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Sicurezza: ecco come sono stati avvelenati i pozzi.

(fonte: repubblica.it)
Durante i due anni del governo Prodi (2006 e 2007) i tg hanno raddoppiato lo spazio della cronaca nera. Secondo uno studio del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva (nato da un’iniziativa dei radicali) dal 2003 al 2007, il tempo dedicato ai servizi su delitti, violenze e rapine è raddoppiato (se non triplicato) passando dal 10,4% dei tg del 2003 al 23,7% di quelli del 2007. Dato significativo che potrebbe avere aumentato la percezione di insicurezza da parte degli italiani, e avere avuto un peso alle elezioni politiche del 2008, tesi sostenuta dal centrosinistra in molte occasioni. Come la convinzione che il senso di incertezza e paura sarebbe nato in parte per il battage dei media.

I numeri dicono che nel 2003 il Tg1 ha dato notizie di cronaca nera per l’11% del suo tempo, il 19,4% nel 2006, il 23% nel 2007. Il Tg2 è passato dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006, fino ad arrivare nel 2007, al 25,4%. Il Tg3 è la testata che registra il minore aumento, passando dall’11,5% del 2003 al 18,6% del 2007. Sulle reti Mediaset l’aumento è maggiore: per Studio Aperto, la percentuale è stata pari al 30,2 della durata totale dei tg del 2007, contro il 12,6% del 2003. Il Tg5 è passato dal 10,8% al 25,7%. Il Tg4, malgrado il raddoppio negli ultimi 5 anni, ha avuto l’incremento minore, dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007. (Beh, buona giornata).

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“I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori.”

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II – con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista – sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi – pur discordando – deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il “puro rendiconto”.(…) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti. (beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

L’8 marzo visto da Hillary Clinton

di HILLARY CLINTON da repubblica.it

Durante un mio viaggio in Cina, undici anni fa, ebbi la possibilità di incontrare un gruppo di donne che mi parlarono del loro impegno per migliorare la condizione della donna nel loro Paese. Il loro racconto fu una vivida illustrazione delle sfide affrontate dalle donne. Discriminazione nel lavoro, inadeguatezza della sanità, violenza domestica, leggi antiquate che ostacolano il progresso delle donne. Ho rincontrato alcune di queste donne qualche settimana fa, durante la mia prima visita in Asia come Segretario di Stato. In questa occasione, mi hanno parlato dei progressi compiuti negli ultimi 10 anni. Eppure, nonostante qualche importante passo avanti, dal loro racconto emerge indubbio il fatto che gli ostacoli e le disuguaglianze permangono, come in molte altre parti del mondo.

Ho sentito storie simili alle loro in ogni continente, e in ogni continente le donne sono alla ricerca di opportunità per partecipare pienamente alla vita politica, economica e culturale del loro paese. L’8 marzo, celebrando la Giornata internazionale della donna, abbiamo l’opportunità di valutare sia i progressi compiuti sia le sfide posteci davanti e di riflettere sul ruolo vitale che le donne devono svolgere per contribuire a risolvere le complesse sfide globali del secolo XXI.

I problemi che oggi ci troviamo ad affrontare sono troppo grandi e troppo complessi per poter essere risolti senza la piena partecipazione delle donne. Rafforzare i diritti delle donne non è solo un obbligo morale continuo, bensì anche una necessità, ora che dobbiamo fare fronte a una crisi globale, alla diffusione del terrorismo e delle armi nucleari, ai conflitti regionali che minacciano la vita delle famiglie e delle comunità, al cambiamento climatico e ai pericoli che esso rappresenta per la salute e per la sicurezza degli abitanti del mondo.

Queste sfide ci costringono a mettere in gioco tutto ciò che abbiamo. Non le supereremo con le mezze misure. Ma ancora troppo spesso, su queste questioni e su tante altre, metà della popolazione del mondo è lasciata indietro.

Oggi le donne alla guida di governi, imprese e organizzazioni non governative sono più numerose che nelle generazioni precedenti. Tuttavia, questo dato positivo ha un’altra faccia. Le donne costituiscono ancora nel mondo la maggioranza della popolazione povera, malnutrita e senza istruzione. Sono ancora soggette agli stupri usati come arma tattica nelle guerre e ad essere vittime dei trafficanti di esseri umani in una impresa criminale globale da un miliardo di dollari.

Gli omicidi di onore, le mutilazioni, la mutilazione genitale femminile e altre pratiche violente e degradanti perpetrate contro le donne sono ancora tollerate in troppi luoghi del mondo. Solo pochi mesi fa, in Afghanistan, una giovane donna è stata aggredita mentre andava a scuola da uomini contrari al fatto che ricevesse una istruzione. L’acido gettatole sul volto le ha danneggiato la vista in maniera permanente, ma il tentativo di terrorizzare questa ragazza e la sua famiglia è fallito. La ragazza ha detto: “I miei genitori mi sostengono nella mia volontà di continuare a frequentare la scuola, anche se dovessi morire”.

Il coraggio e la risolutezza di questa giovane donna dovrebbero ispirarci a tutti noi – donne e uomini – per dare il massimo dei nostri sforzi per garantire che alle ragazze e alle donne siano riconosciuti i diritti e le opportunità che meritano.

In particolare, posto che ci troviamo nel mezzo di una crisi finanziaria, è importante ricordare un dato che ricerche sempre più abbondanti dimostrano: il sostegno alle donne è un investimento ad alto rendimento, che produce come risultato economie più forti, società civili più vivaci, comunità più sane e una pace e una stabilità maggiori. Investire nelle donne è, inoltre, un modo di aiutare le generazioni future, perché le donne tendono a usare la maggior parte del loro reddito per cibo, medicine e istruzione per i loro figli.

Anche nei paesi avanzati, il potere economico delle donne è ancora lontano da una sua piena realizzazione. In molti paesi le donne continuano a guadagnare molto meno degli uomini pur svolgendo le stesse mansioni – un divario per colmare il quale, il presidente Obama ha fatto un passo avanti firmando la legge Lilly Ledbetter Fair Pay Act che rafforza le donne nella loro capacità di lottare contro la discriminazione nella retribuzione.

Alle donne deve essere data l’opportunità di lavorare in cambio di salari equi, di avere accesso al credito e di intraprendere attività. Le donne meritano l’uguaglianza nell’ambito politico, con pari opportunità sia nell’accedere alle urne elettorali sia nel rivolgersi ai propri governanti o presentarsi come candidato. E hanno il diritto di mandare i figli a scuola – i maschi e le femmine. Le donne hanno inoltre un ruolo vitale da svolgere nella conquista della pace e della stabilità in tutto il mondo. Nelle regioni lacerate dalla guerra, sono spesso le donne a trovare il modo di superare le differenze e di scoprire il terreno dove c’è comunità di interessi.

Nei miei viaggi nelle varie regioni del mondo in questo mio nuovo ruolo, terrò sempre presenti le donne che ho incontrato in ogni continente: donne che hanno lottato contro ostacoli straordinari per cambiare le leggi per poter possedere della proprietà, per avere diritto a sposarsi o a frequentare la scuola, per sostenere le loro famiglie e, persino, per adoperarsi per mantenere la pace.

Il mio impegno sarà quello di dare voce e di diffondere la lotta per questi diritti, lavorando con le mie controparti nelle altre nazioni, nonché con le organizzazioni non governative, con le imprese e con le singole persone per continuare a esercitare una pressione attorno a questi temi. Realizzare il pieno potenziale e la promessa delle donne e delle ragazze non è soltanto una questione di giustizia, ma è utile anche per rafforzare la pace, il progresso e la prosperità per le generazioni future in tutto il mondo. (Beh, buona giornata).
Traduzione di Guiomar Parada

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi.”.

di JEAN-PAUL FITOUSSI da lastampa.it

Viviamo un’epoca nella quale l’etica sembra aver invaso tutto. La finanza è etica, le imprese adottano codici etici, il commercio è etico. Eppure il capitalismo sembra finito nel pallone. Mai «l’amore per il denaro», come avrebbe detto Keynes, lo avrebbe condotto agli eccessi che conosciamo: retribuzioni stravaganti, rendimenti da sogno, esplosione dell’ineguaglianza e della miseria, degrado dell’ambiente. L’emergenza etica, forse, è una reazione allo spettacolo desolante delle conseguenze di un’economia che non si è mai preoccupata dell’etica. Non si può rifiutare con leggerezza l’ipotesi che l’abbandono della morale abbia portato il sistema alla crisi.

«I vizi specifici dell’economia che viviamo – scriveva Keynes – sono due: il lavoro non è assicurato a tutti e i profitti sono divisi in modo arbitrario e iniquo». L’economia, come la scienza, non è un ambito per eccellenza disgiunto dalla morale? Certo lo scivolamento irrefrenabile dell’economia-politica verso l’economia-scienza si è cristallizzato nel concetto di «economia di mercato», sciolto da preoccupazioni storiche o istituzionali. Eppure il capitalismo è una forma di organizzazione storica, un modo di produzione, diceva Marx, nato con sulle macerie dell’Ancien regime. Dunque il suo destino non è scritto nel marmo.

È l’interdipendenza tra stato di diritto e attività economica che dà al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è un’illusione, come la sua capacità di autoregolarsi. E se siamo arrivati al disastro di oggi è proprio perché la bilancia pendeva un po’ troppo verso questa illusione. Questo sbilanciamento corrisponde a un capovolgimento di valori. Si fa un servizio migliore all’etica – si pensava – regolando di più gli Stati e di meno il mercato. L’ingegnosità dei mercati finanziari ha fatto il resto. Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi. E ancora di più sta nell’aver accettato un circolo di illegalità insostenibile nei Paesi democratici. Perché il sistema vive nella tensione tra due principi: quello del mercato e dell’ineguaglianza da una parte (un euro, una voce) e quello della democrazia e dell’uguaglianza dall’altra (una persona, una voce), obbligati alla ricerca permanente di un compromesso.

