di posti di lavoro? Ci stiamo preparando? Stiamo gettando le fondamenta della nostra indipendenza energetica? Stiamo riducendo le spese della nostra assistenza sanitaria, che sono di importanza cruciale per affrontare il nostro deficit sul lungo periodo? Stiamo creando un sistema scolastico di prima classe? Queste sono le mie priorità assolute.

“Quindi: io non reputo affatto che il partito democratico abbia il monopolio delle buone idee. I repubblicani hanno molto da offrire. Ciò che farò sarà ascoltare e imparare dai miei colleghi repubblicani. Ogniqualvolta saranno in grado di dimostrazione e addurre valide motivazioni a favore di qualcosa che sarà proficuo per il popolo americano, solo perché non ci hanno pensato prima i democratici ma lo promuovono i repubblicani non per questo ignorerò i loro suggerimenti.

“Ci saranno occasioni, naturalmente, nelle quali saremo in disaccordo. E se qualcuno mi presenta un progetto al quale è legato ideologicamente, ma non è in grado di persuadermi che sarà effettivamente buono e positivo per l’economia, allora non se ne farà nulla. Ci saranno anche altre occasioni nelle quali dovremo combattere. Ma dal mio punto di vista io non sono alla ricerca di battaglie: a me interessa quanta più cooperazione possibile. Sono aperto a qualsiasi idea che mi sarà presentata”.

Prevede che la quota di sgravi fiscali del suo piano aumenterà dopo le consultazioni con i repubblicani al Congresso, nel momento in cui lei cercherà di ottenere maggiore supporto per il suo programma?
“L’atteggiamento che intendo avere nei confronti degli sgravi fiscali è il medesimo che intendo applicare al pacchetto degli investimenti. Ovvero: si tratta di denaro speso bene? Questi sono soldi dei contribuenti, che vanno ad aumentare il deficit sul breve periodo. Se non saremo in grado di giustificarli, allora non si spenderanno decine o centinaia di miliardi di dollari soltanto per fare felice qualcuno. E la stessa regola l’applicherò anche a tutto il resto”.

Si concorda pressoché unanimemente che il settore immobiliare è alla radice del problema economico che oggi ci assilla. Pensa che la priorità più assoluta ora sia di far ripartire il settore immobiliare, forse tramite crediti fiscali, o di limitare i pignoramenti?

“Quando si parla di mercato immobiliare, il Consiglio della Federal Reserve ha fatto quello che poteva per abbassare i tassi, quanto più era possibile. Quindi abbiamo visto qualche attività sui rifinanziamenti. Questo non risolve certamente il problema del calo del valore degli immobili.

“Penso che la cosa più importante sia, in tema di calo del valore degli immobili, evitare ulteriori pignoramenti. Ecco perché penso che quanti tra noi stanno ancora pagando un mutuo…. sì, insomma si sente talvolta qualcuno nel Paese che dice: ‘Bene, io sono stato responsabile, perché dovrei dare aiuto a chi forse ha sottoscritto un mutuo che non poteva permettersi?’.

“Questa domanda ci riporta a un adagio secondo il quale se la casa del tuo vicino sta bruciando, la tua prima preoccupazione deve essere quella di spegnere le fiamme, anche se il tuo vicino ha agito irresponsabilmente. Penso che questo è vero anche per i pignoramenti. Dobbiamo evitare questo continuo deterioramento del mercato immobiliare. E ciò inizia proprio con i pignoramenti. Questo non significa che non possiamo anche fornire assistenza, magari non sarà tutta sotto forma di assistenza ai mutui.

“Una delle cose che reputo molto importante nel nostro piano di reinvestimento è fornire gli incentivi per coibentare le case di tutto il Paese. Si tratta di un tipo di investimento a lungo termine che può tagliare drasticamente le bollette energetiche del Paese, aumentare la nostra indipendenza energetica, ridurre i gas serra globali. Quindi, come vede, ci sono alcune aree nelle quali possiamo fare progressi, fornendo sollievo alle famiglie, aiutando i proprietari di casa.

“Ma occuparci della crisi dei pignoramenti dei beni ipotecati è qualcosa che dobbiamo assolutamente fare. Prevedo di rendere noti i miei piani su come evitare i pignoramenti dopo essermi consultato con Barney Frank e Chris Dodd, che hanno fatto un ottimo lavoro da questo punto di vista, in un periodo imprecisato entro il prossimo mese o i prossimi due”.

Nell’ambito della seconda parte del suo pacchetto di interventi di salvataggio finanziari?
“Nell’ambito del nostro attacco a più punte alla crisi”.

Si è molto parlato di Larry Summers, l’ex segretario del Tesoro che dirige la sua commissione economica nazionale e si ipotizza che lei lo sceglierà per sostituire Ben Bernanke come presidente della Federal Reserve, quando il suo mandato scadrà nel 2010. È questa la sua intenzione o lei intende rinnovare la nomina ancora a Ben Bernanke?
” Larry Summers non ha ancora ottenuto questo posto… Io ho fatto il suo nome ma non è ancora iniziata la nostra amministrazione. Penso che sia del tutto prematuro per me fare congetture e speculare sulle nomine di qui a due anni, nel momento in cui ancora non ho la mia squadra pronta”.

Mi permetta una domanda sugli enti di controllo. Ci troviamo oggi in un edificio che un tempo ospitava la Sec. Quanto grosso è l’intervento di riforma dell’apparato normative finanziario che lei propone e appoggia? Quando lo varerà? Pensa che vi sia la necessità di creare un apparato normativo globale? Ad aprile dovrà prendere parte al G-20 a Londra…

“Per quando dovrò prendere parte al G-20 credo che di sicuro avrò presentato il nostro approccio alle normative finanziarie. Penso che una certa coordinazione internazionale ci voglia. Ma al momento noi dobbiamo occuparci della nostra. Wall Street non ha funzionato come doveva, e il nostro sistema normativo di controllo non ha funzionano come si supponeva dovesse fare. Quindi si impone un intervento drastico e sostanziale.

