di GIANNI VATTIMO da lastampa.it | |
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Ma chi ha esercitato un po’ di carità cristiana nei confronti di Eluana Englaro? I fedeli che si riunivano nelle chiese e nelle piazze per scongiurare l’«assassinio», o il padre che, sostenuto da precise pronunce giudiziarie, voleva aiutarla a interrompere la sofferenza inutile della quale era prigioniera? È vero, non c’era un documento scritto di suo pugno in cui lei esprimesse il desiderio d’esser lasciata morire. Anche perché in Italia di testamento biologico non si è mai potuto discutere davvero, per responsabilità precipua di quella Chiesa che diceva di voler difendere la sua vita. Ma in mancanza del documento, i tutori «naturali», la famiglia, meritavano d’essere ascoltati. Non avevano certo nessun interesse a lasciarla morire, a meno che non si consideri interesse il desiderio di non vederla più soffrire e di non lasciarla ridursi a una larva. (E a meno di condividere l’osceno sospetto che il padre volesse liberarsi di un ingombrante fardello). Perché tenerla in vita a tutti i costi? Il diritto alla vita non può essere puramente diritto alla sopravvivenza biologica: respiro, processi digestivi, funzioni vegetative. Scienza e coscienza dei medici che la seguivano da 17 anni concordavano che non ci fosse speranza di recupero, dunque sopravvivere non poteva avere il senso di attesa di una guarigione. Non è comunque vita vegetativa quella di cui parla la tradizione cristiana o anche il buon senso umano. Propter vitam vivendi perdere causas? Pur di sopravvivere, rinunciare alle ragioni stesse della vita? I martiri cristiani accettavano la morte per non rinnegare la fede. Peccavano contro la vita? E i grandi suicidi della tradizione classica che preferivano la morte alla schiavitù sarebbero da condannare? Anche chi crede che la vita sia «un dono di Dio» non può non pensare che si tratta di accettarlo e gestirlo in piena libertà.
Ma se Eluana avesse scritto quel testamento biologico che ancora non esiste nelle nostre leggi, avremmo potuto da cristiani rispettare la sua scelta? Per quel che si è visto in questi giorni, la Chiesa non ammetterebbe mai che qualcuno possa chiedere d’esser lasciato morire, con la sospensione di cibo e idratazione – che, si è scoperto adesso in Vaticano e dintorni, non sono terapie (che il paziente può rifiutare), ma forme di assistenza elementare alla vita. Sono in gioco valori «indisponibili», questioni di principio. Proprio quelle che hanno preteso di legittimare, nei secoli, i tanti delitti ecclesiastici contro la carità: i roghi di streghe, eretici, liberi pensatori. Davvero non si può ammettere che una persona decida se la propria vita è ancora degna di essere vissuta o no? Se si pone questa semplice domanda, si vede come dietro la questione di principio (la vita è un bene indisponibile) si nasconda una pura questione di potere, e specificamente di potere ecclesiastico: nessuno di noi è in grado di conoscere il proprio «vero» bene, solo la Chiesa lo può. E il potere, la storia insegna, si conserva con la forza e il timore. Non è affatto inverosimile che la Chiesa, consapevole di non dominare più le coscienze con il timore dell’Inferno anticipa quelle pene al momento del morire. Oggi che la scienza-tecnica può prolungare la sopravvivenza vegetativa all’infinito, temiamo molto più dell’Inferno l’essere tenuti in vita in uno stato larvale, magari anche con dolore e sofferenza, almeno psicologica (il dolore è sempre «redentivo», e «nessuna lacrima va perduta», dice il Papa). È su questo terrore che la Chiesa non vuole perdere il suo dominio. Anche quelli fra noi che, come me, sono convinti della necessità dell’esistenza della Chiesa per trasmettere il Vangelo, non si sentono più di accettare per questo lo scandalo delle questioni di principio invocate per puro scopo di potere. Forse è vero che «se vuol distruggere qualcuno, Dio prima lo fa impazzire»? Cercare d’esser caritatevoli con Eluana e con tutti quelli che vogliono poter decidere sulla propria vita è anche un modo di aiutare la Chiesa a non distruggersi per delirio di onnipotenza. (Beh, buona giornata) |
Categoria: Popoli e politiche
di EMANUELE MACALUSO da lastampa.it | |
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La sfida lanciata da Berlusconi, prima e dopo la morte di Eluana Englaro, al mondo laico sul terreno dei valori che caratterizzano la modernizzazione e la secolarizzazione dell’Occidente è destinata ad accrescere il suo isolamento in Europa e oltre l’Atlantico. La vittoria di Obama segna la sconfitta dell’oltranzismo dei teodem. Non è senza significato il fatto che uno dei primi atti del nuovo presidente sia stato quello di sospendere il divieto, ordinato da Bush, di dare finanziamenti pubblici a organizzazioni private che praticano o sostengono l’aborto. Le reazioni dei vescovi americani e dei cardinali della Curia non hanno certo fatto indietreggiare il Presidente Usa. La campagna di Berlusconi sul «caso Eluana» che ha un netto carattere strumentale, guarda solo alla politica interna, allunga la distanza che separa il presidente del Consiglio italiano da quel vasto e complesso mondo credente ma laico che ha sostenuto Obama.
Il clima, nei confronti di Berlusconi, è cambiato anche in Europa. Oggi la destra di Sarkozy guarda con interesse coloro che pensano a un’alternativa al socialismo democratico europeo su un terreno che oggettivamente costituisce una sfida alla sinistra, non solo sul tema dello sviluppo ma anche su quello dei valori che debbono caratterizzare le società moderne multirazziali e multiculturali. Berlusconi e la Lega appaiono come residuati di una guerra perduta, come chi vuole fermare con le mani un fiume che straripa. Chi pensa che le posizioni laiche di Zapatero fossero un caso isolato in Europa sbaglia. È vero, si tratta della Spagna cattolica, ma la laicità e la legislazione sui diritti individuali che non configgono con quelli della collettività, sono comuni a tutta l’Europa. Quel che Obama ha fatto ora lo aveva fatto, anni addietro, Blair in Inghilterra. In Germania le critiche aperte della cancelliera Merkel al Papa, dopo la riammissione nella Chiesa di Roma dei lefebvriani scomunicati, con loro il vescovo negazionista, è un gesto politico che va in direzione opposta a quella di Berlusconi. Il quale, con la sua storia, assume, rispetto al Vaticano, posizioni che uno, con la storia di Giulio Andreotti, considera inaccettabili. Chi pensa che al fondamentalismo islamico bisogna opporre il fondamentalismo cristiano, è oggi smentito da ciò che vediamo in Europa e nelle Americhe. Insomma, il mondo cambia non solo in ragione della pesante crisi economica, ma anche per i processi sociali e culturali innescati dalla globalizzazione e l’Italia sembra ferma, paralizzata dalla crisi del suo sistema politico con un presidente del Consiglio che appare fuori del tempo e dello spazio che ci circonda. In questo quadro, la politica e il sistema che l’esprime non riescono ad uscire dalla rissa quotidiana e a riflettere sugli scenari nuovi che ci propone il mondo e l’Italia con esso. Lo spettacolo offerto in Senato dopo la fine di Eluana e il volgare attacco al Presidente della Repubblica di chi rappresenta la maggioranza al governo, è un segno dei tempi. E, purtroppo, non c’è un grande partito che ponga i temi essenziali e urgenti di oggi, del quotidiano, in una prospettiva del domani e del futuro. Anche i delicati e complicati rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono giocati sulla redditività elettorale immediata. E il Vaticano in questa situazione pensa di avere una rendita di posizione rispetto ai due poli che cercano i suoi favori rendendo favori su temi e questioni che la Costituzione ha regolato anche incorporando i Patti Lateranensi e la loro revisione. Non è un caso che in questi giorni c’è chi ricorda De Gasperi e Togliatti o Craxi e Berlinguer e i papi del tempo, i quali, anche nel caso di un ampio conflitto politico, seppero trovare equilibri adeguati allo svolgimento della lotta politica e al ruolo anche pubblico delle religioni in un Paese in cui, come diceva Gramsci, «c’è una questione vaticana». E non sono certo mancate posizioni critiche laiche (penso ai radicali) a questa linea, ma tutto si è svolto senza mettere in discussione le fondamenta della Costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa. Oggi sembra che tutti gli argini si siano rotti nelle due sponde del Tevere e prevale una strumentalizzazione ed esasperazione dei temi controversi che si riverberano sulla famiglia di Eluana che ha vissuto e vivrà un dramma che le istituzioni e la Chiesa avrebbero dovuto rispettare. Ma qui, ripeto, sembra di essere fuori dal mondo, in un altro pianeta. (Beh, buona giornata). |
Zagrebelsky: “Se il potere nichilista si allea con la Chiesa del dogma”.
di GIUSEPPE D’AVANZO da repubblica.it
L’Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, ha definito Beppino Englaro “un boia”. Credo che debba partire da qui, da un insulto atroce, il colloquio con Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.
Beppino Englaro, “un boia”?”
In un caso controverso dove sono in gioco dati della vita così legati alla tragicità della condizione umana è fuori luogo usare un linguaggio violento, così impietoso, così incontrollato, così ingiusto. Non ho ascoltato, sul versante opposto, che vi sia chi ragiona dell’esistenza di un “partito della crudeltà” opposto a “un partito della pietà”. Credo che in vicende così dolorose debbano trovare espressione parole più adeguate e controllate, più cristiane”.
E tuttavia, presidente, i toni accusatori, le accuse così aggressive e definitive sembrano indicare che cosa è in gioco o a contrasto nel caso di Eluana Englaro. I valori contro i principi, la verità contro il dubbio. Questioni da sempre aperte nelle riflessioni dei dotti che avevano trovato, per così dire, una sistemazione condivisa nella Costituzione italiana. Che cosa è accaduto? Perché quell’equilibrio viene oggi messo di nuovo in discussione dopo appena sessant’anni?
“Le posizioni in tema di etica possono essere prese in due modi. In nome della verità e del dogma, con regole generali e astratte; oppure in nome della carità e della com-passione, con atteggiamenti e comportamenti concreti. Nella Chiesa cattolica, ovviamente, ci sono entrambe queste posizioni. Nelle piccole cerchie, prevale la carità; nelle grandi, la verità. Quando le prime comunità cristiane erano costituite da esseri umani in rapporto gli uni con gli altri, la carità del Cristo informava i loro rapporti. La “verità” cristiana non è una dottrina, una filosofia, una ideologia. Lo è diventata dopo. Gesù di Nazareth dice: io sono la verità. La verità non è il dogma, è un atteggiamento vitale. Quando la Chiesa è diventata una grande organizzazione, un’organizzazione “cattolica” che governa esseri umani senza entrare in contatto con loro, con la loro particolare, individuale esperienza umana, ha avuto la necessità di parlare in generale e in astratto. È diventata, – cosa in origine del tutto impensabile – una istituzione giuridica che, per far valere la sua “verità”, ha bisogno di autorità e l’autorità si esercita in leggi: leggi che possono entrare in conflitto con quelle che si dà la società. Chi pensa e crede diversamente, può solo piegarsi o opporsi. Un terreno d’incontro non esiste. “.
Che ne sarà allora dell’invito del capo dello Stato a una “riflessione comune” ora che il parlamento affronterà la discussione sulle legge di “fine vita”?
” Una legge comune è possibile solo se si abbandonano i dogmi, se si affrontano i problemi non brandendo quella verità che consente a qualcuno di parlare di “omicidio” e “boia”, ma in una prospettiva di carità. La carità è una virtù umana, che trascende di gran lunga le divisioni delle ideologie e dei credi religiosi o filosofici. La carità non ha bisogno né di potere, né di dogmi, né di condanne, ma si nutre di libertà e responsabilità. Dico la stessa cosa in altro modo: un approdo comune sarà possibile soltanto se prevarrà l’amore cristiano contro la verità cattolica”.
Lo ritiene possibile?
“Giovanni Botero nella sua Della Ragione di Stato del 1589 scriveva, a proposito dei Modi di propagandar la religione: “Tra tutte le leggi, non ve n’è alcuna più favorevole a’ Prencipi, che la Christiana: perché questa sottomette loro, non solamente i corpi e le facoltà de’sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora e i pensieri”. Botero era uomo della controriforma. Purtroppo, c’è chi pensa ancora così, tra i nostri moderni “prencipi”. Essi potrebbero far loro il motto di un discepolo di Botero che scriveva: “questa è la ragion di stato, fratel mio, obbedire alla Chiesa cattolica”. Ora, se l’obbedienza alla Chiesa cattolica è la ragion di stato, è chiaro che i laici non troveranno mai un approdo comune con costoro.
Dobbiamo allora credere che il conflitto di oggi tra mondo laico e mondo cattolico, che ha accompagnato il calvario di Eluana, segnali soprattutto la fine della riflessione del Concilio Vaticano II e, per quel che ci riguarda, la crisi di quella “disposizione costituzionale” che è consistita, per lo Stato, nel principio di laicità contenuto nella Costituzione, e per la Chiesa nella distinzione tra religione e politica?