Questa tensione permette al sistema di adattarsi e di non rompersi come succede ai sistemi basati su un principio solo, com’è accaduto a quello sovietico. La tesi secondo cui il capitalismo avrebbe vinto come organizzazione economica grazie alla democrazia, piuttosto che a suo scapito, sembrava la più convincente. Oggi ne abbiamo una rappresentazione efficace. Lo spettacolo dei soldi facili cancella gli orizzonti temporali. Rendimenti finanziari troppo alti contribuiscono al disprezzo del futuro, a impazienza nel presente, al disincanto sul lavoro. Non è più necessario citare l’Antico Testamento per capire che a questo punto il rapporto tra denaro ed etica va in crisi. Anche Adam Smith ne aveva parlato nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza dei Paesi (Gallimard, 1796). Il disprezzo del futuro va in contrasto con l’orizzonte di lungo periodo necessario alla democrazia. Una delle chiavi del compromesso tra il benessere delle generazioni presenti e quelle future è l’arco temporale determinato dal dibattito politico. Un orizzonte limitato, come l’ assenza di giustizia sociale, aggrava il conflitto.

Quando le diseguaglianze sono forti una parte importante della società non può proiettarsi nel futuro nero che l’aspetta. E se si formula l’ipotesi che l’altruismo tra una generazione e l’altra è una forma di sentimento morale spontaneo, come sembrerebbe dire l’attenzione che tutti hanno per il destino dei bambini, si capisce bene che una maggiore equità sociale potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine. Per restituire etica al capitalismo, bisogna rompere con la dottrina del passato che ci ha portato alle turbolenze finanziarie di questi mesi. Bisognerebbe «deregolamentare le democrazie», fare più posto alla volontà politica, e regolare meglio i mercati. Bisognerebbe prendere più sul serio le decisioni sulle regole della giustizia e rendere oggetto di una deliberazione dei Parlamenti annuale un calo accettabile della diseguaglianza. La pubblicità di queste discussioni permetterebbe di rompere con la concorrenza sociale e fiscale che spinge le persone verso il basso, dando la speranza di una concorrenza che spinga verso l’alto. (Beh, buona giornata).

Copyright «Le Monde»

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La sicurezza, le ronde e le “facce da romeni”.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it

Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli – e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro – la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti – noi che facciamo informazione – a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. (Beh, buona giornata).

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Crisi globale: “Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano soldi finti.”

di TITO BOERI da La Repubblica

AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.

“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.

Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.

A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.

Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.

L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.

Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.

Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.

Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».

Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).

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Crisi globale: “Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno il pregio dell’efficacia sistemica.”

di TOMMASO DE BERLANGA – Il Manifesto

Il vertice straordinario dei capi di governo Ue si è concluso con un terribile nulla di fatto. Bocciato il piano di aiuti all’Est, i 27 premier si sono limitati a promettere interventi “caso per caso”. Una non-scelta che avvicina a grandi passi la bancarotta per diversi paesi di quell’area.
Stessa, assoluta, mancanza di idee per quanto riguarda gli asset tossici presenti nei bilanci bancari e che bloccano il rifornimento di liquidità all’economia reale: ogni paese se la vedrà da solo, ma in modo (forse) “coordinato”.

C’è un problema di interessi nazionali divergenti, ma soprattutto di cultura economica. I 27 leader sono cresciuti a champagne e neoliberismo, scolaretti modello di un “pensiero unico” che perseguiva l’integrazione incrementando la concorrenza e la libertà assoluta dell’impresa. Un programma strutturalmente contraddittorio che ha potuto ottenere risultati, a fronte di costi sociali incalcolabili, solo in presenza di una lunga fase di crescita economica. Ma che si rivela dannosa – e irrealizzabile – in una fase di profonda depressione.

Questa “politica” si è infatti fondata su una “deflazione salariale” ultraventennale, che ha congelato i salari occidentali delocalizzando parti consistenti della manifattura. Ancora oggi, con milioni di posti di lavoro un fumo e il moltiplicarsi del ricorso ai “contratti di solidarietà” (una socializzazione della riduzione di reddito), dalla Ue e dalla Bce arriva una sola raccomandazione: inchiodare a zero qualsiasi rivendicazione salariale. Peggio ancora Berlusconi, che rifiuta persino di introdurre i sussidi di disoccupazione.

La destra razzista e xenofoba cavalca la crisi indicando nemici di comodo (zingari, migranti, stranieri), nella speranza che intanto il vecchio meccanismo si rimetta in moto. La sinistra si lecca le ferite proponendo, nel migliore dei casi, ragionamenti non sempre lineari. Un tragico divario di efficacia comunicativa.

Il cuore del problema è la tenuta del sistema del credito. La politica dei “salvataggi” è stata fin qui costosissima e inutile, vista la sproporzione quantitativa tra voragini nei conti e disponibilità in mano ai singoli governi. Una sinistra all’altezza dei problemi dovrebbe saper indicare una serie di scelte che hanno al tempo stesso il pregio dell’efficacia sistemica e dell’individuazione dei responsabili più indifendibili del tracollo in corso: banchieri, piazze finanziarie, “gestori di patrimoni”, ecc.

Jacques Attali, un mese fa, si è lasciato sfuggire un “bisognerebbe europeizzare le banche in crisi, non nazionalizzarle” o lasciarle in mano a quegli irresponsabili. “Europeizzare” significa trasformare le banche in un “servizio pubblico” sotto il controllo di un’istituzione europea di alto profilo. Ma una simile scelta porta con sé necessariamente tre iniziative per dare all’integrazione europea un volto diverso da quello fin qui dominante.

– Una politica fiscale continentale (armonizzare i vari sistemi nazionali per contrastare le delocalizzazioni incentivate da sconti fiscali locali);

– un’unica politica salariale per armonizzare i differenziali retributivi e di potere d’acquisto (e contrastare il dumping sociale);

– una politica industriale continentale che, riconvertendo gli attuali “fondi europei” (Fas, Fse, ecc), definisca “cosa vogliamo produrre, in che quantità, dove, in che modo”.

In una parola, un ripensamento globale dell’Europa che salvaguardi il “lato buono” della globalizzazione (il superamento dei conflitti commerciali) e ne elimini quelli negativi e impoverenti.

L’orizzonte prossimo più realistico non vede profilarsi la possibilità di una “ripresa” del vecchio meccanismo, ma pone la centralità della tenuta sociale. Il rischio principale è ancora quello della guerra di tutti contro tutti. Ovvero una Weimar al cubo. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Zagrebelsky: “Le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche.”

di Cesare Martinetti – «La Stampa»

L’ex presidente della Consulta Zagrebelsky prepara la Biennale di Torino. “Se non ci sono argini il potere è portato a espandersi e corrompersi”

In Italia c’è qualcosa che si può definire «disagio democratico»? Stiamo scivolando verso il populismo, la demagogia o l’oligarchia, come molti dicono? La crisi del Partito Democratico è una questione interna alla sinistra o investe l’intero quadro della democrazia? C’è materia sufficiente per rimettersi a ragionare sui principi. È quello che si propone di fare Biennale Democrazia che si svolgerà a Torino dal 22 al 26 aprile, alla quale Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista ed ex presidente della Consulta, sta lavorando con un gruppo di giuristi, filosofi e sociologi torinesi.

Professor Zagrebelsky, com’è nata e cos’è la Biennale?
«È nata dall’idea di Pietro Marcenaro di proseguire ciò che si fece con le “Lezioni Bobbio” nel 2004, una serie di incontri su grandi temi di etica pubblica e filosofia della politica che si svolse tra la primavera e l’autunno del 2004. Il successo fu straordinario, al di là delle previsioni».

Perché Biennale? E perché Democrazia?
«Perché si ripeterà ogni due anni e tratterà dei grandi temi della democrazia, a incominciare dalle sue “promesse non mantenute”, secondo la formula di Bobbio. Il tema è altamente “politico” ma le iniziative previste non saranno in alcun modo passerelle per “i politici”. Questa è una pre-condizione per evitare strumentalizzazioni e preservarne il carattere esclusivamente scientifico».

Ma il fatto stesso di porsi il problema dello stato della democrazia non è già prendere una posizione politica?
«La democrazia è un regime sempre problematico. È un insieme di diritti, regole e procedure che mirano a un ideale, l’autogoverno consapevole dei cittadini. È un ideale di convivenza da perseguire e nessuno mai potrà dire che esso è raggiunto definitivamente».

Un ideale sempre in bilico, dunque?
«Forze nemiche della democrazia sono sempre all’opera per il suo svuotamento. Per esempio, una condizione di successo della democrazia è l’uguaglianza delle posizioni. Ora le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche. La democrazia non è solo voto e elezioni. Voto e elezioni possono anche essere inganni, se non si nutrono di presupposti sostanziali».

Dunque, c’è un pericolo per la democrazia?
«In un certo senso, un pericolo c’è sempre. Con la conclusione della seconda guerra mondiale, la democrazia sembrava essere il regime politico acquisito per sempre. Oggi, questa fede ingenua in un movimento naturale della storia, come storia di emancipazione dei popoli dall’oppressione, non esiste. Tutto si è complicato, nulla è sicuro».

Ma lei crede che vi sia un «caso italiano»?
«Vi sono segni che non si possono non vedere. Toccano il modo di scegliere i rappresentanti e quindi la legittimità della sede principale della democrazia, il Parlamento. Il nostro sistema elettorale è così complesso che il cittadino elettore non ha la minima idea di come il suo voto viene poi “macinato” nella macchina elettorale, non sa nemmeno per chi vota, perché la scelta è fatta dai vertici dei partiti che detengono il monopolio delle candidature. Si conoscono solo le facce dei capi e queste facce trascinano i consensi per i loro adepti. E ci stupiamo se si parla di disagio democratico?».