“Dovremo occuparci di farlo applicare meglio, di avere migliori controlli, migliore chiarezza, migliore trasparenza. Dovremo controllare questo insieme di sigle di agenzie varie e escogitare come farle funzionare più efficacemente. Dobbiamo smettere di spezzettare le varie funzioni in modo tale che il capitale sotto una forma è trattato in un modo e il capitale sotto un’altra forma è trattato in un altro, perché in questi tempi di mercati finanziari globali, sono tutti fungibili .

“Ci sono rischi sistemici in agguato, sia sotto forma di derivati, sia di assicurazioni sia di depositi bancari tradizionali. Quindi dobbiamo aggiornare il nostro intero sistema per rispondere alle esigenze del XXI secolo. Questo è un compito sul quale il mio team sta già lavorando e credo che avremo, in tempi abbastanza brevi, un pacchetto da presentare al popolo americano al quale ho lavorato insieme a Barney Frank e Chris Dodd”.

Dick Parsons sarà il suo prossimo segretario del Commercio?
“Non ho ancora preso una decisione finale su chi sceglierò per essere il prossimo segretario del Commercio. Quando lo saprò, te lo farò sapere, John”.

Ma Parsons è un candidato?
“Non farò commenti in proposito. Dick Parsons è una persona in gamba ed è anche mio amico”.

E’ fiducioso di avere ormai alle spalle questo breve periodo di controversia sulla scelta di Lon Panetta come capo della Cia? Quanto crede che sarà difficile per lei cercare di tradurre in pratica il suo impegno a porre fine al concetto che gli Stati Uniti ammettono la tortura?
“Prima di tutto io non ho fatto alcuna dichiarazione ufficiale su Leon Panetta. Quando lo farò sarà perché avrò qualcosa di più da dire in proposito. Posso soltanto dire che Leon Panetta è un funzionario pubblico eccezionale, che ha un’integrità impeccabile. È una persona che ha lavorato ai più alti livelli per la sicurezza nazionale e se dovessi sceglierlo penso che svolgerebbe meravigliosamente il suo lavoro.

“C’è una questione più ampia di cui occuparsi, però. Come ricominciamo, come rietichettiamo le nostre operazioni di intelligence? Nella Cia, nel nostro Dipartimento dell’Intelligence Nazionale ci sono persone straordinarie che hanno fatto un lavoro incredibile e voglio che abbiano tutto ciò di cui necessitano per poter lavorare in modo efficiente. Voglio anche essere sicuro che tutte queste persone che lavorano così duramente per fornire le migliori intelligence all’apparato della nostra sicurezza nazionale, che operano nel segreto e conformemente alle politiche scelte, non si trovino sotto i riflettori e accusati, o finiscano col portare il peso delle conseguenze di quello che facciamo se non dovessimo vivere all’altezza dei nostri ideali e dei nostri valori più alti”.

Prevede che sarà difficile cambiare queste cose?
“Sì”.

Ci vorrebbe qualcosa di preciso che stabilisse che cosa esattamente è etichettabile come tortura, non crede?
“Mi permetta di farle un esempio. Io credo che ci siano alcune cose che non sono difficili. Noi ottemperiamo alle Convenzioni di Ginevra: questo non dovrebbe essere difficile. Noi abbiamo contribuito a redigerle. Le abbiamo sostenute e ci sono servite bene.

“Penso che chiuderò Guantanamo. Come lo faremo non è facile a dirsi, perché ci saranno persone che sono state recluse lì, e molte di loro di fatto potrebbero essere molto pericolose. Dovremmo averle processate , prima di ogni altra cosa, ma adesso a causa delle circostanze nelle quali ci siamo trovati per svariati anni, è molto più difficile perché alcune delle prove contro di loro possono essere alterate dalle modalità con le quali sono state ottenute. Quindi dovremo procedere a una revisione molto attenta di come procedere.

“Tuttavia il mio impegno è questo: nessuna tortura, adesione totale alla legalità, adesione totale alla nostra Costituzione, adesione totale alle Convenzioni di Ginevra. Queste cose sono state messe a punto non soltanto per farci sentire bene, ma sono state concepite per essere sicuri che continueremo a comunicare che noi abbiamo una solida morale, che l’America vive secondo standard più elevati. Questo nel lungo periodo ci porterà sicuramente benefici, e ci renderà più sicuri”.

Lei ha spesso instaurato confronti…. O meglio, le sfide alle quali lei deve far fronte hanno fatto sì che si instaurassero paragoni anche con Franklin Roosevelt…
“Esatto”.

… con i tempi della peggiore crisi finanziaria dalla Grande Depressione. Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo discorso inaugurale egli disse al popolo americano: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.
“Esatto”.

Quando il 20 gennaio lei farà il suo discorso inaugurale crede che dovrà ricoprire questo medesimo ruolo? Rassicurare il popolo americano? Come bilancerà questo messaggio con la necessità di trasmettere l’urgenza di ciò che si dovrà fare?
“È interessante…. Come può immaginare di recente ho letto vari discorsi inaugurali. Se si legge il primo discorso di Franklin Delano Roosevelt l’unica frase che ci si ricorda è quella, “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”, ma di fatto il grosso del suo discorso si incentrava sulla necessità di agire e agire subito. Poi Roosevelt spiegava, credo, la natura della crisi, sia nel suo discorso inaugurale, sia nelle sue famose chiacchierate accanto al caminetto, tanto quanto chiunque altro.

“Questo è un consiglio che ho ricevuto da un ex presidente, che mi ha detto: “Barack, parte del tuo successo e di come stai agendo bene al momento è che tu non parli con mezzi termini con il popolo americano, tu dici le cose come stanno, spiegando ciò che sta accadendo e come sta accadendo”. Io ho fiducia nel popolo americano: se gli si parla chiaramente, se ci si spiega chiaramente, dicendo testualmente “Questa è la nostra sfida, siamo arrivati a questo punto perché abbiamo fatto questo, e questa è la direzione che secondo me dobbiamo imboccare”, allora io sono assolutamente fiducioso che il popolo americano sarà all’altezza della sfida. Quindi il mio compito, sia nel discorso inaugurale, sia nei mesi che seguiranno, sarà semplicemente quello di spiegare quanto più onestamente e sinceramente possibile quali sono le circostanze, quali sono le idee migliori che abbiamo per far fronte a queste sfide. Se ci riuscirò sono sicuro che saremo uniti per risolvere questi problemi”.

