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La crisi e la protesta. Naomi Klein: “A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.

Intervista a Naomi Klein di Antonio Carlucci, da L’epresso.

I giovani che sono scesi in piazza sono molto arrabbiati. E gridano ai loro leader politici di salvare il pianeta e non solo le banche e le assicurazioni… Naomi Klein, la scrittrice che ha dato forma al movimento con due libri, ‘No Global’ e ‘Shock Economy’, e che da anni scrive per ‘L’espresso’, giudica per la prima volta quanto è accaduto a Londra, in Francia, a Strasburgo. Paragona il movimento di oggi a quello che abbiamo visto nelle piazze prima dell’11 settembre 2001, giudica la nuova leadership americana di Barack Obama, dice la sua sulle decisioni del G20, sottolinea le differenze che ci sono in questo movimento in Europa e negli Stati Uniti. E dice che chi è sceso in piazza in questi giorni “dimostra di avere etica, morale e principi”.

Come giudica le manifestazioni di Londra in occasione del G20 e quelle di Strasburgo nei giorni del summit della Nato?
“Con un nuovo stato d’animo e in forme diverse stiamo assistendo al ritorno delle grandi proteste che ci sono state in tutto il mondo, compresa l’Italia con Genova, prima dell’11 settembre 2001 dove si fusero insieme il no alla globalizzazione, la protesta contro le ineguaglianze nel mondo del lavoro e la richiesta di maggiore attenzione verso l’ambiente”.

Quella fiammata si spense dopo l’11 settembre per riaccendersi di tanto in tanto e senza una strategia. Ora accadrà lo stesso?
“Il movimento arretrò perché i sindacati e i partiti politici non vollero essere associati direttamente con un movimento di azione diretta e radicale del quale avevano paura. Adesso mi pare che le cose siano diverse: se guardiamo alle strade di Londra vediamo che, fianco a fianco, sfilano giovani attivisti di matrice radicale e vecchi sindacalisti, precari alle prese con lavori che oggi ci sono e domani no e militanti ambientalisti e pacifisti. È una nuova scelta di militanza che ha alla sua base la crisi economica e i problemi di vita quotidiana, anzi di sopravvivenza quotidiana, che milioni di persone vivono a causa delle scelte delle leadership mondiali”.
Non vede anche un filo populista che lega insieme la protesta contro i banchieri, quella contro i politici, quella contro i ricchi e, assai spesso, quella contro gli immigrati accusati di sottrarre posti di lavoro nel paese dove arrivano?
“Mi pare che il dato unificante e prevalente dei partecipanti alle manifestazioni sia la rabbia. E non è un sentimento artificiale, costruito sulla ideologia: la gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo. Il problema è dove sarà diretta questa rabbia, se sulle persone responsabili delle diverse crisi che attraversano il nostro mondo e se invece rischia di essere deviata contro coloro che stanno peggio, per esempio gli immigrati. A Londra il movimento ha detto chiaro che i responsabili della situazione sono i banchieri e i politici”.

Come valuta proteste come quelle avvenute in Francia dove i lavoratori delle fabbriche o degli uffici a rischio di chiusura hanno sequestrato direttori e manager?
“In Francia c’è da sempre un movimento di lavoratori strutturato e questi episodi sembrano un ritorno alle tattiche utilizzate nel 1968. Io non sono d’accordo con chi dice che c’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati con i capi e che non bisogna fare azioni di quel tipo. Io ritengo che ci sia il diritto alla rabbia e alla lotta per i propri diritti a cominciare da quello del lavoro. Se non ci fosse un movimento organizzato, sapete che cosa accadrebbe? Che le uniche vittime della crisi economica sarebbero i lavoratori. Come sta accadendo negli Stati Uniti dove i lavoratori vengono licenziati e i manager che hanno portato al disastro le aziende ricevono bonus milionari”.

Visto che lei vede un movimento che ritorna in campo, non sembra proprio che negli Stati Uniti la rabbia si stia esprimendo nelle strade. Anzi, i luoghi più affollati sono le fair job, i raduni dove si incontrano disoccupati in cerca di un nuovo lavoro e imprenditori che hanno bisogno di lavoratori…
“Anche in America la rabbia c’è. Ma è stata deviata verso altri obiettivi. Provate a guardare la sera la Cnn, quando Lou Dobbs se la prende con gli immigrati messicani o sentite Rush Limbaugh su Fox Tv o sulla catena di radio che lo ospitano che dice agli americani che non è colpa dei banchieri e di Wall Street, ma del vostro vicino che vi porta via il lavoro”.
Ma da quasi tre mesi alla Casa Bianca non c’è più George W. Bush ma Barack Obama. E quelli che lei ha citato non amano Obama…
“Quella propaganda contiene elementi di cultura politica fascista ed è certamente diretta anche contro Obama. Essendo un afro-americano, il presidente è un buon bersaglio per questa reazione della destra populista. Anche se non ha ordinato il ritiro immediato dall’Iraq, vuole una escalation in Afghanistan e usa i soldi dei cittadini per salvare le banche private, siamo però al paradosso che la sinistra e i liberal difendono a spada tratta Obama per proteggerlo dalla destra populista e reazionaria. Tutto ciò impedisce al movimento di fare quanto è accaduto a Londra o in Italia, dove gli studenti hanno manifestato gridando al capo del governo Silvio Berlusconi che non vogliono essere loro a pagare una crisi che non hanno causato”.

Lei non vede grandi differenze tra l’era Bush e l’era Obama.
“Ce ne sono, eccome se ce ne sono. In Inghilterra, per esempio, tra il premier Gordon Brown e i suoi avversari conservatori. Ma negli Stati Uniti si pone troppa enfasi sul percorso elettorale che una volta concluso porta automaticamente alla nascita di un culto della personalità di cui oggi Obama è vittima e protagonista. Certo che Obama è meglio di John McCain ma non per questo la sinistra deve automaticamente esserne il difensore su tutta la linea”.

Il movimento della rabbia, come anche lei, critica il salvataggio delle banche. Ma Obama ha portato in Parlamento – e ne ha ottenuto l’approvazione – una legge in cui ci sono miliardi di dollari destinati a lavori pubblici o a creare posti di lavoro. Sbagliato anche questo?
“No. Ma, visto che spesso si paragona l’oggi con le scelte di politica economica di Franklin Delano Roosevelt dopo la Grande Depressione, molti dimenticano che Roosevelt arrivò alla Casa Bianca con un piano di rinascita decisamente vago e che le scelte giuste arrivarono grazie alla pressione politica della sinistra e dei sindacati. Oggi quella organizzazione non esiste, il sindacato dell’auto non sembra voglia dare battaglia. Oggi c’è l’Obamamania, l’attesa messianica intorno alla sua figua e l’interesse spasmodico di sapere perché la First Lady Michelel porta abiti senza maniche. Io noto invece che il principale dei suoi consiglieri economici è Lawrence Summers il quale è direttamente responsabile della terapia shock alla quale fu sottoposta la Russia dopo la caduta del Muro di Berlino. E abbiamo visto che cosa è diventato quel paese. È Summers che ispira gran parte delle scelte economiche del presidente Obama”.

La Casa Bianca ha anche lanciato il più grande piano di sviluppo delle energie alternative. Che cosa ne pensa?
“Penso che sia il risultato della esistenza di un forte movimento ambientalista in Nord America e delle loro iniziative ultra decennali. Io giudico positivamente queste scelte di Obama perché rispondono a richieste di cambiamento molto diffuse. Purtroppo nel piano di Obama mancano elementi importanti come una nuova politica per il trasporto pubblico, settore strategico per la costruzione di un Paese più verde”.

A Londra il movimento ha invaso le strade. Ora lei prevede che, finito il G20, i manifestanti se ne staranno tutti a casa in attesa del prossimo summit, magari il G8 di luglio in Italia, o la loro rabbia diventerà attività politica quotidiana?
“Dipende da molti fattori. Non bisogna comunque guardare solo a quanto avviene intorno ai summit mondiali dove i media riportano ogni più piccolo dettaglio. Nel mondo ci sono tanti episodi giornalieri di manifestazione di questa rabbia che non vengono pubblicizzati. Quello è il movimento che vive e cresce”.

E che spesso degenera in episodi di violenza. Sarà il problema con il quale si dovrà confrontare nell’immediato futuro?
“Non sono in grado di fare previsioni di questo tipo. Proprio stamattina ho letto un articolo su una ragazza finita in cella per aver rotto una vetrina della Royal Bank of Scotland a Londra. A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.
A Strasburgo non ci sono stati solo vetri rotti…
“Quando c’è la rabbia è inevitabile. Io ho paura che possa esserci una reazione esagerata a questi episodi e una criminalizzazione di qualsiasi forma di protesta. Meno male che in questo momento molti poliziotti solidarizzano con i manifestanti, visto che sono colpiti anche loro dagli effetti della crisi”.

Abbiamo cominciato questa conversazione dalla manifestazioni di Londra contro il G20. Qual è il suo giudizio sul risultato del summit?
“Delusione. La retorica ha coperto e nascosto la portata delle decisioni. Gordon Brown ha solennemente dichiarato che è finita l’era del Washington consensus. Invece, poi è stato deciso di stanziare un trilione di dollari alla Banca mondiale e al Fondo monetario che sono sempre stati lo strumento del Washington consensus”. (Beh, buona giornata).

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A Londra contro il G20, a Strasburgo contro la Nato. Mentre si preannunciano quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga sale la protesta contro la crisi economica.

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine», maggio 2009

Da Londra a Strasburgo, dal G20 dell’economia ai ventotto della NATO. In entrambe, la cornice di circa cinquantamila manifestanti. Pacifisti, ma non sempre pacifici. E poi botte e botti, vetri spaccati, arresti, feriti, e anche un morto. Sono oramai decenni che i vertici internazionali, oltre a radunare un’élite di paesi autoeletti, suscitano estese e vigorose adunate di piazza. Da qualche tempo però il termometro dei movimenti dava segnali di stanchezza. Quel tempo ora sembra finito, sulla scia di una recessione che tende a saldare le diverse istanze di protesta, sdoganando al contempo la possibilità di violenza.

A Londra i promotori della manifestazione si aspettavano diecimila persone al massimo, ne sono giunte almeno quattro volte tanto. Un livello di partecipazione inusuale per i britannici, con operai, contadini e famiglie intere giunti da ogni angolo del paese. A favorire il successo collettivo è stata del resto una coalizione senza precedenti tra le organizzazioni di base. La marcia di fine marzo, sotto il motto di Put People First (“mettete le persone al vertice all’agenda”), era stata mobilitata da un’“alleanza arcobaleno” senza precedenti, annoverando centocinquanta entità, tra sindacati, gruppi cristiani, associazioni ambientaliste, ong di cooperazione internazionale, movimenti pacifisti, sigle politiche e anarchiche.

Tutti a rivendicare la stessa cosa: “lavoro, giustizia e clima”. E tutti a intonare slogan esplicitamente anticapitalisti. Operatori umanitari di Save The Children che urlavano contro la logica del profitto, ecologisti di Friends of the Earth che se la prendevano con le agenzie di credito. Dopo vent’anni di assenza, la politica ha rifatto irruzione anche in ambienti per definizione a-politici. Ed è successo a partire dal riconoscimento del fatto che l’opposizione alla guerra non è un’istanza diversa dalla rivendicazione dei diritti sociali, né dalla lotta per un’economia a minor dispendio energetico. Sono enunciazioni alternative di una medesima problematica, che viene oramai riconosciuta nella richiesta condivisa di una svolta di sistema.

Altro che “usual stuff”, come hanno commentato la manifestazione parecchi politici ed editorialisti d’oltremanica. A Londra è andata in scena una ribellione collettiva quanto radicale. Di più, è tornata la violenza, raccogliendo sottilmente un esteso consenso. Quasi tutti i gruppi presenti invocavano ufficialmente un fermo no a ogni proposito di scontri o saccheggi, per non dividere il movimento e non offuscare i contenuti della protesta. Sta di fatto che perfino docenti universitari, come l’antropologo Chris Knight (poi prontamente sospeso dalla East London University), erano giunti nei giorni precedenti a ipotizzare il “linciaggio” e l’“impiccagione” dei banchieri.