“Il Concilio Vaticano II ha rovesciato la tradizione della Chiesa come potere alleato dello Stato, ha voluto liberarla da questo legame tutt’altro che evangelico. Non si propose di proteggere o conservare i suoi privilegi, ancorché legittimamente ricevuti, e invitò i cattolici a un impegno responsabile nella società, uomini con gli altri uomini, con la fiducia riposta nel libero esercizio delle virtù cristiane e nell’incontro con gli “uomini di buona volontà”, senza distinzione di fedi. Fu “religione delle persone” e non surrogato di una religione civile. Il cattolicesimo-religione civile sembra invece, oggi, essere assai gradito per i vantaggi immediati che possono derivare sia agli uomini di Chiesa che a quelli di Stato”.
Ieri mentre finiva l’esistenza di Eluana Englaro e il Paese era scosso dalle emozioni, dalla pietà e, sì, anche da una rabbia cieca, dieci milioni di italiani hanno voluto vedere il Grande Fratello. E’ difficile non osservare che l’artefice della macchina spettacolare televisiva del reality e di ogni altra fantasmagorica vacuità – capace di distruggere ogni identità reale, alienare il linguaggio, espropriarci di ciò che ci è comune, di separare gli uomini da se stessi e da ciò che li unisce – è lo stesso leader politico che pretende di dire e agire in nome dell’Umanità, della Vita, addirittura della Verità e della Parola di Dio. Le appare più tragico o grottesco, questo paradosso? Come spiegarsi la dissoluzione di ogni senso critico dinanzi a questo falso indiscutibile?
“Non è questo il solo paradosso. Non è la sola contraddizione che si può cogliere in questa vicenda. Il mondo cattolico enfatizza spesso il valore della dimensione comunitaria della vita, soprattutto nella famiglia. E’ la convinzione che induce la Chiesa a invocare a gran voce la cosiddetta sussidiarietà: lo Stato intervenga soltanto quando non esistono strutture sociali che possono svolgere beneficamente la loro funzione. Mi chiedo perché, quando la responsabilità, la presenza calda e diretta della famiglia, nelle tragiche circostanze vissute dalla famiglia Englaro, dovrebbero ricevere il più grande riconoscimento, la Chiesa – con una contraddizione patente – chiude alla famiglia e invoca l’intervento dello Stato; alla com-passione di chi è direttamente coinvolto in quella tragedia, preferisce i diktat della legge, dei tribunali, dei carabinieri. Sia chiaro: lo Stato deve vigilare contro gli abusi – proprio per evitare il rischio espresso dal presidente del consiglio con l’espressione, in concreto priva di compassione, “togliersi un fastidio” – ma osservo come la legge che la Chiesa chiede assorbe nella dimensione statale tutte le decisioni etiche coinvolte: questo è il contrario della sussidiarietà e assomiglia molto allo Stato etico, allo Stato totalitario”.
Lei è il primo firmatario di un appello che ha per titolo Rompiamo il silenzio. Vi si legge che “la democrazia è in bilico”. Le chiedo: può una democrazia fragile, in bilico appunto, reggere l’urto coordinato di un potere politico invasivo e senza contrappesi e di un potere religioso che agita come una spada la verità?
“Oggi la politica è succuba della Chiesa, ma domani potrebbe accadere l’opposto. Se la politica è diventata – come mi pare – mezzo al solo fine del potere, potere per il potere, attenzione per la Chiesa! Essa, la Chiesa del dogma e della verità, può essere un alleato di un potere che oggi ha bisogno, strumentalmente, di legittimazione morale. Il compromesso convince i due poteri a cooperare. Ma domani? Il potere dell’uno, rafforzato e soddisfatto, potrebbe fare a meno dell’altra. “.
Qual è l’obiettivo del suo appello?
“‘Rompiamo il silenziò è già stato sottoscritto da centosessantamila cittadini. È la dimostrazione che, per fortuna, la nostra società non è un corpo informe, conserva capacità di reazione. L’appello ha tre ragioni. E’ uno sfogo liberatorio, innanzitutto: devo dire a qualcuno che non sono d’accordo. E’ poi un autorappresentarsi non come singoli, ma come comunità di persone. Il terzo obiettivo è rendersi consapevoli, voler guardare le cose non in dettagli separati, è un volersi raffigurare un quadro. A volte abbiamo la tendenza a evitare di guardare le cose nel loro insieme. E’ quasi un istinto di sopravvivenza distogliere lo sguardo dalla disgrazia che ci può capitare. L’appello prende posizione. Si accontenta di questo. Se mi chiede come e dove diventerà concreta questa presa di coscienza, le rispondo che ognuno ha i suoi spazi, il lavoro, la scuola, il partito, il voto. Faccia quel che deve, quel che crede debba essere fatto per sconfiggere la rassegnazione”.
Clima di crisi
di Marzio Galeotti da lavoce.info
Quali sono le conseguenze della crisi economica per la causa dell’ambiente? Difficile dirlo a priori, perché molteplici sono gli effetti e le interrelazioni al livello di sistema economico. Ma anche se la tensione sul problema dovesse calare, compito del governo e delle politiche è di contrastare questa tendenza. Dopotutto, prima o poi, la crisi passerà, mentre il problema del clima resta. E così pure gli impegni internazionali da onorare. Meglio allora pensare a come agire, secondo le linee di un piano di intervento e rilancio verde.
Il 2008 sembrava un anno speciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Il pacchetto europeo sul clima annunciato a gennaio attraversava una fase di discussione turbolenta, durante la quale si era distinto in negativo il nostro paese, ma non tale da comprometterne l’approvazione finale. Dall’altra parte dell’oceano, il candidato democratico Barack Obama viaggiava verso un’elezione alla presidenza degli Stati Uniti che gli eventi successivi avrebbero reso trionfale, sulla base di una piattaforma che della lotta agli sprechi energetici e sul clima aveva fatto uno dei pilastri principali.
Ma poi sul finire dell’estate era arrivata la crisi, una crisi dalla virulenza senza precedenti. Una crisi che dalla sfera finanziaria si era trasferita all’economia reale e che a fine anno cominciava a fare intravvedere le sue pesanti conseguenze. Era una crisi di fiducia verso gli altri operatori e una crisi di sfiducia verso il futuro che inceppava il meccanismo del credito, rallentava significativamente l’economia, riduceva i redditi e accresceva la disoccupazione. Le pubbliche finanze venivano sottoposte a tensioni crescenti: a fronte di minore gettito fiscale aumentavano le richieste di intervento a favore di banche, industrie e famiglie. Si affacciava un nuovo statalismo che dilatava i deficit pubblici e nel lessico politico scompariva la parola “tassa”, per far posto a un’altra, “sussidio”.
IL CLIMA NELLA CRISI
E la lotta ai cambiamenti climatici? Quali gli effetti della crisi economica sul clima e sulla politica del clima? La lotta al clima è percepita, a torto o a ragione, come un costo: è un atteggiamento diffuso tra i decisori politici dal momento che i costi sono più vicini, visibili e certi dei benefici. Ed è difficile negare che la profonda crisi economica abbia l’effetto di attenuarne, e di molto, la serietà e l’urgenza.
Prima di affrontare le reazioni della politica potremmo però provare a interrogarci su quali effetti la crisi economica possa avere su energia e clima, in assenza di interventi. Diciamo subito che una risposta nitida è difficile da ottenere, in quanto molteplici appaiono gli effetti, anche di segno opposto, cosicché l’economista ben presto osserverebbe come una disamina in qualche modo soddisfacente sarebbe possibile solo con l’ausilio di un modello di equilibrio economico generale capace di tenere traccia degli effetti principali della crisi.
In assenza di simili strumenti, con mero intento illustrativo, potremmo anzitutto guardare ai mercati dell’energia, a cominciare dal petrolio. Sul mercato internazionale i capitali abbandonano frettolosamente il mercato dei futures, mentre il rallentamento della domanda globale innesca potenti aspettative al ribasso, che la volontà dell’Opec di restrizione dell’offerta non è riuscita finora a contrastare. Il prezzo crolla e le fonti fossili di energia (il petrolio porta con sé il gas) tornano a essere competitive, mentre le entrate fiscali su combustibili e carburanti si riducono (chi si ricorda più di speculazione tremontiana e Robin tax?).
Se la bolletta energetica per le famiglie ne risente in positivo, ancorché in misura più lenta, il riequilibrio dei prezzi relativi delle fonti energetiche rende relativamente più costose quelle alternative, rinnovabili in testa. Sulla carta questo fatto, unito alla scomparsa del credito bancario, rende più difficoltosa l’auspicata espansione dell’industria della produzione di energia rinnovabile e dell’efficienza energetica. Se è vero che l’installazione di impianti di generazione di elettricità da eolico e solare, così come interventi di risparmio ed efficienza energetica come quelli sulle abitazioni e gli edifici pubblici e privati, sono intraprese a minimo rischio, resta il fatto che il credit crunch sembra generalizzato.
Un’implicazione di quanto appena detto è che nel nostro paese il nucleare è “rimandato a settembre”. Ciò appare già abbastanza chiaro a livello di dibattito parlamentare: troppe incognite sui tempi e sui costi. Altro che dichiarare che il nucleare è la soluzione per uscire dall’impasse del contenzioso russo-ucraino che con puntualità si ripropone con orizzonte di un anno, massimo due.
DALLE TASSE AI SUSSIDI
Un altro presumibile effetto è lo spostamento delle politiche dalle tasse ai sussidi: questo non fa un favore alla causa del clima, in quanto il principio secondo cui “chi inquina paga” non lascia molto spazio alla fantasia. Ma i tempi sono quelli che sono e i sussidi hanno il pregio di contribuire ad attenuare la recessione e sostenere prima o poi la ripresa. Ma se le tasse ambientali, come tutte le tasse, incontrano una difficoltà nell’accettabilità politica, dall’altro lato procurano gettito. Esattamente l’opposto accade con i sussidi. Specie se questi ultimi prendono verosimilmente direzioni diverse dal finanziamento dell’innovazione in tecnologie pulite e verdi, a causa dell’elevata incertezza circa tempi ed esiti che, pur nella loro cruciale importanza, le caratterizza.
Il rallentamento generalizzato dell’economia induce spontaneamente comportamenti volti al risparmio, a economizzare sui consumi e ciò riguarda anche l’energia, dai trasporti agli utilizzi di elettricità. Naturalmente, qui la questione riguarda l’elasticità al reddito dei consumi energetici, che sembra evidenziare asimmetrie a seconda che si tratti di aumenti ovvero riduzioni. In generale, comunque, si può affermare che il rallentamento della crescita a livello globale porterà a un rallentamento spontaneo nella crescita delle emissioni inquinanti, di gas-serra comprese.
SOTTRARSI DALLA LOTTA?
Il problema più serio che la crisi economica pone per la lotta al clima è l’attenzione che viene distolta dal tema, la tensione che si riduce. Il risultato è che l’emergenza climatica cessa di essere tale di fronte all’emergenza del credito, dei redditi, dell’occupazione e solo una forte volontà politica può impedire questa per certi versi comprensibile tendenza.
Dovremmo dunque abbandonare la lotta? Dare la partita per persa? Rinunciare a prendere l’iniziativa? Ci si chiede se l’ambiente è favorito dalla crisi: in realtà la risposta dipende da noi, dalla nostra volontà – e in qualche misura dal coraggio – di afferrare per le corna il toro della crisi per dirigerla verso un’uscita ad alto tasso di efficienza energetica e basso tenore di carbonio.
Vi sono tre fondamentali ragioni per cui non possiamo e non dobbiamo rimandare l’intervento a un futuro più favorevole (se mai esiste). La prima è che prima o poi la crisi economica passa, mentre il problema climatico no. Anzi, con l’inazione è destinato a diventare ancora più grave. Se le emissioni (anche) quest’anno si ridurranno, sarà comunque un fatto transitorio se non sarà il risultato di politiche attive e consapevoli. Il prezzo del petrolio tornerà a crescere e tenderanno a riproporsi le condizioni precedenti alla crisi, se non avremo colto questa cruciale occasione per presentarci all’uscita dal tunnel in condizioni diverse.
La seconda ragione è che le obbligazioni per il nostro e altri paesi sono sempre lì. Kyoto è ineludibile e così lo sono gli impegni del pacchetto europeo. Dopo la battaglia sul pacchetto, vinta a metà (o vinta dall’industria, ma non dal paese), non abbiamo più sentito nulla dai ministeri interessati su come si pensa di onorare gli impegni assunti. Stupisce un po’ di leggere che si vagheggia di rivedere i termini dell’accordo in anticipo sui tempi previsti (2010), quando in realtà la clausola di revisione non è stata introdotta per tornare indietro, quanto per verificare se vi siano le condizioni per rendere l’impegno di riduzione delle emissioni ancora più stringente. In ossequio al principio di precauzione, i costi da sostenere potrebbero essere tanto più alti quanto più tardiamo a intervenire. Mentre ancora siamo in attesa di sapere come si intende operare per la riduzione delle emissioni per quei settori – trasporti, residenziale, commercio, agricoltura – non coperti dal Sistema europeo di scambio dei permessi di emissione. O si ha il coraggio di pronunciare la parola tassazione, ma crucialmente specificando che si tratterebbe di una riforma dell’intero sistema in senso ambientale, che non porti a nuove tasse, corredandola da una clausola di impiego del gettito a favore della detassazione del lavoro e dell’incentivazione alla ricerca e sviluppo. Oppure si deve spiegare dove il Tesoro reperirà i fondi per acquistare i crediti d’emissione necessari per rientrare nei limiti degli impegni assunti.
