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Attualità Popoli e politiche

La protesta dei migranti si salda alla protesta dei cittadini di Lampedusa. Clamoroso fallimento delle politiche sull’immigrazione del governo.

da repubblica.it

Fuga di massa dal centro di prima accoglienza tra gli applausi dei residenti a Lampedusa. Tutti i migranti ospiti del Cpa (Centro di prima accoglienza) poco dopo le 10 hanno forzato i cancelli d’ingresso, sono riusciti ad aggirare i controlli delle forze dell’ordine e sono fuggiti. Oltre mille si sono diretti in corteo verso la piazza del municipio di Lampedusa gridando slogan: “Libertà, aiutateci”. Gli extracomunitari hanno sfilato lungo la strada senza essere bloccati dalla polizia che li ha, invece, affiancati lungo il percorso senza intervenire.

Gli oltre mille immigrati sono arrivati davanti al municipio accolti dagli applausi dei lampedusani. Gli extracomunitari gridano “Libertà” e “Grazie Lampedusa” e chiedono di poter lasciare il centro, di essere trasferiti nei centri di permanenza temporanea (Cpt) di Brindisi e di poter raggiungere le loro famiglie, molte delle quali sono in Francia, in Germania e nel Nord Italia.

Sul palco allestito nella piazza, a dare il benvenuto ai migranti c’è l’ex sindaco Totò Martello, leader del comitato che si oppone alla realizzazione di un nuovo centro nell’isola. Nello stesso momento i residenti avevano infatti cominciato una nuova giornata di protesta con presidio davanti al municipio per consegnare le schede elettorali contro la realizzazione di un nuovo centro di identificazione ed espulsione (Cie) degli immigrati progettato dal ministero dell’Interno.

“Non vogliamo tornare nel cpa. Noi restiamo qui”. Centinaia di migranti fuggiti dal centro, riuniti in piazza insieme ai cittadini, si rifiutano di tornare nella struttura di accoglienza. L’ex sindaco Martello li invita a rientrare. “Siamo insieme a voi – dice – vogliamo che vi trasferiscano negli altri centri italiani, ci batteremo perchè possiate lasciare Lampedusa, ma ora dovete rientrare nel centro”. I migranti, però, continuano a ribadire che non lasceranno la piazza e che la loro protesta sarà pacifica.

La fuga dal Cpa è l’epilogo di giornate di tensione che hanno interessato la struttura dove sono stipate 1.300 persone a fronte di una capienza di 800 posti. Già all’alba si era registrata la fuga di circa 300 immigrati. Polizia e carabinieri avevano immediatamente avviato posti di blocco per rintracciare tutti i fuggitivi. Anche ieri alcuni migranti si erano allontanati dal centro, ma erano stati poi rintracciati dalle forze dell’ordine e fatti rientrare.

Gli immigrati lamentano di essere trattati “in modo poco dignitoso”. “Abbiamo freddo – dice un africano giunto a Lampedusa dalla Tunisia – io ho bisogno dell’insulina, ma non ce n’è. Siamo qui da oltre 30 giorni”.

I residenti protestano invece contro le scelte del Viminale. Dopo il corteo e il sit-in davanti al centro di prima accoglienza organizzati ieri, giornata di sciopero generale, questa mattina i cittadini si sono dati appuntamento davanti al municipio. Ieri sera, durante una seduta straordinaria del consiglio comunale, si era dato vita a un coordinamento per pianificare le ulteriori iniziative di protesta.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Bombe al fosforo, armi a microonde e al plasma? Che armi sono state usate nell’Operazione Piombo Fuso?

di Fernando Termentini – da www.paginedidifesa.it

La battaglia a Gaza è terminata ma ancora molte fonti di informazione, ricorrendo anche ad immagini di repertorio degli scontri, ripropongono il problema di armi al fosforo bianco.
Munizionamento illuminante al fosforo sicuramente è stato utilizzato nel corso degli scontri, anche bombe d’aereo o proietti di artiglieria pesante, ma affermare con decisione che questo particolare materiale sia stato usato su larga scala per scopi offensivi, potrebbe essere forse azzardato e comunque semplicistico.

A Gaza le operazioni militari sono state caratterizzate da episodi tattici di combattimento degli abitati come ormai avevamo dimenticato dalla fine del secondo conflitto mondiale, a stretto contatto con la popolazione civile e in zone densamente abitate. In queste condizioni utilizzando munizionamento a caricamento speciale come gli ordigni illuminanti caricati con il fosforo bianco, diventa difficile gestire la ricaduta al suolo delle gocce incandescenti, concentrandole su obiettivi areali come, ad esempio, un bunker o una postazione avversaria.

In queste condizioni, quindi, si potrebbe verificare che qualcuno o qualcosa possa essere colpito da fosforo che brucia e che non è possibile spegnere con l’acqua. In questo caso però le parti di materiale che brucia lascerebbe tracce profonde su qualsiasi cosa venisse a contatto.

Le immagini che sono arrivate dal teatro di guerra non confermano in maniera incontrovertibile queste ipotesi, né lasciano pensare a un uso estensivo e generalizzato di fosforo bianco né contro i combattenti né contro la popolazione palestinese.

Se, invece, come sembra, molti dei feriti e molti cadaveri presenterebbero (la forma ipotetica è d’obbligo non disponendo di riscontri certi) lesioni la cui origine non è sicura e non riconducibile a quelle provocate dalle armi normalmente utilizzate, come vaste bruciature, tessuti scarnificati e mummificazione dei tessuti molli, allora si potrebbe pensare che forse siano state utilizzate ancora armi a microonde e/o al plasma.

Strumenti che dovrebbero essere stati sperimentati in Iraq, in Libano e forse anche in occasione della prima guerra del Golfo, contro le truppe irachene in fuga da Kuwait City. Armi che invece dei proiettili sparano fasci di energia più o meno potente. Sistemi a suo tempo studiati e realizzati per conto dell’amministrazione americana fin dai tempi della presidenza Clinton per disporre di efficaci dispositivi anti-sommossa non letali (l’arma Sceriffo costruita dall’industria americana Raytheon), successivamente trasformate in vere e proprie armi offensive agendo sulla potenza irradiata.

La materia colpita da queste armi perde istantaneamente tutta la componente liquida e si accartoccia diminuendo di volume. Fenomeno che aumenta in maniera esponenziale quando l’obiettivo è un uomo. Cadaveri rimpiccioliti con i tessuti molli mummificati, le parti ossee scollate e gli indumenti praticamente indenni. Condizioni che hanno caratterizzato molti cadaveri trovati a Falluja dopo i combattimenti casa per casa e in Libano nel corso della guerra del 2006.

A Gaza, peraltro, sembra che la scorsa estate, organi istituzionali della Sanità palestinese, riferendosi alla tipologia delle lesioni di molti feriti fra i manifestanti, hanno ipotizzato l’uso da parte degli israeliani di armi non convenzionali. In quella occasione si parlò seppure in modo superficiale di persone con gravi effetti ustionanti, con feriti o cadaveri quasi fusi con muscoli e organi interni distrutti. Di fatto, tessuti prosciugati dell’acqua, come avviene sulle sostanze organiche sottoposti all’azione delle microonde.

Sistemi del tipo la pistola Taser capace di uccidere a otto metri di distanza irradiando energia elettrica di oltre 60.000 volt, diffusissima in Usa e anche in Francia. Armi corte che nei combattimenti negli abitati, negli spazi stretti, nei cunicoli, nei locali sotterranei e di notte potrebbero essere molto più efficaci rispetto alle armi convenzionali.

Molto più sicuri anche per chi le ha in dotazione, in quanto si abbatte il rischio dei colpi di rimbalzo ricorrente quando si opera in locali stretti e circondati da mura, pericolosi anche per le truppe amiche. Sistemi sicuramente più selettivi nella scelta del bersaglio rispetto ad armi leggere automatiche o a bombe a mano offensive.

Un’ipotesi di cui si è già scritto in occasione della guerra in Libano e forse più condivisibile sul piano tecnico rispetto a ipotesi che invece fanno riferimento all’uso generalizzato per scopi offensivi di munizionamento al fosforo bianco.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro.

Per il cda della Rai, la trasmissione di Anno Zero del 15 gennaio sui bombardamenti israeliani a Gaza, che ha già scatenato una furiosa polemica, «ha peccato di intolleranza e faziosità». Come è noto, Lucia Annunziata aveva abbandonato la diretta, accusando Santoro di non fare una trasmissione “equidistante” tra le posizioni filo israeliane e quelle filo palestinesi.

 

 

In ambienti vicini la redazione di Anno Zero si fa notare che quanto è accaduto ha un paio di risvolti un poco singolari. Essi riguarderebbero: a) la volontà di chiudere per sempre il programma, manifestata già prima della messa in onda della puntata “incriminata”(Santoro avrebbe ricevuto una telefonata tre giorni prima, nella quale lo si informava di questa volontà); b) uno degli invitati alla trasmissione avrebbe declinato l’invito un paio d’ore prima della messa in onda, adducendo motivi di salute; c) pare che lo stesso abbia però lasciato la sera stessa un post it recante parole di ringraziamento, sul portone d’ingresso della giornalista che aveva abbandonato la trasmissione. C’è anche chi ha notato che mentre Lucia Annuziata si alzava e si toglieva il microfono per andarsene dallo studio, avrebbe detto:”io stavolta non farò niente”. La cosa verrebbe interpretata come se la giornalista fosse a conoscenza del proposito di chiudere il programma.

 

Più volte la giornalista aveva detto “scusate se faccio la stronza”. Anche qui si vorrebbe vedere una sorta di “ti sto aiutando a non farti chiudere e tu per tutta risposta mi tratti pure male”. Insomma, una sorta di “eccesso colposo di buona volontà” male interpetato da Santoro, che perdendo poi le staffe in diretta non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione, fino al clamoroso abbandono della trasmissione. Comunque, va rilevato che, nonostante presunti bigliettini e la pubblica telefonata di “solidarietà” da parte di Fini, Lucia Annunziata ha mantenuto uno stretto riserbo sulla vicenda, sottraendosi a ogni ulteriore polemica diretta, la qual cosa è un punto a suo favore. Chi l’ha criticata per il suo comportamento in trasmissione, non ha preso in considerazione che quello che ha detto lo pensasse davvero, tanto da agire di conseguenza.

 

 

Si tratta di gossip? Di dietrologie? Di un processo alle intenzioni? Di una delle solite “teorie del complotto”? Fatto sta che la reazione politica nei confronti di Santoro è stata immediata e ben orchestrata: come ricorderete, il la è stato dato con una durissima dichiarazione del presidente della Camera, alla quale hanno fatto subito coro le dichiarazioni dell’apparatnik del centro-destra.

 

Fino alla presa di posizione del cda della Rai di oggi. Al di là di ogni ulteriore commento relativo a questa ultima polemica contro la tv pubblica, che vede ancora una volta al centro Michele Santoro, resta il fatto sconcertante che il cda della Rai abbia sostenuto la tesi per cui “il Consiglio sottolinea che nel suo complesso l’informazione della Rai sul conflitto è completa ed equilibrata”. Come sarebbe potuta esserlo se agli inviati Rai, come a tutti i corrispondenti stranieri è stato vietato l’ingresso nella Striscia di Gaza? Come potevano essere completi ed equilibrati i servizi trasmessi al di qua del confine con Gaza, costringendo gli inviati a mostrare da lontano i fumi che si alzavano nelle città bombardate? Perché la Rai non ha protestato contro il governo israeliano per l’embargo della stampa internazionale, quella italiana compresa?

 

 

Ha scritto Corrado Giustiniani, sul blog “I nuovi italiani” (ilmessaggero.it): “Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.”

 

 

Mi pare che questo sia il succo di tutta la vicenda. Si sono scagliati contro Santoro, perché “la guerra dei bambini”, come era intitolata la puntata di Anno Zero “incriminata” di “intolleranza e faziosità” era “assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato”. Questa è la verità. Piaccia o non piaccia. Al di là delle alchimie politiche, al di fuori delle dietrologie. Alla verità importa un fico di piacere a qualcuno. Non ha bisogno di equidistanze, di moderazione, di equilibrio. E’ la verità, il suo ruolo è essere scomoda e irritante. Se no, che verità sarebbe? 