E sta di fatto che i dimostranti hanno poi tenuto per ore sotto assedio le sedi delle banche, arrivando anche a irrompere e a innescare un rogo nella Royal Bank of Scotland, icona della crisi e dell’aiuto di Stato accompagnato da laute buonuscite per i dirigenti. La stessa Scotland Yard ha del resto giocato col fuoco, alimentando nei giorni precedenti l’allarme di una manifestazione “molto violenta”, per poi rivendicare il merito del suo successivo contenimento e giustificare i propri eccessi. D

alla polizia anche l’allerta, su cui aveva ironizzato Knight, per l’incolumità degli impiegati della City: su questo nulla di fatto, naturalmente, proprio in ragione della radicalità della protesta; a differenza dei governi, i manifestanti non ce l’avevano contro una “finanza cattiva” distinta da una “buona”: ce l’hanno col modello finanziario nel suo insieme, a partire dai meccanismi debitori di orientamento politico imposti dal Fondo Monetario Internazionale, al quale il summit londinese ha concesso una nuova linfa da mille miliardi di dollari.

I tafferugli, comunque, ci sono stati, con manganelli e lacrimogeni, e una trentina di arresti. E poi Ian Tomlinson, “morto per un malore”, anche se decine di testimoni raccontano di una situazione di “omicidio colposo”, ovvero del decesso avvenuto durante la fuga da un’immotivata carica della polizia contro un assembramento pacifico.

La morte di Tomlinson ha contribuito a scaldare gli animi nella successiva adunata qualche giorno più tardi a Strasburgo. Il rigetto della versione ufficiale dei fatti si è accompagnato al sentimento che con una manifestazione pacifica c’è poco da perdere in termini di rischi di incolumità personale e poco da guadagnare in termini di capacità di influenzare i vertici della più grande alleanza militare al mondo. Lo aveva avvertito la storica francese Sophie Wahnich dalle colonne di «Le Monde»: il contesto che precedette la violenza della rivoluzione francese è significativamente analogo a quello odierno. La Francia resta la patria degli individui, col più basso tasso di sindacalizzazione in Europa, e questo, ai fatti, non inibisce ma scatena il potenziale di irruenti ed estese manifestazioni di piazza. I sindacati, così come gli altri movimenti associativi, hanno poi un’essenziale capacità di “auto-trattenimento della violenza”, ma questa capacità viene meno quando è l’autorità a rendersene protagonista in modo indiscriminato, e quando il disagio sociale è tale da coinvolgere il ceto medio. Tutte condizioni che, almeno nella percezione dei dimostranti, sono ora riemerse in modo lampante, e Strasburgo ne è stata la conseguenza esemplare.

Le strade della riunione della NATO sono state un vero e proprio campo di battaglia. Ordigni artigianali, pallottole di gomma, sassaiole, idranti, offensive dei manifestanti verso i poliziotti e viceversa, autobus e tram bloccati, vetrine di banche e negozi sventrate, un albergo del centro messo a fuoco, assalti (vani) a un ponte e alle strade percorse dai capi di Stato e di governo allo scopo di bloccare il vertice stesso. Quel vertice che ha poi sancito l’allargamento dell’Alleanza Atlantica nei Balcani, con l’ingresso di Croazia e Albania, e il rafforzamento dell’offensiva lanciata oltre sette anni fa in Afganistan attraverso l’invio di altre migliaia di soldati.

«Da noi solo vetri rotti», giustificavano diversi manifestanti, che hanno del resto sofferto parecchie decine di feriti e centinaia di arresti, oltre al blocco di molti alla frontiera franco-tedesca prima ancora che il summit iniziasse. A ritenere lo scontro un’opzione ineluttabile, in ragione della sproporzione delle forze in campo e delle azioni belliche ordinate dalla Nato, non era solo qualche frangia “black-bloc”: spaccature e litigi tra dimostranti violenti e non-violenti ci sono state, ma il fronte dei primi andava ben oltre la cerchia abituale dei cosiddetti “anarco-insurrezionalisti”. Secondo «il manifesto» ha coinvolto addirittura la metà del corteo.

Ogni tentativo, giornalistico o poliziesco, di dividere il dissenso isolando i bellicosi è del tutto saltato a Strasburgo. Come a Londra, le categorie ideologiche e le appartenenze di gruppo si sono confuse le une con le altre. In manette sono finiti perfino quieti ecologisti, colpevoli di cercare di conquistare il citato ponte sul Meno tuffandosi nelle acque gelide del fiume. E mentre Obama raccoglieva ovazioni nel Palazzo dello Sport tra l’élite studentesca accuratamente selezionata dal governo francese assieme all’amministrazione regionale, la rabbia della strada raccoglieva il consenso dei “banlieusards” del posto.

Lontano dai riflettori dei summit e dalla quiete delle sedi europee, la periferia della capitale alsaziana è del resto terreno quotidiano di scontri, sassaiole e gomme tagliate. Segnali drammatici di un disagio crescente, che avvicina progressivamente le decine di centri sociali cittadini col proletariato locale. Ed è una saldatura che trova sempre più riscontro nella protesta dilagante in tutta Europa.

Le manifestazioni di piazza hanno fatto crollare nelle ultime settimane i governi in Islanda, in Lettonia e in Ungheria. Dublino è stata attraversata da cortei senza precedenti con centinaia di migliaia di operai e impiegati a protestare contro gli ennesimi tagli di bilancio che hanno frantumato il potere d’acquisto irlandese fino a portare il paese sull’orlo della bancarotta. A Vilnius i dimostranti hanno preso addirittura d’assalto il Parlamento dopo l’annuncio di un rialzo delle imposte per i lavoratori dipendenti.

E si muove ora anche la Confederazione dei Sindacati Europei, storicamente confinata a funzioni di rappresentanza presso le istituzioni dell’Unione. Per metà maggio sta mobilitando quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga. Segnali di una protesta che oramai varca i confini nazionali, oltre che quelli tematici e ideologici. Ed è un disagio che, armato di pietre e bastoni, non esita a definirsi «resistenza». (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

“Mi chiedo, che c’entra con il messaggio Biblico evangelico l’imposizione a TUTTI, con legge dello Stato di una propria personale intima scelta etica e antropologica?”

di don Andrea Gallo

I tempi sono cattivi, o almeno mutevoli ed aspri. Il volto della Chiesa è tornato arcigno. Il Cardinale Walter Kasper ha detto che dopo la stagione conciliare la Chiesa ha ripreso ad aver paura del proprio coraggio. Abbiamo bisogno di essere in tanti a pensare e credere, a immaginare il futuro ed affrontarlo con gioia e coraggio, senza presunzioni di conquista ma senza timidezze. Un dialogo aperto e franco, nella Carità, è la strada giusta.

Il clima generale della Società e della Chiesa è oggi piuttosto depresso,scoraggiato. Abbiamo molta paura. I giovani temono l’assenza di futuro. Il Vangelo riscaldi il cuore di tutti i Cristiani e lo renda così generoso da sopportare di buon grado tutti i vicini, senza esclusioni,e da amare i lontani…Le accuse, gli insulti, le polemiche, sono sterili, altrimenti si finisce per non vedere neppure più le cose belle e talora straordinarie che pure accadono, nella Chiesa: è mirabilia Dei.

Si vuole una legge sul testamento biologico che nega i principi di libertà e dignità della Persona stabiliti dalla nostra Costituzione.
Siamo davanti ad una feroce truffa.
Mi domando: se tra cento anni i principi bioetici affermati oggi con granitica sicurezza della Chiesa, sostenuta dal centro-destra e da zelanti parlamentari cattolici del PD, UDC, saranno i medesimi, o se invece finiranno per essere rivisti, come lo sono stati i principi della morale “sociale” che sono stati condannati per secoli e che “ora” invece la Chiesa stessa riconosce : libertà di stampa, libertà di coscienza, libertà religiosa e in genere i diritti delle democrazie liberali. Sono pienamente d’accordo con il teologo Vito Mancuso (Repubblica 9-3).

I cattolici intransigenti che oggi parlano della libertà di autodeterminazione definendola “relativismo cristiano”, dovrebbero estendere l’accusa al Vaticano II il quale afferma che “l’Uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà (Gaudium et spes . 17)”
E’ del tutto chiaro che per ogni credente che la libertà non è fine a se stessa ma all’adesione al bene e al vero; ma è altrettanto chiaro che non si può dare adesione umana se non libera.
Dalla libertà che decide non è possibile esimersi, e questo non è relativismo, ma il cuore del giudizio morale.
Da cittadino ultra-ottantenne, cristiano, prete di Santa Madre Chiesa dal 1959, con Papa Giovanni felicemente sulla Cattedra di Pietro, coordinatore di Comunità degli ultimi, dei perdenti, dei sofferenti, non mi sento di cantar vittoria col Ministro Sacconi, al grido:”D’ora in poi non sarà possibile un altro caso Englaro”.
Vorrei citare a questo proposito, il Parroco di Paluzza al funerale di Eluana “Chi sono io per giudicare?”.

I Cristiani non chiedano ai non credenti quello che essi non possono dare: non chiedano atti di Fede, trasformati in Legge nelle loro proprie posizioni legittime. Non chiedano di accogliere convinzioni dogmatiche nella politica,ma sappiano presentare il loro messaggio in termini antropologici tali che i non credenti possano percepire in essi la volontà e il progetto del servizio reso all’Uomo e alla Società.
Che significato abbiano, in questo quadro interpretativo, vite ridotte a pura biologia, è una irrinunciabile interrogazione.
Chi può dire, dalla Gerarchia al Parlamento, alla Scienza di avere le uniche risposte ultimative e convincenti?
Mi chiedo, che c’entra con il messaggio Biblico evangelico l’imposizione a TUTTI, con legge dello Stato di una propria personale intima scelta etica e antropologica?
Il Dio che mi hanno trasmesso e in cui ho imparato a credere, il Dio che nutre la mia difficile, ma amata speranza cristiana, sicuramente non è un Dio che sa dire soltanto NO alla libertà, alla coscienza, ad ogni forma d’autonomia personale. Non è un Dio che fa del dono gratuito della vita, una clava, un carcere.

Desidero con tutto il cuore e doverosamente verificarmi col Vescovo, con le sorelle e i fratelli davanti alla Croce nella prossima Settimana Santa. La porta di San Benedetto è aperta.
Decisamente affermo, anche con sofferenza,: non sono disponibile per nessuna “crociata”integralista.
E’ per imitare, anche se malamente, l’atteggiamento misericordioso di Cristo che rinnovo oggi il mio Battesimo Cristiano, altrimenti la mia appartenenza alla Chiesa non avrebbe senso. (Beh, buona giornata).

Don Andrea Gallo
Coordinatore Comunità San Benedetto al Porto

Genova, 28 marzo 2009

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Attualità Popoli e politiche

Huston, avete un problema: sono tornati i comunisti.

da repubblica.it

Dopo oltre dieci anni di separazione, i Comunisti italiani e Rifondazione comunista ritentano un percorso comune. Oggi a Roma Paolo Ferrero e Oliviero Diliberto hanno presentato la lista unitaria per le elezioni europee anche insieme a Socialismo 2000 di Cesare Salvi e ai Consumatori uniti di Bruno De Vita. Una lista “anticapitalista”, come recita il documento diffuso alla stampa, con l’auspicio di non limitarsi ad un cartello elettorale imposto dallo sbarramento del 4%: “Le forze che danno vita alla lista – recita il documento firmato dai quattro partiti – si impegnano a continuare il coordinamento della loro iniziativa politica anche dopo le elezioni europee”.

Il simbolo è composto da una bandiera rossa con la falce e martello gialla, su uno sfondo bianco. Sopra la scritta “Rifondazione”, sotto “Comunisti italiani”. Tutto intorno un anello rosso, con le scritte “Socialismo 2000” e “Consumatori uniti”.

Un momento da marcare con soddisfazione per Diliberto, un passaggi di fase: “Finalmente i comunisti tornano a presentarsi uniti alle elezioni dopo tanti anni. Torna la falce e martello sulle schede; o meglio, per la prima volta da tanto tempo ci sarà solo ‘una’ falce e martello”. L’obiettivo, spiega Ferrero, è “Costruire la sinistra in Italia e in Europa. Chi vota questa lista sa cosa vota. Noi aderiremo al gruppo unito della sinistra in Europa, che fa opposizione politica al trattato di Maastricht e al trattato di Lisbona, che sono all’origine di questa crisi economica”. Una sinistra “che unisce le forze che vogliono battersi per un’alternativa di sistema”. Non come fanno gli altri, dal Pdl al Pd passando per Idv, aggiunge Ferrero, che “si scannano in campagna elettorale per poi votare insieme l’80% delle decisioni che vengono prese al parlamento europeo. E per quanto riguarda il Pd, così come la sinistra democratica, non si sa ancora dove andranno a sedere in Europa”.