Naturalmente, e questa è la terza ragione, si può e si deve intervenire anche sostenendo l’economia con incentivi e sussidi. Qui Obama è d’esempio: incentivi e sussidi servono a contrastare il ciclo economico avverso, ma è cruciale cogliere questa occasione di intervento dello Stato nell’economia per iniziare a cambiare la struttura della produzione e dei consumi in direzione della sostenibilità. Questo significa la concessione di aiuti condizionati e mirati, come quelli che il governo ha faticosamente deciso a favore dell’auto e degli elettrodomestici, mentre meno si comprende, dal nostro punto di vista, l’intervento a favore dei mobili. Ma naturalmente molto di più si potrebbe e sarebbe necessario fare, a cominciare da tutte quelle opzioni a costo zero di riduzione delle emissioni negative costituite dai vari interventi di efficienza e risparmio energetico. In questo senso, abbiamo registrato il piano “obamiano” presentato dal segretario del Partito democratico Veltroni, di cui solo uno dei grandi quotidiani nazionali ha riferito, e capace secondo il proponente di creare (il famoso) milione di posti di lavoro nel giro di cinque anni. (1)
Sul fronte delle politiche domestiche è necessario essere lucidi e coraggiosi. Nonostante la generale crisi di fiducia, non deve venire meno la fiducia nella lotta al clima, ma è necessario cogliere questa occasione che potrebbe rivelarsi irripetibile, come osservano le Nazioni Unite con la proposta di un Green Global New Deal e Obama con il suo American Recovery and Reinvestment Plan. Qualche settimana addietro Francesco Giavazzi notava in un editoriale come questa crisi sia l’occasione propizia per procedere in maniera decisa a una riforma radicale del sistema delle relazioni industriali. (2) Quando l’abbiamo letto, abbiamo pensato che poteva anche notare come questa sia una straordinaria occasione per offrire al paese un’ambiziosa fuga in avanti verso un obiettivo comunque ineludibile. (b
(1)“Un milione di posti in 5 anni la svolta è la green economy”, La Repubblica 1 febbraio 2009.
(2)“Lo scambio virtuoso”, Corriere della Sera 8 gennaio 2009.
«Il Brasile trovi il modo di ribaltare la sua decisione incomprensibile su Battisti, che non potrebbe che lasciare conseguenze nei rapporti tra Italia e Brasile» La Russa dixit. Il ministro della Difesa che ogni tanto fa il ministro dell’ Interno e stavolta si improvvisa ministro degli Esteri ha perso di nuovo l’occasione di stare zitto. La Russa ha criticato chi «non ha neppure voluto mettere una fascia al braccio, in quella che non è neppure una partita di calcio sportiva, ma che si potrebbe definire una esibizione da globe trotter». Una “partita di calcio sportiva”? Esibizione da “globe trotter”? Povero Gianfranco Fini: pensava di avere allevato colonnelli e si ritrova solo caporali di giornata. Per fianco deee-str, destr! Beh, buona giornata.
«Le ronde – ha detto il ministro dell’Interno – sono formate da cittadini volontari non armati che girano con il telefonino svolgendo un importante ruolo di controllo del territorio. Esistono da dieci anni e non si sono mai verificati episodi di violenza».
“L’Italia precipita, unico Paese occidentale, verso il baratro di leggi razziali, con medici invitati a fare la spia e denunciare i clandestini (col rischio che qualcuno muoia per strada o diffonda epidemie), cittadini che si organizzano in associazioni paramilitari”. Lo scrive Famiglia Cristiana in merito alle norme contenute nel “pacchetto sicurezza”, fiore all’occhiello del ministro dell’Interno. Beh, buona giornata.
CRIMINI E IMMIGRATI *
di Milo Bianchi , Paolo Buonanno e Paolo Pinotti da lavoce.info
L’allarme sociale destato dal presunto aumento dei crimini legati all’immigrazione domina ormai il dibattito politico e sociale nel nostro paese. Tuttavia, i dati mostrano una realtà diversa. Dal 1990 al 2003 il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente si è quintuplicato, mentre non c’è alcun aumento sistematico della criminalità, che anzi mostrerebbe una lieve flessione. Gli stessi dati sembrano inoltre escludere l’ipotesi di una relazione causale diretta tra immigrazione e criminalità.
Nell’immaginario collettivo, l’immigrazione è da sempre associata alla criminalità. I risultati dell’indagine “National Identity Survey” confermano che, in quasi tutti i paesi europei, la maggior parte dei cittadini è convinta che gli immigrati aumentino il tasso di criminalità. (1)
IMMIGRAZIONE E CRIMINALITÀ
L’evidenza empirica, tuttavia, perlomeno in ambito economico, si concentra prevalentemente sugli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro (salari, occupazione) e sulla spesa per lo stato sociale, trascurando completamente l’impatto sulla criminalità. Abbiamo perciò cercato di colmare questo divario e di ancorare il dibattito pubblico ad alcuni dati statistici. Per analizzare l’evoluzione di immigrazione e criminalità nelle province italiane dal 1990 al 2003, abbiamo dunque incrociato le informazioni sui permessi di soggiorno e sul numero di crimini denunciati, provenienti rispettivamente dagli archivi del ministero dell’Interno e della Giustizia. (2)
Ovviamente, questi dati sottostimano l’effettiva entità sia dell’immigrazione che della criminalità per la presenza di immigrati irregolari e di crimini non denunciati. Si può tuttavia mostrare che, sotto alcune ipotesi, la componente osservata dei due fenomeni fornisce una buona approssimazione di quella non osservabile. Per quanto riguarda l’immigrazione, abbiamo verificato che l’approssimazione è estremamente accurata utilizzando le domande di regolarizzazione, presentate durante le sanatorie del 1995, 1998 e 2002, per stimare il numero di immigrati irregolari e la loro distribuzione sul territorio.
L’analisi rivela alcuni risultati in controtendenza rispetto al comune sentire. (3) Durante il periodo preso in esame, il numero di permessi di soggiorno in rapporto al totale della popolazione residente è quintuplicato, da meno dello 0,8 a quasi il 4 per cento. A tale crescita non è tuttavia associato alcun aumento sistematico della criminalità, che mostrerebbe invece una lieve flessione. A livello nazionale, dunque, non emerge alcuna correlazione significativa tra immigrazione e criminalità.
Una correlazione positiva emerge invece a livello locale. In particolare, le province che hanno attratto un maggior numero di immigrati, in rapporto alla popolazione, hanno registrato anche tassi di criminalità più elevati. Distinguendo tra le principali categorie di reato emerge che la correlazione è dovuta esclusivamente ai reati contro la proprietà, che rappresentano quasi l’80 per cento dei crimini denunciati. I crimini violenti (e in particolare gli omicidi) si concentrano infatti nel Mezzogiorno, dove l’immigrazione è a livelli minimi. Le province del Centro-Nord si caratterizzano invece per una più alta presenza straniera e, al contempo, per una maggiore incidenza di reati contro la proprietà.
L’associazione potrebbe essere dovuta all’esistenza di una relazione causale tra i due fenomeni oppure ad altri fattori che incoraggiano sia la presenza straniera che i furti, come ad esempio la maggiore ricchezza e urbanizzazione delle province settentrionali.
Per distinguere tra le due ipotesi, abbiamo utilizzato dati sulla migrazione dai principali paesi di origine verso il resto d’Europa. Identifichiamo così la componente dei flussi migratori che dipende esclusivamente da shock esogeni nei paesi di origine, come guerre, crisi politiche ed economiche. Questi fenomeni aumentano l’emigrazione, e quindi potenzialmente l’immigrazione in Italia, senza essere correlati con fattori che influiscono direttamente sull’attività criminale nelle province italiane. La correlazione tra tale componente esogena e il tasso di criminalità nelle province italiane non è significativamente diversa da zero.
Il risultato suggerisce che, nel periodo preso in esame, l’immigrazione in Italia non ha avuto un effetto causale significativo sul livello di criminalità.
(2) Non è possibile estendere le serie storiche ad anni più recenti perché nel 2004 è stata introdotta una nuova classificazione dei crimini che rende i dati pre e post-2004 non comparabili. Inoltre, dai nostri dati, non è possibile risalire alla nazionalità del denunciato né al suo status di immigrato regolare o irregolare.
(3) Tutti i risultati sono presi dal nostro articolo “Do immigrants cause crime?” – Paris School of Economics Working Paper No. 2008-05. (Beh, buona giornata).
* Le idee e le opinioni espresse sono da attribuire esclusivamente agli autori e non impegnano la responsabilità dell’Istituto di appartenenza.
Il veleno nichilista che anima il regime.
di GUSTAVO ZAGREBELSKY da repubblica.it
Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire – secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera – “modo di reggimento politico” e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c’è “il regime”. Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.
Alla certezza – viviamo in “un” regime che ha suoi caratteri particolari – non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il “principio” o (secondo l’immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l’intima natura e per prendere posizione.
Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell’unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.
Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d’un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un’illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l’orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente “berlusconismo”, dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.
Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un’essenza – giusti o sbagliati che siano – si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l’essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c’è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.
A meno di credere a parole d’ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa – libertà, identità nazionale, difesa dell’Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere – il fine non si vede affatto, forse perché non c’è. O, più precisamente, il fine c’è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un’aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d’essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.
A parte forse l’autore della massima “il potere logora chi non ce l’ha”, nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. “Il fine giustifica i mezzi” è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se “i mezzi giustificano i mezzi”? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della “ragione strumentale” nella politica.
Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all’occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.
Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l’uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l’uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch’egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là.
Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un “centro” senza contorni; si può avere un’idea, ma anche un’altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, “si è alla ricerca”; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il “politico” di successo, in questo regime, è il profittatore, è l’uomo “di circostanza” in ogni senso dell’espressione, è colui che “crede” in tutto e nel suo contrario.
Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d’arresto può essere l’inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo.
La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell’essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere “disturbato”. L’uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di “tipo ideale”, cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).
Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L’abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l’ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d’essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato “relativismo” non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano. (Beh, buona giornata).
Il folle esperimento politico del Pd, che alle ultime elezioni politiche ha praticamente messo fuori gioco la sinistra appare molto simile alla conduzione della nazionale italiana di rugby, che ha appena subito una pesante debacle nel torneo delle Sei nazioni.
Sul sito della Bbc, l’esperto di palla ovale Ben Dirs scrive dei «folli esperimenti di Nick Mallett».
«Nel 1962 – ricorda sul sito dell’emittente – lo psichiatra Louis Jolyon West ed i suoi colleghi dell’Università dell’Oklahoma iniettarono 297 milligrammi di LSD ad un elefante chiamato Tusko, solo per vedere cosa sarebbe successo. Cinque minuti dopo l’animale, scosso da un attacco epilettico, ebbe un collasso e crollò a terra sul fianco destro. Mi sono ricordato di questa storia ieri, quando ho visto giocare Mauro Bergamasco da mediano di mischia. Così come non bisogna essere un laureato in psichiatria per capire che se inietti droga a un elefante non gli fai certo un favore, allo stesso modo non bisogna essere un grande tecnico di rugby per capire che la mossa di Bergamasco in quel ruolo si sarebbe rivelata un disastro. Infatti dopo nemmeno due minuti l’Inghilterra era già andata in meta. Avrei voluto scendere in campo e dare un abbraccio a Bergamasco per incoraggiarlo».
C’è però una differenza sostanziale tra Walter Veltroni e Nick Mallet. Mallet ha riconosciuto pubblicamente il suo errore. Veltroni no, tanto che reitera il folle esperimento, accordandosi col Governo per lo sbarramento al 4% nelle prossime elezioni europee. Col risultato che Berlusconi andrà a meta anche il 6 e il 7 giugno prossimi. E l’Italia, non solo nel rugby sarà candidata al cucchiaio di legno. Beh, buona giornata.
di Naomi Klein – «The Nation»
Vedere in Islanda folle di persone che percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade mi ha ricordato un slogan popolare nei circoli anticapitalisti del 2002: «Voi siete Enron. Noi siamo l’Argentina».
Un messaggio abbastanza semplice. Voi – politici ed amministratori delegati assembrati in qualche summit del commercio – siete come gli spericolati dirigenti della Enron che se la scampano (e di certo non ne sapevamo neppure la metà). Noi – la plebaglia qui fuori – siamo come il popolo d’Argentina che nel bel mezzo di una crisi economica tremendamente simile alla nostra, scese in strada battendo pentole e padelle (il cacerolazo appunto, ndt). Gridavano “¡Que se vayan todos!” (“Che se ne vadano via tutti!”) e imposero una successione di quattro presidenti in meno di tre settimane. Ciò che rese unico il sollevamento del 2001-2002 in Argentina fu che non era indirizzato ad uno specifico partito politico né alla corruzione in termini astratti. Il bersaglio era il modello economico dominante: quella fu la prima rivolta nazionale contro lo sregolato capitalismo contemporaneo.
C’è voluto un bel po’, ma dall’Islanda alla Lettonia, dalla Corea del Sud alla Grecia, i paesi del resto del mondo stanno finalmente avendo il loro ¡Que se vayan todos!