Il disagio non è solo italiano, però.
«Certo, vi sono ragioni che vanno ben al di là. Per esempio, il fatto che la gran parte delle decisioni pubbliche presentano caratteristiche tecnico-scientifiche, fuori della competenza dei comuni cittadini. La potenza della tecnocrazia dipende da questo. Come coinvolgere i cittadini in modo consapevole – parlo di una questione ritornata d’attualità – nella politica dell’energia nucleare. La vita pubblica è sempre più determinata dalla scienza».
Come insegnano la vicenda Englaro e, in genere, le questioni bio-politiche.
«Certo. La tecno-crazia insidia la demo-crazia. Il destino sembra segnato da forze che si sono rese indipendenti, ineluttabili».

Ma questo non è sempre stato vero?
«Non nella misura odierna. Viviamo un’epoca in cui sembra che il corso degli eventi sociali non possa che essere così com’è. La politica ha perso in gran parte la sua funzione direttiva. Si risolve semplicemente nel correre dietro alle cose per tamponare le difficoltà, nei momenti di crisi. Sembra che il movimento sia imposto da fuori».

Da chi?
«Direi piuttosto: da che cosa? Da potenze immateriali che tutto muovono, che sembrano inesorabili. Per esempio, lo sviluppo, l’innovazione, il consumo: tre cose quantitative e non qualitative, che si legano e spingono tutte nella stessa direzione. Di fronte alla crisi dell’economia mondiale e alle sue conseguenze non si discute di alternative, che collochino sul terreno del possibile altri modi di vivere o di consumare».

È il pensiero unico?
«È un grave pericolo il non saper più guardare le cose da diversi lati, l’aver perso l’idea stessa di alternative. È cecità che riduce la politica alla gestione dell’esistente, magari nella direzione dell’abisso, senza nemmeno accorgersene. Se così è, a che cosa si riduce la partecipazione politica?».

Torniamo al nostro Paese. La crisi del partito democratico ha a che vedere con ciò che abbiamo chiamato disagio democratico?
«Direi di sì. Nessuna democrazia vive senza opposizione, senza qualcuno che, per l’appunto, sappia “guardare le cose dall’altra parte”. Oltretutto, senza una sponda, un limite, chi dispone del potere è portato a espandersi illimitatamente. Aggiungo: ma anche a corrompersi al suo interno. Senza opposizione, le forze dissolutici interne del potere non hanno ragione di trattenersi. È l’intero sistema che è in pericolo. Per questo, c’è da augurarsi che coloro che si sono assunti il compito di rimettere in piedi l’opposizione si rendano conto della responsabilità non solo verso un partito, ma verso la democrazia».

Diceva Bobbio: gli italiani sono democratici meno per convinzione che per assuefazione. L’assuefazione può facilmente portare a una crisi di astinenza e quindi a una ripresa delle energie democratiche ma anche a una crisi di rigetto. Ciò può spianare la strada a un regime?
«Forse solo favorirà la certa tendenza al rovesciamento della piramide democratica, alla concentrazione in alto del potere: il potere che scende dall’alto e produce consenso dal basso, lo schema della demagogia».

Sta succedendo in Italia, oggi?
«Poniamo mente alla concentrazione di potere economico, culturale (editoria, televisioni) e politico, i tre poteri su cui si fondano le società umane: concentrazione al loro interno e tra loro. Sono cadute le barriere. Chi parla ancora della necessità che il mondo dell’economia non sia oggetto di incursioni da parte della politica? Chi osa porre il problema dell’autonomia della comunicazione e della cultura? Quanti tra gli intellettuali si preoccupano dell’indipendenza dal potere economico e da quello politico? Quanti nel mondo della politica ritengono che sia un loro dovere occuparsi di politica, appunto, e non di banche, finanziamenti, posti in consigli di amministrazione? È venuta meno l’etica delle distinzioni. Il potere si accentra e procede dall’alto. Demagogia significa letteralmente: popolo che “è agito”, non “che agisce”».

Siamo già alla demagogia?
«Il pericolo è antico, anzi connaturato alla democrazia. Basta leggere Tucidide o Aristofane. Nulla di nuovo sotto il sole. Oggi, il pericolo è accresciuto da un certo modo d’intendere e organizzare il bipolarismo indotto dal sistema elettorale maggioritario, un modo che ingigantisce, fino al rischio della deflagrazione, la persona dei leader. Il culto del personaggio è certo una manifestazione di degrado democratico. Il presidenzialismo all’italiana potrebbe ridursi a questo».

Quali gli antidoti?
«Non vorrei sembrar tirar l’acqua al mio mulino, ma vorrei dire: difendere la Costituzione cercando di comprenderne i suoi contenuti, di cultura politica, di ethos civile, di promozione della partecipazione e dell’assunzione delle responsabilità. La Costituzione è nata in un certo momento storico a opera di certe forze politiche. Ma, se la raffrontiamo con gli esempi migliori del costituzionalismo mondiale, possiamo constatare facilmente ch’essa non sfigura affatto».

Perché?
«Al di là di tutto, degli interessi in gioco e del conflitto sociale, mi pare che ci sia una difficoltà maggiore, che allontana dalla politica e favorisce lo svuotamento della democrazia: la tirannia del tempo, cui tutti siamo drammaticamente sottoposti. Quando il tempo manca, perché non delegare a qualcuno la nostra esistenza?».

E che propone «Biennale Democrazia»?
«Propone una parentesi di cinque giorni nella routine di ogni giorno e chiede ai cittadini di riservarsi uno spicchio del loro tempo per dedicarlo a una riflessione comune sul nostro modo d’essere cittadini in una democrazia. Chiede di ribellarsi alla schiavitù del tempo che è nemica della libertà». (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Le bugie di un neocon.

di Stephen M. Walt* – «Foreign Policy»

Oggi mi è capitato di ripensare alle differenze tra due ex-funzionari del governo, e di come queste siano indicative per comprendere il perché gli Stati Uniti stiano attraversando un periodaccio.
Il primo funzionario è Eugene Kranz, il leggendario direttore di volo della NASA che il film Apollo 13 ha reso immortale.

Venerdì sera ho rivisto il film e sono rimasto colpito dalle sue notevoli capacità di coordinazione della squadra che ha improvvisato il salvataggio degli astronauti, dopo che un’esplosione mise fuori uso lo shuttle e spedì i piloti verso una morte quasi certa.
Molti lettori probabilmente ricorderanno la scena in cui Kranz dice ai suoi colleghi: “Il fallimento non è un’opzione”. Questa frase sarà pure apocrifa ma, quando studio la vasta gamma di problemi che stiamo affrontando a casa e all’estero, mi viene da pensare che ci vorrebbero più persone come Kranz in ruoli chiave del nostro governo.
Certo, so benissimo che stiamo parlando di un film, ma la recitazione di Ed Harris riesce a rendere fedelmente ciò che sappiamo del vero Kranz. In primo luogo, era un leader disposto ad assumersi piena responsabilità per le sue azioni. Ecco ciò che ha detto ai suoi colleghi in seguito al tragico incendio sulla piattaforma di lancio dell’Apollo 1, incidente in cui gli astronauti Gus Grissom, Ed White e Roger Chaffee hanno perso la vita:

«Il volo spaziale non tollera trascuratezza, incapacità o negligenza. Abbiamo sbagliato: in qualche modo, da qualche parte. Potrebbe essere stata una leggerezza nella progettazione, nella costruzione o nelle fasi di test. Qualsiasi cosa sia stata, l’avremmo dovuta individuare in tempo. Eravamo troppo concentrati sulla tempistica ed abbiamo tralasciato molti dei problemi che, quotidianamente, avevamo sotto i nostri nasi. Ogni elemento del progetto era nei guai, e noi con lui. Nessuno, tra noi, ha sbattuto il pugno sul tavolo ed ha detto: “Dannazione, fermatevi!”. La causa siamo noi! Non eravamo pronti! Non abbiamo fatto il nostro lavoro… d’ora in poi, la Direzione di Volo sarà conosciuta per due parole chiave: “Tenace” e “Competente”. “Tenace” significa che saremo per sempre responsabili per ciò che abbiamo fatto e per ciò che non siamo riusciti a fare. “Competente” significa che non daremo mai nulla per scontato. Appena abbiamo finito con questo incontro, voglio che andiate nei vostri uffici: la prima cosa che dovete fare è scrivere queste due parole sulla lavagna. Tenace e competente. Non cancellerete mai più. Ogni giorno, quando entrerete nelle vostre camere, queste parole vi ricorderanno il prezzo pagato da Grissom, White e Chaffee. Queste parole sono il prezzo che pagheremo per l’ammissione alla Direzione di Volo.»

È questo genere di mentalità che ci ha permesso di arrivare sulla Luna, costruire un’economia forte e, quando è stato necessario, vincere una guerra.
Ora, paragonate quella dichiarazione onesta e sincera con il comportamento di un altro ex-funzionario governativo: Richard Perle. In un articolo pubblicato di recente su «The National Interest» ed in un’apparizione pubblica al Nixon Center, Perle ha cercato di convincerci che né lui né i suoi compagni neocon hanno avuto alcun ruolo di rilievo della politica estera del governo Bush, specialmente sulla decisione di invadere l’Iraq. Entra nel vivo della questione, specificando che è “falso affermare che la rimozione di Saddam, ed in generale la linea politica di Bush, sia venuta o sia stata fortemente influenzata da ideologi neoconservatori”. Perle insinua che nessuno ha mai dimostrato la veridicità di questa influenza, sforzandosi di ignorare la valanga di libri ed articoli che testimoniano il contrario. Al massimo, quando lo ritiene necessario, Perle distorce il contenuto di questi ultimi.
L’Iraq è stato una sconfitta e gli Stati Uniti non riescono a liberarsene: non ci sorprende che Perle tenti di rinnegare il proprio operato. Ma, quando la guerra aveva un aspetto più promettente, dichiarava esattamente il contrario. In un intervista con il giornalista George Packer, riportata nel suo ultimo libro The Assassins’ Gate, Perle descrisse il ruolo chiave che i neoconservatori svolsero nell’architettare la futura guerra:

«Se Bush avesse riempito il suo governo di persone selezionate da Brent Scowcroft e Jim Baker, cosa che sarebbe potuta accadere, tutto sarebbe stato molto diverso. Avrebbero portato un bagaglio di idee differenti, rispetto a quelle che hanno guidato i membri dell’amministrazione Bush.»