E se Diliberto parla di una sorta di “ricongiungimento familiare”, Salvi riconosce che “purtroppo non è stato possibile fare una lista unitaria di tutta la sinistra”, dal momento che Sd, Rps, verdi e socialisti hanno preso un’altra strada. Ma il progetto della lista “anticapitalista”, spiega, “mi ha convinto, perché è necessario contrastare la deriva berlusconiana”. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

L’operazione Piombo Fuso e quelle maledette magliette.

Le magliette che mostrano la disposizione mentale che ha portato ai crimini di Guerra a Gaza – 24/03/09
di Adam Horowitz – da Mondoweiss (Fonte: megachip.info).

«Ha’aretz» prosegue con la pubblicazione delle testimonianze dei soldati impiegati a Gaza. L’articolo completo si trova qui. È interessante perché mostra senza riserve il fervore messianico che alimentava la politica di punizione collettiva perseguita dal governo israeliano durante l’Operazione Piombo Fuso. Non lo commenterò ulteriormente, andate a leggerlo.

Voglio parlare di un altro articolo, pubblicato proprio oggi da «Ha’aretz». Il pezzo è firmato da Uri Blau ed è intitolato “Se non lasciate vergini non ci saranno attentati”. Si incentra sull’abitudine dei soldati israeliani di farsi stampare maglie personalizzate che recano il logo della loro unità insieme a slogan di vario tipo. Di seguito, potete vedere qualche esempio di queste magliette e della grafica che le adorna. Queste immagini sono comparse solo sull’edizione in lingua ebraica del sito di «Ha’aretz»:

– Una T-shirt per cecchini di fanteria reca la frase “Meglio usare Durex” vicino al disegno di un bambino palestinese morto, con accanto sua madre in lacrime ed un orsacchiotto.
– Un’altra maglietta per cecchini della Brigata Givati mostra una donna palestinese incinta con un mirino stampato sul ventre e lo slogan, scritto in inglese, “1 proiettile, 2 morti.”
– Dopo l’Operazione Piombo Fuso, i soldati dello stesso battaglione hanno incominciato ad indossare una maglia che mostra il primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, che viene penetrato per via anale da un avvoltoio.
– Una T-shirt dedicata ai soldati che hanno completato il corso di cecchino: si vede un bimbo palestinese che cresce fino a diventare un teenager aggressivo e poi un adulto armato. Lo slogan: “Non importa come comincia, noi lo concluderemo.”
– Ci sono anche magliette dal contenuto spodoratamente sessuale. Il battaglione Lavi, ad esempio, ha diffuso una T-shirt che mostra un soldato con accanto una ragazza contusa e la frase: “Scommetto che ti hanno stuprata!”
– Alcune delle immagini sottolineano azioni che l’esercito ha ufficialmente negato, come la pratica di “confermare i morti” (sparare in testa ai cadaveri, per assicurarsi della loro effettiva dipartita), o quella di danneggiare i luoghi di culto, o di uccidere donne e bambini.

La maglietta con lo slogan “Fai sì che ogni madre araba sappia che il futuro di suo figlio è nelle mie mani!” è stata recentemente bandita. Comunque, un soldato della Brigata Givati ha dichiarato che, negli ultimi mesi dell’anno scorso, il suo plotone ha fatto stampare dozzine di magliette, felpe e pantaloni con questa dicitura.
“Vi era disegnato un soldato come fosse l’Angelo della Morte, con accanto una città araba ed un’arma da fuoco.” dice un soldato “Il messaggio era molto forte. La cosa più divertente è che quando uno dei nostri è andato a ritirare le magliette, l’uomo che le aveva stampate era un arabo. Il soldato si è sentito in colpa ed ha chiesto ad una ragazzina al bancone di portargliele.”
Nel 2006, i soldati che avevano partecipato al corso “Carmon Team” per cecchini d’elite hanno stampato una T-shirt che mostrava il disegno di un arabo armato di coltello e la frase “Dovrai correre molto, molto, molto veloce prima che sia finita”. Sotto, il disegno di una donna araba che piange su una lapide e lo slogan: “E dopo piangerai, piangerai.” [Queste frasi sono prese dal testo di una canzone pop.]
Un’altra maglia per cecchini mostra un ennesimo arabo nel mirino e l’annuncio: “Lo facciamo con le migliori intenzioni.”
Una T-shirt stampata dopo l’Operazione Piombo Fuso per il Battaglione 890 dei paracadutisti mostra un soldato con le fattezze di King Kong in una città sotto attacco. Il messaggio non lascia spazio ad ambiguità: “Se credi che si possa aggiustare, allora convinciti che si può distruggere!”

Queste magliette, prima di essere stampate, devono essere approvate dai comandanti dell’esercito. Sono una tradizione militare, anche se la loro natura esplicita è per certi versi nuova. Orna Sasson-Levy, sociologo dell’Università di Bar-Ilan, afferma che le T-shirt “fanno parte di una radicalizzazione del processo che l’intera nazione sta attraversando: i soldati sono solo l’avanguardia”. L’attivista israeliano Sergeiy Sandler, impegnato da anni in campagne contro il militarismo insieme all’associazione New Profile, ci ha mandato questo articolo via mail, spiegandoci che le magliette sono “una duratura tradizione delle unità militari israeliane; si possono trovare ovunque, sulle bancarelle, anche se generalmente hanno slogan meno oltraggiosi. Un immagine vale mille parole, non trovi?”

Non credo che questo tipo di T-shirt siano un’esclusiva di Israele. Scommetto che ne sono state create anche per i soldati statunitensi in Iraq. Ma le maglie indicano un ambiente in cui è permesso, se non incoraggiato, il compiere crimini di guerra. Riflettono una mentalità in cui la vita palestinese è vista con disdegno e spesso non è neanche riconosciuta come tale. Uno dei soldati lo ha spiegato chiaramente, durante la testimonianza in cui ha descritto l’omicidio di una madre e dei suoi due bambini: “…l’atmosfera generale, per quello che ho capito dalla gran parte dei colleghi con cui ho parlato… non so come descriverla… diciamo che le vite dei palestinesi hanno molta, molta meno importanza delle vite dei nostri soldati. Per quello che li riguarda, giustificano in questo modo ogni loro azione.” (Beh, buona giornata).

Articolo originale: http://www.philipweiss.org/mondoweiss/2009/03/racist-and-sexist-military-shirts-show-the-fruits-of-israeli-militarism.html
Traduzione a cura di Massimo Spiga per Megachip

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Ecco come la legge sul testamento biologico appena votata dal Senato viola i nostri diritti civili.

(Fonte: ilmessaggero.it)

Approvato al Senato il ddl sul testamento biologico passa alla Camera. Il testo mantiene il principio dell’obbligatorietà dei trattamenti di nutrizione e idratazione, considerati «sostegno vitale» e dunque non sospendibili (come già previsto nella versione originaria del ddl). Le dat, per effetto dell’approvazione di un emendamento dell’Udc, diventano però non vincolanti.

Questi i contenuti del ddl:

Tutela della vita e della salute, articolo 1 – Si stabiliscono i principi generali della legge, ovvero che la vita umana è «inviolabile e indisponibile» e che «nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato». Si vieta «ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio». A tal riguardo, si fa riferimento agli articoli 575, 579 e 580 del Codice penale, che prevedono il carcere per il medico che attui eutanasia o suicidio assistito. Rispetto alla versione originaria dell’art.1, nel testo approvato dal Senato si annulla la partecipazione del paziente all’identificazione delle cure. In pratica, un emendamento per prevenire il rischio di contenziosi nei confronti dei medici. Scompare inoltre il riferimento all’accanimento terapeutico.

Consenso informato, articolo 2 – Si definisce il concetto di consenso informato ai fini dell’attivazione dei trattamenti sanitari. Con l’approvazione di un emendamento a prima firma Rutelli, si riconosce, rispetto alla versione originaria, il diritto di parola ai minorenni nell’espressione del consenso.

Contenuti e limiti delle Dat, articolo 3 – È l’articolo che affronta il nodo della nutrizione e idratazione artificiale. Come nella versione originaria del ddl, si afferma (comma 6) che «alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di Dichiarazione anticipata di trattamento». Sono stati invece cancellati dall’articolo due riferimenti lessicali all’accanimento terapeutico, con l’obiettivo di fatto di delineare in maniera più precisa il ‘nò ad ogni eventuale rischio di apertura all’eutanasia. Nella versione dell’articolo 3 approvata dal Senato viene inoltre semplificata la composizione del collegio di medici chiamato a valutare lo stato clinico del paziente: gli specialisti passano da cinque a tre (un medico legale, un anestesista-rianimatore ed un neurologo, sentiti medico curante e medico specialista).

Forma e durata delle Dat, articolo 4 – Le dat non sono obbligatorie. Nella versione approvata dal Senato, le dat diventano inoltre non vincolanti. Esse hanno validità per 5 anni, termine oltre il quale perdono «ogni efficacia».

Assistenza ai soggetti in stato vegetativo, articolo 5 – Si stabilisce che il ministro del Welfare «adotta le linee guida cui le regioni si conformano nell’assicurare l’assistenza domiciliare per i soggetti in stato vegetativo permanente».

Fiduciario, articolo 6 – Nella versione approvata, la figura del fiduciario viene inserita all’interno di limiti precisi: dal testo scompaiono infatti i riferimenti al ruolo del fiduciario nel promuovere e far rispettare le Dat espresse del soggetto.

Ruolo del medico – Prevede che le volontà espresse dal soggetto nelle dat «sono prese in considerazione dal medico curante». Il medico «non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente» e «non è tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico».

Autorizzazione giudiziaria, articolo 8 – Prescrive l’autorizzazione giudiziaria in caso di assenza del fiduciario ad esprimere il consenso al trattamento sanitario.

Disposizioni finali, articolo 9 – Si istituisce il Registro delle dat nell’ambito di un archivio unico nazionale informatico. Il titolare è il ministero del Welfare. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Il Senato approva la legge sul testamento biologico che voleva il Card. Bagnasco.

L’ EGEMONIA PERDUTA
di Stefano Rodotà. (da Repubblica — 24 marzo 2009)

UN MONDO vastissimo, compresi molti cattolici, è rimasto sbalordito di fronte ad alcune affermazioni del Papa, governo e istituzioni internazionali hanno protestato e i vescovi italiani, invece di interrogarsi seriamente e criticamente su una vicenda così grave, la trasformano in un pretesto per lanciare un proclama intimidatorio, un vero e proprio diktat al quale Parlamento e politica italiana dovrebbero inchinarsi. Non è nuova l’ arroganza di una politica vaticana che, debole nel mondo, cerca occasioni di rivincita nel giardino di casa, in questa povera Italia che, presentata come il luogo dal quale doveva partire la riconquista cattolica del mondo, appare sempre di più come un fortilizio dove una gerarchia disorientata cerca di rassicurare se stessa alzando la voce.

Con parole forti si vuole imporre l’ approvazione di una legge sul testamento biologico sgangherata e incostituzionale, lesiva dei diritti delle persone. Si urla contro una deriva verso l’ eutanasia mentre il Senato sta discutendo un disegno di legge lontanissimo dall’ apertura che, su questo tema, hanno mostrato le conferenze episcopali di Germania e Spagna. Siamo di fronte ad una prova di forza, alla volontà vaticana di sottomettere il Parlamento. Sono in gioco proprio la sovranità parlamentare e, con essa, l’ autonomia dello Stato. Una inerzia colpevole, una pavidità delle istituzioni lascerebbero oggi un segno profondo sulla stessa democrazia. E un intervento così diretto può addirittura far venire il sospetto che si voglia incidere sulle dinamiche interne del nascente Pdl, chiudendo ogni spiraglio di laicità e autonomia

I governi di Francia e Germania, l’ Unione europea, il Fondo monetario internazionale avevano criticato le parole del Papa sull’ uso del preservativo, con una presa di distanza che metteva in discussione il ruolo internazionale della Chiesa. Il governo tedescoè guidato da una donna cattolica, Benedetto XVI aveva compiuto un viaggio in Francia accompagnato da parole imp e g n a t i v e d e l p r e s i d e n t e Sarkozy sulla necessità di passare ad una laicità “positiva”, parole che lo stesso presidente aveva già pronunciato in occasione della sua visita ufficiale a Roma. Assume grande significato, allora, la decisione di governi “amici” di non riconoscersi nelle posizioni della Chiesa. A ciò dev’ essere aggiunta la decisione di Obama di firmare la dichiarazione sui diritti degli omosessuali, proposta all’ Onu proprio dalla Francia e che aveva suscitato una durissima reazione del Vaticano.