Le stoiche matriarche islandesi che battono le loro pentole mentre i loro ragazzi saccheggiano i frigoriferi alla ricerca di proiettili (uova, certo, ma yogurt?) riecheggiano le tattiche rese famose a Buenos Aires. Così pure la rabbia collettiva contro le élites che hanno gettato via un paese un tempo florido pensando di potersela scampare. Gudrun Jonsdottir, trentaseienne impiegata islandese dice: «Ne ho avuto fin troppo di tutto ciò. Non ho fiducia nel governo, non ho fiducia nelle banche, né nei partiti politici né nel Fondo Monetario Internazionale. Eravamo un bel paese e l’hanno rovinato.»
Un’altra eco: a Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle e profonde riforme elettorali.
Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio. Come in Islanda, i lèttoni sono allibiti dal rifiuto dei loro leader di prendersi alcuna responsabilità della crisi. Alla domanda fattagli da Bloomberg TV su cosa abbia causato la crisi, il ministro delle finanze della Lettonia ha scrollato le spalle dicendo: “Niente di speciale”.
Ma i problemi della Lettonia in realtà sono speciali: le politiche che permisero alla “Tigre Baltica” di crescere ad un tasso del 12% nel 2006 sono le stesse che stanno causando la violenta contrazione del 10% prevista per quest’anno: il denaro, liberato da tutti i paletti, va via tanto velocemente quanto viene, e grandi quantità di esso vengono dirottate verso le tasche dei politici. Non è un caso che molti dei casi disperati di oggi siano i “miracoli” di ieri.
Ma c’è qualcos’altro di argentinesco nell’aria. Nel 2001 i leader dell’Argentina risposero alla crisi con un pacchetto di austerità prescritto dal Fondo Monetario Internazionale: 9 miliardi di dollari in tagli alla spesa, molti dei quali colpirono la sanità e l’istruzione. Questo si dimostrò un errore fatale. I sindacati organizzarono scioperi generali, gli insegnanti spostarono le loro lezioni nelle strade e le proteste non si fermarono più.
Questo stesso rifiuto dal basso di sostenere il peso maggiore della crisi unisce molte delle proteste odierne. In Lettonia molta della rabbia popolare si è rivolta contro le misure di austerità del governo: licenziamenti in massa, riduzione dei servizi pubblici e abbattimento dei salari nel settore pubblico; tutto per poter essere ideonei ad un prestito d’emergenza del Fondo Monetario Internazionale (no: non è cambiato niente). In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all’uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un bailout di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori siano ragionevoli. Allo stesso modo in Francia il recente sciopero generale – in parte innescato dal piano del presidente Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti – ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.
Forse il maggiore filo conduttore di questa forte ribellione globale è il rigetto della logica delle “politiche straordinarie”: la frase coniata dal politico polacco Leszek Balcerowicz per descrivere come, nel corso di una crisi, i politici possono ignorare le regole legislative e precipitare verso “riforme” impopolari. Un trucco che ormai mostra le corde, come ha scoperto di recente il governo sudcoreano. A dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. Spingendo le politiche a porte chiuse verso nuovi estremi, i parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani.
I rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento. Il voto è slittato, permettendo così un maggiore dibattito: una vittoria per un nuovo tipo di “politiche straordinarie”.
Qui in Canada la politica è marcatamente meno “stile YouTube”, tuttavia è stata sorprendentemente ricca di eventi. Ad ottobre il Partito Conservatore ha vinto le elezioni nazionali su una piattaforma poco ambiziosa. Sei settimane più tardi il nostro primo ministro conservatore, trovato il suo ideologo interiore, presenta una manovra che ha spogliato i lavoratori del settore pubblico del loro diritto di sciopero, che ha cancellato il finanziamento pubblico dei partiti e che non conteneva alcuno stimolo economico. I partiti di opposizione hanno risposto formando una storica coalizione a cui fu impedito di prendere il potere solo per una brusca sospensione del parlamento. I Conservatori sono appena ritornati con un piano di budget rivisto: le politiche di destra dapprima coltivate sono scomparse, ed ora il piano è infarcito di stimoli economici.
Il modello è chiaro: i governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola. Come gridavano gli studenti nelle piazze italiane: «Non pagheremo noi la vostra crisi!» (Beh, buona giornata).
traduzione di Paolo Maccioni per Megachip
Articolo originale:
http://www.thenation.com/doc/20090223/klein?rel=hp_currently
4 febbraio 2009
(fonte: ilmessaggero.it)
Giovedì 12 febbraio è una delle date possibili per l’approvazione definitiva, da parte delle Camere, del disegno di legge predisposto dal governo sul caso di Eluana Englaro, in base all’iter parlamentare che si sta prefigurando. Il ddl, ricevuta sabato sera l’autorizzazione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per la presentazione alle Camere, è stato immediatamente trasmesso a Palazzo Madama. Il presidente del Senato, per accorciare i tempi, lo ha subito assegnato alla commissione Sanità in sede referente, dove si voterà il testo lunedì 9 per poi essere discusso dall’Assemblea, presumibilmente, la sera stessa. Renato Schifani, infatti, ha convocato per le ore 12 di lunedì 9 febbraio la Conferenza dei capigruppo, con l’intento di proporre l’immediato esame del provvedimento da parte dell’Aula del Senato, la cui convocazione è stata anticipata alle ore 19 dello stesso giorno.
Probabilmente la maggioranza, per snellire la procedura, respingerà o accorperà gli eventuali emendamenti per procedere subito al voto, che potrebbe tenersi entro martedì 10 febbraio, senza escludere il ricorso alla fiducia.
Ottenuto il via libera da parte del Senato, il ddl passerà all’esame della Camera. Il presidente, Gianfranco Fini, convocherà la Conferenza dei capigruppo tra la sera di lunedì 9 e la mattina di martedì 10. Il testo dovrebbe quindi essere inviato alla commissione Affari sociali. Il ddl potrebbe arrivare in aula mercoledì sera o la mattina di giovedì 12 febbraio, dove l’annunciata, forte opposizione dei Radicali e di parte del Pd lascia presupporre la presentazione di un cospicuo numero di emendamenti che ne potrebbe rallentare l’approvazione finale. Ma, così come per Palazzo Madama, l’esecutivo potrebbe porre la fiducia appena il testo andrà in aula, dando una forte accelerazione all’iter fino al voto finale.
Dopo la legge su Eluana «toccherà all’aborto, con Berlusconi e Sacconi pronti a compiacere le tesi di Eugenia Roccella e delle organizzazioni cattoliche». Lo afferma Silvio Viale, il medico torinese che ha promosso la sperimentazione della pillola RU486.
«Il blocco ad oltranza all’Aifa della RU486 – sostiene Viale – è solo l’inizio di uno scontro annunciato, con prevedibili scrupoli di coscienza del premier e del neo-credente Sacconi. Gli ingredienti sono gli stessi. In primo luogo un premier distratto e strabico, con un occhio rivolto al governo ombra del Vaticano e con una coscienza usa e getta. In secondo luogo, un gruppo agguerrito di manipolatori, capitanato da Eugenia Roccella, che si occupa di diffondere false notizie scientifiche all’insegna del dubbio metafisico, ma con molta documentata convinzione, assunta dai siti pro-life. In terzo luogo un fronte “pro-choice” timido e rinunciatario, scarsamente informato, che si fa condizionare persino nel linguaggio dai pro-life e da tempo ha perso ogni spinta propulsiva in difesa della pluralità delle scelte. In quarto luogo, come per Eluana, conquistato il premier, scatta un richiamo all’appartenenza politica che tende a recuperare una parte dell’opinione pubblica contraria». Beh, buona giornata.
Non poteva esserci scempio più atroce
di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it
Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all’evolversi delle tecnologie. Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l’attuazione.
Ma il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.
Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.
Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che “al di là dell’obbligo morale di salvare una vita” egli sente “il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi”.
Gli strumenti necessari per realizzare quest’obiettivo indispensabile sono “la decretazione d’urgenza e il voto di fiducia”; ma poiché l’attuale Costituzione semina di ostacoli l’uso sistematico di tali strumenti, lui “chiederà al popolo di cambiare la Costituzione”.
La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.
Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l’occasione che cercava.
Qui c’è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l’anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall’altra i “volontari della morte”, i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.
Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all’odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.
Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.
Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l’altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.
Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.
Ci sono altri due obiettivi che l’uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.
Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d’aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto.
Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l’occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un’economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l’attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica “La Quiete” dà un po’ di respiro ad un governo che naviga a vista.
Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire “con cattiveria”.
Il Vaticano si oppone a quella “cattiveria” ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall’Occidente multiculturale e democratico.
Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.
Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l’instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.
Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ’22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.
Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent’anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.
In quel passaggio del 3 gennaio ’25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.
Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel “rinsavimento” sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l’altro ieri.
E tutto è sciaguratamente avvenuto sul “corpo ideologico” di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce. (Beh, buona giornata).
Il potere apparente della Chiesa
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it |
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Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.
I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo – impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana – è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei. Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso. Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese. È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine – appena seppe quel che faceva – paralizzato. Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa. Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica. (Beh, buona giornata). |
di Duccio Cavalieri – da www.economiaepolitica.it
La crisi economica globale del sistema capitalistico, oggi in atto, deve indurre gli economisti teorici ad interrogarsi su quanto sta accadendo e a cercare di prevederne i prossimi sviluppi e gli esiti. Uno dei compiti storici della scienza economica è infatti la spiegazione e la previsione di quanto avviene nella realtà.
Un primo punto sembra sufficientemente chiaro. Si tratta di una crisi che ha avuto inizio nel mondo della finanza e che ha poi contagiato l’economia reale. E’ emersa la forte instabilità di un sistema di intermediazione finanziaria che anziché incoraggiare il risparmio delle famiglie e assicurare che esso affluisse senza ostacoli agli investimenti delle imprese e agli impieghi delle amministrazioni pubbliche, è stato utilizzato per finanziare pericolose operazioni speculative compiute sul mercato dei capitali e su quello dei cambi. Questo è avvenuto in un contesto di bassi livelli dei salari reali e in presenza di una politica dell’amministrazione repubblicana degli Stati Uniti che ha alimentato nei lavoratori una forma inedita e sottile di illusione monetaria, consentendo alle banche e ad altre istituzioni finanziarie di concedere loro ampio credito e mutui ipotecari a condizioni molto facili (i subprime mortgages a tassi variabili) per indurli ad acquistare di più e consumare di più, nonostante i bassi salari.
Una situazione di questo tipo non può durare indefinitamente. Quando le banche cominciano a incontrare delle difficoltà nel rientro dei capitali prestati e vengono a trovarsi a corto di liquidità per l’insolvenza dei debitori, il flusso del finanziamento bancario alle imprese di produzione tende necessariamente ad interrompersi. Per allontanare nel tempo questa evenienza, le banche hanno fatto ricorso a strumenti innovativi di ingegneria finanziaria allo scopo di attuare una strategia finanziaria tutt’altro che nuova: quella della Ponzi finance, efficacemente descritta da Hyman Minsky. Hanno infatti cercato di trasformare i crediti in sofferenza in fonti di nuove rendite finanziarie, facendo ricorso a operazioni di cartolarizzazione (securitization) e successiva inclusione dei crediti frazionati in prodotti finanziari derivati, con l’intento di arrivare a disperdere il rischio individuale.
In tali condizioni, chi comprende come stanno andando le cose e dispone di liquidità non la investirà più, ma la tratterrà, ripromettendosi di farne uso in seguito, quando la crisi avrà prodotto i suoi effetti più devastanti, per acquistare le attività patrimoniali superstiti a prezzi stracciati. Viene in essere cioè una situazione abbastanza simile a una trappola della liquidità, ma in presenza di tassi di interesse non ancora ridotti al minimo. Tale situazione non può tuttavia durare a lungo. Essa è destinata a cambiare non appena sul mercato dei capitali i tassi scendono ulteriormente e diventa possibile compiere operazioni vantaggiose di acquisto di capitale azionario, anche finanziandole a credito. Ossia creando degli appositi consorzi finanziari che si indebitano per acquistare imprese (è il cosiddetto leverage buyout) e che possono conteggiare il debito come un costo detraibile dalle tasse, scaricandone l’onere sulle società acquistate (che non di rado vengono poi abbandonate al loro destino di bad companies).
Questo contribuisce ad aumentare la scarsità di liquido e tende a determinare una crisi del mercato interbancario. Per l’eccessivo livello dell’indebitamento, le banche non si fidano più l’una dell’altra e non si prestano denaro tra loro. La crisi è aggravata dal fatto che nel frattempo si diffondono voci allarmanti sull’esito di investimenti troppo rischiosi effettuati dalle banche e i risparmiatori tendono di conseguenza a ritirare i loro depositi e a compiere spostamenti di capitali dai titoli privati a quelli pubblici, ritenuti più solidi, anche se non del tutto sicuri in una situazione di rischio sistemico.
Ne risulta appunto una sorta di trappola anomala della liquidità, che penalizza chi ha bisogno di prestiti per motivi non speculativi. E quindi danneggia in primo luogo le imprese, che possono essere costrette dapprima a ridurre e poi addirittura a cessare la loro attività. A questo punto la crisi diventa generale e coinvolge l’economia reale, a ulteriore dimostrazione della non neutralità della moneta. E attraverso nuovi meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari e finanziari sulle variabili reali, che meriterebbero di essere ulteriormente indagati, la crisi si scarica per intero sui lavoratori e sulle loro famiglie.