La trasmissione di chiamava “la guerra dei bambini”, non “chi ha ragione: Israele o Hamas?”. Aveva un taglio giornalistico preciso e molto chiaro. Dunque, non si trattava di spiegare il conflitto, ma di guardare dentro un conflitto che ha ammazzato centinaia e centinaia di bambini. Questa semplice, quanto terribile verità, raccontata senza troppi fronzoli è stata  però artatamente offuscata dalle polemiche, a cominciare da quella esplosa proprio in trasmissione. Sarebbe bene che sia Annunziata che Santoro, a mente fresca, passate le polemiche, riflettessero su questo. Sempre che, nel frattempo a qualcuno non venga in mente davvero di azzerare Anno Zero. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

“Molti non americani dicevano, un po’ per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l’impatto del paese sugli affari mondiali.”

L’inaugurazione di Barack Obama, oltre a molte altre pietre miliari (il primo presidente nero della storia americana) segna anche un evento rivoluzionario nella storia dei media mondiali. Grazie alla Rete, che è entrata nelle vite quotidiane di milioni di persone in tutto il mondo solo negli ultimi anni, e grazie alla centralità assoluta degli Stati Uniti in questo particolare momento, essendo l’unica superpotenza di un mondo fortemente globalizzato, l’elezione e l’inaugurazione di Obama sono diventate un evento mondiale come nessun’altra elezione americana era mai stata prima d’ora.

Bisogna tornare forse al giubileo della regina Vittoria, il cinquantesimo anniversario del suo regno, quando la Gran Bretagna regnava su metà del pianeta in una sorta di globalizzazione ante litteram, per trovare una cerimonia politica nazionale che ha avuto un seguito tanto ampio. I sovrani di tutta Europa, undici primi ministri coloniali e numerosi maharaja indiani parteciparono a quell’evento, che fu seguito dalla neonata stampa quotidiana, di ogni parte del mondo.

Ma l’elezione di Obama naturalmente è qualcosa di diverso, che mescola elementi della cultura contemporanea della celebrità con forme nuove e innovative di democrazia partecipativa e sentimenti profondi, emotivi, potremmo dire quasi religiosi. “Un incantesimo che aprirà una nuova America” recitava oggi il titolo del quotidiano britannico The Guardian.

Molti non americani dicevano, un po’ per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l’impatto del paese sugli affari mondiali.
I giovani francesi, tedeschi e italiani hanno seguito la candidatura di Obama e hanno esultato per le sue vittorie come se alle elezioni nazionali avesse vinto il loro partito. Io guardo costantemente le pagine Facebook di italiani – giovani e vecchi – con obamerie varie, simboli e messaggi, come se lui fosse uno “di casa”. In un esempio di transfert estremo, la leader dei socialisti francesi, Ségolène Royal, avrebbe detto che la sua campagna aveva “ispirato” Obama e che lui aveva copiato le sue tattiche, suscitando una certa dose di ilarità e ridicolo in Francia. “Evidentemente c’è stato un problema di traduzione e Obama ha frainteso i suoi insegnamenti, perché lui ha vinto”, ha commentato un lettore sul sito di Le Monde. Un editorialista del Times londinese ha scritto: “Domenica sera ho sognato Barack Obama. Milioni di persone lo sognano”.

Obama è diventato una specie di test delle macchie di Rorschach universale, dove ognuno vede quello che vuole vedere. Al tempo stesso, assistere alla curiosa coreografia dell’inaugurazione di Obama – per molti non americani è la prima volta – potrebbe produrre uno shock. Il giuramento sulla bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell’America, a Dio e ai padri fondatori.

La religione civile di Barak

di ALEXANDER STILLE da repubblica.it

Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare ma importantissima, appropriatamente definita la “religione civile dell’America”. Secoli di guerre di religione hanno bandito Dio dal discorso pubblico in gran parte dell’Europa, e il flagello del fascismo ha reso il nazionalismo qualcosa di molto controverso sul vecchio continente: per questo la liturgia civica americana sembra qualcosa di arcaico ed estraneo. (Un articolo su queste pagine, appena qualche giorno fa, sottolineava l’assenza della religione civile in Italia.)
Più di quarant’anni fa, il sociologo americano Robert Bellah scrisse un saggio fondamentale intitolato La religione civile in America, partendo dai numerosi riferimenti a Dio e a un fine superiore presenti nel discorso inaugurale di John Kennedy.

Kennedy iniziò con queste altisonanti parole: “Oggi non assistiamo alla vittoria di un partito, ma alla celebrazione della libertà, che simboleggia una fine, oltre che un inizio, che esprime il rinnovamento, oltre che il cambiamento. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per cui i nostri antenati hanno combattuto sono ancora in forse in tutto il mondo, la convinzione che i diritti dell’uomo non vengono dalla generosità dello Stato ma dalla mano di Dio”.
Essendo situate generalmente all’inizio e alla fine del discorso, queste pennellate religiose potrebbero essere liquidate come specchietti per le allodole, ammiccamenti agli elettori religiosi bisognosi di rassicurazione. Invece, Bellah sosteneva che rivestivano un ruolo centrale nel discorso di Kennedy e nel linguaggio politico americano fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson: “Noi consideriamo manifeste tali verità, e cioè che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi diritti c’è la vita, la libertà e la ricerca della felicità”.

Abramo Lincoln, il presidente preferito da Obama, era intriso del linguaggio di Jefferson e di quello della Bibbia quando creava la retorica pregnante della guerra civile americana, che fornì il carburante emotivo per la guerra, per salvare l’unione, abolire la schiavitù, ma anche promuovere la riconciliazione nazionale dopo la fine del conflitto. “Con malizia verso nessuno, con carità verso tutti”, disse Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale. Martin Luther King usò il linguaggio jeffersoniano e la cadenza biblica per radunare milioni di persone in difesa della causa dei diritti civili.

Naturalmente, come riconosce Bellah, la religione civile dell’America non sempre è stata usata a fin di bene. È stata usata come giustificazione per il Manifest Destiny [la “missione” degli Stati Uniti di espandersi nel continente americano], la guerra contro il Messico e per la negazione dei diritti civili e politici degli indiani. Ovviamente, George Bush ha usato una sua forma di religione civile con i suoi discorsi sull'”asse del male” e la sua affermazione che la libertà era un diritto divino che l’America aveva il dovere di diffondere in tutto il mondo.
Ma considerando la profonda forza emotiva di questo linguaggio, e alla sua capacità di fissare le priorità nazionali – la guerra alla povertà, la corsa alla Luna, i diritti civili – Obama è sempre stato estremamente abile nell’attingere al filone jeffersonian-lincolnian-kennedian-martinlutherkinghiano di questa tradizione. Il nuovo presidente cerca di sfruttare la forza di questa tradizione per contrastare la versione più nazionalistica usata da Bush, e per metterla al servizio del suo nuovo e diversissimo programma.  (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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Attualità Popoli e politiche

“Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio».”

Il presidente ragazzo

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di noi sa: basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare.Una personalità che crede intensamente nel bene comune senza vacillare né badare a interessi particolari può rimettere in moto quel che pareva immobile, nella società e ai suoi comandi. Può ridar senso alla parola, quando sembrava che essa l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e – così ha detto il nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri – l’inverno è profondo. Forse il momento Obama è qui: nella parola da lui ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità si imponga, perché vinca tanti ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua intensità irresistibile. Occorre il tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti in salvo il bastimento: senza tifone il capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore, pur essendo portato al comando. Il profondo inverno rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere.Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato i tempi è perché ha fiutato che questo non era forse il suo momento ma di sicuro era il momento più grave della storia recente americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale. Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per i libri che l’ispirano, ha un senso tragico della storia e delle ambiguità umane, ed è refrattario all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni.

Quel che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario testimonia di una fragilità americana che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile» sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano che Washington ha fallito, in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare il mondo e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati Uniti fossero gli unici a poter capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America, Obama ha citato ieri quella che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il grande freddo che il Presidente ha di fronte: non gli incidenti di un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie de grandeur che da tempo non fa i conti con la realtà.

Il senso tragico della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino in fondo, nell’esplorare la notte. Le guerre contro il terrore non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In Asia urge più della guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan, India, aggiungendo Iran, Cina, Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto, perché alle spalle avevano il gigante Usa.

Sapere che la storia è tragica non vuol dire vederla nera, senza vie d’uscita. L’acme della tragedia non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare l’uomo che apprende la propria colpa e i propri limiti. Per l’America è qui il compito: smettere la forza irresponsabile, aprire (dice Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa vorrebbe essere il faro sopra la collina: un sogno condiviso dal Presidente afro-americano. Ma anche la sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé, si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così enorme momento storico: il momento in cui l’America, se cosciente, scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il multipolarismo non è un malvagio disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo il momento gli consente di guardare alto e lontano. È la sua occasione. È il Tifone terribile che può travolgerlo, o innalzarlo e renderlo grande. (beh, buona giornata) 

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Attualità Popoli e politiche

“La buona notizia, per l’America, è che probabilmente Obama è l’uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief.”

La festa senza festa

di Massimo Gaggi da corriere.it

 

«Che la forza sia con te» gli ha detto, fissandolo negli occhi, il vescovo episcopale T.D. Jakes. Mancavano tre ore al giuramento e le famiglie Obama e Biden, con pochi altri intimi, erano nella chiesetta di St. John, a due passi dalla Casa Bianca, per la funzione mattutina. Dopo aver invocato l’aiuto di Dio, Jakes ha spiegato che le sfide che attendono il nuovo presidente sono talmente dure da indurlo a citare — come avrebbe fatto il figlio quattordicenne del vescovo — non le Sacre Scritture, ma Guerre Stellari: «Questo è il momento delle decisioni difficili, non della correttezza e della buona educazione. Tu vedrai la luce, ma prima dovrai sentire il calore delle fiamme». Obama non si è scomposto: lo sa già da tempo.

Incassati i voti che gli hanno consentito di battere McCain, la sua retorica della speranza nelle ultime settimane si è trasformata in appello al coraggio degli americani, alla loro capacità di stringere i denti, di riscattarsi nei momenti più difficili. E ieri, nel giorno trionfale dell’incoronazione, il primo presidente nero d’America ha completato il percorso oratorio col quale ha portato il Paese dai gioiosi giorni della speranza alla nuova era delle responsabilità. La speranza non è stata sepolta: il cambiamento nel quale si può credere ( change we can believe in) è sempre in cima all’agenda presidenziale. Ma il suo cielo è metallico, zeppo di nuvole, non più l’orizzonte sereno, disegnato con colori pastello, del logo elettorale di Obama.

Il leader democratico vuole riconquistare la fiducia del mondo scossa da anni di iniziative di politica estera unilaterali e costellate di errori. Spiega, quindi, che «la potenza da sola non basta a proteggerci se non la usiamo con prudenza, se non convinciamo il mondo della giustezza della nostra causa». Ma per Obama, come per Bush, gli Stati Uniti sono «una nazione in guerra contro una rete di forze che le hanno scatenato contro odio e violenza». Non può, quindi, tentennare o fare passi indietro. Quanto all’economia, è gravemente indebolita dall’avidità e dall’irresponsabilità di alcuni, ma anche dall’incapacità collettiva di fare scelte difficili e di preparare il Paese per una nuova era.

Sarà Obama, ora, a traghettarlo, ma avverte che il viaggio sarà penoso e pieno di insidie. Il presidente non lo ha detto esplicitamente ieri nel discorso d’insediamento, ma ha già spiegato che, dopo i costosi interventi pubblici a sostegno dell’economia che verranno attivati nei prossimi mesi e che porteranno inevitabilmente il debito pubblico a livelli molto pericolosi, verrà il momento del «dimagrimento» della spesa federale: ci saranno massicci tagli alla spesa sociale, soprattutto alle pensioni e a Medicare, la sanità pubblica per gli anziani il cui costo è enormemente cresciuto sotto la presidenza Bush. Sarà lo stesso modello di sviluppo a cambiare: più Stato non solo perché oggi il settore privato è fermo, ma perché col calo dei redditi da lavoro, la disoccupazione, la riduzione del valore delle case e dei patrimoni finanziari e la necessità di ricominciare a risparmiare dopo decenni di indebitamento «selvaggio», per molto tempo le famiglie non potranno tornare ad essere il motore della crescita economica. Un’altra scommessa temeraria per Obama, presidente di una nazione di individualisti. Forse anche per questo ha affidato l’invocazione che ha preceduto il giuramento al reverendo Warren, il pastore che dal 2002 veste i panni del profeta della fine dell’egocentrismo.