Viene così respinta la pretesa vaticana di dettare al mondo la linea etica su grandi temi della vita, ed emerge un isolamento che non è solo diplomatico, ma rivela una perdita di egemonia culturale. Ora il tema del conflitto è costituito dalla legge sul testamento biologico. Tardivamente ci si è accorti di quanto fosse saggia la richiesta di moratoria, di un tempo di riflessione che allontanasse emozioni e strumentalizzazioni nell’ affrontare un tema che riguarda la libertà stessa delle persone.

Forse anche i cento “ribelli” del Pdl che hanno firmato contro i medici-spia dovrebbero rendersi conto che quella legge è anch’ essa profondamente negatrice di diritti e che è necessaria una riflessione più profonda sui rischi di un uso sbrigativo e autoritario dello strumento giuridico. Riflessione, peraltro, che dovrebbe essere estesa ad altre materie, anch’ esse affrontate finora in modo sbrigativo. Non ci si è accorti dei rischi dello stillicidio di norme che riducono la tutela della privacy, della pericolosità di proposte che vogliono introdurre controlli e censure per Internet, della disinvoltura con la quale sono state approvate in prima lettura le norme sulla banca del Dna.

Se la nuova sensibilità per la dimensione dei diritti non è solo una fiammata, di tutto questo è bene che si cominci a discutere seriamente e fino in fondo. Moratoria o non moratoria, è indispensabile ribadire in ogni momento che il testo della maggioranza sul testamento biologicoè un ammasso di incostituzionalità, di regressioni normative, di piccoli deliri burocratici e linguistici, di procedure che produrranno nuove contraddizioni e nuove angosce. Non vi sono astuzie parlamentari che possano redimere quel testo dai suoi peccati. Ricordiamo che appena ieri, a fine dicembre dunque già nel fuoco della polemica sul caso Englaro, la sentenza 438 della Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ autodeterminazione costituisce un “diritto fondamentale” della persona. Come si concilia con questo diritto la pratica cancellazione del consenso informato, la sua degradazione da manifestazione di volontà a semplice “orientamento”, come fa il testo di maggioranza? Come non vedere che, dietro una versione assai fumosa della formula dell’ “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, il potere sul morire viene consegnato ai medici, facendo enormemente e impropriamente crescere la loro responsabilità? Come non vedere che il rifiuto da parte del medico di dare attuazione alle direttive anticipate creerà nuovi drammi, nuove rappresentazioni pubbliche del dolore e ricorsi che trasferiranno al giudice la decisione finale sul morire, cioè esattamente quello su cui si è tanto polemizzato?

Sono interrogativi provocati da pervicacia politica e incultura, dal fatto che la dimensione costituzionale non appartiene a questo governo e questa maggioranza, che vogliono cogliere ogni occasione per cercar di liberarsene. Proprio per questo si cerca di costruire una Costituzione abusiva, dove la possibilità di imporre per legge trattamenti obbligatori è svincolata dall’ unica sua premessa costituzionalmente corretta, il rischio per la salute pubblica, come hanno sempre messo in evidenza gli studiosi (venerata ombra di Costantino Mortati, grande costituente cattolico, manifestati!); dove si propongono indecorosi pasticci tra rifiuto delle cure e vendita di organi; dove il rispetto della dignità è convertito in strumento per imporre una misura della dignità in conflitto con la libertà di scelta della persona. Una vigile attenzione per i diritti dovrebbe segnare la discussione politica, il primo passo dovrebbe essere appunto il ritorno pieno nella dimensione costituzionale. E, insieme ad esso, i legislatori dovrebbero interrogarsi sui limiti della legge, su quanto si addica alla vita “l’ ipotesi del non diritto”, che attribuisce alla norma giuridica non un illimitato potere di ingerenza, ma la funzione di costruire le condizioni necessarie perché ciascuno possa decidere liberamente. – (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Quando il Papa parla.

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è forse una parte di verità in quello che si dice delle ultime parole e azioni di Benedetto XVI: comunicare quel che pensa gli è particolarmente difficile. Sempre s’impantana, mal aiutato da chi lo circonda. Sempre è in agguato il passo falso, precipitoso, mal capito. Il pontefice stesso, nella lettera scritta ai vescovi dopo aver revocato la scomunica ai lefebvriani, enumera gli errori di gestione sfociati in disavventura imprevedibile. Confessa di non aver saputo nulla delle opinioni del vescovo Williamson sulla Shoah («Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema»). Ammette che portata e limiti della riconciliazione con gli scismatici «non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro». Poi tuttavia sono venuti altri gesti, e l’errore di gestione non basta più a spiegare. È venuta la scomunica ai medici che hanno fatto abortire una bambina in Brasile, stuprata e minacciata mortalmente perché gravida a 9 anni.

La scomunica, che colpisce anche la madre, è stata pronunciata da Don Sobrinho, arcivescovo di Olinda e Recife: il Vaticano l’ha approvata. Infine è venuta la frase del Papa sui profilattici, detta sull’aereo che lo portava in Africa: profilattici giudicati non solo insufficienti a proteggere dall’Aids – una verità evidente – ma perfino nocivi. C’è chi comincia a vedere patologie. Una quasi follia, dicono alcuni. L’ex premier francese Juppé parla di autismo. Sono spiegazioni che non aiutano a capire. C’è del metodo in questa follia. C’è il riaffiorare possente di un conservatorismo che ha seguaci e non è autistico. Sono più vicini al vero coloro che stanno tentando di resuscitare il Concilio Vaticano II, nel cinquantesimo anniversario del suo annuncio, e vedono nella disavventura papale qualcosa di più profondo: l’associazione Il Nostro 58, sorretta da Luigi Pedrazzi a Bologna, considera ad esempio la presente tempesta una prova spirituale.

Una prova per il Papa, per i cattolici, per la pòlis laica: l’occasione che riesumerà lo spirito conciliare o lo seppellirà. Non si è mai parlato tanto di Concilio come in queste settimane che sembrano svuotarlo. Le figure di Giovanni XXIII e Paolo VI risaltano più che mai. Chi legga l’ultimo libro di Alberto Melloni sul Papa buono capirà più profondamente quel che successe allora, che succede oggi. Capirà che quello straordinario Concilio è appena cominciato, e avversato oggi come allora. Quando Papa Roncalli lo annunciò, il 25 gennaio ’58 nella basilica di San Paolo, solo 24 cardinali su 74 aderirono (7 nella curia). Inutile invocare un Concilio Vaticano III se il secondo è ai primordi. Eppure son tante le parole papali che contraddicono errori, avventatezze. Il filosofo Giovanni Reale sul Corriere della Sera ne ricorda una: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica sull’Amore). Se in principio non c’è un dogma ideologico diventa inspiegabile la durezza vaticana sul fine vita, conclude Reale. Diventa inspiegabile anche la chiusura su profilattici e controllo delle nascite in Africa, dove Aids e sovrappopolazione sono flagelli. In realtà il Papa sostiene, nella lettera ai vescovi, che «il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini, e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento».

È un annuncio singolare, perché chi certifica la catastrofe? E il certificatore non tenderà a un potere fine a se stesso? Se Dio davvero scompare, tanto più indispensabile è l’autorità del suo vicario: una tentazione non del Papa forse – che nell’orizzonte nuovo pareva credere – ma di parte della Chiesa. L’auctoritas diventa più importante dell’incontro con Gesù: urge affermarla a ogni costo. Così come più importante diventa la gerarchia, rigida, astratta, dei valori. In un orizzonte vuoto non restano che astrazione e potere. L’arcivescovo brasiliano afferma il monopolio sui valori, innanzitutto: «La legge di Dio è superiore a quella degli uomini»; «L’aborto è molto più grave dello stupro. In un caso la vittima è adulta, nell’altro un innocente indifeso». E si è felicitato degli elogi del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione dei vescovi. Né Sobrinho né Re vedono l’uomo: né l’uno né l’altro vedono che la bambina ingravidata non è adulta. Non vedono l’essere umano, il legno storto di cui è fatto: proprio quello che invece vide Giovanni XXIII, alla vigilia del Concilio. Melloni ricorda l’ultima pagina del Giornale dell’Anima di Roncalli, scritta il 24 maggio ’63, pochi giorni prima di morire: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere, anzitutto e dovunque, i diritti della persona umana e non solo quelli della chiesa cattolica. (…) Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». Comprenderlo meglio era «riconoscere i segni dei tempi».

O come dice Melloni: indagare l’oggi. Vedere nell’uomo in quanto tale il vangelo che parla alla Chiesa, e «non semplicemente il destinatario del messaggio, o il protagonista di un rifiuto, ovvero – peggio ancora – il mendicante ferito di un “senso” di cui la Chiesa sarebbe custode indenne e necessariamente arrogante» (Papa Giovanni, Einaudi, 2009). Questi mesi erranti e maldestri sono una prova perché gran parte della Chiesa non pensa come il Papa: dà il primato alla libertà, alla coscienza, sul dogma. Indaga l’oggi, specie dove l’uomo è pericolante come in Africa o nelle periferie occidentali. Ricordiamo Suor Emmanuelle, che a 63 anni decise di vivere con gli straccivendoli nei suburbi del Cairo, e un giorno scrisse una lettera a Giovanni Paolo II in cui illustrò la necessità delle pillole per bambine continuamente ingravidate. Lo narra in un libro scritto prima di morire (J’ai 100 ans et je voudrais vous dire, Plon). Distribuiva profilattici senza teorizzare su di essi. Giovanni Paolo II non rispose alla lettera. La sintonia con Ratzinger era forte. Ma il silenzio ha un pregio inestimabile, è un’apertura infinita all’umano. Suor Emmanuelle gli fu grata: disse che il suo silenzio era un balsamo. È il silenzio che oggi manca in Vaticano. Il silenzio che pensa, ha sete di sapienza, ascolta. Che non vede orizzonti vuoti. Il Vangelo è sempre lì, va solo compreso meglio. Contiene una verità che sempre riaffiora, quella detta da Gesù a Nicodemo: «Lo spirito soffia dove vuole. Ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va» (Giovanni 3,8). Soffia come il fato delle tragedie greche: innalzando gli impotenti, spezzando l’illusione della forza. Chi fa silenzio o è solitario lo lascia soffiare, afferrato dal mistero.

In Africa, il Papa ha accennato al «mito» della sua solitudine, dicendo che «gli viene da ridere», visto che ha tanti amici. Perché questo ridere? Come capire il dolore umano, senza solitudine? Cosa resta, se non l’ammirazione della forza (la forza numerica dei lefebvriani, evocata nella lettera del 12 marzo) e l’oblio di chi, impotente, incorre nell’anatema come il padre di Eluana, la madre della bambina brasiliana, i malati che si difendono come possono dall’Aids? Per questo quel che vive il Papa è prova e occasione. Prova per chi tuttora paventa gli aggiornamenti giovannei, e sembra voler affrettare la fine della Chiesa per rifarne una più pura. Prova per chi difende il Concilio come rottura e riscoperta di antichissima tradizione. La tradizione del rinascere dall’alto, dello spirito che soffia dove vuole: vicino a chi crede nei modi più diversi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Verso il Pdl: “La tendenza presidenzialista corre parallela all’affermarsi della ‘democrazia del pubblico’.”

di ILVO DIAMANTI da repubblica.it

LE polemiche sullo stravolgimento della nostra Costituzione trascurano un aspetto importante. Il nostro sistema istituzionale è già cambiato profondamente. Senza bisogno di grandi riforme, approvate in sede parlamentare oppure referendaria.