Le principali cause della fragilità strutturale del sistema finanziario possono a questo punto facilmente individuarsi. Sono la tendenza a un eccessivo ricorso al finanziamento esterno da parte delle imprese; la diffusa pratica bancaria consistente nell’utilizzare credito a breve termine, continuamente rinnovato, per finanziare impieghi di capitale a medio e lungo termine; la facilità con cui vengono realizzate operazioni finanziarie e creditizie ad alto rischio; la scarsa trasparenza di molte operazioni finanziarie, che alimenta la possibilità di compiere vere e proprie frodi nel trasferimento dei rischi. Frodi che sono messe in atto dagli intermediari finanziari ai danni dei risparmiatori e vengono non di rado avallate da compiacenti agenzie di valutazione (rating companies), che, male interpretando le proprie funzioni, mettono in grado alcune società di indebitarsi per somme molto superiori al loro effettivo valore di mercato.
In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del neoliberismo e di riconosciuta necessità di ricorrere ad interventi pubblici per salvare banche e aziende in difficoltà, anziché lasciare che il mercato penalizzi l’insuccesso delle iniziative economiche meno efficienti. Al vecchio paradigma dell’efficienza allocativa del mercato oggi credono ancora solo pochi epigoni della Mont-Pélerin Society, della scuola di economia di Chicago e della London School of Economics. Quelli che hanno sempre insistito nel presentare il neoliberismo come antitesi al keynesismo e al dirigismo economico degli anni ’30; e che hanno ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e quello di Ronald Reagan negli USA, l’uno e l’altro favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e a un contenimento della dinamica salariale e della spesa pubblica per finalità sociali.
E’ un duro colpo per il neoliberismo, un indirizzo di pensiero che ha cercato di affossare le conquiste dello Stato sociale e ha inquinato il quadro teorico con la supply side economics e la ‘critica di Lucas’ all’efficacia della politica economica. Dopo la dissoluzione dei regimi economici dei paesi del cosiddetto ‘socialismo reale’ il neoliberismo ha creduto di avere ormai partita vinta e si è apprestato a seppellire definitivamente l’interventismo statale di tipo keynesiano. Ma oggi il neoliberismo subisce una dura lezione dalla storia. Perfino i più tenaci assertori di questo indirizzo di pensiero, posti di fronte alla drammatica alternativa tra aiutare Wall Street a uscire dalla crisi, sovvenzionando un sistema capitalistico dimostratosi largamente corrotto, o lasciare che esso precipitasse nel caos finanziario più assoluto, sono stati indotti a invocare un intervento straordinario dello Stato nella sfera economica per salvare dal fallimento grandi banche ed imprese. Con l’intenzione di addossare al Tesoro, ossia ai contribuenti, l’onere dell’acquisto dei crediti inesigibili. Senza quindi arrivare a delle vere e proprie nazionalizzazioni.
Ma non è stata, a ben guardare, una vittoria del keynesismo. L’odierna crisi globale ha semplicemente mostrato la necessità della politica economica, riaprendo in un certo senso il confronto teorico tra liberismo e keynesismo. Ma l’aumento della spesa pubblica, che oggi da tante parti si invoca, non riguarda la spesa sociale in istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione. Riguarda il sostegno di banche e società finanziarie in difficoltà e il salvataggio di grandi imprese industriali. Un salvataggio che ci si propone di realizzare continuando a comprimere i salari reali e le pensioni. E’ quindi un sostegno non alla domanda, ma all’offerta.
Tutto questo ha ben poco di keynesiano. E può accrescere il divario tra l’offerta e la domanda, anziché aiutare a superare le difficoltà di realizzo della produzione sul mercato. Difficoltà dovute alla maldistribuzione del reddito e tipiche di un sistema in cui il capitale non riesce a porsi fini diversi da quello del proprio continuo accrescimento. Tali difficoltà oggi non presentano più carattere esclusivamente ciclico, ma tendono ad assumere carattere strutturale. Segno che il capitalismo resta un problema (il problema di fondo) e che il problema tende ad aggravarsi. (Beh, buona giornata).
*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.
Globalizzazione in crisi, partita aperta
di FRANCESCO PICCIONI*
1) La crisi della globalizzazione è stata per un anno negata con ogni mezzo mediatico possibile. Come si sa, un buon tappeto può nascondere molta spazzatura. Ma non pulisce mai nulla.
Poi è esplosa, provocando la sostanziale scomparsa delle cinque banche d’affari (Bearn Stearns, Lehmann Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs) che avevano dominato il sistema finanziario globale per un ventennio e letteralmente inventato il “sistema parallelo” fondato sull’emissione di certificati e “prodotti derivati”.
Da quel momento è partita la corsa ai salvataggi statuali delle banche principali e la gara a cercare una spiegazione tranquillizzante. La più diffusa recita: è stata colpa dell’avidità di finanzieri senza scrupoli, di regole sfilacciate, di controllori che hanno chiuso gli occhi. La soluzione – se così fosse – sarebbe teoricamente semplice: un buon sistema di regole globali e il rafforzamento dei poteri di controllo, previo un generoso programma di finanziamenti pubblici sufficienti a sbloccare l’erogazione del credito e a far ripartire la produzione. E’ quel che stanno tentando di fare.
Confutare ideologicamente questa spiegazione è inutile. L’unica cosa che si deve e può fare è, prima, ricostruire l’ordine cronologico delle manifestazioni della crisi, per poi cogliere i nessi strutturali che l’hanno provocata e fatta maturare.
2) Si proveniva da un decennio segnato da “bolle speculative”, che esplodevano l’una dopo l’altra (“tigri asiatiche” 1997, “new economy” 2000, scandali Enron e Worldcom 2002, “bolla immobiliare” 2007).
Il primo segnale evidente che il ciclo economico reale stava andando incontro a ostacoli di enormi dimensioni è stato dato dal prezzo del petrolio. Tra la fine del 2002 e la prima metà del 2008 il prezzo del greggio è passato da circa 20 dollari al barile a un massimo di 147. La parallela discesa della quotazione del dollaro ha attutito questo balzo, comunque quantificabile in un aumento del 500%.
Il petrolio (l’energia) non è una merce qualsiasi, perché entra nella formazione del prezzo di tutte le altre merci. E’ una caratteristica rara, condivisa soltanto con la forza-lavoro umana. Ogni modificazione nel suo prezzo si ripercuote in tempi rapidi su tutto il sistema dei prezzi, a livello globale.
E’ inoltre una merce fisica, per di più non riproducibile. Ed è tuttora insostituibile, non essendo state trovate fonti alternative di pari potenza e versatilità. Le quantità esistenti sono date; l’umanità sta semplicemente consumando un qualcosa destinato a finire (gli iperottimisti parlano di 30 anni).
La rapidissima salita del prezzo in così breve tempo segnalava che l’offerta (l’estrazione) faticava a tener dietro alla domanda crescente. I “paesi emergenti” (Cina e India su tutti), nel corso degli ultimi 30 anni, sono diventati la “manifattura del mondo”, mentre i paesi avanzati preferivano delocalizzare e concentrarsi sulla fornitura di servizi. Una diversa divisione internazionale del lavoro che ha convinto alcuni a ritenere che fosse ormai finita l’epoca del predominio della produzione materiale per aprire quella dell’immateriale.
La parallela crisi ambientale si disponeva a sua volta a rappresentare un secondo e decisivo limite alle capacità espansive del modo di produzione capitalistico. Al punto da far spostare spesso l’attenzione della “sinistra globale” dall’analisi dei meccanismi economici a quella dei fenomeni ambientali e climatici. Come se le due crisi fossero in alternativa, invece che convergenti e contemporanee.
3) La crisi della globalizzazione è stata universalmente riconosciuta nel momento in cui ha assunto la più classica delle forme: quella finanziaria. Proprio la buona salute della finanza, del resto, aveva permesso di sottovalutare gli innumerevoli segnali negativi. Una vera “ironia della storia” che – proprio quando la maggioranza dei commentatori politico-sistemici si era ormai uniformata al mantra del “nuovo” contro il “vecchio” – la crisi si sia manifestata in forme così dannatamente “classiche” da rendere addirittura intuitiva la sua natura “strutturale” e “materiale”.
L’esperienza maturata dalla Grande Depressione successiva al 1929 ha spinto governi e banche centrali ad attivarsi in tempi più o meno rapidi per il salvataggio degli istituti finanziari “troppo grandi per fallire”, mobilitando immense risorse monetarie cash, ma senza prevedere un parallelo incremento della pressione fiscale. Un’asimmetria che solleva molti dubbi sulla praticabilità di medio periodo di simili strategie.
4) La recessione produttiva segue, come da manuale, il crash della finanza. Le fabbriche chiudono e licenziano; l’output si contrae. La domanda solvibile risente sia del minor numero di occupati che delle incertezze sul futuro. La dinamica salariale si blocca per l’aumento improvviso dei disoccupati e delle paure. I servizi privati si riducono, moltiplicando gli effetti depressivi. La domanda di beni durevoli scompare o quasi (basta guardare le vendite di automobili), la popolazione cerca di difendere i consumi primari riducendo tutti gli altri. Si fa forte la differenza di potere d’acquisto tra le popolazioni tra paesi che hanno un sistema sanitario e pensionistico pubblico, come l’Europa, e quelli che non ce l’hanno (Usa).
Le risposte dei governi seguono logiche e preoccupazioni limitate. La globalizzazione, come fenomeno unificante il mondo, diventa un problema e non è più una risorsa. Rialzano la testa i nazionalismi e i più ridicoli localismi; si riaffaccia con prepotenza il potere disciplinante delle religioni, unici sistemi ideologici in grado di fornire “speranza” a masse crescenti di umanità spaventata.
E’ la situazione che ci troviamo davanti.
5) Le cause strutturali della crisi rispondono naturalmente a dinamiche più profonde e di più lungo periodo. La globalizzazione che abbiamo conosciuto – la seconda, dopo quella della seconda metà dell”800 – ha preso forma compiuta con il Crollo del Muro e la caduta dell’impero sovietico. La fine del “mondo diviso in due” ha posto le premesse per la formazione di un vero mercato unico globale. L’est europeo, le repubbliche ex sovietiche, la Cina, l’India e molti altri paesi fin lì ai margini dello sviluppo diventavano la “nuova frontiera” alla vigilia del terzo millennio. Un’immensa prateria di risorse disponibili, pronte (addirittura consensualmente!) ad essere messe in produzione senza freni, lacci o lacciuoli.
La delocalizzazione della produzione manifatturiera è così diventata possibile. La circolazione di beni e capitali non ha più conosciuto limiti; ed anche quella delle persone, pur con limitazioni assai maggiori, ha conosciuto un’accelerazione notevole. Ogni paese – meno gli Stati uniti – si è spesso trovato in balia di forze economiche superiori al proprio prodotto interno lordo. Una nuova epoca di “accumulazione originaria” ha cambiato la faccia del mondo, ridotto al minimo i margini di manovra delle democrazie, semidistrutto le forme organizzative del lavoro, svuotato dal di dentro le ragioni costitutive di un pensiero alternativo o rivoluzionario.
Il trionfo del “pensiero unico” ha avuto insomma una solidissima base oggettiva, che si può riassumere nel venir meno delle possibilità di azione dello “stato nazione”, ovvero l’ambito entro il quale erano fin lì erano state concepite le politiche industriali idonei a “costruire il socialismo”. Per ironia, l’internazionalismo diventava la bandiera del capitale, mentre le resistenze “socialiste” prendevano progressivamente i connotati troppo spesso retrivi della riottosità nazionalista.
6) Elemento decisivo: il mercato del lavoro di è moltiplicato per due o per tre. Le politiche nazionali dei paesi new entry sono state connotate dalla competizione reciproca nell’offrire agli investitori le migliori condizioni: nessun diritto al lavoro, facilitazioni fiscali, assenza di controlli. Processi che hanno messo in produzione per il capitale oltre un miliardo di nuovi lavoratori e creato al contempo un esercito salariale di riserva di dimensioni sconfinate, utilissimo per premere al ribasso sul costo del lavoro ovunque, agendo sui differenziali salariali locali.
Abbiamo così avuto il blocco di fatto dei salari occidentali, con una perdita del potere di acquisto quantificabile nell’intero periodo nel 50% (negli anni ’70, una famiglia monoreddito poteva avere un tenore di vita pari a quello garantito oggi soltanto dalla presenza di due stipendi).
La conseguente tendenza alla riduzione relativa dei consumi occidentali è stata addirittura invertita grazie al massiccio ricorso all’indebitamento delle famiglie. Più ancora del credito al consumo bisognerebbe concentrare l’attenzione sul mercato della casa. L’eliminazione (là dove esistevano) di politiche di edilizia popolare ha costretto il mondo del lavoro dipendente a ricorrere in massa all’acquisto tramite mutui di lunghissima durata. Non è stato un caso, né un fenomeno naturale. Ma una “governo della domanda effettiva” che dimostra come il neo-liberismo sia una formula ideologica che nasconde – ma non cancella – l’intervento dello stato nell’economia.