Perle parlava di neocon di spicco come Douglas Feith, I. Lewis “Scooter” Libby, Paul Wolfowitz ed altri, che fin dalla fine degli anni ’90 chiedevano apertamente un cambiamento di regime in Iraq ed hanno fatto pesare il loro ruolo nel governo per scatenare una guerra in seguito all’11 settembre. Sono stati aiutati da pundit in sintonia con le loro idee, trincerati in strutture come l’American Enterprise Institute e il «Weekly Standard». È difficile immaginarsi una cabala segreta oppure una cospirazione neocon: esprimevano le loro idee nel modo più pubblico e chiassoso possibile. Nessun serio studioso può affermare che abbiano “ipnotizzato” o ingannato Bush e Cheney per convincerli a scatenare una guerra. Più che altro, molte fonti ci dimostrano come i neocon pressassero perché si facesse guerra fin dal 1998 ed hanno continuato sulla stessa linea dopo l’11 settembre. Come in seguito ha ammesso il pundit neoconservatore Robert Kagan, lui e i suoi compari hanno avuto successo anche perché avevano una “visione del mondo preconfezionata” che sembrava fornire una risposta alle sfide che gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontare dopo l’11 settembre.
La morale di tutto questo è molto semplice: Richard Perle mente. Ciò che più inquieta non è stato lo sfacciato tentativo di falsificare la storia da parte di un ex funzionario del governo; Perle non è il primo legislatore a farlo e certamente non sarà l’ultimo. La vera fonte di preoccupazione è che Perle e gli altri neocon non hanno praticamente subito alcuna conseguenza per aver causato uno dei più grandi disastri della storia della politica estera americana. Se qualcuno può dare una mano a cucinare una guerra folle e rimanere un rispettato addetto ai lavori di Washington – esattamente come Perle – che rischi corre se, in seguito, può tranquillamente mentire?
Teniamo a mente qualche fatto. Perle e i suoi amichetti neocon hanno contribuito allo sviluppo e alla “vendita” di una linea politica che ha ucciso più di 4mila soldati statunitensi e ne ha ferito più di 30mila, è stata direttamente responsabile della morte di decine di migliaia di iracheni e costerà allo stato più di un trilione di dollari. E, al posto di avere l’integrità ed il coraggio per ammettere gli errori ed il suo ruolo in questa faccenda (come avrebbe fatto una persona onesta, ad esempio Gene Kranz), si occupa di spruzzare una nube d’inchiostro fatta di menzogne e prevaricazioni. Sebbene le sue affermazioni assurde siano state messe in discussione subito, e con ottime argomentazioni, qualcuno pensa sul serio che sarà costretto a pagare un prezzo maggiore per le sue azioni? Il «National Interest» ha colto al volo l’occasione per pubblicare le sue revisioni storiche e, senza dubbio, organizzazioni prestigiose come il Council on Foreign Relations saranno felici di dargli una platea per successive conferenze. Lo troverete su «Lehrer Newshour» e la CNN; cavolo, potrebbe addirittura finire su Fox News con una trasmissione tutta sua.
Dobbiamo riconoscerlo: il senso di responsabilità è evanescente a Washington, dove aver sbagliato implica non doversi mai scusare. Non è neanche necessario prendersi la responsabilità per gli errori passati, a prescindere dalla loro gravità. Alla fine dei giochi, il prezzo sarà sempre pagato con i soldi dei contribuenti e la vita dei soldati.
Come Frank Rich ed altri hanno ben compreso, oggi siamo nei guai perché abbiamo permesso che una cultura di disonestà e corruzione permeasse le nostre istituzioni ed il pubblico dibattito. Finché questo non cambierà, finché le nostre istituzioni non conterranno più Gene Kranz e meno bugiardi come Richard Perle, non sapremo che posizioni prendere, qual’è la nostra destinazione e chi è degno della nostra fiducia. Beh, buona giornata).

Articolo originale: Richard Perle is a Liar .
Traduzione per Megachip di Massimo Spiga

* Stephen M. Walt, l’autore di questo articolo, è professore di Relazioni Internazionali alla Harvard University.

Richard Perle (New York, 1941), detto ‘il Principe delle Tenebre’, fondatore del PNAC, è anche nel think tank neoconservatore American Enterprise Institute (AEI), un esperto dell’Institute for Advanced Strategic & Political Studies (IASPS), amministratore del Center for Security Policy, nonché della Foundation for the Defense of Democracies, del Jewish Institute for National Security Affairs (JINSA, collegato all’Hudson Institute), del Washington Institute for Near East Policy (WINEP), editorialista principale del «Jerusalem Post». Strettamente legato alla destra israeliana.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Crisi economica globale: catastrofi e catastrofisti.

di Steve Watson – Infowars.net

Il crollo delle banche è già avvenuto. La crisi è la peggiore di sempre. Il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato. Un’insurrezione sociale di massa è probabile.

Un’ondata di economisti, investitori e altri esperti finanziari durante il fine settimana ha pronunciato una serie di terribili ammonimenti riguardanti la crisi finanziaria globale, nei quali hanno dichiarato che una nuova era di caos ha preso piede in tutto il globo.
Alcuni hanno affermato che un collasso bancario totale sia già avvenuto, mentre altri hanno dichiarato che la recessione sia ormai la peggiore mai registrata, superando di gran lunga la grande depressione.

Il gestore di hedge fund e miliardario filantropo George Soros ha detto che il sistema finanziario si è effettivamente disintegrato, con turbolenze più gravi che durante la grande depressione e con un declino paragonabile alla caduta dell’Unione Sovietica.

L’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker ha detto di non poter ricordare nessun momento, neppure nella grande depressione, in cui le cose siano andate giù in modo così veloce e altrettanto uniforme in tutto il mondo.

L’analista dei mercati finanziari Martin D. Weiss ha dichiarato che il crollo bancario si è già verificato e un grave tracollo di Wall Street è ormai imminente.

Un soggetto leader nelle previsioni, la National Association for Business Economics, ha messo in guardia sul fatto che la recessione è destinata a peggiorare e il tasso di disoccupazione potrebbe raggiungere il 9% quest’anno, il 10% l’anno prossimo e continuerà a crescere nel 2011. Nel 2008, il tasso di disoccupazione era in media del 5,8%, il più alto dal 2003.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, professori di finanza rispettivamente dell’Università del Maryland e dell’Università di Harvard, hanno detto che la crisi «non avrebbe potuto essere più grave», mentre avvertivano che, se mantenute le medie delle precedenti crisi, gli americani possono attendersi che la disoccupazione raggiunga l’11 o il 12 per cento, che i prezzi delle case calino a livello nazionale del 36%, le scorte  perdano più della metà del loro valore, e la produzione reale pro capite precipiti del 9,3%.

L’economista Nouriel Roubini della New York University ha previsto un decennio perduto di stagnazione in stile giapponese (una micidiale combinazione di stagnazione, recessione e deflazione), ma su base mondiale.
«L’economia mondiale è ormai letteralmente in caduta libera, poiché la contrazione dei consumi, della spesa in conto capitale, degli investimenti immobiliari, della produzione, dell’occupazione, delle esportazioni e importazioni, si sta accelerando anziché rallentare», ha scritto Roubini.

Sebbene l’amministrazione Obama abbia negato che stia pianificando di nazionalizzare gruppi di banche statunitensi, gli speculatori hanno affermato che ciò sta già avvenendo e continuerà se Obama converte le azioni privilegiate del governo in Citigroup Inc. in più comuni azioni ordinarie al fine di aiutare l’impresa a sopportare le perdite. Il Tesoro ha anche annunciato che è pronto a gettare via ancora più soldi nelle banche, in aggiunta ai trilioni di dollari dei contribuenti dileguatisi finora.

Mentre alcuni economisti si sono rassegnati ad accettare questa come “l’unica via d’uscita”, Jim Cramer della CNBC ha ammonito che la nazionalizzazione schiaccerebbe l’America e farebbe sprofondare il sistema finanziario in «un mondo di caos», che nel corso della storia ha portato a «gravissime rivolte e disordini sociali».

Analoghi reportage e analisi hanno recentemente previsto che il mondo sia alla vigilia di gravi disordini sociali a causa della crisi finanziaria. Il fine settimana ha visto le proteste raggiungere il punto di ebollizione in Irlanda, i governi in Islanda e Lettonia sono già stati rovesciati, mentre la polizia del Regno Unito si sta preparando per una “estate di scontento” e proteste di massa contro la cattiva gestione della crisi economica da parte del governo.

Un aumento delle esercitazioni addestrative sulla guerra urbana lungo tutti gli Stati Uniti non è di buon auspicio, alla luce di tali resoconti, dato in particolare che Northcom ha sottolineato che la partecipazione attiva di truppe all’interno degli USA sarà designata ad affrontare «disordini civili e di controllo della folla».

Naturalmente, da questo caos, come abbiamo sempre avvertito per oltre un decennio, si sta presentando un nuovo ordine. Oggi il primo ministro britannico Gordon Brown ha fatto appello a un “New Deal globale”, che contemplerebbe misure restrittive” del governo su tutti i mercati finanziari, compresi gli hedge fund.

In sostanza, questo sarebbe l’ultimo chiodo nella bara del libero mercato, e inaugurerebbe un nuovo periodo di governo regolato globale del sistema finanziario. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: Steve Watson, Analysts: New Era Of Chaos Has Taken Hold, Infowars.net
Traduzione di Pino Cabras per Megachip.