Ad esempio, siamo da tempo avviati verso il presidenzialismo. Anzitutto, attraverso il rafforzamento dell’esecutivo e, al suo interno, della figura del primo ministro (definito, non a caso, “premier”, echeggiando il modello inglese). Poi, attraverso la mutazione dei partiti, che oggi è improprio definire “personali” (secondo la nota formula di Mauro Calise, fra i più attenti a registrare questi cambiamenti). Meglio chiamarli, appunto, “presidenziali”. Perché tutti – e non solo l’archetipo Forza Italia – sono organizzati intorno a leader da proporre e imporre come candidati alla guida del governo del paese (ma anche degli enti locali). Al punto che, al momento del voto, sulle schede elettorali partiti e coalizioni accostano al proprio marchio il nome del candidato. Un segno di stravolgimento istituzionale, secondo Giovanni Sartori. Infine, il mutamento – per definizione – più visibile. Causa ed effetto degli altri. La mediatizzazione. La centralità assunta dai leader nella comunicazione politica.

Si tratta, ripetiamo, di un percorso comune ad altre democrazie occidentali. (Ne hanno fornito, di recente, una ricostruzione puntuale i politologi Thomas Poguntke and Paul Webb). Ma in Italia ha assunto un formato del tutto originale per l’interpretazione che ne ha dato Silvio Berlusconi. Un imprenditore mediatico, che conosce a fondo i meccanismi della comunicazione. E li possiede. In senso letterale. Berlusconi ha trasferito le logiche del marketing alla politica e ai partiti. Ne ha personalizzato l’immagine e il potere. Ha, inoltre, trasformato in modo rapido e profondo anche la forma di governo, rendendo il ruolo dell’esecutivo preminente sul Parlamento, come sottolinea il ricorso sempre più frequente alla legislazione per decreto (peraltro già abusata).

Alla preminenza dell’esecutivo sul Parlamento, d’altronde, si aggiunge la preminenza del premier sul governo. Che Berlusconi ha di fatto personalizzato. Visto che i ministri e i leader della maggioranza si incontrano a casa sua. A Palazzo Grazioli, Arcore, oppure nella sua villa in Sardegna. Dove riceve anche i “grandi della Terra”, secondo un modello monarchico, più che presidenziale. La tendenza presidenzialista, inoltre, corre parallela all’affermarsi della “democrazia del pubblico”, come la definisce il filosofo Bernard Manin. Dove il rapporto fra il leader e i cittadini diventa diretto, (im)mediato dai media. Una sorta di populismo mediatico che trasforma i cittadini in spettatori; misura il consenso per le politiche e i politici in base all’auditel.

Al principio di legittimazione offerto dal voto se ne è affiancato un altro, espresso dall’Opinione Pubblica. Descritta e, anzi, prodotta dai sondaggi riverberati dai media. Cittadini e Opinione Pubblica. Istituzioni e media. Berlusconi governa entrambi i settori. E li fa reagire, reciprocamente, in modo efficace. Utilizza l’Opinione Pubblica per rafforzare il potere sulle istituzioni ma anche sui cittadini. Per lui è naturale. Commentando i ripetuti sfoghi del premier, negli ultimi tempi, Vittorio Feltri, che se ne intende, ha scritto: “Berlusconi è talmente sincero che dice la verità anche quando racconta balle”. Ragionamento, peraltro, reversibile. Ma certamente Berlusconi è sincero quando esprime fastidio verso le procedure – ahimé lunghe e complesse – della democrazia rappresentativa. E avanza l’idea di far votare i capigruppo per tutti i parlamentari. È altrettanto sincero quando manifesta tutta la sua insofferenza verso le cariche dello Stato, che interferiscono troppo sulle decisioni del governo. Verso Giorgio Napolitano: il Presidente della Repubblica parlamentare. Ridotto, dal presidenzialismo all’italiana, a un contrappeso istituzionale. Un garante della Costituzione. Una specie di Magistrato. Quindi, per Berlusconi, un avversario. Verso Gianfranco Fini. I cui continui richiami, la cui pretesa di contrastare il solo, vero Presidente, a Berlusconi appaiono irritanti e inattuali. Le resistenze di un passato che non vuol passare. Con l’aggravante che Fini, leader di An, con le sue critiche, danneggia l’immagine monocratica del nascente Popolo della Libertà. Napolitano e Fini: colpevoli, di fronte a Berlusconi, di essere più “popolari” di lui.

D’altronde, per il premier, la legittimazione fondata sull’Opinione Pubblica conta più di quella costituzionale. Da ciò la polemica continua – quasi un mantra – contro i media, colpevoli di distorcere la realtà. La fretta di rimodellare il sistema radiotelevisivo pubblico (cioè, le nomine). L’irritazione verso Sky: concorrente, politicamente non condizionabile. L’intento di intervenire anche sui giornali “indipendenti” più importanti. Berlusconi. Ha bisogno di legittimarsi ancora e a lungo presso l’Opinione Pubblica per rafforzare la sua autorità sulle istituzioni e sui cittadini. Non può permettersi, come avvenne tra il 2001 e il 2006, che crescano l’insoddisfazione e insieme la sfiducia. Parafrasando quanto scrisse Ernest Renan a proposito della nazione: la democrazia del pubblico è un plebiscito di tutti i giorni. Una lotta quotidiana, dura e insidiosa. Per Berlusconi. Anche per la democrazia. Anche per noi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Lo scioglimento di An: “Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo.”

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it

OGGI Gianfranco Fini darà l’addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L’esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d’una propria identità, d’una propria egemonia che non deve disperdersi – così spera Fini – nel magma indistinto di Forza Italia.

Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l’inevitabile trascorrere del tempo che “va dintorno con le force”.

Si tratta d’una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio “libertà, eguaglianza, fraternità” in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.

E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l’unità contro le spinte centrifughe e l’eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l’economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.

Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell’atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell’impresa che non gli somiglia affatto anche il “boss dei boss”, il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?

Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l’attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell’opposizione riformista. Infine l’esito della crisi che infuria sull’economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.

Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent’anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza.

Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell’imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all’educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.

Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l’individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l’esaltazione della felicità immediata nell’immediato presente, l’antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.

Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull’incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.

Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell’amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi “colonnelli” hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati.

Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l’idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c’era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli.

Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all’Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L’esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.

Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l’attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione. Le analoghe dimensioni sono un’ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l’ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell’irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt’al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all’opposizione.

I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta “alta” sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.

Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.

Resta l’opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza. Franceschini è una scoperta e qualche risultato l’ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l’ha fatto, qualche punto di consenso l’ha riguadagnato. L’esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell’asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c’è e comincerà l’implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.

Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un’organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?

Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata. Nell’esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.

L’obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell’avvenire. (Beh, buona giornata).

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Attualità Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Il giudizio dell’ONU su i valori della Destra al governo in Italia.

“È evidente e crescente l’incidenza della discriminazione e delle violazioni dei diritti umani fondamentali nei confronti degli immigrati in Italia. Nel paese persistono razzismo e xenofobia anche verso richiedenti asilo e rifugiati, compresi i Rom. Chiediamo al governo di intervenire efficacemente per contrastare il clima di intolleranza e per garantire la tutela ai migranti, a prescindere dal loro status”. ILO, organizzazione internazionale del lavoro, dipartimento ONU dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche Scuola

Tornano di moda le cariche della polizia contro gli studenti.

di Iaia Vantaggiato da Il Manifesto

Roma, Parigi, Barcellona. E’ un’Onda lunga ma per niente anomala quella che oggi torna a protestare in gran parte d’Europa. “Sciopero in Onda, libertà in movimento» recitano gli striscioni mentre gli studenti contestano ovunque i tagli all’Università, la fine dell’istruzione pubblica e la presenza incontrastata “dei fascisti all’università”. Fascisti che, quanto meno a Roma, arredano le loro sedi con spranghe e catene. Un trend scellerato che attraversa l’Unione – Spagna di Zapatero compresa – con gli studenti da una parte che manifestano
pacificamente e le forze dell’ordine dall’altra che, orfane dei fasti di Genova e del G8, decidono di caricare.

Accade a Roma dove gli universitari hanno dato vita ad un corteo interno snodatosi tra i viali della Sapienza. Qualche lezione interrotta (e che sarà), i megafoni come unica arma e il tentativo di uscire dalla città universitaria per riversarsi nelle strade vicine: “Vogliamo andare nelle nostre strade: libertà di
movimento”. Ad attenderli, un cordone di poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa che caricano gli studenti respingendoli all’interno dell’ateneo
(“caricano”, “tenuta antisommossa”, ma in che anno siamo?) “secondo quanto previsto dal Protocollo di restrizione dei percorsi dei cortei a Roma”. E alla
carica, gli studenti rispondono con il lancio di oggetti e di scarpe: “Ce le eravamo portate per lanciarle davanti al ministero dell’Economia come hanno fatto in Francia”. E’ al secondo tentativo di forzare i blocchi – dopo un’assemblea autoconvocata – che gli agenti della Guardia di finanza effettuano una nuova “carica di alleggerimento”. I contusi fra gli studenti sarebbero decine. Difficile fare un bilancio, come spiegano i ragazzi, “perché se ne trovano ad ogni angolo della città universitaria”.
Accade a Parigi, la notte scorsa a Montmartre, in occasione della «notte delle università» organizzata nell’ambito della mobilitazione degli insegnanti-ricercatori contro le leggi di riforma del governo sulle università. Le agenzie parlano di atti di vandalismo, di vetrine di negozi, supermercati e banche
(banche? Che adesso le banche c’hanno pure le vetrine?) sfondate e di bottiglie lanciate contro la polizia. Non più di 150 persone, dicono i testimoni, peccato che di qualche migliaia di studenti parlino altre fonti. Le stesse migliaia di studenti che si erano riunite in serata nell’Università Paris VII nel XIII arrondissement, a est di Parigi, vicino alla Biblioteca Nazionale di
Francia Francois Mitterrand.
Accade a Barcellona dove altri incidenti fra polizia e studenti contrari alla riforma dell’università sono stati registrati in mattinata quando le forze dell’ordine hanno sgomberato con la forza gli edifici del rettorato – occupati da novembre – arrestando tre studenti. Centinaia di studenti hanno bloccato la Gran Via e sono stati caricati dalla polizia.
Tutto questo accade. E accade nella nostra democratica Europa. Quella che ha a cuore la pubblica e libera istruzione. (Beh, buona giornata).

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Lavoro Leggi e diritto Popoli e politiche

Immigrazione e lavoro nell’Italia ammalata di xenofobia.

di GIOVANNA ZINCONE da lastampa.it

Lavoro prima agli italiani» è una ricetta politicamente appetitosa. La crisi economica in corso sta producendo disoccupazione e la situazione è destinata a peggiorare, anche se non si arrivasse a sfondare il 10%, come prevede la Cgil. Si capisce quindi che i lavoratori italiani chiedano protezioni e tutele. Finora l’immagine dell’immigrato «ruba lavoro» aveva attecchito poco dalle nostre parti. I sondaggi effettuati in anni passati rivelavano la presenza di questo timore soprattutto in Germania a partire dagli Anni 90 e, di recente, in Gran Bretagna.

Da noi l’immigrazione finora aveva generato soprattutto paure legate a flussi fuori controllo: troppo rapidi e consistenti, pieni di irregolari e con una componente criminale vistosa.

Si tratta di preoccupazioni non prive di riscontri nella realtà, anche se amplificate dalla tradizionale diffidenza che gli umani provano nei confronti degli stranieri non danarosi. A questi incubi, già sufficientemente lievitati, se ne sta sommando un altro: quello di un’occupazione scarseggiante sottratta agli italiani da mani straniere. In un punteggio che va da 1 a 10, questa paura ha già superato la media del 5, mentre in passato il timore di essere spiazzati dagli stranieri riguardava solo un terzo circa degli intervistati. La ricetta che il leader leghista propone vuole sfamare una paura in crescita. Ma non è priva di controindicazioni. La nostra appartenenza alla Ue implica l’impossibilità di discriminare comunitari, quindi i romeni che sono la prima comunità immigrata in Italia. In secondo luogo, il meccanismo discriminatorio costituirebbe una lungaggine burocratica in più, dunque un passo indietro rispetto alla maggiore libertà e allo snellimento nelle pratiche di assunzione messi in atto con l’abolizione delle liste di collocamento. E in una congiuntura che richiede di non incentivare chiusure di attività in Italia e delocalizzazioni all’estero, rimettere fardelli burocratici e divieti nella gestione della forza lavoro sul territorio nazionale non giova. Aggiungo che forse neppure funzionerebbe. In Italia c’è già l’obbligo di verificare che non ci siano italiani o comunitari disponibili al momento di rilasciare permessi di lavoro a immigrati non comunitari. Quindi, in teoria, a nuovi immigrati da fuori. In pratica, tutti sappiamo che il grosso dei «nuovi» immigrati è costituito da individui che hanno già un datore di lavoro, di solito poco propenso a cercarsi un altro dipendente. Perciò la verifica di mancanza di alternative nazionali o comunitarie allo straniero riguarda già una parte di lavoratori stranieri, quelli teoricamente inseriti nei decreti flussi. E, in questo caso sperimentato, la precedenza si è risolta quasi sempre in un atto formale: i Centri per l’Impiego appendono in bacheca l’avviso di richiesta, lo mettono sul sito e spesso non si presentano candidati italiani. E poi, come in tutti i Paesi del mondo, anche nel nostro una gran parte delle assunzioni non avviene attraverso i Centri dell’Impiego, ma segue la via del passa parola, via sulla quale il semaforo rosso agli immigrati non si colloca agilmente.