«La nostra è sempre la nazione più grande — ha detto ieri Obama agli americani— ma la grandezza non è un dono: bisogna conquistarsela». Insomma una festa, quella di ieri, con poco da festeggiare. Forse anche per questo non si è conclusa, come avveniva da decenni, con uno spettacolo di fuochi d’artificio. La buona notizia, per l’America, è che probabilmente Obama è l’uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief. «Dai tempi di Reagan non c’è stato in America un altro persuasore così efficace», dice Sean Wilentz, storico delle presidenze Usa che insegna a Princeton. E dai tempi di Roosevelt, quelli della Grande Depressione, nessuno si è trovato a dover fronteggiare devastazioni economiche e crisi internazionali così gravi. Obama è preoccupato ma anche consapevole della sua forza. Entra alla Casa Bianca con un livello di consenso senza precedenti (il 78%), mentre anche il 58% degli americani che hanno votato per McCain pensano che il leader democratico farà bene. E, comunque, di sognatori in giro ne sono rimasti pochi: un’indagine Gallup indica che più della metà degli americani pensa che tra un anno la situazione economica sarà peggiore di quella attuale. Tra le sue file cominciano ad affiorare i delusi, ma per adesso Obama ha un grosso capitale politico da spendere. Mentre i repubblicani — l’opposizione che dovrebbe tagliargli la strada — sono segnati da divisioni profonde come non se ne vedevano da quando Barry Goldwater perse malamente le elezioni del 1964. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Nella Russia del “mio amico Vladimir” si continua impuniti ad ammazzare giornalisti.

Russia e diritti, omissione di soccorso

di PAOLO LEPRI da corriere.it

Mentre il mondo è giustamente in ansia per le imprese di un eroe di carta—il reporter svedese Mikael Blomkvist, protagonista della Trilogia Millennium, braccato e minacciato dai poteri forti e dai servizi segreti di Stoccolma—c’è un luogo reale, la Russia, dove i giornalisti che cercano di sfidare il potere vengono uccisi in mezzo alla strada.

È accaduto ancora ieri a Mosca. È successo molte altre volte nell’era del putinismo. Sembrano essersene accorti solo i radicali italiani, qualche intellettuale controcorrente, come Bernard-Henry Lévy o André Glucksmann, e alcune organizzazioni umanitarie internazionali. Due anni fa Anna Politkovskaya, la donna che denunciava sulla Novaya Gazeta i soprusi delle autorità russe e del governo installato dal Cremlino in Cecenia, fu assassinata nell’ascensore del suo palazzo. Il killer fuggì sulle scale, come Raskolnikov dopo aver colpito a morte la vecchia usuraia. Era l’8 ottobre 2006. Putin tacque. Solo due giorni dopo la richiesta di una «indagine approfondita». Per l’opinione pubblica mondiale Anna è diventata un simbolo, per lui una persona «che non aveva influenza nella vita politica russa».

Nel novembre scorso è iniziato un processo farsa che ha coinvolto alcuni pesci piccoli. Ieri è stata la volta di Anastasia Barburova, 25 anni, considerata l’erede della Politkovskaya, uccisa mentre tentava di inseguire il killer dell’avvocato Stanislav Markelov, difensore dei ceceni finiti nella morsa rabbiosa e implacabile delle milizie filorusse. Ma delitti e trame oscure non sono che il segnale più evidente della malattia di un Paese dove quello che si può chiamare, in sintesi, il «deficit democratico» sta toccando livelli di pericolosità allarmante. Revival di volontà di potenza, aggressività economica, nostalgie autoritarie, indulgenze post-sovietiche, disprezzo per le regole delle società aperte sono le caratteristiche del regime guidato dall’ex agente del Kgb: un uomo che ha cambiato negli ultimi tempi solo il taglio dei suoi vestiti.

Il nuovo presidente americano Barack Obama è chiamato da oggi a tentare di risolvere tutti i problemi del mondo. Non sarà facile riuscirci, ma gli va subito chiesto di mettere il dossier Russia in testa alle pratiche da sbrigare con urgenza. Il successore di Bush sa che i diritti umani sono un valore universale e che i loro principi sono vincolanti anche se tradotti in cirillico. Se necessario, come ha scritto Lévy, imparando a trattare Putin non come un partner ma come un avversario. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Oggi si insedia Barak Obama. Paul Krugman: “Signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale.”

di PAUL KRUGMAN da lastampa.it
Caro Signor Presidente, come FDR (Franklin Delano Roosevelt) tre quarti di secolo fa, Lei sta entrando in carica in un momento in cui tutte le vecchie certezze sono svanite, tutta la saggezza acquisita si è rivelata fallace. Viviamo in un mondo che né Lei né nessun altro si aspettava di vedere. Molti Presidenti devono fare i conti con una crisi, ma pochi sono stati costretti a fare i conti dal primo giorno con una crisi al livello di quella che l’America affronta ora. Perciò, che cosa dovrebbe fare? In questa lettera non cercherò di offrire consiglio su tutto. Per lo più mi atterrò all’economia, o ad argomenti che si basano sull’economia. La misura del successo o del fallimento della sua amministrazione dipenderà in larga misura da che cosa accadrà nel primo anno, e soprattutto, dalla sua capacità o meno di capire come gestire l’attuale crisi economica.

Quanto brutta è la prospettiva economica? Peggiore di quanto la maggior parte di noi possa immaginare. La crescita economica degli anni di Bush, o cosiddetta tale, è stata alimentata dall’esplosione del debito nel settore privato; ora i mercati del credito sono in confusione, le attività commerciali e i consumatori sono in ritirata e l’economia è in caduta libera.

Quello che stiamo affrontando, essenzialmente, è una voragine di disoccupazione. L’economia statunitense ha bisogno di aggiungere più di un milione di posti di lavoro l’anno per tenere il passo con una popolazione in crescita. Anche prima della crisi, sotto Bush la crescita dell’occupazione viaggiava su una media di soli 800 mila posti di lavoro l’anno, e durante lo scorso anno, invece di guadagnare più di un milione di posti, ne abbiamo persi due milioni. Oggi continuiamo a perdere posti di lavoro a un ritmo di mezzo milione al mese.

Non c’è niente, nei dati a disposizione o nella situazione sottostante, che suggerisca che il crollo dell’occupazione rallenterà in tempi brevi. Il che significa che verso la fine dell’anno potremmo ritrovarci con 10 milioni di posti di lavoro in meno rispetto a quanti ne dovremmo avere. Ciò si tradurrebbe in un tasso di disoccupazione superiore al 9%. Se poi a questi si aggiungono gli individui che non vengono presi in considerazione dal tasso standard perché hanno smesso di cercare lavoro, più quelli costretti ad accettare lavori part time anche se vorrebbero avere un lavoro a tempo pieno, probabilmente stiamo parlando di un tasso di disoccupazione reale del 15% circa: più di 20 milioni di americani i cui sforzi per trovare lavoro vengono resi vani.

I costi umani di una caduta così grave sarebbero enormi. Il Center on Budget and Policy Priorities ha di recente previsto i possibili effetti di un picco del tasso di disoccupazione al 9%: uno scenario che sembrava il peggiore possibile e che ora sembra fin troppo probabile. Quindi, che cosa accadrà se la disoccupazione salirà, o supererà il 9%? Almeno 10 milioni di americani appartenenti al ceto medio finiranno in povertà, e altri sei milioni saranno spinti in «profonda povertà», lo stato che definisce le severe privazioni alle quali si va incontro quando il salario è pari a meno della metà della soglia di povertà. Molti degli americani che perderanno il lavoro perderanno anche l’assicurazione per le cure mediche, peggiorando lo stato già deplorevole della salute pubblica statunitense, e i pronto soccorso si affolleranno di persone che non hanno nessun altro posto dove andare. Nello stesso tempo, qualche altro milione di americani perderà la propria casa, e le amministrazioni statali e locali, private di buona parte delle loro entrate, saranno costrette a tagliare perfino i servizi più essenziali.

Se le cose vanno avanti seguendo l’attuale traiettoria, signor Presidente, presto dovremo fronteggiare una grande catastrofe nazionale. Ed è suo compito – un compito che nessun altro Presidente ha dovuto svolgere dai tempi della Seconda Guerra Mondiale – fermare questa catastrofe… L’ultimo Presidente ad affrontare un disastro simile è stato Franklin Delano Roosevelt, e Lei può imparare molto dal suo esempio. Questo non significa, tuttavia, che lei dovrebbe fare tutto quello che ha fatto FDR. Al contrario, dovrà stare attento a emulare i suoi successi, evitando però di ripetere i suoi errori. Per quanto riguarda quei successi, il modo in cui FDR ha gestito il disastro finanziario della sua epoca offre un modello molto buono. Allora, come oggi, il governo ha dovuto impiegare il denaro dei contribuenti per salvare il sistema finanziario. In particolare, la Reconstruction Finance Corporation (Società per la ricostruzione finanziaria) inizialmente ha giocato un ruolo simile a quello del Troubled Assets Relief Program dell’amministrazione Bush (il programma da 700 miliardi di dollari che tutti conoscono). Come il Tarp, la Rfc ha irrobustito la situazione monetaria delle banche nei guai usando fondi pubblici per acquisire quote finanziarie in quelle banche.

C’è però una grande differenza tra l’approccio di FDR al salvataggio finanziario foraggiato dai contribuenti e quello dell’amministrazione Bush: in particolare, FDR non era timido nel pretendere che il denaro pubblico fosse usato per servire il bene pubblico. All’inizio del 1935 il governo statunitense possedeva circa un terzo del sistema bancario, e l’amministrazione Roosevelt usò quella quota di proprietà per insistere sul fatto che le banche aiutassero davvero l’economia, facendo su di loro pressioni perché prestassero il denaro che stavano ricevendo da Washington. Oltre a questo, il New Deal uscì allo scoperto e prestò moltissimo denaro: direttamente alle aziende, agli acquirenti di case e alle persone che possedevano già una casa, aiutandole a ristrutturare il proprio mutuo in modo che potessero rimanere nelle loro abitazioni. Può Lei fare qualcosa del genere oggi? Sì, Lei può. L’amministrazione Bush potrà anche avere rifiutato di allegare delle clausole all’aiuto che ha fornito agli istituti finanziari, ma Lei è in grado di cambiare tutto questo. Se le banche hanno bisogno di fondi federali per sopravvivere, li fornisca, ma pretenda che le banche facciano la loro parte, prestando quei fondi al resto dell’economia. Dia più aiuto ai proprietari immobiliari.

I conservatori la accuseranno di nazionalizzazione del sistema finanziario, e alcuni la chiameranno marxista (a me succede sempre). E la verità è che in qualche modo Lei sarà davvero impegnato in una nazionalizzazione temporanea. Ma va bene: a lungo termine non vogliamo che il governo gestisca le istituzioni finanziarie, ma per ora è quello di cui abbiamo bisogno per fare ripartire il credito. Tutto questo aiuterà, ma non abbastanza. C’è bisogno di dare una sferzata all’economia reale del lavoro e dei salari. In altre parole, si deve affrontare per il verso giusto la creazione di occupazione, cosa che FDR non ha mai fatto. Questa può sembrare una cosa strana da dire. Dopotutto, quello che ci ricordiamo dagli Anni 30 è il programma Works Progress Administration (Wpa), che al suo apice impiegava milioni di Americani per costruire strade, scuole e bacini artificiali. Ma i programmi di creazione di posti di lavoro del New Deal, seppure abbiano certamente aiutato, non erano né abbastanza grandi né abbastanza sostenibili da mettere fine alla Grande Depressione. Quando l’economia è profondamente depressa, bisogna mettere da parte le normali preoccupazioni che riguardano i deficit di bilancio; FDR non ce l’ha mai fatta.