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

Questa notizia è riservata a chi crede che immigrazione è uguale a criminalità.

(fonte:ilmessaggero.it)

Danno lavoro ad almeno mezzo milione di lavoratori, anche italiani. Sono i 165.114 immigrati titolari d’impresa. Tra i settori preferiti non solo l’etnico, ma anche lavanderie, saloni di estetica, pasticcerie, agenzie di viaggio e di traduzione. Figurano anche farmacie e piccole case di moda. Le imprese di immigrati dal 2000 sono cresciute al ritmo di 20 mila l’anno. In cinque anni, dal 2003 al 2008, gli imprenditori stranieri sono triplicati. Infine: ogni tre immigrati adulti due hanno un conto in banca.
Fondazione Ethnoland, realizzato in collaborazione con i ricercatori del Dossier immigrazione Caritas/Migrantes (ImmigratImprenditori, ed. Eidos), presentato oggi a Roma nella sede dell’Abi (Associazione bancaria italiana).

Il rapporto. E’ il quadro che emerge da un rapporto della

Aziende triplicate a giugno. Si tratta di un’azienda ogni 33 (il 2,7% di quelle registrate, il 3,3% di quelle attive) e rispetto al 2003 (quando erano appena 56.421) il loro numero, a giugno 2008, è triplicato. Un sesto degli imprenditori è donna. Le imprese di immigrati incidono quasi per il 10% nel lavoro dipendente.

La localizzazione delle imprese. Il maggior numero di imprese si trova in Lombardia (30 mila) e Emilia Romagna (20 mila). In Sardegna, Sicilia e Calabria gli immigrati hanno uguagliato il tasso di imprenditorialità degli italiani e in alcune regioni come il Piemonte e la Toscana è più soddisfacente della media nazionale. Tra gli italiani vi è un’impresa ogni 10 residenti, mentre tra gli immigrati una ogni 21. Se si uguagliasse il tasso di imprenditorialità nazionale, entro 10 anni l’ammontare delle nuove aziende straniere potrebbero salire di altre 200 mila raggiungendo un milione di occupati. A livello provinciale, al momento, spiccano Milano (17.297) e Roma (15.490).

I settori delle imprese degli immigrati. Quello privilegiato è l’industria con 83.578 aziende (50,6%); al suo interno prevale l’edilizia (64.549) e il tessile (10.470). Gli agricoltori sono appena 2.500, per via degli alti costi iniziali che comporta l’acquisto dei poderi. Gli imprenditori stranieri sono per lo più marocchini (in 5 anni sono aumentate del 27,4%), seguono i romeni (+61,2%), i cinesi (+24,4%), l’Albania (+48,5%). I marocchini sono per lo più dediti al commercio (67,5%), i romeni all’edilizia (80%), i cinesi si ripartiscono fra l’industria manifatturiera (46%) e il commercio (44,6%).

Il contributo al Pil. Il rapporto ricorda che il lavoro degli immigrati contribuisce alla formazione di circa un decimo del Pil. Nel 2007, il loro gettito fiscale è stato stimato in 5,5 miliardi di euro. Mentre, il costo a carico dei comuni – se si ipotizza che siano stati il 20% dell’utenza – si stima una spesa di 700 milioni di euro: «un livello comunque di neanche un quinto del totale delle entrate fiscali assicurate dagli stessi immigrati».

Voglia di riscatto. A spingere un immigrato ad avviare un’impresa è il maggior guadagno visto che se dipendenti la loro paga è appena il 60% di quello di un italiano. E poi, rileva il rapporto, gli immigrati vogliono «scrollarsi di dosso i pregiudizi dando di sè un’immagine più veritiera. La volontà di affermarsi è fortissima anche se a volte è frenata dagli ostacoli legislativi, burocratici, finanziari, ambientali». (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Attenzione:”i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese.”

 di CARLO FEDERICO GROSSO da lastampa. it

Le novità elaborate dal governo in materia di giustizia e sicurezza sono numerose. Le ronde sono già diventate legge con decreto d’urgenza e sono in attesa della conferma parlamentare. I disegni di legge in tema d’intercettazioni e processo penale sono ai nastri di partenza in Parlamento (rispettivamente in aula e in commissione). Il testamento biologico sta impegnando la commissione Sanità e dovrebbe presto approdare al dibattito plenario con un testo fortemente voluto dalla maggioranza.

Davvero innovazioni utili al bene comune? Sui diversi profili vi saranno sicuramente opinioni divergenti, ed è naturale che sia così. Ciò che è, invece, incontrovertibile è che i testi che la maggioranza si appresta ad approvare incidono in profondità su alcune regole che, per anni, sono state considerate patrimonio giuridico irrinunciabile del Paese. Ed è con questa modificazione di sistema che occorre fare i conti nel momento in cui si vuole esprimere una valutazione complessiva su ciò che, probabilmente, accadrà nei prossimi mesi.

Il disegno di legge in tema di intercettazioni prevede, sul versante dell’informazione, il divieto di rendere pubblico ogni contenuto degli atti di indagine preliminare. Ciò significa che, in spregio al diritto dei cittadini ad essere informati, nessuno potrà più pubblicare alcunché sulle indagini in corso fino al momento in cui esse si saranno esaurite. Viene meno, in questo modo, ciò che è stato considerato, da sempre, uno dei capisaldi della libertà di stampa.

L’essere cioè, la stampa, strumento indispensabile di controllo pubblico sull’esercizio dell’attività giudiziaria fin dal momento in cui iniziano le istruttorie.

Il disegno di legge sulla riforma del processo penale prevede che fino a quando verrà consegnato all’autorità giudiziaria un rapporto sull’esistenza di un reato, la polizia è legittimata a condurre le attività investigative senza controllo o pungolo da parte dei pubblici ministeri. Quello sulle intercettazioni prevede, sul versante delle indagini, che, ad eccezione dei reati di mafia e terrorismo, tale importante strumento di acquisizione probatoria possa essere utilizzato per tempi brevi e soltanto dopo che siano già stati altrimenti acquisiti «gravi indizi di colpevolezza» a carico di qualcuno. Il che significa azzerare, di fatto, la stessa utilizzazione delle intercettazioni, che sono utili, soprattutto, quando esistono soltanto sospetti di reità ed occorre acquisire indizi o prove.

Sulla base di tali innovazioni vengono intaccati quantomeno due importanti cardini del sistema di giustizia vigente: l’indipendenza dell’attività investigativa ed il potere dei pubblici ministeri, l’incisività dell’attività giudiziaria nel contrastare il mondo del crimine. La totale autonomia delle forze dell’ordine nella prima fase delle investigazioni aprirà infatti la strada alla possibilità di interferenze da parte del governo (dal quale la polizia dipende gerarchicamente) sull’esercizio dell’azione penale. L’azzeramento di fatto delle intercettazioni taglierà le unghie a molte indagini per reati gravi, nelle quali l’intercettazione può essere strumento decisivo per individuare i colpevoli. Basti pensare a reati quali la pedofilia, la violenza sessuale, la corruzione.

Il decreto legge che ha riconosciuto l’utilizzazione delle ronde, sia pure non armate, per il controllo del territorio ha determinato un’alterazione delle consuete competenze in materia di sicurezza. Si è attribuito al privato una porzione di ciò che costituisce, da sempre, competenza esclusiva dello Stato sul presupposto che soltanto l’istituzione pubblica sia in grado di assicurare, con le sue strutture, l’indispensabile correttezza nella gestione di settori (delicati) quali sono i servizi sicurezza ed ordine pubblico.

Che dire, infine, della legge sul testamento biologico? Se passerà davvero il principio secondo cui l’idratazione e l’alimentazione artificiale di chi si trova in coma persistente saranno imposte anche a chi ha manifestato, quando era cosciente, la sua volontà contraria a tale tipo di trattamento, risulterà alterato il principio costituzionale per il quale nessuno può essere obbligato, neppure dalla legge, a subire un trattamento sanitario che travalichi i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Ho fatto alcuni esempi di modificazioni «di sistema» conseguenti agli interventi legislativi in cantiere: si intacca la libertà di stampa, si consente di fatto al governo d’interferire sulla gestione dell’azione penale alterando la divisione dei poteri, si indebolisce l’incisività delle indagini penali, si attribuiscono pericolosamente ai privati competenze nella gestione della sicurezza, si contravviene al principio di autodeterminazione in materia di interventi sanitari. Poco conta, a questo punto, auspicare che la Corte Costituzionale, se le menzionate innovazioni diventeranno leggi, le cancelli con le sue sentenze: l’attuale maggioranza parlamentare, con il sostegno della maggioranza popolare che l’ha votata, potrebbe infatti cambiare anche il testo della Costituzione.

Ciascuno di noi, di fronte a ciò che sta accadendo, deve piuttosto domandarsi se è d’accordo, o non è d’accordo, con un progetto politico che, sotto l’etichetta formale delle libertà, nei fatti tende ad intaccare, passo dopo passo, i diritti e le garanzie dello Stato liberale. Di questo è oggi importante ragionare e discutere, al di là degli obiettivi specificamente perseguiti da ciascuna delle nuove leggi programmate. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche

Greenpeace al vertice di Berlino: “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

(fonte:ilmmessaggero.it)

Durante il vertice di Berlino trenta attivisti di Greenpeace hanno accompagnato i leader europei mostrando uno striscione su scritto “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.

Greenpeace – informa una nota – chiede a Berlusconi e gli altri leader europei riuniti oggi a Berlino per i preparativi del prossimo G20, che facciano il massimo per sostenere con urgenza un “New Deal” verde per risolvere sia la crisi economica che la crisi climatica che minacciano il Pianeta. «Nel tentativo di salvare l’economia, i nostri leader hanno l’opportunità di sviluppare un piano di stimolo per creare centinaia di migliaia di posti di lavoro verdi per fronteggiare i cambiamenti climatici. Se invece l’Europa sceglierà un futuro energetico sporco e pericoloso, puntando su carbone e nucleare, gli impatti del riscaldamento globale faranno sembrare le difficoltà economiche di oggi insignificanti», afferma Karsten Smid, della campagna sul clima di Greenpeace.