Infine, si tratterebbe d’imporre per legge quello che i datori di lavoro italiani già fanno in pratica. L’Ilo, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha commissionato ricerche empiriche sulla discriminazione in vari Paesi europei. Il metodo adottato consiste nel far rispondere ad annunci di lavoro squadre di candidati assolutamente identici sotto tutti i punti di vista, a parte l’appartenenza: una squadra è costituita da cittadini di etnia nazionale, l’altra è fatta da membri di minoranze immigrate. E si vede, ad esempio, che già al momento della prima telefonata il posto per il nazionale c’è ancora, mentre all’altro candidato si comunica che è stato assegnato. Oppure, al nazionale si danno opportunità di prova che all’altro non vengono offerte. Il metodo ha ovvi limiti: pochi casi, solo annunci, lavori di un certo tipo. Il risultato è comunque che in tutti i Paesi osservati si discrimina, e in Italia più che altrove. Insomma, a parità di merito, sembra che il datore di lavoro italiano tenda già a privilegiare il connazionale senza che la legge glielo imponga.

Eppure i dati, almeno fino allo scoppio della crisi, rivelavano un incremento relativamente più forte delle assunzioni degli immigrati. I tassi di attività e di occupazione erano più alti tra gli immigrati, ma lo era anche il tasso di disoccupazione. Prima della crisi la manodopera immigrata funzionava, quindi, come un polmone che aspira ed espira lavoro più intensamente e velocemente. È ipotizzabile che la crisi porti a più rapide e forti «espirazioni». Già nel secondo trimestre del 2008 il tasso disoccupazione generale è aumentato dell’1% rispetto al trimestre dell’anno precedete, quello degli immigrati dell’1,2%. Ma un dato più recente seppure parziale, quello dell’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, segnala una situazione drammatica: a gennaio 2009 il 24% della disoccupazione nel Veneto era costituito da stranieri, con un picco del 32% a Treviso. Le piccole aziende, dove si concentra il lavoro immigrato, sono poco tutelate dagli ammortizzatori sociali, e il rischio di perdere, con il lavoro, il permesso di soggiorno e quindi di diventare irregolare è alto.

Gli imprenditori sono preoccupati. È vero che molti lavoratori stranieri stanno rientrando nel Paese d’origine, ma cosa accadrebbe se a quelli che rimangono, disoccupati e con scarse tutele, fosse davvero sbarrata anche la via verso una nuova occupazione? Le tensioni sociali che può comportare una massa di stranieri emarginati sono notoriamente gravi. Anche in questi giorni le rivoltose banlieues francesi ce lo ricordano. Imporre agli imprenditori (e alle famiglie) l’obbligo di assumere un italiano meno capace e diligente a scapito dell’immigrato meritevole che si sarebbero liberamente scelti non funziona. Certo non è una via burocraticamente facile ed economicamente fruttuosa. È un colpo alla coesione sociale e non so neppure se sia eticamente accettabile. La condizione di cittadino comporta per definizione dei privilegi; però l’essere nato sotto un altro cielo è un caso, non una colpa. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Quando Bush voleva militarizzare tutto il Nord America.

di Stephen Lendman – GlobalResearch.ca

Il titolo si riferisce alla Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità (il cui acronimo in inglese è SPP), conosciuta anche come North American Union. Questa organizzazione ebbe origine il 23 marzo del 2005 a Waco, in Texas, durante una conferenza a cui parteciparono George Bush, il presidente messicano Vincente Fox e il premier canadese Paul Martin. Il suo obiettivo è la promozione di un accordo che stimoli l’integrazione economica e politica delle nazioni coinvolte, nonché la collaborazione dei rispettivi servizi di sicurezza. Le sue attività si svolgono senza clamore mediatico, attraverso gruppi governativi che architettano direttive politiche vincolanti bypassando l’opinione pubblica ed il normale dibattito parlamentare.

In sintesi, è un colpo di stato corporativo spalleggiato dall’esercito, che affossa la sovranità delle tre nazioni partner, la loro popolazione e i loro organismi legislativi. E’ un pugnale infilzato nel loro cuore democratico, anche se il pubblico è in gran parte inconsapevole delle sue attività.

L’ultimo summit dell’SPP si è tenuto a New Orleans lo scorso aprile. Da allora, la sua azione è stata in gran parte intralciata dalla gravità della crisi economica globale, che richiede la completa attenzione dei leader coinvolti. Ciononostante, le decisioni prese finora saranno riportate nelle righe che seguono, insieme a qualche informazione addizionale.

Lo scorso settembre, l’«Army Times» ha riportato che il terzo Team d’Assalto della prima Brigata (al tempo dispiegato in Iraq) sarebbe stato trasferito sul suolo americano entro il primo ottobre, per entrare in una «forza federale pronta all’azione in caso di emergenze o disastri di origine umana o naturale, attentati terroristici inclusi».

«E’ la prima volta che un’unità attiva viene messa sotto il comando della NorthCom, un comando congiunto creato nel 2002 per coordinare e controllare le iniziative di difesa federali e le azioni di supporto alla difesa delle autorità civili».

Poi, il primo dicembre, il «Washington Post» ha dichiarato che il Pentagono avrebbe dispiegato 20mila soldati sul suolo statunitense entro il 2011, con l’obiettivo di «aiutare gli ufficiali statali e locali in caso di attacco nucleare o altre catastrofi». Sono state impostate tre unità di combattimento capaci di una reazione rapida. Altre due potrebbero aggiungersi al progetto. Saranno integrate con 80 unità della National Guard, addestrate per rispondere ad attentati di natura chimica, biologica, radiologica, nucleare, con esplosivi ad alto potenziale o altri attacchi di natura terroristica. In altre parole, si pensa di usare plotoni addestrati ad uccidere per militarizzare ed occupare gli Stati Uniti.

Il pretesto è la sicurezza nazionale. Queste unità saranno operative in caso di attentato terroristico, genuino o no, e anche in caso di tumulti da parte della popolazione, provata dalla crisi economica. Considerando la portata e la gravità della crisi, esiste una discreta probabilità che qualcuno, prima o poi, si decida a reagire. In questo caso, pattuglie armate di soldati si affiancheranno alla polizia locale (già militarizzata) non appena sarà dichiarata la legge marziale o arrivi l’ordine di effettuare azioni di sicurezza repressive.

Secondo il documento “Essere pronti al prossimo disastro catastrofico”, pubblicato nel 2008 dalla DHS/FEMA, dono state sviluppate procedure di “Emergenza Catastrofica” per reagire a situazioni “naturali” o “causate dall’uomo”. Se le condizioni lo richiederanno, si parla di sospensione della Costituzione e legge marziale. Si propone anche di militarizzare gli Stati Uniti per proteggere il mondo degli affari.

Lo scorso primo ottobre, in conseguenza all’annuncio che l’amministrazione Bush intendeva dispiegare pattuglie di soldati sul suolo americano, con un budget di “100 miliardi di dollari (di bailout)”, il Partito d’Azione Canadese ha pubblicato un post intitolato “ALLARME: GOLPE NEGLI USA”.

Probabili esiti

Gli sforzi dell’SPP si sono arrestati durante il periodo di transizione da Bush a Obama, ma il progetto di “integrazione profonda” rimane in piedi.
Il 19 gennaio, il Centro per la Politica Commerciale dell’Università di Ottawa ha tracciato le linee direttrici per un progetto di approfondimento dei rapporti tra Canada e USA. Il loro documento afferma che una «cooperazione repentina e sostenuta nel tempo» in questo periodo di crisi globale, avrebbe dovuto includere le forze di sicurezza e di difesa, il commercio e la competitività.

Il testo, inoltre, sostiene «che l’argomento cruciale è la necessità di ripensare l’architettura di gestione degli spazi economici comuni del Nord America, inclusa la liberalizzazione del commercio». Il linguaggio impiegato è ricco di espressioni come «ripensare (e) modernizzare le frontiere» e il loro significato contestualizzato sembra alludere ad un annullamento delle stesse. Sia quelle canadesi che quelle messicane. Allo stesso modo, il documento raccomanda di «integrare i regimi regolatori in un unico sistema che si possa applicare ad entrambi i lati della frontiera». Sostiene che l’arrivo di una nuova amministrazione a Washington è «un’opportunità d’oro» per forgiare un «programma che porti ad un mutuo beneficio e ridisegni la governance nordamericana e globale negli anni a venire».

Il testo sventola lo spettro del protezionismo e la necessità di evitarlo, dato l’attuale clima economico. Propone una «partnership USA-Canada più ambiziosa», che superi il NAFTA, in accordo con il Messico.

Un altro documento, prodotto dal Centro Nord Americano per gli Studi Transfrontalieri dell’Università Statale dell’Arizona ed intitolato “North America Next”, chiede una «competitività sostenibile nella sicurezza» ed una maggiore integrazione tra USA, Canada e Messico attraverso «una sicurezza sostenibile, un commercio ed un sistema di trasporti efficace» per rendere «le tre nazioni nordamericane più sicure, più economicamente funzionali e più prospere».

Sia il progetto dell’Università dell’Arizona che quello di Carleton mirano a rafforzare le iniziative dell’SPP grazie alla collaborazione della nuova amministrazione di Washington, specialmente in un clima di crisi economica globale che porta il problema in primo piano.

Altre tematiche in discussione

Il giornalista Mike Finch, in un articolo intitolato “North American Union Watch”, pubblicato sul quotidiano «The Canadian», riferisce che esistono organizzazioni statunitensi e canadesi il cui obiettivo è porre fine al libero flusso d’informazione su Internet.
Cita la scoperta di un «progetto per la eliminazione della libertà su Internet entro il 2010 in Canada» ed entro il 2012 in tutto il mondo, effettuata da un «gruppo di attivisti a favore della neutralità della rete».

Secondo la sua ricostruzione dei fatti, i due più grandi ISP canadesi, la Bell Canada e la TELUS, intendono limitare il browsing, bloccare alcuni siti e rendere a pagamento la maggior parte degli altri, in un’iniziativa articolata dal SPP che avrà inizio nel 2012. Reese Leysen, del servizio di web hosting I-Power, lo definisce un progetto «oltre la censura: vogliono uccidere il più grande ecosistema di libera espressione e libertà di parola mai esistito nella storia dell’uomo». Cita fonti interne a grandi aziende, che l’hanno informato su «accordi di esclusività tra gli ISP e i grandi fornitori di contenuti (come le TV e le case editrici di videogiochi) per decidere quali siti saranno inclusi nel Pacchetto Standard offerto agli utenti, mentre il resto della rete sarà irraggiungibile se non dietro una tariffa supplementare.»

Per Leysen, le sue fonti sono «affidabili al 100%». Anzi, indica che un quadro analogo è emerso da un articolo pubblicato su «Time» ad opera di Dylan Pattyn. Anche le fonti di quest’ultimo sarebbero interne alla Bell Canada e la TELUS. Secondo queste, si pensa di far rientrare solo i 100-200 siti più visitati nel pacchetto d’abbonamento base che, con tutta probabilità, includerà le agenzie di notizie più blasonate e terrà fuori tutto il circuito della stampa alternativa. «Internet diventerebbe un parco giochi per creatori di contenuti miliardari» come le TV via cavo, a meno che non si mettano in atto azioni per fermare questo processo.