Di quanta spesa stiamo parlando? Forse è meglio che si sieda prima di leggere quello che segue. Bene, ecco qui: «Piena occupazione» significa un tasso di disoccupazione del 5% al massimo e forse anche meno. Nello stesso tempo, al momento siamo su una traiettoria che spingerà il tasso di disoccupazione al 9% o più. Perfino le stime più ottimistiche indicano che ci vogliono almeno 200 miliardi di dollari l’anno in spesa governativa per tagliare il tasso di disoccupazione di un punto percentuale. Faccia i conti: Lei dovrà probabilmente spendere 800 miliardi di dollari l’anno per ottenere un completo risanamento economico. Qualsiasi cifra al di sotto dei 500 miliardi l’anno sarà davvero troppo piccola per produrre una vera inversione economica. Il più possibile, dovrebbe spendere in cose di valore durevole, cose che, come le strade e i ponti, ci renderanno una nazione più ricca.

Migliori l’infrastruttura che sta dietro Internet, migliori la rete elettrica, migliori l’information technology nel settore della salute pubblica, un’area cruciale per qualunque riforma di questo settore. Fornisca aiuti alle amministrazioni statali e locali, per prevenire che taglino le spese in investimenti nel momento più sbagliato. E ricordi, nel momento in cui fa questo, che tutto questo esborso serve a un duplice scopo: serve al futuro, ma aiuta anche nel presente, generando posti di lavoro ed entrate per compensare la crisi.

Tutto questo, tuttavia, non sarà abbastanza per risolvere la profonda crisi nella propensione alla spesa dei singoli. Perciò, sì: ha anche senso tagliare le tasse su base temporanea. Gli sgravi fiscali per le famiglie che lavorano, delineati da lei in campagna elettorale, appaiono un veicolo ragionevole. Ma siamo chiari: i tagli alle tasse non sono lo strumento d’elezione per combattere una crisi economica. Per prima cosa, producono meno ritorni per l’investimento rispetto alle spese per l’infrastruttura.

Ora, il mio onesto parere è che perfino con tutto ciò, lei non sarà in grado d’impedire che il 2009 sia un anno molto brutto. Se riuscirà a far sì che il tasso di disoccupazione non superi l’8%, lo considererò un grande successo. Ma per il 2010 dovrebbe riuscire a ottenere di avere un’economia in via di ripresa. Che cosa dovrebbe fare per prepararsi a quella ripresa?

La gestione della crisi è una cosa, ma l’America ha bisogno di molto più di questo. FDR ricostruì l’America non solo facendoci uscire dalla depressione e dalla guerra, ma anche rendendoci una società più giusta e al sicuro. Da una parte creò programmi di assicurazione sociale, prima su tutti la Social Security, che proteggono i lavoratori americani ancora oggi. Dall’altra si prese a carico la creazione di un’economia molto più equa, dando vita a una società borghese che durò per decenni, fino a quando le politiche economiche dei conservatori condussero alla nuova epoca di ingiustizia che prevale oggi. Lei ha l’opzione di emulare i traguardi raggiunti da FDR, e il giudizio ultimo sul suo governo si baserà su come saprà gestire questa opzione. La più importante eredità che potrà lasciare alla nazione sarà quella di darci finalmente ciò che ogni altro stato avanzato ha: l’assistenza sanitaria garantita a tutti i cittadini. La crisi attuale ci ha dato una lezione obiettiva sulla necessità dell’assistenza sanitaria universale su due versanti: ha evidenziato la vulnerabilità degli Americani la cui assicurazione sulla salute è legata a un posto di lavoro che può così facilmente scomparire; e ha messo in chiaro che il nostro attuale sistema è anche negativo per l’economia – le tre principali case automobilistiche non sarebbero in così grave crisi se non dovessero pagare i conti medici dei vecchi e attuali impiegati. Lei ha un mandato per il cambiamento, e la crisi economica ha appena evidenziato quanto il sistema richieda un cambiamento. Quindi, è giunta l’ora di approvare una legislazione a favore di un sistema che garantisca la sicurezza sanitaria per tutti.

L’assistenza medica universale, quindi, dovrebbe essere la sua massima priorità dopo avere salvato l’economia. Fornire copertura per tutti gli Americani può essere per la sua amministrazione quello che la Social Security è stata per il New Deal. Ma il New Deal ha ottenuto qualcos’altro: ha reso l’America una società borghese. Sotto FDR, l’America ha attraversato quello che gli storici del lavoro chiamano Grande Compressione, un forte aumento degli stipendi per i lavoratori ordinari che ridusse enormemente l’ineguaglianza salariale. Prima della Grande Compressione, l’America era una società di ricchi e poveri; dopo, è stata una società in cui le persone, a ragione, si sono considerate ceto medio. Può essere difficile raggiungere quel risultato oggi, ma lei può, almeno, far muovere il Paese nella giusta direzione. Il futuro è ciò che importa di più. Questo mese festeggiamo il suo arrivo alla Casa Bianca; in un’epoca di grande crisi nazionale, Lei porta la speranza di un futuro migliore. Ora tocca a Lei far materializzare la nostra speranza. Mettendo in atto un piano di rinascita anche più coraggioso ed esaustivo del New Deal, Lei può non solo cambiare il corso dell’economia, può mettere l’America su un sentiero, quello che porta a una più grande uguaglianza per le generazioni a venire.(Beh, buona giornata).

*dalla lettera che il premio Nobel per l’Economia ha indirizzato al presidente Obama. Il testo integrale sarà pubblicato sul sito di «Rolling Stone Italia»

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Attualità Popoli e politiche

David Grossman:”Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese.”

di DAVID GROSSMAN da repubblica.it

Come le volpi del racconto biblico di Sansone, legate per la coda a un’unica torcia in fiamme, così noi e i palestinesi ci trasciniamo l’un l’altro, malgrado la disparità delle nostre forze. E anche quando tentiamo di staccarci non facciamo che attizzare il fuoco di chi è legato a noi – il nostro doppio, la nostra tragedia – e il fuoco che brucia noi stessi. Per questo, in mezzo all’esaltazione nazionalista che travolge oggi Israele, non guasterebbe ricordare che anche quest’ultima operazione a Gaza, in fin dei conti, non è che una tappa lungo un cammino di violenza e di odio in cui talvolta si vince e talaltra si perde ma che, in ultimo, ci condurrà alla rovina.

Assieme al senso di soddisfazione per il riscatto dello smacco subito da Israele nella seconda guerra del Libano faremmo meglio ad ascoltare la voce che ci dice che il successo di Tsahal su Hamas non è la prova decisiva che lo Stato ebraico ha avuto ragione a scatenare una simile offensiva militare, e di certo non giustifica il modo in cui ha agito nel corso di questa offensiva. Tale successo prova unicamente che Israele è molto più forte di Hamas e che, all’occasione, può mostrarsi, a modo suo, inflessibile e brutale.

Allo stesso modo il successo dell’operazione non ha risolto le cause che l’hanno scatenata. Israele tiene ancora sotto controllo la maggior parte del territorio palestinese e non si dichiara pronto a rinunciare all’occupazione e alle colonie. Hamas continua a rifiutare di riconoscere l’esistenza dello Stato ebraico e, così facendo, ostacola una reale possibilità di dialogo. L’offensiva di Gaza non ha permesso di compiere nessun passo verso un vero superamento di questi ostacoli. Al contrario: i morti e la devastazione causati da Israele ci garantiscono che un’altra generazione di palestinesi crescerà nell’odio e nella sete di vendetta. Il fanatismo di Hamas, responsabile di aver valutato male il rapporto di forza con Tsahal, sarà esacerbato dalla sconfitta, intaserà i canali del dialogo e comprometterà la sua capacità di servire i veri interessi palestinesi.

Ma quando l’operazione sarà conclusa e le dimensioni della tragedia saranno sotto gli occhi di tutti (al punto che, forse, per un breve istante, anche i sofisticati meccanismi di autogiustificazione e di rimozione in atto oggi in Israele verranno accantonati), allora anche la coscienza israeliana apprenderà una lezione. Forse capiremo finalmente che nel nostro comportamento c’è qualcosa di profondamente sbagliato, di immorale, di poco saggio, che rinfocola la fiamma che, di volta in volta, ci consuma.

È naturale che i palestinesi non possano essere sollevati dalla responsabilità dei loro errori, dei loro crimini. Un atteggiamento simile da parte nostra sottintenderebbe un disprezzo e un senso di superiorità nei loro confronti, come se non fossero adulti coscienti delle proprie azioni e dei propri sbagli. È indubbio che la popolazione di Gaza sia stata “strozzata” da Israele ma aveva a sua disposizione molte vie per protestare e manifestare il suo disagio oltre a quella di lanciare migliaia di razzi su civili innocenti. Questo non va dimenticato. Non possiamo perdonare i palestinesi, trattarli con clemenza come se fosse logico che, nei momenti di difficoltà, il loro unico modo di reagire, quasi automatico, sia il ricorso alla violenza.

Ma anche quando i palestinesi si comportano con cieca aggressività – con attentati suicidi e lanci di Qassam – Israele rimane molto più forte di loro e ha ancora la possibilità di influenzare enormemente il livello di violenza nella regione, di minimizzarlo, di cercare di annullarlo. La recente offensiva non mostra però che qualcuno dei nostri vertici politici abbia consapevolmente, e responsabilmente, afferrato questo punto critico.

Arriverà il giorno in cui cercheremo di curare le ferite che abbiamo procurato oggi. Ma quel giorno arriverà davvero se non capiremo che la forza militare non può essere lo strumento con cui spianare la nostra strada dinanzi al popolo arabo? Arriverà se non assimileremo il significato della responsabilità che gli articolati legami e i rapporti che avevamo in passato, e che avremo in futuro, con i palestinesi della Cisgiordania, della striscia di Gaza, della Galilea, ci impongono?

Quando il variopinto fumo dei proclami di vittoria dei politici si dissolverà, quando finalmente comprenderemo il divario tra i risultati ottenuti e ciò che ci serve veramente per condurre un’esistenza normale in questa regione, quando ammetteremo che un intero Stato si è smaniosamente autoipnotizzato perché aveva un estremo bisogno di credere che Gaza avrebbe curato la ferita del Libano, forse pareggeremo i conti con chi, di volta in volta, incita l’opinione pubblica israeliana all’arroganza e al compiacimento nell’uso delle armi. Chi ci insegna, da anni, a disprezzare la fede nella pace, nella speranza di un cambiamento nei rapporti con gli arabi. Chi ci convince che gli arabi capiscono solo il linguaggio della forza ed è quindi quello che dobbiamo usare con loro. E siccome lo abbiamo fatto per così tanti anni, abbiamo dimenticato che ci sono altre lingue che si possono parlare con gli esseri umani, persino con nemici giurati come Hamas. Lingue che noi israeliani conosciamo altrettanto bene di quella parlata dagli aerei da combattimento e dai carri armati.

Parlare con i palestinesi. Questa deve essere la conclusione di quest’ultimo round di violenza. Parlare anche con chi non riconosce il nostro diritto di vivere qui. Anziché ignorare Hamas faremmo bene a sfruttare la realtà che si è creata per intavolare subito un dialogo, per raggiungere un accordo con tutto il popolo palestinese. Parlare per capire che la realtà non è soltanto quella dei racconti a tenuta stagna che noi e i palestinesi ripetiamo a noi stessi da generazioni. Racconti nei quali siamo imprigionati e di cui una parte non indifferente è costituita da fantasie, da desideri, da incubi. Parlare per creare, in questa realtà opaca e sorda, un’alternativa, che, nel turbine della guerra, non trova quasi posto né speranza, e neppure chi creda in essa: la possibilità di esprimerci.

Parlare come strategia calcolata. Intavolare un dialogo, impuntarsi per mantenerlo, anche a costo di sbattere la testa contro un muro, anche se, sulle prime, questa sembra un’opzione disperata. A lungo andare questa ostinazione potrebbe contribuire alla nostra sicurezza molto più di centinaia di aerei che sganciano bombe sulle città e sui loro abitanti. Parlare con la consapevolezza, nata dalla visione delle recenti immagini, che la distruzione che possiamo procurarci a vicenda, ogni popolo a modo suo, è talmente vasta, corrosiva, insensata, che se dovessimo arrenderci alla sua logica alla fine ne verremmo annientati.