La prossima Conferenza ONU sui cambiamenti climatici di Copenhagen – a dicembre – sarà un appuntamento storico che non deve essere disatteso. Greenpeace chiede al l’Unione europea di prepararsi a questo appuntamento investendo in una ripresa verde dell’economia, e impegnando circa 35 miliardi di euro all’anno per aiutare le economie in via di sviluppo a ridurre le proprie emissioni di gas serra, proteggere le foreste tropicali e mettere in atto misure di adattamento. Questa cifra rappresenta la quota europea di un fondo mondiale di 110 miliardi di euro all’anno, da oggi al 2020, che tutti i Paesi industrializzati dovrebbero contribuire a creare per trovare un accordo a Copenhagen. (Beh, buona giornata).

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“Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine».” Ovvero: un popolo spaventato si governa meglio.

di IGOR MAN da lastampa.it 

Un italiano su 4 non si sente sicuro quando esce di casa. Aumentano le rapine, dilaga il traffico di stupefacenti. Risulta dal Rapporto annuale sulla criminalità in Italia. È di 500 pagine e porta la data del 22 giugno 2007. L’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, definì «impressionanti» i dati sui reati contro le donne. Il 31% delle italiane ha subìto almeno una violenza. Di più: il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal partner (amante o marito) e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. Con tanti saluti alla famiglia «fiore all’occhiello della società italiana». Oggi non sono disponibili dati «aggiornati» sull’ordine pubblico.

Ma chi di dovere può anticipare che se uscisse, in questo dannato momento, il Rapporto (aggiornato) sulla criminalità, ci sarebbe da preoccuparsi. E questo perché il Rapporto dice che la famiglia è in crisi. Non da oggi. Paradossalmente a mano a mano che il benessere s’allargava cresceva la domanda non già di rapporti intimi gratificati dallo scambio di «affettuosità», cresceva la domanda di beni. Beni banali utili per figurare diversi, cioè «più ricchi» e quindi «più importanti». Oltre il 74,7% degli italiani confonde il consumismo col successo, vede negli status symbol l’imprimatur della promozione sociale.

Negli anni (felici?) dell’immediato dopoguerra, trionfava la modestia, il risparmio (anche feroce) era costume di vita, garanzia di sicurezza. I valori erano valori, la famiglia faceva blocco, ci si aiutava tra parenti e anche amici. Non esisteva l’attuale filosofia perversa che papa Ratzinger denunziò, quand’era cardinale, vale a dire il Relativismo. Epperò, a dispetto delle apparenze, dati certi ancorché non ufficiali smentiscono il presunto crescendo della violenza: il delitto comune è in ribasso. Ma se la violenza reale in fatto è diminuita come si spiega che venga percepita in aumento, che un po’ tutti ci si senta immersi nel pericolo permanente: rapine, omicidi, stupri? La risposta l’affidiamo a un giornalista-umanista, Marco d’Eramo. Ci spiega che la percezione della violenza è aumentata anche con la diffusione di «fattacci» via radio e tv. È il prezzo che esige la democrazia nel rispetto della libertà d’espressione. Sulla spinta dei media, il fattaccio più remoto (un delitto in un borgo lucano ovvero la strage in un college americano) gonfia le agenzie di stampa, rapidamente veicolato nei giornali. Il delitto entra nelle case. Creando allarme, paura.

Qui il Vecchio Cronista vorrebbe fermarsi sulla demagogia di chi cerca, scientemente, di attizzare quella che d’Eramo definisce «l’ansia securitate». È importante rifarsi alla Storia. Che ci dice come l’arma di chi pratica e predica «sicurezza», consista nel sobillare le peggiori paure del (vulnerabile) uomo della strada. Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine». E c’è un modo egregio di farlo: leggere, ascoltare, riflettere. Sceverare il grano dal loglio. Vedere se le parole corrispondano ai fatti, oppure cerchino di contrabbandare leggi all’apparenza benefiche ma in fatto repressive, lucide anticamere dello Stato autoritario. (Beh, buona giornata).

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“Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?”

di STEFANO RODOTA’ da repubblica.it

Torna un’espressione che sembrava confinata nel passato – “legge truffa”. Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le “direttive anticipate di trattamento” (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l’opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone. Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita.

Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell’immediato futuro.

Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: “Hard cases make bad laws”, i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell’invito a separare la legge dall’occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall’emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L’ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione.

Il secondo ammonimento è nell’alta riflessione di Michel de Montaigne: “La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Quest’intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest’antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l’innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire.

L’occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l’impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall’altra, l’ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l’eguale libertà di coscienza.

La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d’un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all’irriducibile unicità di ciascuno – la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso “la rivoluzione del consenso informato” nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell’esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L’autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle “protettive”.

Riconoscere l’autonomia d’ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere “un nuovo soggetto morale”.

Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s’incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l’articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.

Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l’antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni “uomo libero”: “Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale “in nessun caso” si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.

La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l’arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le “direttive anticipate di trattamento”, di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell’interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a “orientamento”. La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente.

Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che “la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile”. Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico “la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente”. Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici – dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all’amputazione di un arto – decidendo così di morire. Si introduce così un “obbligo di vivere”, che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona.
E’ abusivo anche il divieto di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione, definite “forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze”, con una inquietante deriva verso una “scienza di Stato”. Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in “scienza e coscienza”: ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un’ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra “trattamento” e “sostegno”, si coglie la volontà di aggirare l’articolo 32, dove l’imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata “alleanza terapeutica” con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere.

Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un’altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?  (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Il voto in Sardegna. Prima di chiedersi per chi votare sarebbe meglio capire per che cosa si vota./3.

La parola a Renato Soru: su www.renatosoru.it la lettera agli elettori indecisi. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Incredibile ma vero: il G7 ha scoperto che la crisi è grave.

 
di MARIO DEAGLIO da lastampa.it
Il comunicato stampa conclusivo della riunione dei ministri economici dei G7, ossia dei responsabili delle sette maggiori economie del mondo contiene una lunga litania di ovvietà. Vi si afferma infatti che la crisi è grave.

Che è necessario ristabilire la fiducia dei mercati, sostenere crescita e occupazione, evitare l’eccessiva volatilità dei cambi. Vi è una rituale condanna del protezionismo anche da parte di rappresentanti di governi, come quello francese, che hanno firmato pochissimi giorni prima provvedimenti che vengono generalmente ritenuti protezionisti.

Non è stata annunciata alcuna nuova specifica azione «ammazzacrisi» ma i ministri hanno notato, con malcelato autocompiacimento, di aver posto in atto misure «sollecite, vigorose, risolute». Poche righe più sopra, però, avevano ammesso che queste politiche non hanno finora prodotto risultati e che la «dura recessione ha già provocato importanti effetti negativi sull’occupazione» e «si prevede che continuerà per gran parte del 2009». Questa incongruenza tra l’entità delle misure e la scarsità dei risultati, del resto, è tipica delle difficoltà del momento. Non bisogna, del resto, dimenticare che i venti della crisi hanno acuito le difficoltà di molti governi: da quello giapponese, ormai debolissimo, a quello britannico, alle prese con una crisi che sta incrinando alle fondamenta le prospettive di crescita del Regno Unito, che ha puntato quasi tutto sulla sua posizione centrale nella finanza internazionale. E infine a quello del neopresidente americano, le cui misure anticrisi sono state adottate controvoglia, proprio alla vigilia del G7, da un Congresso riluttante e sono state accolte da ulteriori, gravi cadute di Borsa.

Inserendosi nella linea di una lunga serie di analoghi comunicati, che hanno suggellato le numerose riunioni inconcludenti degli ultimi due anni, le contraddizioni di questo documento dimostrano una verità che forse preferiremmo non conoscere: non abbiamo, per il momento, una ricetta vincente, questa crisi è troppo diversa da tutte le precedenti per cercarla sui libri di testo o nell’esperienza storica. In altre parole, «il re è nudo», o, se si preferisce, come ha scritto su queste colonne Domenico Siniscalco, ci manca la «pallottola d’argento», l’unica veramente in grado di uccidere il vampiro che succhia le risorse delle nostre economie. Tale «pallottola» dovremo costruirla noi, nei prossimi mesi (o anni?) scordandoci la beata illusione di ripristinare tutto come prima con poche misure risolutive.

Per fortuna, pur in questa non lusinghiera prospettiva, la riunione di Roma presenta qualche spunto di interesse e indica che qualcosa comincia a muoversi. Vi sono frequenti sottolineature sulla necessità di azioni comuni e una nuova urgenza nell’invocare la riforma del Fondo Monetario Internazionale (che proprio i governi dei paesi ricchi, e soprattutto degli Stati Uniti, hanno finora di fatto osteggiato); si parla di riforma delle regole, un passo avanti rispetto alla rigidità su questo punto della precedente amministrazione americana; si loda apertamente la politica cinese, in quella che è corretto leggere come un’apertura al grande paese asiatico. La Cina, tra l’altro, detiene la maggior parte delle riserve valutarie del pianeta e, come altri giganti del mondo emergente, continua incomprensibilmente a essere tenuto fuori da queste riunioni, il che ne riduce molto l’efficacia. E non si dimentichi il cambiamento d’opinione del Presidente del Consiglio italiano, contestuale alla riunione di Roma, l’unico tra i capi di governo a minimizzare, fino all’altro ieri, la gravità della situazione.