7) La deflazione salariale globale ha liberato profitti giganteschi dalla necessità di reinvestimento nella produzione. La contemporanea abolizione di molti limiti posti proprio durante la Grande Depressione favoriva la proliferazione di “prodotti finanziari” dal rendimento costantemente superiore a quello garantito dalla normale attività produttiva. Anzi, creava un vero e proprio sistema bancario “fuori bilancio” parallelo a quello ufficiale, ma sempre collegato con gli istituti finanziari classici.
Lo sbilanciamento della profittabilità a favore delle attività finanziarie è un pericolo sempre in agguato, nel capitalismo di ogni epoca; ma le banche centrali erano nate esattamente con la funzione di agire sul mercato monetario in modo da assicurare un “saggio medio di rendimento” a tutti i capitali, comunque impiegati. Negli ultimi 20 anni, però, hanno agito quasi sempre in reazione a grossi crolli delle borse. E hanno finito per assumere la finanza come il baricentro delle proprie attenzioni.
Le grandi masse di profitto “liberate” hanno dovuto trovare nuove forme di investimento. I prodotti finanziari “derivati” sono stati il sole che ha attirato la liquidità globale per due decenni. Da qui uscivano sotto le vesti di venture capital solo per tentare avventure che sembravano ancora più profittevoli, ma non sempre fortunate: ricordate la new economy?
Di “bolla” in bolla questa massa inconcepibile di capitale in cerca di valorizzazione ha devastato paesi e settori, fino a piombare sul mercato che sembrava più “stabile” di tutti: l’immobiliare. Anche qui, però, i profitti “normali” erano insufficienti. La necessità di valorizzare ha ingigantito la spinta al finanziamento a credito, “costringendo” letteralmente anche i privi di reddito statunitensi a indebitarsi per trovare un tetto (sono i mutui lì definiti ninja: not job, not income, not asset). L’altissima probabilità di insolvenza aveva già una rete di protezione disponibile: gli strumenti finanziari di “distribuzione del rischio” ampiamente utilizzati come paracadute nelle grandi fusioni societarie a debito. Un ventaglio di “cartolarizzazioni” praticamente infinito, in cui un debito diventa a sua volta fonte di profitto e che viene “garantito” con l’emissione di altri titoli cartacei fino a rendere assolutamente irrintracciabile il “sottostante” concreto. Un meccanismo che può stare in piedi solo se altro capitale “vero” affluisce costantemente vero i “prodotti” di carta. L’ultima risorsa sociale fatta affluire verso questo gorgo è stata – nel nostro paese – la quota di “salario differito” rappresentata dal tfr, tramite i fondi pensione.
La strategia di “distribuzione del rischio” è stata negli anni così efficace da far sì che quel rischio ci è tornato nelle tasche moltiplicato. Una sola cifra ci consente di dare la dimensione approssimativa della voragine: la massa dei prodotti finanziari “derivati” ha raggiunto – alla fine del 2008 – i 600.000 miliardi di dollari. All’incirca undici volte il prodotto interno lordo globale. Per capirci: se l’umanità fosse un normale debitore privato, dovrebbe lavorare gratis e senza mangiare per undici anni solo per rimettere a posto la situazione. Ovviamente, non andrà in questo modo. Ma la massa di ricchezza “da distruggere” ha queste dimensioni. Ci sono mezzi più rapidi, com’è noto. Ma non privi di rischi, come la guerra.
8) La globalizzazione capitalistica ha unificato il mondo più di quanto non abbiamo fatto le buone intenzioni politiche. E’ un processo contraddittorio, che ha posto le basi per un salto di qualità della convivenza umana. Ma lo ha fatto in conseguenza di finalità – il profitto di impresa – spaventosamente inadeguate alla complessità del processo stesso. Si pesi alla straordinaria insensatezza di una produzione agricola fondata su sementi geneticamente modificate e private della capacità di riproduzione. Ecco un’immagine plasticamente corrispondente alla logica del capitale: la riproduzione del ciclo vitale (il “bene comune” per antonomasia) impedito “scientificamente” per garantire il profitto di una singola impresa.
La brusca interruzione rappresentata della crisi può perciò mettere in moto forze centrifughe altamente distruttive. La stessa reazione istintiva di vari governi – l’uso di fondi pubblici per salvare i comparti strategici – può facilmente degenerare in protezionismo nazionalista, avviando una competizione che prefigura conflitti di intensità più o meno grande. Una competizione escludente che trascina in genere con sé la riduzione degli spazi democratici.
C’è quindi bisogno di soluzioni su scala globale, non di toppe locali. L’esigenza di un “governo mondiale” è messa sul tavolo dalla stessa dimensione della crisi. Ma il solo nominarla è accusabile di ingenuità. Persino l’obiettivo subordinato – una “nuova Bretton Woods” che definisca regole ed istituzioni, a partire da un “regolatore bancario” unico e dall’eliminazione dei “paradisi fiscali” – si scontra con interessi potenti, miranti al semplice ripristino del vecchio andazzo che ci ha portato a questo punto. Abbiamo bisogno di una globalizzazione più avanzata, non di tornare al pericolosissimo giochino delle “piccole patrie” tremontian-leghiste. A questo punto della storia nessun paese potrà più far da solo. Competenze, risorse, strutture, legami sono stati spalmati sulla superficie del pianeta. Ri-concentrarli in aree più ristrette non è solo costoso: è impossibile quanto il ripristinare una “purezza della razza” dopo secoli di melting pot.
9) Nessuna forza politica o sindacale, in questo quadro, può quindi dirsi “progressista” se limita il proprio orizzonte progettuale agli angusti confini nazionali. La crisi scompagina gli assetti consolidati. Ciò che ieri sembrava impossibile oggi sembra il minimo necessario. Per tutti – per il capitale quanto per il lavoro – la crisi è un’occasione per cambiare tutto. Questa la posta in gioco, questa la dimensione del problema.
10) La sfida implica, come minimo, una “pubblicizzazione della finanza” per mettere in moto un “esercito del lavoro”. Non è il comunismo, ma semplicemente la chiave teorica del New Deal rooseveltiano. La dimensione minima per poterla affrontare è quella continentale, consapevoli però che nessuna “chiusura” è possibile neppure questo livello (le risorse energetiche vitali – per esempio dipendono nella quasi totalità dai buoni rapporti con Russia, Medio Oriente e Nord Africa). Ma nessuna forza politica europea tradizionale è in grado di porre in campo una visione di medio periodo di tal fatta.
11) La crisi è un’occasione per disegnare una politica industriale di dimensione europea, in sinergia con la macro-aree confinanti. Una politica che strutturi un nuovo modello produttivo incentrato su almeno due pilastri: a) l’obiettivo della piena occupazione, per mantenere vive e attive le competenze accumulate in due secoli di sviluppo tecnologico-industriale e contenere l’impoverimento sociale, altrimenti esplosivo; b) una rivoluzione tecnologica progettuale, consapevolmente perseguita, che porti fuori dalla dipendenza dagli idrocarburi.
Inutile, credo, e presuntuoso, mettersi qui a sproloquiare circa “piani” più dettagliati. Qualsiasi idea ha bisogno di “camminare sulle gambe degli uomini”, che in questo caso significa una rete su scala europea di organizzazioni, partiti, sindacati, associazioni in grado di dar corpo sociale a una critica sociale dell’esistente. Con lo sguardo e la mente capaci di individuare, nella matassa imbrogliata della crisi, gli assi di una trasformazione non solo astrattamente “desiderabile”, ma soprattutto concretamente possibile. Ovvero necessaria. (Beh, buona giornata)
* giornalista economico del Il Manifesto
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it | |
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Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.
Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13). Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio. E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne. Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio? La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita. La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi. È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda. Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza? Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata). |
QUANDO GLI ECONOMISTI SBAGLIANO*
di Daron Acemoglu da lavoce.info
La crisi impone alla disciplina economica una riflessione. In primo luogo, sugli errori intellettuali che hanno impedito agli economisti di individuarne per tempo le cause. Ma agli economisti si chiede anche di indicare i rischi delle politiche anticrisi di molti paesi. Come i riflessi che potrebbero avere su riallocazione e innovazione e dunque sulla crescita di lungo periodo. I piani di sostegno alle economie sono probabilmente il modo migliore per combattere il pericolo dell’affermarsi di reazioni populiste e anti-mercato. A patto però che siano ben congegnati.
La crisi globale rappresenta un’opportunità di riflessione critica per la disciplina economica, un’opportunità per allontanarci da convinzioni che non avremmo dovuto abbracciare così ingenuamente. Idee come il supporto indiscriminato alla deregolamentazione del mercato o il rigetto della volatilità aggregata ora si rivelano frivoli capricci, mentre le astrazioni dai fondamenti istituzionali del mercato ci appaiono ingenue. Questi limiti richiedono riflessione e auto-analisi e, si spera, nuove ricerche da parte dei giovani economisti. La crisi è anche un’opportunità per individuare le lezioni più importanti che restano immutate dopo i recenti eventi e per chiederci se queste lezioni possono guidarci nell’attuale dibattito di policy.
Su Cepr Policy Insight n. 28 ho esposto il mio pensiero su quali siano stati gli errori intellettuali commessi e quali lezioni se ne possano trarre in termini di nuovo lavoro teorico che si rende necessario. E suggerisco anche che nel dibattito sulle politiche per contrastare la crisi sono state sottovalutate lezioni importanti della teoria economica e della crescita.
COMPIACENZA INTELLETTUALE
Molte cause della crisi sono oggi evidenti, ma la maggior parte di noi non le ha riconosciute in anticipo. Tre idee accettate con troppa rapidità ci hanno indotto a ignorare i problemi incombenti.
– Politiche “intelligenti” e nuove tecnologie hanno messo fine all’era della volatilità aggregata.
Benché i dati mostrino un marcato declino della volatilità aggregata dagli anni Cinquanta in avanti, è ora chiaro che la fine del ciclo economico era un’illusione. Anzi le politiche e le tecnologie che hanno reso l’economia più forte contro i piccoli shock, l’hanno anche resa più vulnerabile agli eventi con bassa probabilità. La diversificazione dei rischi idiosincratici ha creato una molteplicità di relazioni fra controparti. Questa nuova, densa trama di interconnessioni ha creato potenziali effetti domino tra istituzioni finanziarie, imprese e famiglie.
I crolli nel valore delle attività e le contemporanee insolvenze di molte imprese mettono in luce che la volatilità aggregata è parte integrante del sistema di mercato. Èanche parte integrante del processo di distruzione creativa. La comprensione che la volatilità non ci abbandonerà, dovrebbe riportare la nostra attenzione verso modelli che ci aiutino a interpretarne le varie fonti e a individuare quali componenti siano associate a un funzionamento efficiente dei mercati e quali invece sono la conseguenza di fallimenti del mercato evitabili.
– L’economia capitalista vive in un vuoto istituzionale nel quale i mercati controllano miracolosamente il comportamento opportunistico.
I liberi mercati non sono mercati senza regole. Istituzioni e regole ben concepite sono necessarie per il funzionamento corretto dei mercati. Negli ultimi quindici anni, alle istituzioni è stata data molta attenzione, ma si concentrava sulla comprensione delle ragioni per cui le nazioni povere sono povere, non sulla comprensione di quali istituzioni sono necessarie quale base per il funzionamento dei mercati e per il mantenimento della prosperità nelle economie avanzate.
– Potevamo essere certi che le grandi aziende con una storia alle spalle si sarebbero auto-controllate perché avevano sufficiente “capitale reputazionale”.
La convinzione si è rivelata errata per due difficoltà fondamentali: il controllo deve essere fatto da individui e il controllo basato sulla reputazione esige che le sanzioni ex post siano credibili. Entrambe le cose si sono dimostrate false. Gli individui possono non curarsi del capitale reputazionale dell’azienda e la scarsità di capitale specifico e di know how significa che le sanzioni necessarie non erano credibili.
IL LATO POSITIVO
Possiamo solo dare la colpa a noi stessi per non aver compreso elementi importanti dell’economia e per non aver avuto una capacità di previsione maggiore di quella dei politici. Anzi, possiamo biasimare noi stessi per essere stati complici dell’atmosfera intellettuale che ha portato al disastro attuale. Ma la crisi rappresenta anche una opportunità: ha aumentato la vitalità dell’economia e ha messo a fuoco molte interessanti, stimolanti ed eccitanti domande. I brillanti giovani economisti non hanno di che preoccuparsi per trovare nuovi e importanti problemi su cui lavorare nei prossimi dieci anni.
QUELLO CHE DOVREMMO DIRE AI POLITICI
Le tre idee sbagliate non toccano i principi economici correlati alla crescita di lungo periodo e all’economia politica. Questi principi hanno avuto uno scarso ruolo nei recenti dibattiti accademici e sono stati del tutto ignorati in quelli politici. Come economisti, dovremmo ricordare ai politici le implicazioni che questi principi hanno nelle scelte attuali.
Il primo punto è che risolvere il problema di breve periodo con politiche che danneggiano la crescita di lungo periodo è una pessima scelta sotto il profilo della policy e del benessere. Innovazione e riallocazione sono la chiave della crescita di lungo periodo, ma gruppi potenzialmente potenti tendono a resistere a tali cambiamenti. Nei paesi in via di sviluppo, è facile che popolazioni impoverite, che soffrono shock negativi e crisi economiche si rivoltino contro il sistema di mercato e sostengano politiche populiste e anticrescita. Ma sono pericoli presenti anche nelle economie avanzate, specialmente nel mezzo di una crisi economica come quella attuale.