Parlare, perché ciò che è avvenuto nelle ultime settimane nella striscia di Gaza ci pone davanti a uno specchio nel quale si riflette un volto per il quale, se lo guardassimo dall’esterno o se fosse quello di un altro popolo, proveremmo orrore. Capiremmo che la nostra vittoria non è una vera vittoria, che la guerra di Gaza non ha curato la ferita che avevamo disperatamente bisogno di medicare. Al contrario, ha rivelato ancor più i nostri errori di rotta, tragici e ripetuti, e la profondità della trappola in cui siamo imprigionati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di A. Shomroni

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Attualità Popoli e politiche

“Mia nonna non è morta per fornire la copertura ai soldati israeliani che ammazzano le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta spietatamente e cinicamente il continuo senso di colpa tra i gentili per la strage degli ebrei nell’olocausto per giustificare la sua uccisione di palestinesi. L’implicazione è che la vita degli ebrei sia preziosa, ma la vita dei palestinesi non conti.”

Un deputato ebreo denuncia come nazisti i comportamenti israeliani a Gaza

di Pino Cabras – Megachip.info

Atti nazisti a Gaza. Lo dice un deputato inglese ebreo, Gerald Kaufman, la cui famiglia in Polonia fu in gran parte inghiottita dalla Shoah. Cosa succede?
Il paragone tra l’assedio e le stragi a Gaza da parte della potenza occupante israeliana e l’assedio e le stragi del ghetto di Varsavia da parte dei nazisti suscita in genere reazioni durissime. Si vuole far credere che sia dettato da pregiudizio antiebraico.

L’aggettivo antisemita è il grande silenziatore contro chi si oppone ai pericoli scatenati dal bellicismo israeliano di oggi. Che impressione vedere Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri, gli eredi di Salò, pontificare contro l’antisemitismo. O leggere il resoconto di un quotidiano grondante di umori fascisti sulla manifestazione nazionale a difesa dei palestinesi del 17 gennaio con il titolo cubitale «Dàgli agli ebrei». Ma dove viviamo?

Vi propongo perciò la traduzione integrale del discorso parlamentare pronunciato il 15 gennaio 2009 dal deputato britannico Gerald Kaufman, durante un dibattito in cui nessuno avrebbe mai potuto trovare argomenti da opporgli. È una denuncia breve, durissima e lucidissima, della condotta del governo israeliano, con argomenti di grande valore politico e documentale, segnati da una inattaccabilità biografica formidabile (cosa che non potremmo dire del nostro attuale presidente della Camera).

Qualcuno recapiti questo testo anche a quei deputati del PD sinora sdraiatisi sui comunicati dello Stato Maggiore israeliano, per illustrare loro la possibilità di assumere posizioni a schiena dritta.

Testo tradotto in italiano:
Gerald Kaufman, deputato laburista. 15 gennaio 2009.
Sono stato cresciuto come un ebreo ortodosso e un sionista. Su una mensola in cucina c’era una scatola di latta per il Fondo nazionale ebraico, dentro la quale mettevamo le monete per aiutare i pionieri a costruire una presenza ebraica in Palestina.

Sono andato la prima volta in Israele nel 1961 e v i sono stato innumerevoli volte. Ho avuto familiari in Israele e ho amici in Israele. Uno di essi ha combattuto nelle guerre del 1956, 1967 e 1973 ed è stato ferito in due di esse. Il distintivo che indosso viene da una decorazione sul campo a lui insignita, che mi ha regalato.
Ho conosciuto la maggior parte dei primi ministri di Israele, a partire dal Primo ministro fondatore David Ben-Gurion. Golda Meir era mia amica, così come lo è stato Yigal Allon, vice primo ministro, che, da generale, conquistò il Negev per Israele nella guerra del 1948 per l’indipendenza.

I miei genitori vennero in Gran Bretagna come rifugiati provenienti dalla Polonia. La maggior parte dei loro familiari sono stati in seguito uccisi dai nazisti nell’olocausto. Mia nonna era a letto malata, quando i nazisti giunsero alla sua città natale, Staszow. Un soldato tedesco la uccise sparandole nel suo letto.
Mia nonna non è morta per fornire la copertura ai soldati israeliani che ammazzano le nonne palestinesi a Gaza. L’attuale governo israeliano sfrutta spietatamente e cinicamente il continuo senso di colpa tra i gentili per la strage degli ebrei nell’olocausto per giustificare la sua uccisione di palestinesi. L’implicazione è che la vita degli ebrei sia preziosa, ma la vita dei palestinesi non conti.

Su Sky News pochi giorni fa, al portavoce dell’esercito israeliano, il Maggiore Leibovich, è stato chiesto in merito all’uccisione da parte israeliana di, in quel momento, 800 palestinesi (il totale è ora di 1000). Ha risposto all’istante che «500 di questi erano militanti».
Questa era la risposta di un nazista. Suppongo che gli ebrei che lottavano per la loro vita nel ghetto di Varsavia avrebbero potuto essere denigrati in quanto militanti.

Il ministro degli Esteri israeliano, Tzipi Livni, afferma che il suo governo non avrà rapporti con Hamas, perché sono terroristi. Il padre di Tzipi Livni era Eitan Livni, il capo delle operazioni dell’organizzazione terroristica Irgun Zvai Leumi, che ha organizzato l’attentato esplosivo dell’Hotel King David di Gerusalemme, in cui perirono 91 vittime, di cui quattro ebrei.

Israele è stato partorito dal terrorismo ebraico. Terroristi ebraici impiccarono due sergenti britannici e fecero esplodere i loro cadaveri. Irgun, insieme con la banda terrorista Stern, nel 1948 massacrò 254 palestinesi nel villaggio di Deir Yassin. Oggi, gli attuale governanti israeliani indicano che sarebbero disposti, in circostanze per loro accettabili, a negoziare con il presidente palestinese Abbas, di al-Fatah. È troppo tardi per farlo. Essi avrebbero potuto negoziare con il precedente leader di al-Fatah, Yasser Arafat, che era un mio amico. Invece, lo assediarono in un bunker a Ramallah, dove lo visitai. A causa dei fallimenti di al-Fatah, a partire dalla morte di Arafat, Hamas ha vinto le elezioni palestinesi nel 2006. Hamas è una organizzazione sgradevolissima, ma è stata democraticamente eletta, ed è quel che passa il convento. Il boicottaggio di Hamas, anche da parte del nostro governo, è stato un errore colpevole, dal quale sono derivate terribili conseguenze.

Il grande ministro degli Esteri israeliano Abba Eban, con il quale ho fatto campagna per la pace da molte tribune, ha dichiarato: «Fate la pace se parlate con i vostri nemici.»
Per quanti palestinesi gli israeliani possano uccidere a Gaza, non possono risolvere questo problema esistenziale con mezzi militari. Quando e qualora i combattimenti finissero, ci sarebbero ancora un milione e mezzo di palestinesi a Gaza e altri due milioni e mezzo in Cisgiordania. Essi sono trattati alla stregua di immondizia da parte degli israeliani, con centinaia di blocchi stradali e con gli orrendi abitatori degli insediamenti ebraici illegali che li molestano. Verrà il momento, non molto lontano da ora, in cui supereranno la popolazione ebraica in Israele.

È giunto il momento per il nostro governo di render chiaro al governo israeliano che la sua condotta e la sua politica sono inaccettabili, e di imporre un divieto totale di esportare armi a Israele. È l’ora della pace, ma la pace vera, non la soluzione attraverso il soggiogamento che è il vero obiettivo degli israeliani, ma che è impossibile per loro da raggiungere. Essi non sono semplicemente dei criminali di guerra, sono stupidi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Aspettando l’insediamento di Barak Obama.

  Se Obama parlasse con il nemico
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Le grandi speranze riaccese da Obama, alla vigilia della cerimonia inaugurale di martedì che lo insedierà alla Presidenza, somigliano non poco alle Grandi Speranze che accompagnano Pip, il protagonista del romanzo di Charles Dickens. Solo in apparenza il romanzo racconta una promessa di palingenesi personale, sociale: quel che narra è in realtà un faticoso apprendistato, un addestramento alla realtà. Pip, come Obama, deve imparare a camminare da solo, e soprattutto evitare d’esser «tirato su per mano» da tutori invadenti, paternalisti. Pip è figlio d’operai, ha scarpe grosse, mani brutte. La sua vita cambia quando uno sconosciuto benefattore gli lascia i suoi beni dandogli, appunto, Great Expectations. Ma il cambiamento vero dipende da lui, da quel che farà della donazione.Come ha scritto Kissinger sull’Herald Tribune: la magica ascesa di Obama «definisce un’opportunità, non una politica».
Il mondo che Obama eredita gli s’accampa davanti pieno di rovine, e profondamente equivoco. Anche quello di Bush si nutriva infatti di Grandi Aspettative. Ma erano promesse immateriali, capziose, che non hanno insegnato nulla all’America e anzi l’hanno corrotta, sostituendo alla realtà l’ideologia. È un mondo che ha prodotto una «mescolanza letale di arroganza e ignoranza», scrivono Robert Malley e Hussein Agha sul New York Review of Books del 15 gennaio, nel descrivere la strategia Usa in Medio Oriente. C’è del miracolismo anche nell’attesa di Obama, rafforzato dal fatto che egli è il primo Presidente nero e che corona una storia dentro la storia nazionale, che lo collega non solo a Abramo Lincoln ma a Martin Luther King. Il suo apprendistato sarà duro perché dovrà rispondere alle Great Expectations e al tempo stesso non divenir ostaggio di chi pretende d’averlo fatto re, «tirandolo su per mano». Percepito come messia, egli deve al tempo stesso spezzare i messianesimi che da secoli catturano le menti americane.

L’apprendistato non può avvenire dunque che in solitudine, sotto forma di una vasta disintossicazione che salvi la speranza ma sappia anche spegnerla quando è irrealistica. Sono tante e svariate le sostanze tossiche di cui toccherà depurare l’organismo, e come in medicina urgono terapie radicali: dalla somministrazione di antidoti alla trasfusione del sangue all’inalazione di ossigeno. In politica occorre cambiare i paradigmi, come usano dire gli esperti in finanza; congedarsi dalle illusioni d’onnipotenza e dalle ideologie che dominano la politica estera, militare, climatica. Così poliedrico è il cambiamento richiesto che il paragone con la trasfusione sanguigna non è azzardato.

Le sostanze tossiche non hanno avvelenato solo gli otto anni di Bush. Sono decenni che lo Stato americano fabbrica bolle, ipnotizzato dal miraggio d’una forza autosufficiente e universalmente egemonica. In economia ha immaginato di poter vivere indebitandosi smisuratamente, consumando senza criterio, e fidandosi d’un mercato che magicamente si autoregola; in politica estera e militare ha creduto di poter modellare il pianeta secondo una propria idea del bene e del male, e non secondo l’utilità considerata opportuna dal maggior numero di soggetti. È qui che l’arroganza s’è unita all’ignoranza, impedendo agli Usa di considerare gli interessi di altri Paesi e di nuovi potentati locali; di riconoscere i propri limiti oltre che i limiti, in genere, dello Stato-nazione alle prese con mali e sfide che non è più in grado di padroneggiare da solo.

La stoffa della bolla è antica perché risale all’idea dell’America «faro sulla collina», votata a civilizzare il mondo, dotata di incorrotta supremazia morale e politica. Il continuo parlare di carote e bastoni è parte di questa presunzione, umiliante per i popoli destinatari: nessuno – tranne forse Al Qaeda – parlerebbe così dei rapporti con Washington. Non è vero che Bush s’è disinteressato al Medio Oriente, all’Iran, all’Asia, all’Europa. Secondo Malley e Agha se n’è interessato fin troppo, diminuendo ad esempio in Israele il senso della propria responsabilità, dei confini geografici, del limite: i progressi, Israele tende a compierli quando Washington latita, e a mediare sono magari gli europei o i turchi. Lo stesso dicasi per la Russia: i cui ricatti o soprusi (nel Caucaso, sul gas) sono possibili perché l’America promette un fiancheggiamento e una presenza – in Georgia, Ucraina – del tutto ingannevoli.