Qualcosa comincia quindi a muoversi nel mondo ingessato di queste riunioni e può darsi che la diplomazia economica del paese ospitante, ossia dell’Italia, ne abbia qualche merito. Ma perché la crisi venga veramente affrontata è necessario ben altro; a Roma si è fatta strada la convinzione che questa crisi, visto che non può essere annullata con qualche misura miracolosa, deve essere gestita.

In quest’ottica, i ministri economici del G7 – che, dopo tutto, sono uomini politici – dovrebbero porsi la fondamentale domanda politica che ci occuperà nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni. Questa domanda è molto semplice: chi pagherà per questa crisi? Saranno solo gli azionisti delle banche americane e inglesi fallite, nazionalizzate o tenute in piedi dal sostegno pubblico o i loro manager superpagati? Saranno i risparmiatori che hanno investito in una Borsa che ha mediamente dimezzato le loro risorse finanziarie? Saranno i lavoratori di tutto il mondo, e non solo quelli americani, con la perdita dei posti di lavoro? O non si tratterà, più in generale, dei cittadini del mondo ricco, travolti da una possibile, forse probabile, ondata di inflazione generata dal fortissimo indebitamento pubblico legato ai salvataggi e ai sostegni di questi mesi?

I ministri economici delle maggiori economie sviluppate del mondo, e, a maggior ragione, i capi di stato e di governo che tra qualche mese si riuniranno al G8 della Maddalena dovrebbero cercare di rispondere a queste domande che saranno con noi nel prevedibile futuro. A giudicare dai risultati della riunione di Roma, il cammino da compiere è ancora molto, molto lungo. (beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“Una politica dell’immigrazione ridotta a controllo e sicurezza può fruttare in termini di voti, ma non prepara un futuro sereno per la convivenza sociale.”

di Maurizio Ambrosini da lavoce.info

Il pacchetto sicurezza approvato in Senato contiene norme sull’immigrazione dal chiaro significato: maggior controllo e maggiore severità. Al di là delle considerazioni etiche sul diritto speciale riservato agli stranieri, sono provvedimenti del tutto inefficaci. Non ci sono né le risorse, né le forze per espellere davvero gli irregolari, che in gran parte sono donne occupate nelle famiglie italiane. Dovremmo invece seguire l’esempio di altri paesi occidentali, dove gli inasprimenti legislativi sono accompagnati da misure a favore dell’integrazione.

Del pacchetto sicurezza approvato nei giorni scorsi dal Senato, fanno discutere in modo particolare le norme relative agli immigrati: una serie di modifiche normative, che spaziano dalla definizione dell’immigrazione irregolare come reato alla verifica dell’idoneità abitativa degli alloggi, dal permesso di soggiorno a punti all’inasprimento della tassazione sui permessi di soggiorno, fino alla norma più controversa, quella della facoltà di denuncia degli immigrati senza documenti che si presentano ai servizi sanitari pubblici.
Il significato è univoco: una volontà asserita di maggior controllo sull’immigrazione, di maggior rigore e severità. Fino a istituire una sorta di diritto speciale a carico degli immigrati, più esplicito nel caso degli irregolari, con i quali secondo il ministro degli Interni “bisogna essere cattivi”. È una linea che sembra incontrare ampio consenso da parte della maggioranza degli italiani, anche in seguito a recenti episodi di cronaca.
In questo contributo non intendo addentrarmi in considerazioni di natura etico-politica, relative ai diritti umani e ad altri aspetti controversi. Vorrei limitarmi ad alcune considerazioni relative all’efficacia presumibile dei provvedimenti e quindi agli obiettivi perseguiti.

IL REATO DI IMMIGRAZIONE

Cominciamo dalla definizione dell’immigrazione come reato, non più punito con il carcere, ma con un’ammenda, comminata dal giudice di pace. A costo di ripetere una constatazione già espressa su questo foglio, i posti disponibili nei centri di identificazione ed espulsione (Cie) sono circa 1.160 in tutta Italia. Se aggiungiamo i 4.169 dei centri di prima accoglienza, pure destinati a ospitare gli immigrati irregolari, arriviamo a poco più di 5.300. Gli immigrati espulsi, fino all’ottobre 2008, sono stati in tutto 6.500, mentre gli irregolari circolanti sul territorio nazionale sono, stando alle auto-denunce dell’ultimo decreto flussi, almeno 740mila. La sproporzione è evidente, così come la natura retorica della misura. Difficile credere che qualcuno pagherà mai l’ammenda. Non ci sono né le risorse, né le forze per espellere davvero gli irregolari, che per la maggior parte sono donne occupate nelle famiglie italiane. Del resto, la grande maggioranza degli immigrati oggi regolari, sono stati nel passato irregolari, due su tre in Lombardia: le categorie sono molto più fluide di quanto si pretende. In realtà, l’immigrazione irregolare, in Italia come negli Stati Uniti e in molti altri paesi, è vituperata a parole e tollerata nei fatti, anche perché funzionale a molti interessi.
Non deve infatti sfuggire il fatto che tra le molte norme del pacchetto sicurezza, nessuna inasprisce le pene per i datori di lavoro di immigrati irregolari. Anzi, i controlli ispettivi sui luoghi di lavoro sono stati alleggeriti. Eppure lì si trova la calamita che attrae l’immigrazione irregolare, tanto che l’Unione Europea ha preannunciato un giro di vite sul tema.
Non dimentichiamo poi che gli immigrati rumeni, in quanto comunitari, non potranno essere perseguiti.

LA SALUTE DELLO STRANIERO

Quanto alla norma più discussa, quella sulla sanità, molti hanno già osservato che se gli irregolari non si curano, ne scapita l’igiene pubblica e quindi la salute di tutti, perché malattie come la Tbc o l’Aids potrebbero propagarsi più facilmente. Molti medici si sono già dichiarati contrari, varie associazioni hanno chiamato alla disobbedienza. Ma c’è un altro elemento, molto prosaico, da tenere presente: che succede se un immigrato dichiara di non avere i documenti? Ammettiamo che parta una denuncia: in un qualche commissariato arriverà una segnalazione secondo cui una persona sconosciuta, presumibilmente straniera, si è presentata al pronto soccorso per farsi medicare. Se anche partisse una volante, il ferito sarebbe già lontano. Solo in caso di ricovero, e ipotizzando una notevole efficienza delle istituzioni preposte all’ordine pubblico, la disponibilità di posti nei Cie, le risorse per il rimpatrio e quant’altro, si potrà immaginare un qualche effetto. Che sarà comunque molto modesto, costoso e pagato con una minor tutela della salute pubblica.

SOLDI, ROM E PERMESSI A PUNTI

Un terzo esempio: non si potrà più trasferire denaro verso l’estero se non si è in possesso di permesso di soggiorno. L’effetto sarà soltanto quello di favorire lo sviluppo di un mercato di intermediari, provvisti di regolari documenti, che effettueranno l’operazione al posto di chi non potrà più farla personalmente, in genere soprattutto madri che mandano denaro ai figli lontani. Vorrei richiamare un precedente: il prelievo delle impronte digitali degli immigrati disposto, tra roventi polemiche, in seguito alla legge Bossi-Fini. Una volta effettuata qualche azione dimostrativa, non se ne è più saputo nulla.
Per i campi rom, nell’estate scorsa, nuovi annunci di raccolta delle impronte e nuove polemiche. Nei fatti, le impronte prelevate sono state pochissime, a Milano quasi nessuna, e non è dato sapere se siano servite a qualcosa. Di certo, se non altro, si sono sgonfiate le voci incontrollate sull’arrivo e l’insediamento di decine di migliaia di rom: per la provincia di Milano, si è arrivati a parlare di 20mila unità.
Un cenno finale va al permesso di soggiorno “a punti”: un’innovazione che tende a rendere gli immigrati dei sorvegliati speciali, dallo status precario e reversibile. Credo servirebbero di più, come in altri paesi, misure che incoraggino un’integrazione positiva: per esempio, giacché le competenze linguistiche vengono viste dall’Olanda al Canada come un requisito necessario per l’inserimento nella società, un piano massiccio di alfabetizzazione in lingua italiana, sul modello delle 150 ore che hanno consentito nel passato alle classi popolari di accedere all’istruzione di base. L’accertamento della conoscenza dell’italiano dovrebbe produrre qualche beneficio, come un accorciamento dei tempi per l’accesso alla carta di soggiorno e alla cittadinanza. Così si istituirebbe un incentivo a impegnarsi su questo aspetto saliente dell’acculturazione nel nuovo contesto di vita.
Nei paesi occidentali, gli inasprimenti legislativi nella gestione dell’immigrazione, e indubbiamente ne sono intervenuti, giacché il tema quasi ovunque è salito di rango nell’agenda politica, sono generalmente accompagnati da misure a favore dell’integrazione: non si vuole ingenerare l’idea dell’immigrato come nemico da combattere, anche per non alimentare spinte xenofobe nella società.
Dovremmo forse imparare che una politica dell’immigrazione ridotta a controllo e sicurezza, all’insegna del pregiudizio e dell’ostilità, può fruttare in termini di voti, ma non prepara un futuro sereno per la convivenza sociale. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

In Israele vince la destra, ma “l’intero sistema politico israeliano è in continuo e lento movimento verso le posizioni di pace della sinistra.”

di ABRAHAM B. YEHOSHUA da lastampa.it
Europei e americani interessati ai problemi del Medio Oriente non possono analizzare e comprendere i risultati delle ultime elezioni in Israele unicamente in base al solito criterio: sinistra opposta a destra, colombe che sostengono il processo di pace e la formula «due Stati per due popoli» contro falchi che lo osteggiano.