Girano un sacco di voci nella cultura americana contemporanea. Si discute della sinistra, della destra, in televisione, continuamente, e anche del sistema finanziario. Per lei è importante o è più importante astrarsi da tutto ciò e decidere ancora prima che non avranno peso?
“Io credo che sia importante non vivere in una bolla. Quindi bisogna essere aperti alle informazioni che arrivano da fuori, in particolare le critiche. Io leggo di rado la stampa, ma spesso leggo la “cattiva” stampa, non perché sia d’accordo con quella, ma perché voglio capire in quali aree sto agendo male e dove posso migliorare”.

Finora non ci sono stati articoli cattivi su di lei…
“Sono sicuro che arriveranno… per quanto riguarda i mercati, però, la situazione è leggermente diversa. Per il momento, considerata la sua vulnerabilità, dovrò prestare attenzione all’aspetto psicologico del mercato, perché parte di ciò a cui stiamo assistendo nasce da una perdita di fiducia sia nel mercato sia nel governo che ripristina tale fiducia.

“Pertanto ripristinare la fiducia è una prima cosa estremamente importante. Quello che farò sarà essere sicuro di comunicare a scadenze regolari con gli attori più importanti del mercato e di spiegare loro con esattezza quali sono i nostri piani chiedendo loro di mettere a disposizione i loro suggerimenti migliori. Nel complesso, comunque, una delle cose dell’essere presidente che mi sono abbastanza chiare è che dovrò guardare oltre l’orizzonte. Non posso guardare i titoli dei notiziari di oggi perché se lo facessi allora probabilmente non prenderei le decisioni sulla base di ciò che è meglio per il Paese. Sprecherei molto tempo a preoccuparmi della politica di tutti i giorni, giorno dopo giorno, e questo è qualcosa che devo cercare di evitare”.

Visto che parliamo di come evitare i problemi legati al fatto di vivere in una bolla, ha ancora in tasca uno di questi? (Estrae dalla tasca un BlackBerry).
“In realtà l’ho messo da parte per questa intervista, ma mi porto ancora dietro il mio BlackBerry. Dovranno strapparmelo dalle mani!”.

Riuscirà ad accettare questa idea anacronistica, forse, di un presidente che non può utilizzare i mezzi più moderni?
“Ecco quello che sono giunto a capire: credo che riuscirò ad avere accesso a un computer, da qualche parte. Non sarà proprio nello Studio Ovale! La seconda cosa che spero è di vedere se in qualche modo riusciranno a consentirmi di continuare ad avere accesso al mio BlackBerry. So che…”

In questo momento lei ha ancora il BlackBerry?
“In questo momento ancora sì. Ma devo aggiungere che crea preoccupazione non soltanto ai Servizi Segreti, ma anche agli avvocati. Come sa, questa città pullula di avvocati. Non so se se ne è accorto…”.

Sì!
“E tutti questi avvocati hanno un sacco di opinioni diverse. Quindi, sto ancora lottando… ma senta, forse è la cosa più difficile dell’essere presidente: come rimanere in contatto con il flusso della vita quotidiana? Sa quando eravamo in vacanza alle Hawaii mi sono sentito molto scoraggiato dall’essere tenuto d’occhio costantemente dalle guardie del corpo. Anche solo andare a prendere una granita è stata un’impresa…”

E le hanno detto di non andarsene in giro senza maglietta?
” Quello l’ho imparato sin dal primo giorno, ma credo che… ”

E’ stato imbarazzante per lei? Se ne è preoccupato? Ci sono stati molti commenti su questo.
“Lo so, è stato sciocco, ma si sa, in questo lavoro ci sono molti aspetti sciocchi”.

Ha ricevuto bei complimenti, però.
“Mia moglie ha ridacchiato quando sono arrossito. In ogni caso… di che cosa stavamo parlando? Siamo usciti fuori argomento, John…”

Stava dicendo che pare proprio che dovrà lottare per tenersi il suo BlackBerry…
“Non so se la spunterò, ma mi sto battendo ancora… Ma il punto è un altro… Immagino che non è solo il flusso di informazioni. Voglio dire, potrò sempre chiedere a qualcuno di stamparmi le notizie di agenzia e potrò leggere i giornali. Quello che mi sta a cuore è avere meccanismi con i quali interagire con le persone che sono fuori dalla Casa Bianca in modo significativo.

“Dovrò cercare ogni opportunità possibile per farlo…. modi che non sono complicati, che non sono controllati, in cui la gente non cerchi solo di farti i complimenti o di alzarsi in piedi quando entro in una stanza, modi di stare con i piedi per terra. Se riuscirò a gestire questa cosa nei prossimi quattro anni, credo che mi aiuterà a servire il popolo americano meglio, perché sarò in grado di sentire quello che dice, la voce di tutti. Non dovranno tacere per il fatto che io sono alla Casa Bianca”.

Un’ultima domanda: la Florida domanica gioca in Ocklaohoma in quella che da tutti è considerata la partita determinante del campionato nazionale. Lei ha parlato della necessità di un playoff nel football universitario. Pensa che l’Utah, che ha terminato il campionato senza essere sconfitta dalla squadra dell’Alabama che ha sconfitto tutti, abbia buoni motivi per dichiararsi campione di questo campionato nazionale?
“Penso che l’Utah abbia ottimi motivi. Penso che gli USC, che hanno un grande Rose Bowl, hanno battuto di brutto Penn State. Hanno ottimi motivi per dichiararsi vincitori. Florida e Ocklahoma, penso l’abbiano entrambi. Il Texas a questo punto deve sentirsi un po’… come dire … ‘Beh, ci siamo comportati bene anche noi’. Insomma, io credo che il sistema dei playoff nel football sia utile… Ne ho parlato e ne parlo già da un pezzo e credo che se chiede a chi se ne intende di sport ed è un tifoso ne troverà molti d’accordo con me. Ma io posso scegliere e decidere in quali battaglie lanciarmi: credo che probabilmente mi concentrerò a creare tre milioni di posti di lavoro in più!”.  (Beh, buona giornata).