È il motivo per cui i realisti, in Israele, chiedono oggi a Obama di cominciare finalmente a parlare con le forze generatrici dei conflitti, anche se nemiche mortali d’Israele come Hamas, Hezbollah, Iran. («Vada avanti per la sua strada, Presidente, non ascolti nessuna lobby», scrive Yossi Sarid su Haaretz). In un importante articolo sul New York Review of Books, tre autori (William Luers, Thomas Pickering, Jim Walsh) sostengono che l’Europa dovrebbe costruire con Teheran un consorzio, favorito da Obama, che produca uranio arricchito in Iran (la formula multinazionale ha il vantaggio di implicare controlli multinazionali). Obama, intanto, dovrebbe avviare con Teheran colloqui senza precondizioni, dopo le presidenziali iraniane di giugno, tenendo conto degli interessi di ambedue: l’Iran è essenziale per pacificare l’Iraq e anche l’Afghanistan, essendo ostile ai talebani sunniti. Le sanzioni non rischiano di fallire: già son fallite. Così come son fallite le guerre di Bush: perché hanno generato caos nel mondo invece di stabilità, soddisfacendo solo nel brevissimo periodo il desiderio Usa di dominarlo.

I neocon che hanno scommesso su Bush hanno condotto per anni una personale e accanita guerra contro la realtà, creando miti a ripetizione. Un episodio lo prova, raccontato anni fa dal giornalista Ron Suskind. Nel 2002, prima della guerra irachena, un consigliere di Bush (era Karl Rove) gli disse: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi e empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale poi ne creiamo altre che voi studierete ancora» (New York Times, 17-10-04). La reality-based community viveva di fatti, mentre chi vive nello show mistificatorio li trascende, fino a quando la realtà si vendica.

La rottura con la realtà si è rivelata contagiosa: sin d’ora e nei prossimi anni converrà ricordarlo. La chimera dello Stato-nazione autosufficiente, la prepotenza congiunta all’ignoranza, il rifiuto di negoziare, la predilezione del breve termine rispetto al lungo, l’abitudine a violare la legalità internazionale: sono veleni di cui deve disintossicarsi l’amministrazione americana ma anche l’Europa, il mondo. Tanto più prezioso è l’annuncio di Obama: rispetterà le convenzioni internazionali sulla tortura e i prigionieri di guerra; chiuderà Guantanamo.

Sono i civili a pagare infatti chimere e menzogne. Pagano in economia, perché il fondamentalismo del laissez-faire ha colpito la gente comune e non solo Wall Street. Pagano a Gaza e nel Sud d’Israele, col sangue, la morte o il terrore. Pagano in Europa, dove milioni di cittadini gelano perché i nazionalismi russo e ucraino non sono imbrigliati da accordi multilaterali.

Ha scritto lo storico Andrew Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati in patria, perché dicono cose realiste e per questo sgradite, poco trascinanti (The Limits of Power: The End of American Exceptionalism, New York 2008). Fa parte della disintossicazione riscoprire quella tradizione. È nella solitudine che Obama potrà ritrovare il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra denunciò l’eccezionalismo americano e «il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti». /Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Popoli e politiche

Comincia la tregua, finisce l’embargo della libertà di stampa nella Striscia di Gaza.

Per la prima volta dal 27 dicembre Israele ha autorizzato oggi l’ingresso nella striscia di Gaza di giornalisti della stampa estera. Per la prima volta dall’inizio di ‘Piombo Fuso’ e dopo ore di attesa al valico di Erez, fra Israele e Gaza, sei giornalisti hanno potuto entrare nella Striscia nel pomeriggio e raggiungere la vicina citta’ palestinese di Beit Lahya, dove hanno constatato ingenti danni materiali alle abitazioni, alle automobili, e alle infrastrutture. Lo riferisce l’Agenzia Ansa. Beh, buona giornata.

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Attualità Nessuna categoria Popoli e politiche

In piazza aspettando la tregua sulla Scriscia di Gaza.

da ilmessaggero.it

Corteo a Roma. Il corteo Dalla parte dei Palestinesi è stato organizzato dal comitato Stopmassacrogaza. Partito alle 15.30 da piazza Vittorio, all’Esquilino, il corteo ha raggiunto Porta San Paolo, passando per Santa Maria Maggiore, via Cavour, via San Gregorio, Circo Massimo. Secondo fonti della Questura di Roma, le persone che hanno preso parte al corteo sono state 15mila. Secondo gli organizzatori 200mila.

Manifestazioni in Francia. A Parigi, dietro lo striscione «Resistenza palestinese. Stop alla collaborazione franco-israeliana», hanno sfilato 2.600 persone secondo la polizia, «diverse decine di migliaia» secondo gli organizzatori. Momenti di tensione e suo di lacrimogeni da parte della polizia quando alcuni manifestanti hanno cercato di forzare un cancello dell’Opera, nel centro della città. Al corteo di Marsiglia per denunciare il «massacro del popolo palestinese» hanno partecipato in 2.500 secondo la polizia, 25.000 secondo gli organizzatori.

Inghilterra. In migliaia hanno manifestato in tutto il paese. A Londra in circa 3.500 si sono radunati a Trafalgar Square, dove l’ex premier Tony Blair, rivolgendosi alla folla, ha chiesto al governo di inviare a Gaza la Royal Navy per aggirare il blocco israeliano e scortare le imbarcazioni di soccorso medico e alimentare.

Germania. Circa tremila in piazza in tutto il paese di cui 1600 a Berlino. A Duisburg, oltre al corteo pro-Gaza, c’è stata anche una manifestazione pro-Israele di circa 200 persone.

Turchia. Centinaia di manifestanti anche ad Ankara, davanti all’ambasciata d’Israele e nel centro della città, dove il corteo è stato bloccato dai blindati della polizia.

Grecia. Ad Atene un corteo di più di mille persone, guidato da un gruppo di palestinesi, ha sfilato fino all’ambasciata d’Israele.

Svizzera. A Ginevra, davanti alla sede europea dell’Onu, si sono radunati in centinaia al grido «Israele terrorista». Molti vestivano magliette bianche con sopra la scritta rossa “Gaza”. A Berna circa 1.500 persone hanno invece manifestato a favore di Israele.

Argentina. L’ambasciata israeliana di Buenos Aires ieri sera è stata investita da una pioggia di scarpe, lanciate in segno di protesta da molti delle centinaia di manifestanti, che, sventolando bandiere con scritte anti-israeliane, si erano radunate davanti all’edificio.(Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Aspettando la tregua sulla Striscia di Gaza.

da repubblica.it

L’OPERAZIONE israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, ‘Piombo Fuso’, ha avuto inizio il 27 dicembre. Ecco una cronologia.

– 27 dicembre: Israele lancia un’offensiva aerea per fermare il lancio di razzi Qassam. Da Damasco, il leader in esilio di Hamas, Khaled Meshaal, invoca una terza Intifada.

– 28 dicembre: l’esercito di Tsahal si ammassa alla frontiera con Gaza, il ministro della Difesa Ehud Barak dichiara che un’operazione terrestre “è possibile”. Il Consiglio di sicurezza Onu chiede la fine delle ostilità.

– 29 dicembre: decine di razzi Qassam piovono su Israele. Il bilancio delle vittime dall’inizio delle ostilità sale a quattro. Tra i palestinesi, i morti sono 340. Nel campo profughi di Jabaliya muoiono cinque sorelle tra i quattro e i 17 anni.

– 30 dicembre: l’Unione Europea chiede la fine delle ostilità. Il governo israeliano riceve una proposta francese per il cessate il fuoco che respinge il giorno dopo.

– 1 gennaio: i bombardamenti israeliani centrano diversi ministeri, un edificio del Parlamento e tunnel destinati al contrabbando di armi. Ucciso uno dei capi di Hamas, Nizar Rayan.

– 2 gennaio: Israele permette agli stranieri di lasciare la Striscia.

– 3 gennaio: ucciso un alto esponente di Hamas, il terzo in tre giorni. Nel pomeriggio iniziano i tiri di artiglieria che preparano l’offensiva di terra, che scatta in serata con l’avanzata delle truppe corazzate nella Striscia. Hamas minaccia: “Gaza sarà il vostro cimitero”.

– 4 gennaio: il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, chiede l’immediato stop dell’operazione di terra. Israele prosegue l’offensiva. L’esercito conferma la morte del primo soldato. Sessantatre i palestinesi uccisi in 24 ore, il bilancio delle vittime è di 512 morti.

 5 gennaio: il giornale britannico The Times denuncia l’uso di bombe al fosforo bianco parte dell’esercito israeliano. I blindati avanzano, scoppiano violenti combattimenti a Gaza City.

– 6 gennaio: i carri armati entrano a Khan Yunes, nel Sud della Striscia. Quaranta i palestinesi uccisi in un raid contro una scuola gestita dall’Onu a Jabaliya. Barack Obama rompe il silenzio dicendosi “preoccupatissimo” per le vittime civili.

– 7 gennaio: le forze armate israeliane annunciano una tregua di tre ore ogni giorno, per “ragioni umanitarie”.

– 8 gennaio: un carro armato colpisce un convoglio dell’Onu uccidendo due autisti.

– 9 gennaio: il Consiglio di sicurezza Onu approva, con l’astensione Usa, una risoluzione per il cessate il fuoco.

– 10 gennaio: manifestazioni contro l’offensiva in tutto il mondo. A Milano i dimostranti bruciano una bandiera di Israele.

– 12 gennaio: il Consiglio dei diritti umani dell’Onu “condanna con forza” l’offensiva militare israeliana.

– 14 gennaio: in un messaggio audio, il leader di Al Qaeda Osama Bin Laden chiama alla jihad per Gaza. Ban Ki-moon inizia al Cairo una missione in Medio Oriente. Secondo fonti mediche nella Striscia, il bilancio delle vittime supera i mille morti, cinquemila i feriti.

– 15 gennaio: l’artiglieria israeliana colpisce la sede dell’Unrwa, l’agenzia per i rifugiati palestinesi dell’Onu.
Ucciso in un raid il ministro dell’Interno di Hamas, Siad Siam.

– 16 gennaio: summit dei Paesi arabi a Doha, boicottato da Egitto e Arabia Saudita. Usa e Israele siglano un’intesa per agevolare il cessate il fuoco. E il governo Olmert annuncia l’ipotesi di un cessate il fuoco unilaterale a Gaza. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Popoli e politiche

Israele duramente contestata. Non è successo a “Anno zero”, ma a Washington.

da ilmessaggero.it

WASHINGTON (17 gennaio) – Il ministro israeliano degli Esteri Tzipi Livni è stata duramente contestata da alcuni giornalisti che durante una conferenza stampa di ieri a Washington l’hanno chiamata «terrorista» e hanno paragonato il suo governo a quello dello Zimbabwe.

Lo raccontano oggi i siti dei giornali israeliani, aggiungendo che all’esterno del Washington press club dove si teneva la conferenza un gruppo di attivisti del gruppo pacifista «Code Pink» scandiva lo slogan «c’è un criminale di guerra nell’edificio». Uno dei momenti più tesi è stato quando un giornalista ha iniziato la sua domanda con una lunghissima citazione di un rapporto sulla situazione dei diritti umani a Gaza.

Quando l’uomo è stato sollecitato a dire quale era la sua domanda, questi ha replicato con veemenza: «l’avete lasciata parlare e ora non lasciate che si facciano domande. Da quand’è che qui vengono accolti i terroristi?».

Diversi giornalisti hanno dichiarato nelle loro domande che l’operazione «piombo fuso» avrebbe soltanto allontanato la pace, e una di loro ha paragonato Israele allo Zimbabwe per il divieto ai giornalisti di entrare a Gaza.