Più che in molti altri Paesi, infatti, in Israele i conflitti politici e ideologici non rispecchiano soltanto i rapporti di forza e i contrasti su opinioni e valori interni alla società israeliana, ma sono significativamente influenzati dalle posizioni e dall’atteggiamento degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare. Il successo della destra israeliana alle recenti elezioni è dunque anche dovuto all’aggressività di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano dopo il ritiro unilaterale da quelle zone operato dai governi di centro-sinistra. Ironicamente, si potrebbe affermare che queste organizzazioni terroristiche potrebbero reclamare un posto nella futura coalizione di Netanyahu per il «lavoro» svolto a suo favore negli ultimi anni. Sarebbe quindi un errore pensare che la svolta a destra dell’elettorato israeliano segni un ribaltamento ideologico. Tutto sommato è più questione di Stato d’animo che di ideologia.

Da 42 anni sono schierato a sinistra. Dalla guerra dei Sei giorni sostengo il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese entro i confini del 1967. Dalla metà degli Anni 70 riconosco gli esponenti dell’Olp come i rappresentanti del popolo palestinese e asserisco la necessità di condurre un negoziato di pace con loro a patto che riconoscano lo Stato di Israele.

Posso dunque testimoniare che l’intero sistema politico israeliano è in continuo e lento movimento verso le posizioni di pace della sinistra. Non dimentichiamo che fino a una decina di anni fa anche Tzipi Livni e molti esponenti di Kadima erano membri del Likud e sostenitori dell’ideologia del «Grande Israele» prima di moderare le loro convinzioni. E al di là delle sue posizioni razziste e nazionaliste anche «Israel Beitenu» di Avigdor Lieberman, partito sostanzialmente laico, è a favore di concessioni territoriali ai palestinesi, non tanto come riconoscimento dei loro diritti ma per limitare il loro numero entro i confini di Israele. Quindi, malgrado il rammarico e l’amarezza per la svolta a destra dell’elettorato israeliano, occorre capire che questo risultato è determinato più dall’umore della gente che da ferme convinzioni ideologiche.

Nel 2003 un nuovo partito denominato «Shinui», assertore di un’ideologia strenuamente antireligiosa, aveva ricevuto l’ampio sostegno degli elettori in un periodo in cui i ricatti politici dei partiti religiosi indisponevano molti di loro. Questo partito nel frattempo è sparito dal panorama politico e il suo posto è stato preso dalla formazione di ultradestra di Lieberman che mescola scaltramente laicità e nazionalismo e gode del favore di numerosi israeliani di origine russa. Nel 2006 era stato il turno di un bizzarro partito per i diritti dei pensionati, completamente scomparso dopo il voto dell’altro ieri, di ottenere non pochi seggi in Parlamento.

Gli israeliani non sono dunque autonomi nelle loro decisioni ma interagiscono con chi li circonda e dipendono dalle posizioni e dalle azioni dei loro nemici. Talvolta la loro reazione ad ansie e timori è giustificata, talaltra eccessiva, ma sempre contrassegnata da un senso di sfiducia di base. Ciò che avviene in Israele dipende inoltre dalle posizioni del governo degli Stati Uniti e dalle promesse della comunità europea di garantire la sicurezza dello Stato ebraico.

Quindi, nonostante i comprensibili timori per il rafforzamento della destra, non dobbiamo dimenticare che il nuovo governo americano e la comunità europea hanno la forza, il dovere e anche il diritto di spingerci verso grandi concessioni sia sul tema della pace con la Siria sia su quello della creazione di uno Stato palestinese. E come nel caso dell’accordo di pace con l’Egitto, siglato nel 1979 da un leader storico della destra, Menachem Begin, è forse più opportuno che sia un esecutivo di destra, supportato dalle fazioni di sinistra della Knesset, a fare future concessioni piuttosto che un governo composto unicamente da partiti di sinistra. (Beh, buona giornata)

(Traduzione di A. Shomroni)

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

In lotta con la crisi globale, in lotta contro i governi neo-liberisti.

 I governi che rispondono alla crisi creata dalle ideologie del libero mercato con
un’accelerazione della stessa agenda ormai screditata non sopravvivono se credono di ri-raccontare la favola
”( Naomy Klein, The Nation, quotidiano canadese).


Il governo inglese ha cercato di rispondere agli operai britannici, scesi in sciopero
generale contro un appalto che vedeva coinvolti operai italiani alla vecchia maniera:
siamo in Europa, niente protezionismo.

Il governo italiano ha risposto niente, perché  niente sa rispondere davvero alla crisi: fosse per loro, si tratterebbe di una semplice sfavorevole congiuntura, da superare, prima negandone la portata, poi affrontandola con fiducia e ottimismo, magari con lo spot di qualche hanno fa che diceva grazie a chi faceva la spesa.
Il governo di Gordon Brown, che pure è intervenuto energicamente e subito contro la crisi finanziaria è rimasto spiazzato dalla reazione delle Unions che hanno chiesto e ottenuto una quota di assunzioni di operai inglesi disoccupati nella raffineria della Total.   In Italia i media hanno parlato di episodi corporativi, evocando lo spettro dell’anti-italianità: il fatto è che chi crede di farla ai romeni, l’aspetti dagli inglesi.
In realtà i sindacati inglesi hanno messo il dito nella piaga: lavora chi ne ha diritto,
non chi accetta paghe inferiori. Vetero- sindacalismo? Averne, in Italia.

Il fatto è che la crisi economica riaccende l’antagonismo di classe.

In Islanda folle di persone  percuotono pentole e padelle fin quando il governo non cade, come se invece che la gelida isola del Nord Europa fosse la bollente Argentina del 2002.
Fatto sta che Reykjavik i manifestanti chiaramente non si berranno un semplice cambio di facciata ai vertici del governo, benché la nuova premier sia una lesbica. Chiedono aiuti per la popolazione, non solo per le banche; indagini che facciano luce sulla débâcle finanziaria delle banche e profonde riforme elettorali.

Richieste simili si possono registrare in questi giorni in Lettonia, la cui economia si è
contratta più bruscamente che in qualsiasi altro paese della UE, e dove il governo si
trova sull’orlo del baratro. Da settimane la capitale è scossa da proteste, fra cui una
esplosiva rivolta con sassaiola il 13 gennaio.

In Grecia le sommosse di dicembre sono seguite all?uccisione da parte della polizia di un ragazzo di 15 anni. Ma ciò che ha fatto sì che continuassero, con i contadini che sono subentrati agli studenti nel capeggiarle, è la diffusa reazione di rabbia nei confronti della risposta del governo alla crisi: le banche hanno goduto di un “aiuto” di 36 miliardi di dollari mentre i lavoratori hanno visto le loro pensioni decurtarsi e gli
agricoltori non hanno ricevuto pressoché nulla. Nonostante i disagi causati dal blocco
delle strade con i trattori, il 78% dei greci ritiene che le richieste degli agricoltori
siano ragionevoli.

In Francia il recente sciopero generale, in parte innescato dal piano del presidente
Sarkozy di ridurre pesantemente il numero degli insegnanti  ha ottenuto il sostegno del 70% della popolazione.

In Corea a dicembre il partito al governo ha cercato di usare la crisi per introdurre un
molto controverso accordo di libero commercio con gli Stati Uniti. I parlamentari si sono chiusi a chiave nel palazzo così da potere votare in privato, barricando le porte con scrivanie, sedie e divani. Se non che i rappresentanti dell’opposizione, non arrendendosi, con martelli e seghe elettriche hanno fatto irruzione e promosso un sit in di 12 giorni in parlamento.

Scioperi e manifestazioni contro la crisi e la disoccupazione si sono avute e in Spagna e in Germania. In Russia, la polizia di Putin ha caricato con durezza i manifestanti sulla Piazza Rossa.

In Italia, il “la” alla proteste contro la crisi lo ha dato l’Onda , il nuovo movimento
degli studenti, che ha coniato lo slogan che lega le manifestazioni in tutto il mondo:
La vostra crisi non la paghiamo noi”.
Nei mesi scorsi i sindacati di base hanno riempito le piazze, mentre lo sciopero generale del 12 dicembre scorso ha portato più di un milione e mezzo di lavoratori in tutta Italia.
Il 13 febbraio, altro sciopero generale dei dipendenti pubblici e dei metalmeccanici
promosso dalla Cgil: un grande  successo, nonostante la colpevole defezione delle altre confederazioni. Più di 700 mila operai, impiegati pubblici e privati, donne, precari, cassaintegrati e lavoratori stranieri hanno dato via a tre robusti cortei per le strade della Capitale, riempiendo poi piazza San Giovanni come non si vedeva da tempo. Paolo Ferrero ha giustamente detto che “è la prima volta dal dopoguerra che in Italia il movimento dei lavoratori non è rappresentato in parlamento.
Infatti, la politica fa la sorda, i media guardano da un’altra parte, il Governo cambia argomenti, l’opposizione parlamentare, troppo spesso ridotta a inseguire l’agenda del governo, fatica a capire la portata del disagio sociale e del montare della protesta
anticapitalista. Comica la dichiarazione del ministro del Lavoro che ha detto che la Cgil è isolata. Sembra la berzelletta del soldato italiano che oltre le linee nemiche chiamava a gran voce il tenente per dirgli che li aveva fatti tutti prigionieri, ma che quelli non lo lasciavano andare. Ma è un fatto che la protesta c’è e ribolle ovunque.  Ad essa va data non solo voce, ma sintesi politica. Questo è l’impegno che con urgenza viene dalle istante dei lavoratori italiani: da Milano a Pomigliano, dove è intervenuta la polizia coi manganelli, a Roma, dove il giorno prima dello sciopero generale i lavoratori dell’Alitalia hanno bloccato l’autostrada contro il mancato pagamento da tre mesi della cassa integrazione.

 

Ma se la crisi è globale, i conflitti sociali non possono rimanere locali. Bisogna riprendere l’abitudine politica ad ascoltare le istanze che vengono dal lavoro, ovunque in Europa e nel mondo. E metterle in cima alla lista delle priorità della Sinistra, anche in vista delle prossime tornate elettorali.
Fa bene alla salute delle idee di cambiamento. Aiuta la politica a guardare lontano.
Serve a mettere in crisi la crisi globale. Beh, buona giornata.

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