Leysen pensa che gli Stati Uniti e gli ISP mondiali hanno idee simili sulla limitazione alla libertà di parola e le invasioni della privacy. Se ha ragione, la posta in gioco è altissima. Ma anche il margine di profitto è sostanzioso e, quindi, i governi amichevoli potrebbero essere d’accordo. Si parla anche di usare «marketing ingannevole e tattiche terroristiche» (come, ad esempio, sventolare la minaccia della pornografia infantile) per ottenere il consenso pubblico a queste norme liberticide mascherate da regole per la sicurezza della rete. È necessario fermarli immediatamente.

Progetti per ribattezzare l’SPP/NAU

Lo scorso marzo, il Fraser Insistute canadese lo ha proposto in un articolo intitolato: “Salvare la Partnership del Nord America per la Sicurezza e la Prosperità” a causa dell’ondata di critiche suscitata dall’organizzazione. Suggerisce di scartare la sigla SPP/NAU, optando per NASRA (North American Standards and Regulatory Area) per nascondere il suo vero obiettivo. Secondo l’articolo, il “brand SPP” è ormai infangato, quindi è necessario sostituirlo per proseguire le iniziative che il NAFTA ha lasciato orfane: integrare la sicurezza a tematiche riguardanti la qualità della vita, come la sicurezza alimentare, il riscaldamento globale, il cambiamento climatico e le pandemie. Reclama anche un maggiore sforzo comunicativo per blandire la pubblica opinione. Vogliono ingannare il maggior numero di persone possibile, finché non sarà troppo tardi per intervenire.

Malcontento in America a livello statale

Il 23 febbraio, obiettando al concetto di “integrazione profonda”, il giornalista Jim Kouri di «News with Views» (NWV) ha pubblicato un articolo intitolato: “Che i singoli stati dichiarino la propria sovranità”. Il testo ripropone le parole dello stratega politico Mike Baker, quando disse: «Gli americani sono sempre più disillusi dalla mancanza di prospettiva a lungo termine dimostrata dal governo federale su tematiche come l’immigrazione clandestina, il crimine ed il caos economico. Il governo federale intende addirittura insinuarsi nella vita privata dei cittadini, attraverso leggi sul controllo della circolazione delle armi da fuoco ed altre iniziative», temi che i Padri Fondatori «relegavano alla discrezionalità dei singoli stati».
È anche preoccupante che gli stati non riescano a finanziare i loro progetti a causa di budget troppo ristretti e siano costretti a fare tagli. Oltre a questo, anche l’intrusione di Washington nell’amministrazione della giustizia locale è preoccupante.

Finora, nove stati hanno dichiarato la loro sovranità ed un’altra dozzina sta pensando di farlo. Le leggi già approvate o proposte variano dai diritti generali a quelli selettivi, come il controllo della circolazione delle armi da fuoco e l’aborto.

Il 30 gennaio, lo stato di Washington si è schierato con loro ed ha approvato la legge HJM-4009, che dichiara:
«Il Decimo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti stabilisce che “i poteri non delegati dagli Stati Uniti ad opera della Costituzione, e non proibiti da essa, sono riservati rispettivamente ai singoli Stati, o alla popolazione”. Lo stesso emendamento definisce la portata totale del potere federale, stabilendo che esso è limitato a ciò che è esplicitamente scritto nella Costituzione.»
All’inizio di gennaio, anche il New Hampshire ha approvato una norma simile, la HCR-6, “che afferma i diritti degli Stati basandosi sui principi jeffersoniani”. Gli altri stati che, parzialmente o totalmente, concordano su questa linea sono la California, l’Arizona, il Montana, il Michigan, il Missouri, l’Oklahoma e la Georgia. Oltre a questi, i seguenti stati stanno attualmente dibattendo misure di questo tipo: il Colorado, la Pennsylvania, l’Illinois, l’Indiana, il Kansas, l’Arkansas, l’Idaho, l’Alabama, il Maine, il Nevada, le Hawaii, l’Alaska, il Wyoming e il Mississippi.

Oltre al dibattito sui diritti dei singoli stati, le tematiche principali di questo movimento sono:
— la crisi economica;
— il controllo nocivo che Wall Street esercita sulla politica;
— il suo effetto sul sistema dei Checks & Balances;
— i bailout eccessivi concessi ad un sistema bancario insolvente e corrotto a scapito dei budget degli stati individuali e dei loro diritti;
— la spesa pubblica spudorata ed insostenibile. Il debito pubblico che sta portando la federazione alla bancarotta, ponendo un peso insostenibile sulle spalle degli stati.

In linea di massima, ci si preoccupa che Washington sia complice nella crisi che attanaglia il paese e che voglia sbarazzarsi delle sue responsabilità oppure che, almeno, tenda ad assumere comportamenti di questo tipo. Se questo movimento si rafforza, servirà a rallentare il processo di “integrazione profonda” o a bloccarlo per un periodo considerevole, ma è improbabile che lo fermi del tutto. L’America delle corporazioni lo vuole, e generalmente ottiene ciò che vuole.

Potrebbe volerci più tempo, molto più tempo, a causa della crisi globale e del periodo necessario a superarla. Alcuni esperti annunciano a breve un’altra Grande Depressione peggiore della precedente ed addirittura peggiore dei “decenni perduti” del Giappone, dal 1990 ad oggi.
La priorità nel mondo dell’alta finanza e nei CdA delle grandi aziende è sfuggire alla crisi, se possibile. Eccetto che per motivazioni di “sicurezza nazionale”, tutto il resto viene in secondo piano. (Beh, buona giornata).

Articolo originale: SPP: Updating the Militarization and Annexation of North America.
Traduzione per Megachip a cura di Massimo Spiga

Stephen Lendman is a Research Associate of the Centre for Research on Globalization. He lives in Chicago and can be reached at lendmanstephen@sbcglobal.net

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Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Se il Forum mondiale sull’acqua continua a fare acqua.

(fonte: ilmessaggero.it)

Cambiamenti climatici, aumento popolazione, domanda di energia, e incapacità politico-gestionale. Questi i principali motivi che potrebbero assetare entro il 2030 quasi la metà della popolazione mondiale. Di fronte a queste emergenze, si è riunito a Istanbul il quinto forum mondiale sull’acqua.

Le previsioni. La popolazione mondiale di 6,6 miliardi di persone crescerà di 2,5 miliardi entro il 2050, per la maggior parte nei paesi in via di sviluppo che soffrono già di scarsità idrica. Questo tasso di crescita comporterà un aumento della domanda di acqua dolce di 64 miliardi di metri cubi all’anno. I rappresentati di governi, agenzie e organismi internazionali si troveranno a discutere delle questioni relative alla disponibilità e alla sicurezza dell’acqua. Più di 1,2 miliardi di persone (circa un quinto della popolazione mondiale) vive, infatti, in aree di scarsità fisica di acqua, e ulteriori 1,6 miliardi hanno accesso limitato all’acqua per ragioni economiche, politiche e di altra natura. L’agricoltura attualmente assorbe il 70% delle risorse mondiali di acque dolci utilizzate dagli esseri umani.

L’Italia ogni anno viene usata per scopi civili una quantità d’acqua pari a circa 7.940 milioni di m3, e pur se circondata da mare e ricca di fiumi e laghi (in condizioni di stress idrico), il Bel Paese ha problemi, in particolare al sud e nelle isole.

Scontri. La polizia di Istanbul è intervenuta stamani in tenuta antisommossa per disperdere con la forza circa 300 ambientalisti che andavano a manifestare verso il luogo dove si apre oggi il quinto Forum internazionale dell’Acqua. Lo hanno riferito tv locali turche mostrando le immagini degli scontri.

Il Forum. E’ il più grande evento relativo alla risorsa acqua che ha l’obiettivo di inserire la crisi idrica mondiale nell’agenda internazionale e vi prendono parte oltre a 3.000 organizzazioni, una ventina di capi di Stato e circa 180 ministri dell’ambiente da altrettanti Paesi del mondo. Per l’Italia prevista la partecipazione del ministro Stefania Prestigiacomo. Nell’aprire i lavori, il presidente del Consiglio mondiale dell’acqua, il francese Loic Fauchon, ha puntato il dito contro «le abitudini incoerenti» ed i «consumi stravaganti» che contribuiscono allo spreco delle risorse idriche in tutto il mondo.

Eventi alternativi. In parallelo al Forum «ufficiale», si terrà un Forum e altri eventi «alternativi» organizzati da molti movimenti internazionali che non riconoscono la legittimità del Consiglio Mondiale dell’Acqua, promotore dell’incontro, e da essi accusato di essere un think-tank privato strettamente legato alla Banca Mondiale, alle multinazionali dell’acqua e alle politiche dei governi più potenti del mondo.

La protesta. Robert Ramakant, portavoce dell’organizzazione «Corporate Accountability International» ha detto che stasera un gruppo di 118 organizzazioni da 33 Paesi presenterà ai partecipanti al Forum «ufficiale» copia di una lettera indirizzata al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon. Nella missiva si chiede al capo dell’Onu di ritirare il proprio sostegno al Consiglio Mondiale dell’Acqua del quale si mette in dubbio la legittimità e la trasparenza. Secondo Omer Madra, editore dell’emittente turca Acik Radio, «la gente ritiene erroneamente che il Forum sia stato organizzato dall’Onu per ottenere una gestione ottimale delle risorse idriche, ma il Forum Alternativo servirà proprio a smascherare questi tentativi di disinformazione». (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Mr Dick Cheney continua a mostrare i muscoli.

da blitzquotidiano.it

L’ex-vice-presidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, ha accusato il presidente Obama di aver messo a repentaglio la sicurezza del Paese, con i suoi tagli alla difesa ed altre iniziativese e di aver reso piu’ probabili altri attacchi terroristici come quello alle Torri Gemelle.

Nella sua prima intervista televisiva da quando ha lasciato la Casa Bianca, rilasciata alla Cnn, Cheney ha criticato le dicisioni di Obama di chiudere il centro detentivo di Guantanamo, di aver messo fuori legge l’uso della tortura negli interrogatori dei sospetti terroristi e di aver sospeso per costoro i processi condotti dalle autorita’ militari.

”Credo – ha detto l’ex-vice di George Bush – che alcune delle iniziative annullate da Obama fossero assolutamente necessarie. Noi le abbiamo usate per prevenire altri attacchi contro gli Stati Uniti, e tutto è stato fatto legalmente ed in accordo con i principi della nostra costituzione”.

Le critiche di Cheney ad Obama non sono finite qui. Ha anche deplorato la nomina di Christopher Hill a nuovo ambasciatore a Bagdad.

”Non e’ l’uomo che io avrei scelto – ha dichiarato Cheney – perchè non possiede talento e nessuna delle qualità che ha il suo predecessore Ryan Cocker”.

FONTI INFORMATIVE
The Huffington Post

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di Paul Joseph Watson – Prison Planet.com

Il premiato reporter investigativo Seymour Hersh ha sganciato un’altra delle sue bombe questa settimana, quando ha rivelato che l’ex vice-presidente Dick Cheney disponeva di una sua unità di assassinio politico in stile SS che faceva capo direttamente a lui.

Martedì [10 marzo 2009] Hersh, dinanzi alla platea della University of Minnesota, ha affermato: «Non avevo ancora parlato di ciò dopo l’11/9, ma la CIA era profondamente coinvolta in attività all’interno della nazione contro persone ritenute nemiche dello Stato. Senza averne alcuna autorità giuridica. Non sono stati ancora chiamati a rispondere di questo».

Hersh poi è passato a descrivere in che modo il Comando congiunto delle operazioni speciali (JOSC) è stato un unità di assassinio politico che ha compiuto omicidi politici all’estero. «Si tratta di un braccio speciale della nostra comunità delle operazioni speciali che si muove in modo indipendente», ha spiegato. «Non devono fare rapporto a nessuno, tranne che nel periodo Bush-Cheney, quando riferivano direttamente all’ufficio di Cheney. Il Congresso non ha alcun controllo su di esso.»

La rivelazione che Cheney disponeva di una sua unità privata di assassinio non raffigura un quadro troppo lontano dalla famigerata SA (Sturmabteilung) di Hitler, la tanto temuta ala paramilitare del partito nazista, che fu utilizzata per colpire, torturare e uccidere gli oppositori politici del partito nazista nella Germania degli anni Trenta né dalle Waffen-SS, che successivamente furono utilizzate in guerra per compiere esecuzioni e crimini di guerra.

