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Respingimento? Calderoli:”si e’ pontidizzato anche Berlusconi”. Colombo:”siamo alle leggi razziali”.

di Furio Colombo-l’Unità
“Leggi razziali” non è una frase eccessiva. È una descrizione letterale e corretta che Franceschini, segretario del Pd, ha detto con tragica esattezza per descrivere il “pacchetto sicurezza” della Lega.
La stella gialla che i Radicali indossano in questi giorni di una campagna elettorale dalla quale saranno esclusi con rigoroso rito mediatico, non è una trovata frivola o offensiva, come è stato detto. È la rappresentazione di un fatto. L’elenco delle illegalità, negazioni e sopraffazioni contro libertà fondamentali italiane, secondo i Radicali, è lungo e comincia subito, quando è ancora fresca la firma di Terracini in calce alla nostra Costituzione, nel 1948.

Si può convenire o no. Fin dalla rinascita, questo giornale ha detto e ripetuto ogni giorno che Berlusconi, con il peso immenso della ricchezza usata per comperare la politica, ha portato un peggioramento pauroso nella già oscura vita pubblica italiana, un peggioramento che a momenti pare irreversibile.

In un caso o nell’altro l’Italia è una sola. L’Italia che decide quali voci sono stonate e quali voci non si devono sentire, un anno dopo l’altro, un decennio dopo l’altro. L’Italia che perseguita senza tregua e senza vergogna gli immigrati proprio come al tempo delle leggi razziali. Fatti così profondamente illegali, e pure accettati, devono essere cominciati presto. Se questo è il peggio, c’è stato un prima.

Per esempio, la settimana è stata segnata da una notizia grave e squallida: il deputato Salvini della Lega esige che nei metrò di Milano i posti a sedere siano riservati ai lombardi. Come si riconosceranno i lombardi? Dagli insulti agli immigrati che hanno osato sedersi? Dalla violenza per farli alzare? Si fanno avanti squadre razziste come gli americani bianchi prima di Rosa Parks, di Martin Luther King e di Robert Kennedy. In un mondo normale una simile regola dovrebbe essere respinta con sdegno, come la peggiore offesa.

Ma questa è l’Italia in cui centinaia di naufraghi disperati, metà donne e bambini, e una di loro morta e putrefatta, sono stati lasciati in mare per giorni e notti al largo delle coste italiane. E’ la storia della nave turca “Pinar” , colpevole di averli salvati, tenuta ferma in mare dalla corvetta militare italiana “Lavinia”. Probabilmente è la prima volta, nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza, che ai marinai italiani viene ordinato di non soccorrere i superstiti disperati del mare. Viene ordinato di tenerli fermi e lontani benché stremati.

Atti indegni di questo tipo, come le aggressioni e i linciaggi, tendono a ripetersi in questa Italia. Nuovi immigrati alla deriva, al largo delle coste libiche sono stati avvistati da un mercantile italiano che si è guardato bene dal prestare soccorso dopo ciò che era toccato alla nave turca. Si trattava – ci ha detto il giornalista Viviano di Repubblica (7 maggio) – di 227 disperati tra cui 40 donne. Sono subito arrivate sul posto unità della Marina militare italiana con un ordine barbaro e disumano del ministro dell’Interno della Padania insediato a Roma: le centinaia di profughi disperati raccolti in mare sono stati riportati in Libia. Vuol dire condannati a morte, per esecuzione, per inedia nei campi profughi del deserto, per schiavitù (lavoro forzato senza paga), per l’abbandono in aree prive di tutto, in violazione della Costituzione italiana e della Carta dei Diritti dell’Uomo, come ha scritto con sdegno L’Osservatore Romano.

Ogni possibile richiesta di diritto d’asilo, per quanto urgente e legittima, viene in questo modo vietata da marinai italiani usati come poliziotti crudeli di una dittatura senza scrupoli.

Adesso scopriamo che, prima ancora che il Parlamento italiano affronti l’odioso “pacchetto sicurezza” della Lega e lo voti con l’espediente della “fiducia” in modo da bloccare ogni discussione, adesso scopriamo che le “leggi razziali” sono già in funzione, oggi, in questa Italia, mentre tanti, in politica o nella vita di tutti i giorni, fanno finta di non sapere, non vedere, di non essere disturbati. Proprio come nel 1938. Ma nel 1938 quelle schiene piegate di un popolo erano state preparate da quasi due decenni di fascismo.

Dicono i Radicali: anche oggi una simile rinuncia alla libertà, alla opposizione, alla critica non arriva tutta in una volta come una valanga. Ci vuole una lunga preparazione per cedere senza resistenza i propri diritti. Di fronte al diffuso silenzio per la paurosa epoca italiana che stiamo vivendo è inevitabile chiedersi: e se i Radicali, indossando la loro maleducata e impropria stella gialla, avessero ragione? (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione.

di VITTORIO LONGHI-repubblica.it
La svolta nella gestione dell’immigrazione e degli arrivi via mare, secondo il ministro dell’Interno Maroni, starebbe in un nuovo modello, tutto italiano, fondato su quello che lui stesso ha definito “il principio del respingimento”. Ma, quando riguarda richiedenti asilo, non è ancora chiaro a quali leggi o convenzioni faccia riferimento.

Il testo unico
Forse si tratta del Testo unico sull’immigrazione del 1998, che all’articolo 10 parla espressamente del respingimento e recita: “La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Lo stesso articolo, però, dice anche che le norme “non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Perciò il Testo unico nazionale rimanda al principio universale del “non respingimento” dei richiedenti asilo, proprio l’opposto di quello invocato da Maroni e contemplato invece dal diritto europeo e internazionale.