Copyright New York Times News Service/CNBC – Traduzione di Anna Bissanti

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Guerra da orbi nella Striscia di Gaza.

di VITTORIO ZUCCONI da repubblica.it

Il 31 dicembre scorso, la Corte Suprema dello Stato di Israele, non il governo di Teheran o i Fratelli Mussulmani, ha ordinato al governo di permettere l’accesso ai giornalisti internazionali nella striscia di Gaza per osservare gli effetti dei bombardamenti e seguire le operazioni dell’esercito.

Fino a questo momento – siamo alla mattina di mercoledì 7 gennaio – risulta che la stampa internazionale resti bloccata all’interno della linea di frontiera, dettaglio che non viene mai ben chiarito dai giornalisti nei loro servizi.

In compenso, la stampa estera è condotta diligentemente da ufficiali e portavoce di Tzahal, l’esercito d’Israele, a visitare tutti i luoghi dove sia caduto uno razzo di Hamas.

La giustificazione del rifiuto dei generali di obbedire all’ordine della loro Corte Suprema è che la presenza dei giornalisti complica il “lavoro” delle truppe e crea agitazione e confusione nell’opinione pubblica interna e internazionale.

Curiosa e controproducente giustificazione, questa. Il risultato pratico è che le immagini che comunque arrivano da Gaza sono sempre e soltanto filmate da operatori di Hamas o comunque palestinesi, dunque sospettabili di strumentalizzazioni propagandistiche, come sempre e come in tutte le guerre.

Per paura dei giornalisti, le forze israeliane lasciano ai propri nemici il monopolio delle immagini che illuminano d’orrore i nostri televisori. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Perché e come è nata l’Operazione Piombo Fuso/2. (Fine).

Seconda parte di L’invasione di Gaza: La “Operazione Piombo Fuso” è parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano – 6/01/09 da megachip.info
   
di Michel ChossudovskyGlobal Research

Continuità: da Sharon a Olmert
È importante concentrare l’attenzione su vari eventi chiave che hanno portato fino agli eccidi di Gaza sotto la “Operazione Piombo Fuso”:

1. L’assassinio nel novembre 2004 di Yasser Arafat. Questo assassinio è stato nel tavolo dei progetti dal 1996 nell’ambito della “Operazione Campi di Spine”. Secondo un documento dell’ottobre 2000 «preparato dai servizi di sicurezza, su richiesta dell’allora Primo Ministro Ehud Barak, si sosteneva che “Arafat, la persona, è una grave minaccia alla sicurezza dello Stato [di Israele] e il danno che risulterà dalla sua scomparsa è minore del danno causato dalla sua esistenza.» (Tanya Reinhart, Evil Unleashed, Israel’s move to destroy the Palestinian Authority is a calculated plan, long in the making, Global Research, dicembre 2001. Dettagli del documento furono pubblicati su Ma’ariv, 6 luglio 2001.).
L’assassinio di Arafat fu ordinato nel 2003 dal gabinetto di governo israeliano. Venne approvato dagli USA che posero il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che condannava la decisione del 2003 del governo israeliano. In reazione agli aumentati attacchi palestinesi, nel 2003 il ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz dichiarò una “guerra totale” ai militanti cui giurò che erano “marchiati a morte”
«A metà settembre il governo israeliano approvò un provvedimento per sbarazzarsi di Arafat. Il consiglio di gabinetto per gli affari di sicurezza politica la definì “una decisione volta rimuovere Arafat in quanto ostacolo alla pace.” Mofaz minacciò: “sceglieremo il modo e il tempo giusti per uccidere Arafat.” Il ministro palestinese Saeb Erekat disse alla CNN che riteneva che Arafat sarebbe stato il prossimo obiettivo. La CNN chiese al portavoce di Sharon, Ra’anan Gissan se il voto significasse l’espulsione di Arafat. Gissan chiarì: “Non significa questo. Il consiglio di gabinetto ha deciso oggi di rimuovere questo ostacolo. Il tempo, il metodo, i modi con cui ciò avrà luogo saranno decisi in separata sede, e i servizi di sicurezza sorveglieranno la situazione e faranno le raccomandazioni sull’azione più appropriata.» (Si veda Trish Shuh, “Road Map for a Decease Plan”, www.mehrnews.com, 9 novembre 2005.
L’assassinio di Arafat era parte del Piano Dagan del 2001. Con ogni probabilità, fu portato avanti dall’intelligence israeliana. Era intesa a distruggere l’Autorità Palestinese, fomentare divisioni all’interno di al-Fatah così come tra al-Fatah e Hamas. Mahmud Abbas è un quisling palestinese. Venne installato come leader di al-Fatah, con l’approvazione di Israele e degli Stati Uniti, che finanziano le forze paramilitari e di sicurezza dell’Autorità Palestinese.

2. La rimozione, in base agli ordini del Primo Ministro Ariel Sharon nel 2005, di tutte le colonie ebraiche a Gaza. Una popolazione ebraica di 7mila persone venne ridislocata.
«“È mia intenzione [Sharon] portare avanti un’evacuazione – scusate, una ridislocazione – degli insediamenti che ci causano problemi e dei luoghi non in grado di durare fino a diventare un insediamento finale, come gli insediamenti di Gaza… sto lavorando nel presupposto che in futuro non ci saranno ebrei a Gaza” ha detto Sharon »(CBC, March 2004)
La questione delle colonie di Gaza fu presentata come parte della “road map verso la pace” sponsorizzata da Washington. Celebrata dai palestinesi come una “vittoria”, questa misura non era diretta contro i coloni ebrei. Era piuttosto il contrario: faceva parte  della operazione coperta complessiva, che consisteva nel trasformare Gaza in un campo di concentramento. Finché i coloni ebrei vivevano dentro Gaza, l’obiettivo di sostenere un vasto territorio-prigione sigillato non poteva essere conseguito. La realizzazione concreta della “Operazione Piombo Fuso” imponeva “niente ebrei a Gaza”.