Le SA furono più avanti prese di mira da Hitler nel corso della Notte dei Lunghi Coltelli, una brutale purga volta a eliminare degli avversari politici sia all’interno che all’esterno del partito nazionalsocialista. Centinaia di persone furono liquidate a sangue freddo dalla Gestapo e dalle SS.

Significativamente, i tribunali e il governo tedeschi rapidamente spazzarono via secoli di leggi che proibivano le esecuzioni stragiudiziali per dimostrare la loro fedeltà a Hitler. Le Waffen-SS furono ritenute non perseguibili, nonostante fossero flagrantemente coinvolte in crimini di guerra patenti e in corso, così come in omicidi a livello interno.

Il Comitato congiunto delle operazioni speciali, l’unità di assassinio in capo a Cheney, è anche descritto come un settore di operazioni ‘extra-legali’.

«Si tratta essenzialmente di un circuito esecutivo per gli assassinii, ed è andato avanti a oltranza», ha affermato Hersh. «Sotto l’autorità del Presidente Bush, si sono introdotti in certi paesi senza parlare con l’ambasciatore né con il capo della stazione CIA, e lì hanno rintracciato delle persone prese da un elenco, le hanno uccise e poi se ne sono andati. Questa cosa è continuata, in nome di tutti noi».

Ed è ancora in corso. Nessuno dei capovolgimenti degli ordini esecutivi di Bush da parte di Obama dice nulla circa l’abolizione del Comitato congiunto delle operazioni speciali. Di fatto, l’unità speciale è parte integrante degli ampiamente intensificati bombardamenti di Obama e delle altre incursioni in Pakistan. (Beh, buona giornata).

Traduzione per Megachip a cura di Paolo Maccioni e Pino Cabras.

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi, gli Usa e l’Ue.

di Francesco Giovazzi da corriere.it

Ricordate i mesi successivi all’11 settembre 2001? Molti si erano convinti che si fosse chiusa una fase storica — era iniziata a Vienna nel 1683 con la sconfitta dell’impero Ottomano — che aveva consentito all’Occidente di esercitare per tre secoli la propria egemonia sul mondo. Pensavano che quell’egemonia fosse in pericolo, forse era finita per sempre. Preoccupazioni oggi in gran parte dimenticate: non perché il problema dei rapporti fra l’Occidente e l’Islam non sia reale, ma perché lo è ora così come lo era prima dell’11 settembre.
Qualcosa di simile accade oggi.

Uno straordinario paragrafo del Capitale di Karl Marx — in cui il filosofo tedesco prevede (nel 1867) che i debiti dei lavoratori avrebbero fatto fallire le banche, determinando il passaggio dall’economia capitalista al comunismo — viene richiamato per argomentare che il capitalismo è finito. «L’apertura dei mercati conteneva le radici della propria distruzione», ha scritto Martin Wolf sul Financial Times. «L’epoca della liberalizzazione finanziaria è finita, ma, come negli anni Trenta, non disponiamo di alternative credibili». Il ministro Giulio Tremonti cerca di immaginarle, prefigurando l’abbandono di un sistema fondato sulle leggi dell’economia e sui prezzi di mercato e la sua sostituzione con uno fondato sul diritto, sul conto patrimoniale e sui controlli giurisdizionali e amministrativi.

Il mio sommesso parere è che si tratti di discussioni sterili, che probabilmente faranno la fine dei dibattiti sul declino dell’Occidente, e soprattutto pericolose. Che cosa dovrebbe fare un imprenditore che si lasciasse sedurre da simili visioni? Combattere per far sopravvivere la sua azienda, magari investendovi i profitti accumulati in decenni di lavoro? Se si convince che nel nuovo mondo vi sarà più Stato e meno mercato, meno concorrenza, maggiori ostacoli alle esportazioni, chiude tutto e si ritira in campagna.

Alcuni anni fa le riflessioni sul futuro dell’Occidente erano al centro del dibattito anche negli Stati Uniti; oggi invece la domanda se il capitalismo sopravvivrà affascina gli europei ma non gli americani. E non perché negli Usa non ci si renda conto che la crisi ha evidenziato gravi carenze nel funzionamento e nella regolamentazione dei mercati finanziari. Ma, a differenza dell’Europa, gli americani (o almeno la maggior parte di essi) pensano che le regole fossero cattive non perché vi sia qualcosa di sbagliato nel capitalismo, ma semplicemente perché si era consentita troppa (non troppo poca) vicinanza fra politica ed economia. E quindi sono comprensibilmente scettici di fronte a chi propone di affidare alla politica la guida dell’economia (è interessante a questo proposito il dibattito sulla nazionalizzazione delle banche dove il punto centrale, cui nessuno in Europa mai accenna, è come evitare che i risparmiatori che posseggono azioni delle banche vengano espropriati).

Vi è anche una percezione molto diversa delle priorità. Gli europei possono permettersi di giocare a Monopoli con il futuro del capitalismo — e guardare altrove indispettiti quando i nostri vicini dell’Europa centrale chiedono di essere aiutati ad evitare il collasso economico e politico — perché tanto a salvare Polonia, Ucraina e Lettonia ci pensa il Fondo monetario internazionale. E quale è l’unico Paese che sinora ha dato al Fondo le risorse per farlo? Il Giappone, che non è esattamente confinante con l’Ucraina. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Salute e benessere

Report mette sotto torchio Scapagnini, ex sindaco di Catania, attualmente deputato e medico personale di Berlusconi.

di CONCETTO VECCHIO da repubblica.it

Che fine hanno fatto gli 850 milioni di euro, disposti nel 2002 dal governo Berlusconi per mettere in sicurezza la città di Catania dai rischi sismici e risolvere l’emergenza traffico? Una montagna di soldi che piovvero sul sindaco Umberto Scapagnini – medico del premier, la cui amministrazione ha portato il Comune a un passo dalla bancarotta – senza che dovesse passare dal consiglio comunale. Scapagnini fu nominato commissario dell’Ufficio speciale e il tesoretto poté essere speso “per cassa e non per competenza”: in altre parole, senza alcuna rendicontazione. Sette anni dopo il bilancio è desolante. Gli 850 milioni sono stati spesi per costruire cinque megaparcheggi scambiatori: tutti abbandonati.

Il più grande, il parking Fontanarossa, attaccato all’aeroporto, appaltato al consorzio Uniter, è costato 13 milioni, dopo i 5 milioni 700 mila euro sborsati per espropriare il terreno: è fermo da anni. Temendo lo tsunami – lo tsunami! – fu realizzata in alternativa al lungomare un’ipotetica via di fuga, ma la strada, il viale De Gasperi, finisce sfortunatamente in un vicolo cieco. Le scale antincendio nelle scuole penzolano nel vuoto, le crepe nei muri mascherate da una passata di intonaco, com’è avvenuto alla scuola Brancati, sul punto di crollare. E le caserme, gli ospedali, i palazzi strategici della città più sismica d’Europa? Perché non sono stati messi a norma? Il destino incerto di questi 850 milioni – ma secondo una relazione del capo della Protezione civile Guido Bertolaso si tratterebbe di una cifra compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro: fondi avanzati dalla legge 433/1990 – è stato denunciato ieri sera da “Report”, la trasmissione di Milena Gabanelli su Rai3, con un’inchiesta di Sigfrido Ranucci, “I Viceré”.

Quando piove il Villaggio Goretti sembra il Canal Grande e gli abitanti lo circumnavigano in gondola con amaro fatalismo: “Semu consumati”. Siamo rovinati. Si poteva sistemare con i fondi Fas, ma i 140 milioni concessi ad ottobre dal Cipe sono stati utilizzati per salvare il municipio dalla bancarotta. Un salvataggio che fa ancora piangere di rabbia i sindaci virtuosi.

Catania è una buona metafora del Mezzogiorno d’Italia. Benché sul lastrico, impazzita di traffico – i pochi vigili stanno al cellulare mentre tutt’intorno gli scooter transitano impuniti senza casco – sommersa da cumuli d’immondizia e con i cani randagi che percorrono indisturbati il centro storico, come denuncia un fotoservizio dell’onorevole Enzo Bianco, da sempre vota per Berlusconi. “Report” rivela che la società dedita alla riscossione dei tributi dell’acqua, la Sidra, vanta crediti con il Comune per 22 milioni di euro poiché le varie giunte si sono rifiutate per anni di riscuotere la tassa nei quartieri popolari, serbatoi di voti del centrodestra. La Sidra spende migliaia di euro per singolari sponsorizzazioni: il concorso di Miss Muretto, le feste dei zampognari di Lentini, castagne e ciondoli. “Ma lo volete capire che l’83 per cento della città non sta con voi” urla il sindaco Raffaele Stancanelli (An), durante un incontro con l’associazione Cittàinsieme, punta avanzata della società civile.

Stancanelli ha appena stanziato 553 mila euro per contribuire alla festa di Sant’Agata. Un miliardo di vecchie lire sono un mucchio di quattrini in un municipio che aveva accumulato debiti per quasi un miliardo di euro, le cui aziende partecipate lamentano passivi pari a 120 milioni di euro.

La mafia governa molti gangli vitali della città. Il 12 marzo è cominciato il processo al clan Santapaola, che sino al 2005 avrebbe controllato la rutilante festa di Sant’Agata per accrescere così il proprio prestigio. Nel circolo Sant’Agat la tessera numero uno era di Nino Santapaola, la numero due di un altro mafioso, Enzo Mangion. “Che significa? Sempre un cittadino catanese è?”, commentano i devoti. I Santapaola e i Mangion sorreggono le reliquie, dirigono la processione dal cereo, come dimostrano le foto allegate agli atti del dibattimento.

Nel 2004 la candelora venne fatta fermare nei pressi dell’abitazione di Giuseppe Mangion, detto “U zu Pippu”, scarcerato tre mesi prima dal carcere di Pisa. Esplosero fuochi d’artificio, spararono botti. Una città dove le regole del gioco sono truccate, denuncia la Gabanelli. Ogni tanto nel filmato fa capolino Scapagnini, affabile, suadente. “Berlusconi vivrà più di cent’anni in buone condizioni”. Il premier, rivela una farmacista del centro, si rifornisce da loro. Lei prepara con le sue mani un farmaco miracoloso. A che serve, le chiede Ranucci con la telecamera nascosta: “Ha anche un’azione tipo endorfine che rasserena e poi potenzia anche il coso muscolare…”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Il “Piano casa” è un trucco per fare delle prossime elezioni un plebiscito a favore del premier.

Non c’è bisogno di arzigogolare troppo sull’ultima uscita del premier in materia di edilizia, come fanno dall’opposizione. Non è una misura anticrisi. Non è una proposta politica. Non è una visione del futuro. Non è neppure una legge contro l’ambiente.

E’ semplicemente il comizio di apertura della campagna elettorale per le prossime amministrative, che si svolgeranno insieme alle europee. Come tutti sanno le norme in materia di edilizia privata sono di appannaggio dei regolamenti comunali, provinciali e regionali. Permettere agli enti locali l’aumento del 20% delle cubature delle abitazioni private significa mettere gli interessi privati contro le esigenze pubbliche di tutela ambientale.

Che è un altro modo per dire: la tua regione, la tua provincia, il tuo comune non ti permette di violare le norme vigenti? Io cambio la legge, tu voti per me, così puoi fare quello che ti serve, compreso sanare l’abuso edilizio già in essere. E’ un colpo basso, in pieno stile berlusconista. La prova generale è andata in scena in Sardegna. Ha funzionato. Perché allora non sperimentarla su scala nazionale?

Il premier vuole stravincere la prossima scandenza elettorale: si candiderà capolista alle europee e lo farà fare ai ministri del suo governo (nessuno di loro è elegibile, ma che importa, il trucco funzionerà lo stesso). Poi ha trovato il modo di destabilizzare le amministrazioni locali governate dal centrosinistra: il ballo del mattone.

Quello che si sta preparando per il 6 e 7 Giugno, quando si voterà per le europee e insieme per le amministrative non è una elezione normale, ma la ricerca spasmodica del premier di un plebiscito a suo favore. Potrebbe essere l’unico governante europeo che non paga pegno per la crisi economica, ma che anzi aumenta a tal punto i consensi, tanto da non avere davanti nessun ostacolo politico, costituzionale, amministrativo per portare a compimento la completa presa del potere. Così stanno le cose. Beh, buona giornata.

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