Piani di aiuto che salvano il settore finanziario o quello dell’auto avranno ripercussioni sull’innovazione e la riallocazione. Può soffrirne in particolare la riallocazione, se i piani di aiuto bloccano i fattori in settori e attività a bassa produttività. I segnali del mercato dicono ad esempio che lavoro e capitale dovrebbero essere riallocati lontano dalle “Big Three” di Detroit e i lavoratori altamente qualificati dovrebbero essere riallocati dall’industria finanziaria verso altri settori più innovativi. Uno stop alla riallocazone significa anche uno stop all’innovazione.
REAZIONE DA EVITARE
Queste preoccupazioni non sono una ragione sufficiente per opporsi ai piani di aiuto, ma sono piuttosto un appello a considerarne le implicazioni per la crescita di lungo periodo. Un’azione decisa contro la crisi è necessaria, non solo per attenuare i colpi della recessione, ma anche per evitare una reazione che potrebbe essere profondamente negativa per la crescita di lungo periodo. Una lunga e profonda recessione fa nascere il rischio che consumatori e politici inizino a ritenere i liberi mercati responsabili dei mali economici di oggi. Se accadesse, potremmo assistere a un allontanamento dall’economia di mercato. Il pendolo potrebbe oscillare troppo, oltrepassando i liberi mercati con regole adeguate, verso un forte coinvolgimento degli Stati nell’economia che potrebbe mettere a rischio le prospettive di crescita futura dell’economia globale.
Un buon piano di aiuti, pur con tutte le sue imperfezioni, è probabilmente il modo migliore di combattere questi pericoli. Tuttavia, i dettagli dovrebbero essere costruiti in modo tale da causare il minor danno possibile al processo di riallocazione e innovazione. Sacrificare la crescita per il timore del presente sarebbe un errore altrettanto grave dell’immobilismo: non si dovrebbe escludere il rischio che possa crollare la fiducia nel sistema capitalistico. (Beh, buona giornata).
* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.
di Jean-Philippe Bouchaud – Science & Finance, Capital Fund Management
Sostengo che l’attuale crisi finanziaria evidenzia la necessità cruciale di un cambiamento di mentalità nell’economia e nell’ingegneria finanziaria, che dovrebbero allontanarsi dagli assiomi dogmatici per concentrarsi maggiormente sui dati, gli ordini di grandezza, e su plausibili, ancorché non rigorosi, argomenti. Una versione ridotta di questo saggio è apparsa su «Nature».
Rispetto alla fisica, sembra giusto dire che l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente. I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? Perché le cose vanno così?
Naturalmente, modellare la follia delle persone è più difficile del moto dei pianeti, come disse una volta Newton. Ma l’obiettivo qui è quello di descrivere il comportamento di grandi popolazioni, per le quali dovrebbero emergere regolarità statistiche, così come la legge dei gas ideali emerge dal movimento incredibilmente caotico delle singole molecole. Per me, la differenza fondamentale tra le scienze fisiche e l’economia o la matematica finanziaria è piuttosto nel relativo ruolo dei concetti, delle equazioni e dei dati empirici. L’economia classica si basa su ipotesi molto forti che diventano rapidamente assiomi: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l’efficienza del mercato, ecc.
Un economista una volta mi ha detto, sconcertandomi: questi concetti sono così forti che si sostituiscono a qualunque osservazione empirica. Come Robert Nelson ha affermato nel suo libro, Economics as Religion (L’economia come una religione, ndt), il mercato è stato divinizzato. I fisici, d’altro canto, hanno imparato a essere diffidenti nei confronti di assiomi e modelli. Se l’osservazione empirica è incompatibile con il modello, il modello deve essere cestinato o emendato, anche se è concettualmente bello o matematicamente conveniente. Così tante idee ben accette si sono rivelate sbagliate nella storia della fisica al punto che i fisici hanno maturato fino a essere critici e guardinghi rispetto ai loro modelli. Purtroppo, analoghe salutari rivoluzioni scientifiche non hanno ancora preso piede in economia, laddove le idee si sono cristallizzate in dogmi, che ossessionano gli accademici, nonché i responsabili delle decisioni nelle posizioni apicali delle agenzie governative e delle istituzioni finanziarie.
Questi dogmi sono perpetuati attraverso il sistema dell’istruzione: la didattica della realtà, con tutte le sue sfumature ed eccezioni, è molto più difficile da insegnare rispetto a una bella formula coerente.
Gli studenti non discutono i teoremi che possono usare senza pensare.
Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticato la metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta.
La presunta onniscienza e perfetta efficacia di un libero mercato deriva dal lavoro economico degli anni ‘50 e ‘60, che – con il senno di poi – sembra più propaganda contro il comunismo che una descrizione scientifica plausibile.
In realtà, i mercati non sono efficienti, gli uomini tendono ad essere eccessivamente mirati al breve periodo e ciechi sul lungo periodo, e gli errori si amplificano per via della pressione sociale e l’intruppamento acritico, e in ultima analisi portano a irrazionalità collettiva, panico e dissesti.
I mercati liberi sono mercati selvaggi.
È assurdo credere che il mercato possa imporre la propria auto-disciplina, come è stato sostenuto dalla US Securities and Exchange Commission nel 2004, quando ha consentito alle banche di accumulare ancora nuovi debiti.
Il ricorso a modelli basati su assiomi errati ha evidenti e grandi effetti. Il modello Black-Scholes è stato inventato nel 1973 per dare un prezzo alle ‘options’ supponendo che le variazioni di prezzo abbiano una distribuzione gaussiana, come a dire che la probabilità di eventi estremi è considerata trascurabile. Venti anni fa, l’uso indebito del modello di copertura del rischio sul crollo dei mercati azionari entrò nella spirale del crack borsistico dell’ottobre 1987: un crollo del 23% in un solo giorno, tanto da far apparire piccoli i recenti singhiozzi dei mercati. Ironia della sorte, è proprio l’uso del modello anti crack Black-Scholes che destabilizzò il mercato!
Questa volta, il problema risiede in parte nello sviluppo di prodotti finanziari strutturati che hanno impacchettato il rischio subprime all’interno di investimenti ad alto rendimento apparentemente rispettabili. I modelli utilizzati per stabilirne i prezzi erano fondamentalmente errati: hanno sottovalutato la probabilità che più mutuatari sarebbero stati insolventi sui loro prestiti contemporaneamente. In altre parole, questi modelli hanno di nuovo trascurato proprio la possibilità di una crisi globale, anche se hanno contribuito ad innescarne una. Gli ingegneri finanziari che hanno sviluppato questi modelli non si sono nemmeno resi conto che hanno aiutato i trafficanti di credito del settore finanziario a contrabbandare i loro prodotti in tutto il mondo: non erano stati addestrati a decifrare che cosa implicassero davvero le loro ipotesi.
Sorprendentemente, non vi è alcun quadro di riferimento nell’economia classica per comprendere i mercati selvaggi, anche se la loro esistenza è così evidente per i profani. La fisica, d’altro canto, ha sviluppato diversi modelli che permettono di capire in che modo le piccole perturbazioni possano portare a effetti incontrollabili. La teoria della complessità, sviluppata nella letteratura della fisica durante gli ultimi trenta anni, mostra che, quantunque un sistema possa avere uno stato ottimale (come uno stato di energia più basso, per esempio), sia talvolta difficile da identificare giacché il sistema non si situa mai in quella condizione. Questa soluzione ottimale non solo è inafferrabile, è anche fragilissima rispetto a piccole modifiche dell’ambiente, e quindi spesso irrilevante per capire cosa stia succedendo. Vi sono buone ragioni per credere che questo paradigma della complessità dovrebbe essere applicato ai sistemi economici in generale e ai mercati finanziari in particolare.
Semplici idee di equilibrio e di linearità (l’ipotesi che piccole azioni producano piccoli effetti) non funzionano. Abbiamo bisogno di rompere con l’economia classica e sviluppare strumenti del tutto nuovi, come si è cercato in modo ancora frammentario e disorganizzato da parte degli ‘economisti comportamentali’ e degli ‘econofisici’. Ma la loro sforzo di nicchia non è preso sul serio dall’economia mainstream.
Intanto che si sta lavorando per migliorare i modelli, anche la normativa ha bisogno di migliorare. Dovrebbero essere esaminate le innovazioni nei prodotti finanziari, sottoposte a dei “crash test” rispetto a scenari estremi e approvate da agenzie indipendenti, proprio come abbiamo fatto con le altre industrie potenzialmente letali (chimiche, farmaceutiche, aerospaziali, nucleari, ecc.).
In considerazione della presente caotica fuoriuscita dal settore finanziario alla vita di ogni giorno, un parallelo con queste altre attività umane pericolose sembra pertinente.
Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa di essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema. I curriculum economici richiedono che siano incluse più scienze naturali. I presupposti per una maggiore stabilità a lungo termine risiedono nello sviluppo di una più pragmatica e realistica rappresentazione di ciò che sta succedendo nei mercati finanziari, e di concentrarsi sui dati, che dovrebbero sempre soppiantare perfette equazioni ed estetici postulati. (Beh, buona giornata).
Traduzione di Pino Cabras – Megachip
Fonte originale: Economics needs a scientific revolution
Lo sceriffo senza stelladi MARCELLO SORGI da lastampa.it | |
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Chissà se il ministro Maroni e il sindaco Alemanno un filo di pentimento non ce l’avranno per il modo in cui finora si sono occupati di sicurezza. Due stupri in due giorni – tre dalla fine dell’anno – nella Capitale non sono solo «fatti gravissimi», come li ha definiti il governo. Con tutto quel che sta capitando in Italia, tra criminalità, ordine pubblico e immigrazione clandestina, sono un chiaro segno che la strada per rendere il Paese sicuro è ancora lunga.E ai successi, innegabili, di questi primi mesi di vita dell’esecutivo, si accompagnano duri richiami e durissime smentite della realtà. Maroni, ieri, annunciando un più forte utilizzo dei militari a difesa delle città, ha detto che con questo il Viminale intende aprire la «fase due» del piano per la sicurezza. Ora, senza nulla togliere all’impegno del ministro dell’Interno, non è che gli effetti della «fase uno» siano stati così positivi.
La sicurezza, la paura di vivere in città dove è pericoloso aggirarsi la sera, restano in cima alle preoccupazioni dei cittadini. La prontezza con cui è stato catturato Giuseppe Setola, il boss dei casalesi sfuggito una prima volta attraverso le fogne, non vuol dire che la camorra sia stata sconfitta. La linea dura annunciata e praticata contro l’immigrazione clandestina non ha evitato l’ingorgo del cosiddetto centro di accoglienza di Lampedusa, dove attualmente ben 1800 disperati venuti dal mare sono ristretti in celle che potrebbero contenerne meno della metà. Né sta dando migliori risultati il negoziato e l’irrigidimento dei rapporti con la Romania, per arginare il fiume di criminalità che quotidianamente – e purtroppo regolarmente, dato che si tratta di un giovane partner della Comunità europea – riversa sulle nostre strade. La sensazione degli addetti ai lavori è che un flusso di ritorno si sia stabilito, ma che a tornare siano i romeni che trovano lavoro nel loro Paese d’origine, mentre restano qui quelli che non hanno voglia di lavorare. Non è migliore il bilancio del primo cittadino di Roma: Gianni Alemanno, che con un’abile campagna sulla sicurezza e con uno spregiudicato uso politico di uno stupro avvenuto proprio nei giorni che precedevano il voto, s’è ritrovato a sorpresa sindaco di Roma battendo Rutelli, fa adesso i conti con lo stesso odioso tipo di reato che non sono riuscite a sradicare né la strategia anticrimine né la «tolleranza zero» annunciate in campagna elettorale. Benché gravissimi, i due stupri avvenuti ieri e mercoledì alle porte di Roma non sono tali da mettere in discussione l’impegno di Alemanno per la sicurezza. Finora, anzi, il primo cittadino della Capitale ha cercato in tutti i modi di avvicinarsi al modello del «sindaco sceriffo» che era piaciuto ai suoi elettori. Appena eletto, aveva fatto saltare la testa del prefetto Carlo Mosca, che si era schierato contro le schedature degli extracomunitari. Durissimo con gli immigrati clandestini, s’era poi recato di persona nelle baraccopoli, all’ombra delle quali spesso nascono gli episodi di violenza più sordida. Poi ha proibito la vendita di alcolici da portare per strada, ripulendo così, da giovani avariati, alcune delle più belle piazze del centro, e riducendo anche il numero delle risse tra ubriachi. Ancora, ha ottenuto dal governo 700 soldati per pattugliare le vie più malfamate della città. Inoltre, incurante delle polemiche, ha voluto affiancare ai vigili urbani un limitato, ma molto specializzato, dipartimento, guidato da un generale ex agente segreto rotto a tutte le esperienze, come l’ex direttore del Sisde Mario Mori. Con tutto ciò, sarà la sfortuna, sarà che una megalopoli come Roma non è controllabile fino in fondo, il sindaco e il suo apparato di sicurezza si son beccati due stupri in due giorni e tre in tre settimane. Naturalmente questo incide sulle reazioni dei cittadini e sul nervosismo dei loro amministratori: i romani, anche ad onta del loro tradizionale scetticismo, erano stati convinti con una campagna martellante che la nuova amministrazione avrebbe messo a posto la situazione. Ma a malincuore, dopo pochi mesi, hanno dovuto rendersi conto che non è così. Anche se ieri il primo dei tre stupratori (una bestia, che aveva abusato di una ragazza ventenne in un cesso chimico di una festa-rave) è stato arrestato e fatto confessare, la sequela di stupri ha lasciato molta impressione. È terribile che in una città che vive in movimento, ventiquattr’ore su ventiquattro, una donna non possa sentirsi sicura quando torna a casa. A volte, basterebbe solo migliorare l’illuminazione delle strade, che al buio diventano luoghi ideali per gli agguati. Ma soprattutto, è penoso – sia detto per inciso – che un problema serio come quello della sicurezza, invece di essere affrontato con la serietà e i tempi che richiede, a meno di un anno dalla fine della campagna elettorale, diventi ancora motivo di scontro, tra il sindaco sceriffo che ha perduto la stella e i suoi oppositori caduti poco prima sullo stesso fronte. (Beh, buona giornata) |
di Mads Frese – «Information», Copenhagen
Sull’isola italiana di Lampedusa c’è un cimitero delle barche. Centinaia di barche da pesca e altre piccole imbarcazioni sono state negli anni trascinate a terra e accatastate le une sulle altre. Le barche sono ancora piene di scarpe, vestiti e bottiglie vuote. Nella parte interna degli scafi sono rimasti gli escrementi secchi dei migranti.