3. La costruzione del famigerato Muro dell’Apartheid fu decisa all’inizio del governo Sharon,
4. La fase successiva fu la vittoria elettorale di Hamas nel gennaio 2006. Senza Arafat, gli architetti dell’intelligence militare israeliana sapevano che al-Fatah sotto Mahmud Abbas avrebbe perso le elezioni. Questo faceva parte dello scenario, già previsto e analizzato ben prima.
Essendo in capo ad Hamas la responsabilità dell’autorità palestinese, e nell’usare il pretesto che Hamas è un’organizzazione terroristica, Israele avrebbe intrapreso il processo di “cantonalizzazione” come formulato nel Piano Dagan. Al-Fatah sotto la guida di Mahmud Abbas sarebbe rimasta formalmente responsabile della Cisgiordania. Il governo regolarmente eletto di Hamas sarebbe stato confinato nella Striscia di Gaza.

L’attacco di terra
Il 3 gennaio, i carri armati e la fanteria sono entrati a Gaza in un’offensiva totale sul terreno:
«L’operazione di terra è stata preceduta da varie ore di fuoco pesante di artiglieria dopo il buio, che ha mandato i bersagli in fiamme sviluppatesi nel cielo notturno. Il fuoco delle mitragliatrici ha crepitato quando i traccianti hanno illuminato l’oscurità e lo scoppio di centinaia di proiettili di artiglieria ha lanciato scie di fuoco» (AP, 3 gennaio 2009).
Fonti israeliane hanno sottolineato un lungo decorso per l’operazione militare. Essa «non sarà facile e non sarà breve», ha affermato il ministro della Difesa Ehud Barak in un discorso alla TV.
Israele non sta mirando a obbligare Hamas a “cooperare”. Ciò cui assistiamo è la messa in pratica del “Piano Dagan” così come formulato inizialmente nel 2001, giacché si appellava a:
«un’invasione del territorio a controllo palestinese da parte di circa 30mila soldati israeliani, con la ben definita missione di distruggere l’infrastruttura della leadership palestinese e di requisire gli armamenti attualmente posseduti dalle varie forze palestinesi, ed espellendo o uccidendo la sua leadership militare.» (Ellis Shulman, op. cit., grassetto aggiunto, ndr)
La questione più generale è se Israele d’intesa con Washington abbia l’intenzione di scatenare una guerra più ampia
L’espulsione di massa potrebbe avvenire in qualche fase finale dell’invasione di terra, se fossero gli israeliani ad aprire i confini di Gaza per consentire un esodo della popolazione. Fu da parte di Sharon il riferimento all’espulsione come «una soluzione in stile 1948». Per Sharon «è solo necessario trovare un altro Stato per i palestinesi: “la Giordania è Palestina”, era una frase che fu Sharon a coniare» (Tanya Reinhart, op. cit.) (Beh, buona giornata).

Link all’originale: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11606.
Traduzione di Pino Cabras – Megachip

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Attualità Popoli e politiche

Perché e come è nata l’Operazione Piombo Fuso/1. (Continua).

L’invasione di Gaza: La “Operazione Piombo Fuso” è parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano – 6/01/09 da megachip.info

di Michel ChossudovskyGlobal Research

I bombardamenti aerei e l’invasione terrestre di Gaza ora in corso da parte delle forze di terra israeliane devono essere analizzati all’interno di un contesto storico. L’operazione “Piombo Fuso” è un’impresa attentamente pianificata, a sua volta parte di un più vasto programma militare e d’intelligence israeliano formulato per la prima volta dal governo del primo ministro Ariel Sharon nel 2001:
«Fonti negli ambienti della Difesa hanno riferito che il Ministro Ehud Barak ha istruito le Forze di Difesa di Israele (IDF) affinché si preparassero per l’operazione oltre sei mesi fa, già al momento in cui Israele stava iniziando a negoziare un accordo di cessate il fuoco con Hamas.» (Barak Ravid, Operation “Cast Lead”: Israeli Air Force strike followed months of planning, «Haaretz», 27 dicembre 2008)

È stata Israele a violare la tregua il giorno delle elezioni presidenziali USA, il 4 novembre:
«Israele ha usato questa distrazione per interrompere il cessate il fuoco con Hamas attraverso un bombardamento della Striscia di Gaza. Israele ha asserito che questa violazione del cessate il fuoco mirava a impedire ad Hamas di scavare dei tunnel all’interno del territorio israeliano.
Proprio il giorno dopo, Israele ha lanciato un terrificante assedio di Gaza, tagliando cibo, carburante, forniture sanitarie e altri beni di necessità nel tentativo di “soggiogare” i palestinesi nel mentre che si impegnava in incursioni armate.
Come risposta, Hamas e altri a Gaza iniziarono di nuovo a sparare verso Israele dei razzi rudimentali, artigianali e fondamentalmente imprecisi. Nel corso degli ultimi sette anni, questi razzi hanno causato la morte di 17 israeliani. Nello stesso lasso di tempo, gli assalti israeliani in stile blitzkrieg hanno ucciso migliaia di palestinesi, sollevando proteste in tutto il mondo ma cadendo davanti alle orecchie sorde dell’ONU.» (Shamus Cooke, The Massacre in Palestine and the Threat of a Wider War, «Global Research», dicembre 2008)

Un disastro umanitario pianificato
L’8 dicembre, il numero due del Dipartimento di Stato USA, John Negroponte, era a Tel Aviv per discussioni con le controparti israeliane, compreso il direttore del Mossad, Meir Dagan.
La “Operazione Piombo Fuso” è stata iniziata due giorni dopo Natale. È stata abbinata a una campagna internazionale di Public Relations minuziosamente pianificata sotto gli auspici della ministra degli esteri israeliana.
I bersagli militari di Hamas non sono il principale obiettivo. L’Operazione “Piombo Fuso è intesa, in modo abbastanza deliberato, a causare vittime civili.
Ciò con cui abbiamo a che fare è un “disastro umanitario pianificato” a Gaza in un’area urbana densamente popolata (vedi la mappa sotto indicata)
L’obiettivo di lungo periodo di questo piano, così come formulato dai decisori politici israeliani, è l’espulsione dei palestinesi dalle terre palestinesi.
«Terrorizzare la popolazione civile, assicurando la massima distruzione della proprietà e delle risorse culturali… La vita quotidiana dei palestinesi deve essere resa insostenibile. Devono essere segregati in città e borghi, impediti dall’esercitare una vita economica normale, tagliati fuori da luoghi di lavoro, scuole e ospedali. Ciò incoraggerà l’emigrazione e indebolirà la resistenza nei confronti di future espulsioni.» (Ur Shlonsky, citato da Ghali Hassan, Gaza: The World’s Largest Prison, Global Research, 2005)