La Livni non ha mai perso la pazienza, rispondendo a tutti. All’uomo che le ha dato della terrorista ha detto che Israele «non vuole farsi coinvolgere nelle questioni interne dell’autorità palestinese e che per questo abbiamo lasciato unilateralmente la Striscia di Gaza, ma in cambio abbiamo avuto il terrorismo. Cerchiamo di far tutto per evitare di colpire i civili, ma questo accade». (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

“Leggo, ad ogni passo, che Hamas “ha rotto la tregua”, e per questo è stata punita. Ma quale tregua? Non c’è mai stata nessuna “tregua”. Chi l’avrebbe negoziata, visto che Israele non ha mai voluto trattare con Hamas e viceversa?”

di Giulietto Chiesa – Megachip.info

Non si può risalire alle cause, alle responsabilità più lontane. non adesso, mentre la gente, i bambini, muoiono a Gaza. Ma io vorrei risalire la corrente della logica, vorrei riportare le parole al loro significato, che invece cambia e si scolora mentre le ripetiamo.
Dal 27 dicembre (in verità da molto più tempo) siamo sommersi da quasi-dogmi sui quali la nostra lingua s’inceppa.

«Israele ha diritto alla sua esistenza», leggiamo ogni giorno, sentiamo da ogni tribuna. Poi guardiamo le tremende immagini della sua potenza militare, i suoi F-16, i cannoni, gli elicotteri, i carri armati. Facciamo il conto della strage che hanno già fatto: oltre 1000 morti, 4000 feriti di cui 400 gravi o gravissimi. Un terzo sono bambini, la maggior parte sono civili. Dall’altra parte, da quelli che rivendicano il loro diritto all’esistenza e che vogliono essere protetti, non più di dieci vittime.

Triste contabilità, ma inevitabile, perché è la trave nell’occhio che mostra il divario tra Davide e Golia. Solo che Davide è il popolo palestinese. Ma allora chi è che ha «il diritto alla sua esistenza»?

Davvero c’è qualcuno che pensa che la gente di Gaza può minacciare la falange possente dei protettori di Israele, il cui principale è niente meno che l’America? Chi può credere, davvero, che l’esistenza di Israele sia minacciata? La lingua diventa di legno, o dovrebbe, a chi ripete queste parole.
Leggo, ad ogni passo, che Hamas “ha rotto la tregua”, e per questo è stata punita.  Ma quale tregua? Non c’è mai stata nessuna “tregua”. Chi l’avrebbe negoziata, visto che Israele non ha mai voluto trattare con Hamas e viceversa? La verità è che Hamas aveva interrotto nel luglio, unilateralmente, il lancio dei suoi Kassam, nonostante il fatto che da 18 mesi Gaza fosse sottoposta da un blocco pressoché totale, oltre che illegale.

Poi la parentesi di calma si è interrotta. Chi ha le prove delle responsabilità? Nessuno, ma tutti dicono che è Hamas. Quindi, poiché Hamas sono i cattivi, devono essere puniti. I 300 bambini trucidati sono sufficienti, o ce ne vogliono altri 300? O, come si chiede Thomas Friedman su «International Herald Tribune» (14 gennaio), qual è lo scopo di Israele: «sradicare Hamas o rieducarla?».

A colpi di mille morti a lezione.

Leggo che Tsahal, l’esercito di Israele, ha fatto migliaia di telefonate a Gaza. Dicono: andate via della vostra casa perché la bombarderemo. Grazie per l’avvertimento. Ma dove andare? Gaza si chiama striscia perché è un fazzoletto di terra. E Hamas è il vincitore delle uniche elezioni democratiche di Palestina. Quanti devono essere puniti per avere votato Hamas? Ovvio: la maggioranza. Questa sì che è democrazia! Comunque dove cadono le bombe? Dal numero e dalla qualità dei morti si direbbe che cadono dove si vuole che cadano.  

Sessantuno anni fa, nel 1948, quando i “filistei” erano solo la metà di quelli di oggi, sullo stesso territorio, e Al Fatah, e Hamas, erano ancora di là da venire, Ben Gurion diceva allo Stato Maggiore Generale: «Dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca dei beni, il taglio di tutti i servizi sociali per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba». Non c’erano colpevoli o innocenti da distinguere. E’ accaduto sistematicamente in questi anni, adesso sta accadendo di nuovo, sotto i nostri occhi. Ma noi abbiamo perduto le parole per descriverlo.

Le parole più chiare le disse invece Sharon di fronte al parlamento di Tel Aviv il 4 marzo 2002, ma nessuno sembra ricordarsele: «I palestinesi devono soffrir ancora molto di più, fino a che si rendano conto che non otterranno niente con il terrorismo. Se non si rendono conto di essere stati vinti noi non potremo tornare al tavolo del negoziato».

Qui non si parla di Hamas, si dice “palestinesi”. I “palestinesi” hanno votato Hamas proprio perché Israele ha spiegato loro, in questi sessantuno anni, che per altra via non possono ottenere nulla. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Piombo Fuso: “Questa è la distorta realtà che Obama erediterà la prossima settimana, e che brutta eredità è.”

L’assedio israeliano a Washington – Obama davanti ai fatti compiuti

di Rami G. Khouri – «Daily Star», Beirut (da megachip.info)

Se l’attacco israeliano a Gaza iniziato 18 giorni fa aveva in parte lo scopo di mandare un messaggio al prossimo presidente degli USA Barack Obama, il Congresso USA nell’ultima settimana sembra essersi unito allo sforzo di mettere i cappi al nuovo presidente e ipotecare per lui la futura legislazione, ancora prima che entri in carica.

Obama ha cercato di mantenere le distanze e rimanere fuori dalla battaglia politica su Gaza astenendosi dal fare dichiarazioni impegnative. Israele e i suoi molti sostenitori a Washington hanno per lui piani diversi. Lui è rimasto fuori dalla guerra, ma loro l’hanno combattuta per lui — facendogli ingoiare come prima lezione pre-incarico come i presidenti americani si comportano quando Israele rende noti i suoi desideri, se vogliono rimanere al potere.

La Camera dei Rappresentanti ha votato lo scorso venerdì con 390 voti a favore e 5 contro una risoluzione che appoggia completamente Israele nel suo attacco a Gaza, proclamando specificamente “il diritto di Israele a difendere se stesso dagli attacchi di Gaza”. Il giorno prima, il Senato sosteneva a spada tratta Israele e il suo diritto di difendersi contro il terrorismo.

Una simile straordinaria unilateralità dell’appoggio a Israele da parte degli Stati Uniti rispecchia la stessa posizione dell’amministrazione. Sia il Presidente George W. Bush che il Segretario di Stato Condoleeza Rice hanno detto durante incontri con la stampa che Hamas era da biasimare per la guerra attuale e per le sofferenze dei palestinesi di Gaza, e che ogni cessate il fuoco doveva assicurare che Hamas non avrebbe più attaccato Israele. Sembravano incomprensibilmente ciechi alla combinazione dello strangolamento e dell’aggressione su Gaza da parte di Israele. (E per quanto ne sa la stampa, ecco la storia delle vanterie del Primo Ministro Ehud Olmert che avrebbe costretto George Bush e Condi Rice ad astenersi nel voto per una richiesta delle Nazioni Unite di un cessate il fuoco che pure la Rice aveva aiutato a scrivere).

Questo sostegno quasi irrazionale per Israele sia nel potere esecutivo che nel potere legislativo del governo USA ha luogo mentre un coro di condanna internazionale per l’uso sproporzionato della forza include inviti di alcuni funzionari delle Nazioni Unite e rispettabili organizzazioni non- governative a indagare se Israele ha commesso “crimini di guerra”.

Israele sta facendo uso dei due arsenali con cui si sente più a suo agio — la forza militare per uccidere, ferire, terrorizzare e costringere alla fuga migliaia di civili palestinesi, e l’equivalente scempio politico di manganellare l’establishment politico americano fino alla totale sottomissione.

Dopo sei decenni di tentativi, Israele non è riuscito a trasformare i palestinesi in vassalli e schiavi ossequiosi — ma ha avuto successo nel trasformare un sistema politico, altrimenti impressionante, in un gregge di bestiame castrato che si accuccia di fronte alle minaccia che i boia e i pistoleri d’Israele tengono sospesi su di esso.
Gaza avrà presto il suo cessate il fuoco, ma Washington troverà mai sollievo dall’asfissiante stretta politica dei tagliagole di Israele?

Questi voti del Congresso negli ultimi giorni non sono un evento insolito, purtroppo, ma una riaffermazione di routine della stretta asfissiante che Israele mantiene sui rappresentanti eletti di un’altrimenti sana democrazia. Ad esempio, due anni fa, quando Israele attaccò il Libano con un simile ferocia, la Camera dei Rappresentanti USA votò per 410 a 8 il suo appoggio all’aggressione israeliana, e per condannare Hamas e Hezbollah per “gli attacchi non provocati e riprovevoli contro Israele”.

Due anni prima, nel 2004, la Camera votò per 407 a 9 il suo appoggio alla posizione del Presidente Bush secondo cui era “irrealistico” che Israele tornasse completamente alle sue frontiere del giugno 1967.
Su nessun’altra questione di politica estera il Congresso USA mette collettivamente la testa sotto la sabbia, spegne la sua capacità di giudizio indipendente, e dimentica l’impatto delle sue decisioni sull’immagine degli USA nel resto del mondo. Riguardo a nessun’altra parte del mondo il Congresso USA vota secondo gli interessi di un paese straniero e non secondo l’interesse nazionale USA. Questo cieco e irriflesso tuffo nel fanatismo e nel tifo filoisraeliano riflette precisamente la forza della lobby filo-israeliana, e la debolezza delle voci ragionevoli, dell’equilibrio della giustizia come guide della politica estera americana.

Questa è la distorta realtà che Obama erediterà la prossima settimana, e che brutta eredità è. Cattura il peggio di molti mondi e lo fonde in un unico mondo — la perversione, la forza isterica della lobby pro-Israele negli Stati Uniti che compra e atterrisce politici con la stessa facilità con cui si compra un sacchetto di noccioline al circo; i governi arabi, anemici, sconsiderati, senza spina dorsale, che rimangono nudi davanti a Israele e agli USA, e svergognati davanti alla loro gente; e il sistema politico americano, che su questa questione, con l’eccezione di poche persone decenti e coraggiose, si comporta in modo assai poco americano di fronte alle onniscienti forze filoisraeliane che decidono della vita e della morte politica di ognuno.
Qui non c’è niente di nuovo. Mi stupisce solo che gli Americani si aspettino da noi che li prendiamo sul serio e che non ci mettiamo a ridere — o a vomitare — quando ci tengono lezioni sull’esportazione della democrazia. (Beh, buona giornata).

Tradotto da Gianluca Bifolchi, achtungbanditen.splinder.com: [QUI]

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Attualità Popoli e politiche

Piombo Fuso: “Noi obiettori di coscienza siamo una esigua minoranza.”

«Combattere nella Striscia è insensato»
FRANCESCA PACI
INVIATA A TELAVIV da lastampa.it
Noam sa come i connazionali considerano quelli tipo lui. Ha già ricevuto decine di email anonime: «vigliacco», «traditore», «amico dei terroristi». Non se ne cura. Domenica 4 gennaio, il giorno dopo essere stato richiamato tra le fila dei riservisti, ha detto no. Noam Livne, 34 anni, dottorando in matematica al Weizmann Institute di Rehovot, è uno dei 9 refusenik che hanno rifiutato la divisa per l’operazione Piombo Fuso. «Sono andato alla base e ho spiegato al comandante che non avrei combattuto a Gaza per ragioni morali» racconta seduto a un tavolino del caffè Mersand, nel cuore di Tel Aviv. Fuori, al di là della vetrina che sembra dipinta da Hopper, ragazzi della sua età si dirigono verso la spiaggia per l’aperitivo nei locali affacciati sul mare, lo stesso di Gaza, il fronte distante meno di 100 chilometri.

Quali sono le ragioni morali di cui ha parlato al suo comandante?
«Questa guerra non serve. Non sono un disfattista, sono stato nell’esercito quattro anni, tre di leva e uno da ufficiale. Ho anche servito come riservista ma solo all’interno della linea verde, i confini del ’67. Nei territori palestinesi occupati non andrò mai, me ne sono convinto mentre ero in prigione».