Nei primi otto mesi del 2008, il numero di immigrati che passano da Lampedusa è aumentato del 60 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Eppure sulla strada principale di Lampedusa, l’unico centro abitato dell’isola, non vi è alcuna traccia degli oltre 23.000 emigranti che nel corso del 2008 sono arrivati nel centro di accoglienza per i rifugiati dell’isola. Non vi è praticamente alcun contatto tra locali e immigrati, che al loro arrivo vengono trasportati direttamente al centro di prima accoglienza e dopo un paio di giorni vengono imbarcati su aerei o navi e trasferiti in altri centri di accoglienza in varie zone dell’Italia continentale. Si ha l’impressione che questo sia, paradossalmente, il luogo meno multietnico di tutta Europa.
Sebbene i vari locali pubblici e gli alberghi dell’isola incrementano le proprie entrate grazie alla presenza di oltre 600 poliziotti e soldati che svolgono durante l’anno l’attività di pattugliamento via terra, mare e aria, il sindaco Bernardino de Rubeis sostiene che i 6.000 residenti nel suo comune sono le vere vittime.
“L’igiene è minacciata”, ha detto in occasione di un incontro presso la sede del piccolo municipio.
Il sindaco, che appartiene al Movimento per l’Autonomia – l’equivalente nell’Italia meridionale del partito di estrema destra federalista Lega Nord –
aveva dichiarato al quotidiano italiano la Repubblica che ” la carne dei negri puzza anche quando è lavata “. Egli spiega ora che il giornale lo ha rappresentato a torto come un razzista, riportando le sue dichiarazioni al di fuori del contesto originale.
“Queste sono persone che non sono abituate ad usare la carta igienica”, chiarisce il De Rubeis e continua:
“Sono costretti a vivere e a puzzare come animali”.
Affissi sulla parete, alle spalle del sindaco, un crocifisso e le immagini del papa e della Vergine Maria, e sulla sua scrivania un offerta per l’acquisto del filo spinato per recintare il centro di prima accoglienza.
” Scappano – ha detto – tre li ho bloccati per strada”.
La reception
Ai piedi del paese c’è un porticciolo, affollato di pescherecci, delimitato da un molo chiuso dalla guardia costiera italiana. Il molo pullula di persone che svolgono le attività di soccorso e di giornalisti. Non appena la barca attracca al molo si vedono tanti volti africani, tutti diversi gli uni dagli altri: somali, sudanesi, maghrebini, egiziani. La maggior parte sono giovani tra i 15 ei 25 anni, ma ci sono anche donne e bambini piccoli.
Una donna nordafricana in stato di gravidanza che non si regge in piedi deve essere aiutata a scendere a terra.
La maggior parte sono a piedi nudi e non trasportano bagagli. Nonostante la evidente stanchezza, molti i sorrisi di sollievo. Alcuni baciano la terra nella quale sono sbarcati. Si stima che almeno 20.000 rifugiati hanno perso la vita nel canale di Sicilia negli ultimi 15 anni, ma non esistono dati certi.
La maggior parte si radunano sulla costa libica e la traversata dura minimo due giorni. Grazie all’agenzia di frontiera dell’Unione europea FRONTEX, la guardia costiera viene avvisata non appena un’imbarcazione non identificata viene individuata in acque territoriali italiane. I pescherecci più grandi vengono scortati fino all’arrivo in porto, mentre gli immigrati che intraprendono il viaggio su piccole imbarcazioni vengono trasferiti sulle motovedette della Guardia Costiera in alto mare.
Dopo lo sbarco Medici Senza Frontiere effettua un rapido controllo sullo stato di salute già al molo di approdo, e quindi i rifugiati vengono fatti salire su degli autobus e trasferiti nel centro di accoglienza.
L’ignoranza e il razzismo
La nuova struttura che ospita il centro di accoglienza, che è il più grande del suo genere in tutta Europa, è ben nascosta in una valle al centro dell’isola. Un’unica strada che dal centro conduce ad un alto cancello.
Il centro di accoglienza ha la capacità di 840 posti, ma a causa dei numerosi sbarchi degli ultimi giorni gli ospiti sono più del doppio. Materassi lungo il recinto e sotto gli alberi dimostrano che in molti hanno dormito all’aperto.
Mentre Federico Miragliotta, che è il direttore di Lampedusa Accoglienza, la società privata che opera su mandato del Ministero degli Interni italiano, ci porta in giro e ci illustra con grande rigore e professionalità il decoro dei luoghi e del cibo, non soffermandosi troppo sugli immigrati, come se questi fossero ad un campo estivo . La maggior parte sono vestiti in tuta da jogging, che è stata loro consegnata all’arrivo. Bambini che giocano felici con i giocattoli distribuiti dalle organizzazioni umanitarie, mentre le donne fanno la coda di fronte a due cabine telefoniche in attesa di chiamare i loro familiari.
“Alcuni hanno impiegato diversi anni per arrivare a Lampedusa, e per la prima volta da lungo tempo – o forse da sempre – non sono costretti a preoccuparsi della loro sicurezza o a procurarsi del cibo “, afferma Laura Rizzello, operatrice della delegazione della Croce Rossa nel centro. Un numero crescente di profughi arrivano affetti da gravi sofferenze fisiche e psicologiche a causa della guerra e della tortura, situazioni che, a suo dire, i politici europei ignorano:
“Non si dovrebbe definire l’immigrazione come un problema, ma piuttosto come un fenomeno. Parlare di immigrazione per ragioni economiche dimostra una mancanza di conoscenza e una visione razzista del fenomeno. Equivale a nascondersi dietro un filo d’erba”, afferma Laura Rizzello.
E continua:
“E viene davvero da piangere se si considera che quanti attraversano il Mediterraneo a rischio della vita, sono fermamente convinti che i paesi europei difendano i diritti umani universali. Chi parla di recintare il centro di accoglienza col filo spinato, dimentica che le ragioni dell’immigrazione di massa sono cambiate. La maggior parte non migrano per cercare un lavoro, ma fuggono da guerre e persecuzioni “.
Bambini scomparsi
E le statistiche confermano la tesi di Laura Rizzello. La maggior parte degli immigrati che arrivano a Lampedusa provengono dalla Nigeria, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dal Sudan. Secondo le cifre del ministero degli interni italiano, sette immigrati su dieci avrebbero titolo per richiedere asilo politico in Italia, ma molti scelgono di evitare la battaglia con la burocrazia italiana e non sono alla ricerca di un permesso di soggiorno, dice Laura Rizzello.
In realtà essi mirano solo a rimanere al centro di accoglienza per due giorni prima di essere trasportati nei centri di detenzione sul territorio italiano. Ma poiché tutti i centri di detenzione in Italia sono attualmente sovraffollati, restano qui, in media, una settimana, come spiega Laura Rizzello.
La maggior parte di coloro che non vengono rispediti direttamente nel loro paese di origine in forza di accordi bilaterali di rimpatrio, finiscono per lavorare in nero per 20 euro al giorno nelle imprese agricole ed industriali d’Italia. Alcune donne finiscono sulla strada costrette a prostituirsi, mentre una parte degli uomini vengono reclutati da organizzazioni criminali. Qualche giorno fa il quotidiano la Repubblica ha rivelato che si sono completamente perse le tracce di almeno un terzo dei 1.400 minori “non accompagnati”, giunti quest’anno a Lampedusa ed affidati a delle case-famiglia.
Missili e doni
Fino al 1986, pochissimi avevano sentito parlare di Lampedusa. Ma poi la Libia sparò due missili contro la base radar degli Stati Uniti sull’isola. I missili andarono a finire in mare, ad oltre due chilometri dalla costa di Lampedusa, ma l’aggressione di Muammar Gheddafi ebbe l’effetto di portare alla ribalta questa piccola isola, fino ad allora poco più che un puntino su qualsiasi mappa. Da allora i turisti hanno cominciato ad arrivare in massa ed a portare prosperità sull’isola. Con conseguente raddoppio della popolazione di questa piccola comunità di pescatori.
Laura Rizzello crede che la storia si stia ripetendo con i grandi flussi migratori che negli ultimi anni hanno portato l’isola nuovamente alla ribalta .
“I numerosi turisti scelgono l’isola non solo per il mare, ma anche con la speranza di scattare qualche foto agli immigrati”, ha detto.
Il Sindaco Bernardino de Rubeis, tuttavia, ritiene che il fenomeno dell’immigrazione abbia danneggiato l’immagine dell’isola e costituisca una minaccia per la fiorente industria del turismo.
“L’accordo con Gheddafi non funziona”, ha detto, riferendosi ad un accordo che il precedente governo italiano ha concluso con la Libia nel dicembre 2007 ed avente ad oggetto il pattugliamento congiunto delle coste libiche.
Gheddafi, in effetti, ha sfruttato il cambio di governo della scorsa primavera in Italia per tentare di ottenere qualcosa di più sostanzioso. Alla fine di agosto Silvio Berlusconi ha visitato la Libia ed ha elargito 500 milioni di dollari per finanziare la sorveglianza elettronica delle coste e dei confini meridionali della Libia con il Niger, il Ciad e il Sudan.
Secondo alcuni osservatori la frontiera sarebbe solo un pretesto: il finanziamento, che Berlusconi ha concesso a Gheddafi in nome dei contribuenti italiani, deve essere piuttosto visto come una sorta di pagamento per la protezione delle grandi aziende italiane che operano in Libia. L’Italia non è autosufficiente nel campo della produzione di energia elettrica ed è quindi fortemente dipendente dal petrolio libico. Di contro, appare legittimo mettere in dubbio la reale volontà di arginare la marea di profughi, che è funzionale al rafforzamento della competitività in Italia, per esempio nell’industria agricola.
Ma dopo la visita di Berlusconi in Libia, i media italiani hanno scelto di minimizzare il problema, che ora è in gran parte scomparso dai telegiornali, nonostante l’aumento del flusso.
Affollamento
Il sindaco è preoccupato per l’aumento del numero dei rifugiati.
“L’isola rischia una vera e propria crisi”, ha detto Bernardino de Rubeis.
“Non si deve dimenticare che l’isola vive principalmente di turismo, e, pertanto, dobbiamo essere in grado di garantire ai turisti sicurezza. Non può continuare così”, dice il sindaco, che sogna dei grandi alberghi sulla piccola isola dove la popolazione già adesso aumenta di dieci volte nei mesi estivi, e i turisti sono ammassati in quattro spiagge come aringhe in un barile.
Ogni anno, grazie ai finanziamenti statali e regionali, oltre 50 milioni di euro affluiscono nelle casse del comune di Lampedusa. Il Consiglio comunale è attualmente impegnato nei colloqui per la redazione del bilancio per il 2009, e sebbene il centro di accoglienza non comporti alcun costo per il comune, ma offra solo garanzie di posti di lavoro e di reddito per molti abitanti dell’isola, il sindaco punta ad ottenere il massimo dell’attenzione sui presunti disagi creati dal flusso di immigrati. Ha scelto di giocare al rialzo e ora chiede al governo, come compensazione per l’onere del fenomeno, che l’isola venga dichiarata porto franco.
Il comune ha già rifiutato un’offerta dell’Alto Commissario per i rifugiati, relativo al finanziamento di un ampliamento del piccolo aeroporto e ad una campagna pubblicitaria per l’isola. Invece, si è preferito richiedere un risarcimento di 200 milioni di euro da parte del governo di Roma per gli abitanti di Lampedusa. Così da far passare l’immagine di un’isola costretta ad affrontare un problema tanto al di sopra delle sue possibilità da spingere le persone a scegliere di concentrarsi esclusivamente sui possibili benefici economici e ad ignorare tutto il resto. (Beh, buona giornata).
[Articolo originale di Mads Frese]
Traduzione da information.dk: admin@ItaliadallEstero.info