“Operazione Vendetta Giustificata”
È stato raggiunto un punto di svolta. L’operazione “Piombo Fuso” è parte di una più vasta operazione militare e d’intelligence iniziata agli esordi del governo di Ariel Sharon nel 2001. Fu sotto la “Operazione Vendetta Giustificata” di Sharon che i caccia F-16 furono inizialmente usati per bombardare le città palestinesi.
La “Operazione Vendetta Giustificata” fu presentata nel luglio 2001 al governo israeliano di Ariel Sharon dal capo di stato maggiore dell’IDF Shaul Mofaz, con il titolo “La distruzione dell’Autorità Palestinese e il disarmo di tutte le forze armate”.
«Un piano d’emergenza, dal nome in codice ‘Operazione Vendetta Giustificata’, è stato redatto lo scorso giugno (2001) per rioccupare tutta la Cisgiordania e possibilmente la Striscia di Gaza al costo probabile di “centinaia” di vittime israeliane.» («Washington Times», 19 marzo 2002).
Stando a quanto ha riferito «Jane’s Foreign Report» (12 luglio 2001) l’esercito israeliano sotto Sharon aveva aggiornato i suoi piani per un «assalto su vasta scala volto ad abbattere l’autorità palestinese, esiliare il leader Yasser Arafat e uccidere o imprigionare il suo esercito».

“Giustificazione per lo spargimento di sangue”
La “Giustificazione per lo spargimento di sangue” era una componente essenziale del programma militare e d’intelligence. L’uccisione di civili palestinesi veniva giustificata su “basi umanitarie.” Le operazioni militari israeliane erano accuratamente sincronizzate in modo da coincidere con gli attentati suicidi:
«L’assalto sarebbe stato lanciato, a discrezione del governo, dopo un grosso attacco suicida con bombe che avesse causato un gran numero di morti e feriti, citando lo spargimento di sangue come giustificazione.» (Tanya Reinhart, Evil Unleashed, Israel’s move to destroy the Palestinian Authority is a calculated plan, long in the making, Global Research, dicembre 2001, grassetto aggiunto, ndr)

Il piano Dagan
La “Operazione Vendetta Giustificata” ha avuto anche il nome di “Piano Dagan”, in riferimento al generale (ora in congedo) Meir Dagan, che attualmente guida il Mossad, l’agenzia d’intelligence di Israele.
Il Generale della Riserva Meir Dagan era il consigliere di sicurezza nazionale di Sharon durante la campagna elettorale del 2000. Il piano appariva essere stato redatto prima dell’elezione di Sharon alla carica di Primo Ministro nel febbraio 2001. «A quanto riferisce Alex Fishman su “Yediot Aharonot”, il Piano Dagan consisteva nel distruggere l’autorità palestinese e nel mettere Yasser Arafat ‘fuori gioco’.» (Ellis Shulman, “Operation Justified Vengeance”: a Secret Plan to Destroy the Palestinian Authority, marzo 2001):
«In base a quanto è esposto dal “Foreign Report [Jane]” e rivelato a livello locale dal “Maariv”, il piano d’invasione di Israele – che si riferisce sia stato denominato Vendetta Giustificata – verrebbe lanciato immediatamente a ridosso del prossimo attentato suicida con molte vittime, durerebbe almeno un mese e si prevede che causerebbe la morte di centinaia di israeliani e migliaia di palestinesi.» (ibid., grassetto aggiunto, ndr)
Il ‘Piano Dagan’ prevedeva la cosiddetta “cantonalizzazione” dei territori palestinesi attraverso la quale Cisgiordania e Gaza sarebbero stati totalmente separati l’una dall’altra, con “governi” separati in ciascun territorio. In base a questo scenario, già previsto nel 2001, Israele avrebbe:
«“negoziato separatamente con le forze palestinesi che sono dominanti in ciascun territorio: forze palestinesi responsabili per la sicurezza, l’intelligence, e anche per il Tanzim (al-Fatah).” Il piano somiglia perciò all’idea di “cantonalizzazione” dei territori palestinesi, scaturita da vari ministeri.»
Sylvain Cypel, The infamous ‘Dagan Plan’ Sharon’s plan for getting rid of Arafat, «Le Monde», 17 dicembre 2001).
Il Piano Dagan ha stabilito una continuità nei programmi d’azione militare e d’intelligence. In attesa delle elezioni del 2000, a Meir Dagan fu assegnato un ruolo chiave. «Diventò l’intermediario di Sharon per i temi della sicurezza con gli inviati speciali del presidente Bush, Zinni e Mitchell.» Successivamente fu nominato direttore del Mossad dal Primo Ministro Ariel Sharon nell’agosto 2002. Nel periodo post-Sharon è rimasto capo del Mossad. È stato riconfermato nella sua posizione di direttore dell’intelligence dal Primo Ministro Ehud Olmert nel giugno 2008.
A Meir Dagan, in armonia con le controparti USA, hanno fato capo varie operazioni militari e d’intelligence. Senza menzionare il fatto che Meir Dagan, da giovane colonnello aveva lavorato a stretto contatto con l’allora ministro della difesa Ariel Sharon nelle incursioni a danno degli insediamenti palestinesi a Beirut nel 1982. L’invasione di terra di Gaza nel 2009, sotto molti punti di vista, ricalca da vicino l’operazione militare del 1982 condotta da Sharon e Dagan.
(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Operazione Piombo Fuso:”L´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni è stato rimosso dall’agenda a tempo indeterminato.”