Quando è stato in prigione?
«Nel gennaio 2002. C’era la seconda Intifada e io rifiutai di andare con le truppe a Nablus. Sono stato dentro tre settimane, ho letto molti libri e sono uscito ancora più convinto di non voler partecipare a un conflitto sbagliato e ingiusto. Quando decidi da che parte stare è facile, anche se gli altri non capiscono».

Che libri ha letto?
«Ne ricordo uno in particolare, La storia di Elsa Morante, mi ha influenzato tanto e mi ha dato forza».

L’80 per cento degli israeliani continua a sostenere la guerra. Non si sente isolato?
«Non sono del tutto solo per fortuna, ma noi obiettori di coscienza siamo una esigua minoranza. In questo Paese c’è un sistematico indottrinamento nazionalista, è difficile differenziarsi. Anche i palestinesi raccontano la loro storia parziale, e questo non aiuta. Io provo a capire la cronaca scartando il filtro della narrativa israeliana e di quella palestinese. E’ un lavoro da umanista, i nostri e i loro morti, come i nostri e i loro feriti, sono la stessa cosa».

Il governo israeliano dice che è stato Hamas a rompere la tregua.
«Hamas è diventato la giustificazione per qualsiasi tipo di reazione. Anche io odio Hamas, un partito di terroristi. Ma non riesco a essere felice se muoiono mille palestinesi».

Ha fiducia nella politica?
«Voto, sia pur senza grande entusiasmo. Il problema non sono i politici, anche se attribuisco gravi responsabilità al ministro della difesa Barak. Dopo il fallimento di Camp David Barak ha convinto il Paese che i palestinesi non fossero un partner possibile. In generale però, i politici sono l’espressione degli elettori e gli elettori qui non sono pronti alla pace».

Cosa farebbe se fosse nominato premier?
«A differenza dei guerrafondai, convinti che le armi siano la risposta, io non ne ho una. La situazione è difficile. La pace è difficile. E’ vero che i palestinesi capiscono meglio il linguaggio della violenza, ma anche noi israeliani. Entrambi ci rappresentiamo come mostri, un popolo di terroristi e un popolo di guerrieri assatanati. Non sono ottimista e non ho una soluzione, ma ho una direzione. Se fossi premier appoggerei l’iniziativa araba, spingerei perchè noi ebrei ci integrassimo nella regione, costruirei il confine sulla linea del ’67, senza aggiustamenti».

Il ragazzo che l’ha preceduto nel rifiutare di servire a Gaza è stato condannato a due settimane di prigione. Lei?
«Non hanno deciso, il comandante ha detto che avrebbero pensato a cosa fare di me. Forse mi processeranno».

Hamas potrebbe accettare la tregua. Cosa crede che accadrà?
«Un proverbio ebraico dice che la profezia è materia da stupidi».

(Beh, buona giornata)

 

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: “Con un pronto soccorso in cui arrivano cinquanta feriti alla volta sarebbe in difficoltà anche il migliore ospedale di Oslo”. La testimonianza dei medici Mads Gilbert ed Erik Fosse.

di Sophie Shihab – Le Monde (da megachip.info)

La testimonianza dei medici Mads Gilbert ed Erik Fosse

Dall’inviata speciale Sophie Shihab ad Al-Arish, Egitto – In questi ultimi giorni le televisioni arabe che trasmettono da Gaza hanno mostrato dei feriti di tipo nuovo – adulti e bambini le cui gambe erano ridotte a resti carbonizzati e insanguinati. Domenica 11 gennaio ne hanno dato testimonianza due medici norvegesi, unici occidentali presenti nell’ospedale della città.

I dottori Mads Gilbert ed Erik Fosse, che operano nella regione da una ventina d’anni con l’organizzazione non governativa (ONG) norvegese Norwac, hanno potuto lasciare il territorio il giorno prima, con quindici feriti gravi, attraverso il confine con l’Egitto. Non senza ostacoli fino all’ultimo: “Tre giorni fa il nostro convoglio, peraltro guidato dal Comitato internazionale della Croce Rossa, ha dovuto fare dietro front prima di arrivare a Khan Younis, dove dei carri armati ci hanno sparato addosso per fermarci”, hanno detto ai giornalisti presenti ad Al-Arish.

Due giorni dopo il convoglio è passato, ma i medici e l’ambasciatore norvegese venuto ad accoglierli sono rimasti bloccati tutta la notte “per motivi burocratici” all’interno del terminal egiziano di Rafah, aperto esclusivamente per le missioni sanitarie. Quella notte i vetri di alcune finestre e un soffitto del terminal sono stati distrutti dall’onda d’urto di una delle bombe sganciate nelle vicinanze.

“A 2 metri il corpo è troncato in due; a 8 metri le gambe sono tagliate, bruciate”
“All’ospedale Al-Shifa di Gaza non abbiamo visto ustioni da fosforo né lesioni da bombe a grappolo. Ma abbiamo visto delle vittime di ciò che abbiamo tutti i motivi di pensare sia il nuovo tipo d’arma sperimentato dall’esercito americano e noto con l’acronimo DIME – cioè Dense Inert Metal Explosive”, hanno dichiarato i medici.

Si tratta di piccole sfere di carbonio contenenti una lega di tungsteno, cobalto, nichel o ferro, con un enorme potere esplosivo che si dissipa però nel raggio di 10 metri. “A 2 metri il corpo è troncato in due; a 8 metri le gambe sono tagliate e bruciate come da migliaia di punture d’ago. Non abbiamo visto i corpi sezionati, ma abbiamo visto molti amputati. C’erano stati casi simili nel sud del Libano nel 2006 e abbiamo visto la stessa cosa a Gaza sempre nel 2006, durante l’operazione israeliana “Pioggia d’estate”. Degli esperimenti sui topi di laboratorio hanno mostrato che queste particelle che restano nel corpo sono cancerogene”, hanno spiegato.

Un medico palestinese intervistato domenica da Al-Jazeera ha parlato della sua impotenza in questi casi: “Non hanno alcuna traccia di metallo in corpo, ma strane emorragie interne. Una sostanza brucia i loro vasi sanguigni e provoca la morte, non possiamo fare nulla”. Secondo la prima équipe di medici arabi autorizzata a entrare nel territorio, giunta venerdì da sud all’ospedale di Khan Younis, quest’ultimo ha accolto “decine” di casi di questo tipo.

I medici norvegesi, da parte loro, si sono trovati costretti – hanno detto – a testimoniare ciò che hanno visto, in assenza a Gaza di ogni altro rappresentante del “mondo occidentale”, medico o giornalista che fosse: “Può essere che questa guerra sia il laboratorio dei fabbricanti di morte? Può essere che nel XXI secolo si possano imprigionare 1,5 milioni di persone e far loro tutto ciò che si vuole chiamandoli terroristi?”

Giunti a quattro giorni dall’inizio della guerra all’ospedale Al-Shifa, che hanno conosciuto prima e dopo l’assedio, hanno trovato un edificio e delle attrezzature “allo stremo”, un personale spossato, moribondi ovunque. Il materiale che avevano preparato è rimasto bloccato al valico di Erez.

“Con un pronto soccorso in cui arrivano cinquanta feriti alla volta sarebbe in difficoltà anche il migliore ospedale di Oslo”, raccontano. “Qui le bombe potevano uccidere dieci persone al minuto. I vetri delle finestre dell’ospedale sono andati a pezzi con l’esplosione che ha distrutto la vicina moschea. Durante alcuni allarmi il personale ha dovuto rifugiarsi nei corridoi. Il loro coraggio è incredibile. Possono dormire da due a tre ore al giorno. La maggior parte ha subito perdite tra i propri cari, alla radio interna ascoltano la litania dei nuovi luoghi attaccati e a volte capita che i loro familiari si trovino proprio lì, ma devono continuare a lavorare… La mattina della nostra partenza, al pronto soccorso, ho chiesto come era andata la notte. Un’infermiera ha sorriso. Poi è scoppiata a piangere”.

A questo punto del racconto la voce del dottor Gilbert vacilla. “Vede”, si riprende sorridendo tranquillo, “Anch’io…”
(Beh, buona giornata).
 

Leggere anche “Questa è una guerra totale contro la popolazione civile palestinese”, due interviste del Dottor Gilbert

Originale: Des médecins évoquent l’usage “d’un nouveau type d’arme” à Gaza

Mads Gilbert ed Erik Fosse

Articolo originale pubblicato il 12/1/2009

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

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Human Rights Watch denuncia “l’aumento in Italia di incidenti a sfondo razzista e xenofobo, così come una crescente discriminazione nelle politiche governative nei confronti di Rom e Sinti.”

da ilmessaggero.it

WASHINGTON (14 gennaio) – L’amministrazione Bush ha prodotto «enormi danni» nel mondo per quanto riguarda la tutela dei diritti umani, e l’imminente amministrazione Obama dovrà mettere il rispetto dei valori fondamentali dell’uomo al centro delle sue politiche se davvero vorrà migliorare la situazione oggi esistente al mondo. Ma anche in Italia, con le politiche seguite sull’immigrazione, la situazione è peggiorata in tema di rispetto dei diritti fondamentali.

L’accusa viene da Human rights watch (Hrw), una delle più importanti organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani, che ha presentato oggi a Washington il suo ultimo Rapporto sulla situazione mondiale. Il Rapporto 2009 è un atto di accusa senza appello nei confronti della politica americana degli ultimi anni. Per far fronte a emergenze oggettive, come quelle poste dal terrorismo, secondo Hrw ha seguito un linea di condotta tale per cui, nel mondo, sono aumentati e si sono aggravati i casi di ingiustizia, repressione, violazione dei fondamentali diritti dell’uomo, e nei fatti i continui appelli rivolti dall’Onu sono rimasti inascoltati, compresi gli ultimi per Gaza.

Peggiorata la situazione mondiale. Il mondo, secondo Hrw, sta peggio. Gli attacchi di militari (regolari e non) nei confronti di civili continuano a verificarsi in diversi Paesi del mondo «dall’Afghanistan alla Colombia, dal Congo alla Georgia, da Israele ai territori Palestinesi» sottolinea il Rapporto. Repressioni politiche sono in corso in Birmania, Sri Lanka, Cina, Cuba, Corea del Nord, Iran, Arabia Saudita, Zimbabwe. «Abusi su donne, bambini, rifugiati, lavoratori, omosessuali» sono all’ordine del giorno in decine di Paesi nei cinque continenti, e violazioni continue avvengono anche da parte dei Paesi impegnati nella lotta contro il terrorismo, in particolare Francia, Gran Bretagna e Usa.

Le critiche all’Italia. Nel suo Rapporto HRW non risparmia critiche anche all’Italia. Ricorda, per esempio, che in un memorandum del luglio scorso il Commissario del Consiglio d’Europa per i diritti umani, Thomas Hammarberg, ha messo in evidenza «l’aumento in Italia di incidenti a sfondo razzista e xenofobo, così come una crescente discriminazione nelle politiche governative nei confronti di Rom e Sinti». Il Rapporto ricorda che gli incidenti del maggio scorso di cui furono vittima alcune le comunità nomadi, in seguito ai quali fu proclamato uno stato d’emergenza in Lazio, Campania e Lombardia «dando alle autorità locali poteri speciali. In seguito a questi episodi, il Parlamento europeo – scrive Human Rights – adottò una risoluzione chiedendo all’ Italia di bloccare il provvedimento sulle impronte digitali ai Rom. La Commissione europea mutò il suo atteggiamento critico dopo che seguirono da parte del governo italiano assicurazioni che non erano in corso schedature di dati di tipo etnico».

I casi Abu Omar e Saber. Hrw critica poi il governo italiano per l’atteggiamento avuto in due vicende specifiche: la vicenda legata al sequestro dell’ex Imam di Milano Abu Omar (nell’ambito della quale il governo ha posto il segreto di Stato) e la vicenda riguardante il tunisino Essid Sami Ben Khermais, detto Saber, espulso dall’Italia nel giugno scorso nonostante fosse pendente un pronunciamento da parte della Corte Europea, che aveva a suo tempo accolto un suo ricorso. Viene citata invece in termini positivi l’Unione europea, soprattutto per quanto riguarda l’intervento messo in atto in estate in occasione della crisi tra Georgia e Russia. (Beh, buona giornata).

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