Perché la guerra di Gaza è una tragedia domestica

di Lucio Caracciolo da repubblica.it
La questione demografica. L’assenza di un campo palestinese unitario. La Palestina non è più una priorità. Per Israele è una questione interna. Le mini-galassie palestinesi. Tutti troppo deboli per accettare un compromesso.
Ci sono problemi che si possono risolvere e problemi insolubili. Da tempo gli apparati di sicurezza israeliani, più influenti dei governi anche perché più stabili, hanno deciso che la questione palestinese appartiene alla seconda categoria. Non ha soluzione. Quindi a rigore non è un problema. È una crisi permanente da gestire perché non diventi troppo acuta. Talvolta con terapie d´urto, come oggi a Gaza.

Per capire la guerra in corso, conviene inquadrarla sullo sfondo dell´opzione strategica perseguita da Israele a partire dal fallimento del vertice di Camp David e dei colloqui di Taba sullo “status finale”, nel 2000-2001. Da allora, l´establishment di sicurezza israeliano, appoggiato dalla Casa Bianca, ha affrontato il problema/non problema palestinese a partire da tre postulati.

Primo: nel giro di pochi anni fra Mediterraneo e Giordano gli arabi saranno maggioranza. Ciò minaccia il carattere ebraico dello Stato di Israele, che non è negoziabile. Dunque o creiamo uno staterello palestinese a fianco del nostro, incapace di minacciarci, oppure dobbiamo tenere i palestinesi sotto controllo con la forza. E possibilmente divisi. La prima ipotesi resta il mantra della diplomazia ufficiale, la seconda corrisponde alle iniziative sul terreno, dall´espansione degli insediamenti alla caccia al terrorista nelle strade di Gaza City.

Di fatto, come oltre quattro anni fa spiegava il braccio destro di Sharon, Dov Weisglass, «l´intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, è stato rimosso dall´agenda a tempo indeterminato». Olmert non ha deviato dall´approccio del suo predecessore. La conferenza di Annapolis è stata una mascherata, cui ha partecipato più o meno consapevolmente lo stesso Abu Mazen, simbolo dell´impotenza palestinese.

Secondo: non esiste un campo palestinese unitario, né Israele ha interesse a che si formi, nella prospettiva demografica sopra evocata. Coerentemente, negli ultimi anni i governi israeliani hanno prima trattato Arafat come un leader inaffidabile, poi concesso una patente di affidabilità al suo pallido successore, sapendo che comunque Abu Mazen non dispone dell´autorità sufficiente a riunire i palestinesi. Quanto a Hamas, è solo una banda di terroristi che vogliono distruggere Israele. Risultato: anche se volesse promuovere uno Stato palestinese, lo Stato ebraico non potrebbe. Perché la fazione palestinese disponibile a battezzarne uno purchessia è troppo debole per controllarlo, mentre l´altra vorrebbe un solo Stato, ma arabo e non ebraico.

Terzo: in ogni caso i palestinesi non sono una priorità. Per il resto del mondo (arabi e islamici compresi), ma soprattutto per Israele. Non è certo Hamas che può distruggere lo Stato ebraico. La minaccia strategica è l´Iran. Non solo in quanto deciso a dotarsi di un arsenale atomico capace di rivaleggiare con quello (mai dichiarato) di Gerusalemme, ma anche in quanto potenza nemica capace di utilizzare i terroristi arabi e islamici per tenere Israele sotto schiaffo. Hizbullah, ma anche Hamas. Sicché oggi la battaglia di Gaza è sotto questo profilo uno scontro indiretto fra Gerusalemme e Teheran.

Si può respingere in tutto o in parte tale analisi. Ma possiede una sua logica. I palestinesi non hanno saputo opporvi una visione coerente e unitaria. Giacché ormai le loro organizzazioni principali, Hamas inclusa, sono delle mini-galassie in cui interessi particolari (spesso criminali), piccoli clan e bande di disperati si contendono le scarse risorse disponibili. Strette nella morsa israeliana. Mentre attori esterni, arabi (sauditi in testa) e islamici (vedi Teheran) usano i palestinesi per fini propri, spesso contrastanti.

La deriva dal nazionalismo all´islamismo che segna l´ultima fase di Arafat e l´ascesa di Hamas esprime la crisi dell´identità palestinese così come era stata reinventata dall´Olp a partire dagli anni Sessanta. E rafforza a Gerusalemme coloro che considerano vano inventare una nazione che non c´è. Figuriamoci affidarle uno Stato. Nessuno sembra in grado di riunificare le fazioni e i territori palestinesi. Né pare che la progressione dei coloni ebraici in Cisgiordania – che ruota sull´asse Gerusalemme-Ma´ale Adumim, destinato a bisecare i “bantustan” residui – possa essere arrestata.

Vista da Israele la guerra di Gaza non è dunque una crisi internazionale ma una partita domestica. Nel breve, per l´ovvio tentativo di Kadima e dei laburisti di sottrarre voti alla destra di Netanyahu alle elezioni del 10 febbraio. In prospettiva, per riaffermare che la questione palestinese appartiene alla sfera della sicurezza interna e basta. In questo senso Piombo Fuso è più un´operazione di polizia con mezzi militari che una vera e propria guerra.

Non a caso gli israeliani osservano con preoccupazione le
reazioni dei “loro” palestinesi, ossia degli arabi che abitano nello spazio dello Stato ebraico, pur non essendovi davvero integrati. I quali peraltro restano allo stesso tempo refrattari a soggiacere a un´autorità palestinese, viste le performance di Fatah a Ramallah e di Hamas a Gaza. Per Gerusalemme, la saldatura fra le proteste nelle sacche arabe di Israele e quelle nei Territori va evitata ad ogni costo.

Anche fra i palestinesi la battaglia di Gaza ha connotati interni. Hamas provoca gli israeliani non perché pensi di batterli, ma per consolidare la sua fama di unica struttura combattente della resistenza palestinese, inconciliabile con il “Quisling” Abu Mazen. Il quale tifa nemmeno troppo segretamente per Israele, dato che da solo non potrebbe mai sbarazzarsi di Hamas (ma è piuttosto ottimistico pensare che ci riesca Olmert). Solo una prolungata guerra di logoramento a Gaza può riavvicinare, almeno provvisoriamente, le fazioni palestinesi in lotta. In nome dell´odio per gli israeliani.

La tragedia è che nessuna delle parti in causa, nemmeno la più potente (Israele), può raggiungere i suoi obiettivi strategici. E nessuna è abbastanza forte e sicura di sé per accettare un compromesso con le altre. La guerra continua. E non finirà con la fine di Piombo Fuso. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Società e costume

Piombo fuso, la trottola che allieta i bimbi israeliani nei festeggiamenti di Hanukkah e terrorizza i bimbi palestinesi nella Striscia di Gaza.

Piombo fuso

di ALBERTO PICCININI da il manifesto.

In molti hanno ricordato che il termine «Operazione Piombo Fuso», usato per indicare i bombardamenti su Gaza, deriva da una filastrocca scritta dal poeta Hayyim Nahamat Bialik in onore dei festeggiamenti di Hanukkah. La «trottola di piombo fuso» cui si fa riferimento è un gioco popolare tra i bambini, il dreidel. Sulle quattro facce della trottola, a forma di parallepido, stanno le lettere «nun», «gimel», «hei», «shin», acronimo per «un grande miracolo è successo laggiù».
Ecco la traduzione della filastrocca:
«Mio padre ha acceso candele per me/ risplendeva come una torcia la candela Shamash (*)/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Il maestro mi ha comprato una trottola di piombo fuso, il migliore che si trovi/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Mia madre ha fatto una torta/ calda e dolce, tutta coperta di zucchero/ in onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto// Lo zio ha un regalo per me/ un vecchio penny tutto per me/ In onore di chi, per la gloria di chi?/ Per Hanukkah soltanto».
(*)La «candela Shamash» è la candela centrale del candelabro a nove braccia, che si usa per accendere le altre.
Beh, buona giornata.
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Attualità Popoli e politiche

Piombo fuso, fermate la trottola nella Striscia di Gaza.

 
Tregua, subito.

di ABRAHAM B. YEHOSHUA da lastampa.it

Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.

Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso.
Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina.

A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza.

Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi.

Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile.

È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di A. Shomroni)

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Panebianco di ieri, ovvero la denuncia di Richard Falk.

di Richard Falk* – «The Nation»

Gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza rappresentano delle gravi e massicce violazioni del diritto internazionale umanitario definito dalle Convenzioni di Ginevra, sia in relazione agli obblighi di una Potenza Occupante, sia ai requisiti del diritto bellico.
Tali violazioni implicano:

• Punizione collettiva: l’intera popolazione composta da un milione e mezzo di persone che vivono nell’affollata Striscia di Gaza viene punita per le azioni di pochi militanti.

• Civili come obiettivo: gli attacchi aerei sono stati rivolti verso aree civili in una delle porzioni di terra più affollate del mondo, certamente la più popolata del Medio Oriente.

• Reazione militare sproporzionata: Gli attacchi aerei non hanno soltanto distrutto ogni ufficio di polizia e di sicurezza del governo eletto di Gaza, ma hanno ucciso e ferito centinaia di civili; è stato riferito che almeno uno dei bombardamenti ha colpito gruppi di studenti in attesa di mezzi di trasporto da casa all’università.

Le precedenti azioni israeliane, in particolare la completa sigillatura della Striscia di Gaza in entrata e in uscita, hanno portato a una grave scarsità di medicine e carburante (così come di cibo), fino a causare l’impossibilità per le ambulanze di soccorrere i feriti, l’incapacità degli ospedali di fornire adeguatamente le medicine o le necessarie attrezzature per i pazienti, e l’impossibilità per i medici e gli altri operatori sanitari sotto assedio di Gaza ad assistere sufficientemente le vittime.

Certamente gli attacchi con razzi contro obiettivi civili in Israele sono illegali. Ma tale illegalità non fa sorgere in capo a Israele, né in veste di Potenza Occupante né di Stato sovrano, alcun diritto a violare il diritto internazionale umanitario o commettere crimini di guerra o crimini contro l’umanità nella sua reazione. Prendo atto che la progressione di attacchi militari di Israele non ha reso i civili israeliani più sicuri; al contrario, l’unico israeliano ucciso oggi dopo la recrudescenza della violenza israeliana è il primo da oltre un anno.

Israele ha altresì ignorato le recenti iniziative diplomatiche di Hamas miranti a ristabilire la tregua o il cessate il fuoco a partire dal suo termine del 26 dicembre

Gli attacchi aerei di oggi, con i catastrofici costi umani che hanno causato, sfidano quei paesi che sono stati e restano complici, sia direttamente sia indirettamente, nei confronti delle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Tale complicità comprende quei paesi che notoriamente forniscono l’equipaggiamento militare, tra cui aerei di guerra e missili usati in questi attacchi illegali, così come quei paesi che hanno sostenuto e partecipato nell’assedio di Gaza che di per se stesso ha causato una catastrofe umanitaria.

Ricordo a tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite che l’Onu continua a essere vincolata a un indipendente obbligo di proteggere qualsiasi popolazione civile che si trovi a fronteggiare massicce violazioni del diritto internazionale umanitario, a prescindere da quale paese sia responsabile di tali violazioni. Faccio appello a tutti gli Stati Membri, nonché a tutti i funzionari e a ogni organo rilevante del sistema Onu, affinché si muovano sulla base dell’emergenza non solo per condannare le serie violazioni israeliane, ma per sviluppare nuove misure volte a fornire una reale protezione del popolo palestinese. (Beh, buona giornata).

* Richard Falk, professore emerito di diritto e pratica internazionale alla Princeton University, è relatore speciale dell’Onu sui diritti umani nei territori palestinesi occupati e fa parte del comitato editoriale di «The Nation».

Fonte: http://www.thenation.com/doc/20090112/falk?rel=hp_currently
[29 dicembre 2008]

Traduzione di Pino Cabras- megachip.info

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