Le convenzioni internazionali
A vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo sono gli obblighi internazionali che nascono, nello specifico, dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani.
Il ministro leghista ha detto che “il respingimento alle frontiere è previsto dalle normative europee” senza precisare quali e senza considerare che tutto il sistema normativo europeo in materia d’asilo si basa sulla convenzione di Ginevra. Quindi, di nuovo, sul principio del non respingimento. Tra l’altro, la convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. E neanche si può circoscrivere la questione alle acque di competenza. L’obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica – secondo le convenzioni – e si applica a tutti gli agenti statali nell’esercizio delle loro funzioni all’interno o all’esterno del territorio nazionale.
A questo proposito, il diritto è ancora più preciso: nel caso di richiedenti asilo che affrontano un viaggio via mare, il non-respingimento si applica all’interno delle 12 miglia di acque territoriali, così come nelle acque contigue, in mare aperto e nelle acque costiere di paesi terzi. Praticamente senza limitazioni.

L’accordo con la Libia
Inoltre, il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l’unica forma di respingimento. Anche il rinvio indiretto verso un paese terzo – la Libia in questo caso – che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sarebbero ritenuti responsabili, cioè sia la Libia che l’Italia. E non risulta che nell’accordo bilaterale con il governo libico l’Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani, compreso il diritto d’asilo, per le persone che vengono riportate a Tripoli in seguito al pattugliamento delle coste libiche.

Tutto questo dimostrerebbe che il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione. Pertanto non potrebbe essere applicato per rimandare indietro quei migranti che arrivano via mare e che, nel 75 per cento dei casi, sono richiedenti asilo. (Beh, buona giornata).

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In campagna elettorale, Berlusconi si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. Dopo tutto, un popolo spaventato si governa meglio.

Al mercato della paura
di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

ORMAI è impossibile affrontare il tema della “sicurezza” nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un’altra volta. Eppure è difficile non tornare sull’argomento. Perché l’argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla “sicurezza” (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove “leggi razziali”. Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l’imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come “annuncio”. Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell’Interni e della Lega, di respingere l’invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l’argomento della paura dell’altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. In aperta polemica con la “sinistra, che ha aperto le porte a tutti”. (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all’integrazione. Senza, tuttavia, spiegare “come” realizzarla. Si appella all’indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la “sicurezza” sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La “fabbrica della sicurezza” (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d’altronde, si scontra con il “mercato della paura”. Il quale non limita la sua offerta all’ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all’in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di “vita vera e vissuta”, nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un’aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle “scene del crimine”. 24 ore su 24 dedicate alla “paura”.
E’ significativa l’evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent’anni fa, fino al “ministro della paura” (accanto al “sottosegretario all’angoscia”) esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All’esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d’ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all’insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l’offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L’insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del “bene comune”. Ispirati da una fede o almeno da un’ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l’angoscia sia con noi. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

“Gli abruzzesi hanno preso il decreto, lo hanno letto, lo hanno studiato, e hanno scoperto che quasi metà di loro passerà l’inverno in tenda e che il soldi delle case ci saranno solo a metà”.

Terremoto Abruzzo/ Non ci sono le case, mancano i soldi: solo promesse di cartapesta
di Alessandro Duchi-blitzquotidiano.
Pezzo a pezzo, la cartapesta del mito ricostruzione abruzzese viene giù.

Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi aveva esordito alla grande, con una regia perfetta: nascosto dietro una gigantografia di se stesso in maglioncino blu e sorriso rilassato, che faceva da sfondo al salotto di Bruno Vespa convocato d’emergenza in luogo del consiglio dei ministri, dava ordini a destra e a manca, compreso al ministro dell’interno Roberto Maroni, cui Berlusconi ingiungeva: domattina voglio 1.500 pompieri all’Aquila.

Chi ha una minima idea, e per questo basta leggere i giornali, del tempo che ci vuole a spostare un reparto incluse le truppe d’assalto aviotrasportate americane, per non dire una semplice pattuglia di vigili urbani quando uno li chiama, sa bene che l’eordine era impossibile da eseguire, a meno che non fosse stato già dato ore prima e ripetuto in tv solo per la delizia degli spettatori.

Berlusconi aveva capito che il terremoto era una grande occasione di campagna elettorale, un mega spot gratuito, con i costi di produzione a carico del contribuente: la chiave era dare l’impressione che tutto era sotto controllo, che la macchina dello stato girava come un diesel, per la prima volta dal 1870, meglio anche di come girava quando c’era l’altro Lui, quello dei treni in orario; perché ora c’è un altro Lui, che non è un maestro elementare,ex caporale, ma è laureato e uno degli imprenditori di maggioiri genio e successo della storia d’Italia.

Quello che i pubblicitari chiamano “pay off”, il messaggio finale, era: italiani, dormite tranquilli, non disturbate il manovratore, votatelo e dategli quel 51% dei suffragi che gli permetterà di fare ancor meglio.

Il primo intoppo è venuto con Michele Santoro, il quale, con i suoi modi che non sono studiati per generare simpatia, ha dimostrato una banalità: che mentre all’Aquila tutto girava al meglio, bastava allontanarsi di qualche chilometro per scoprire che c’erano ritardi, che i mezzi di aiuto lasciavano a desiderare, che c’era gente che si lamentava. Gli abruzzesi sono gente di montagna, dura, orgogliosa, grandi lavoratori, testa bassa, denti stretti. I lamenti erano critiche e osservazioni puntuali, precise.

Le spiegazioni erano semplici, ma Berlusconi ha perso la testa, dando una prova di come un liberale del profondo nord può mutare se i voti lo sostengono. Se in quel momento avesse avuto la maggioranza assoluta, Santoro, se ancora fosse stato a libro paga Rai (aveva tra l’altro appena vinto una causa per una precedente estromissione, sempre ordinata da Berlusconi), sarebbe stato cacciato; l’ordine dei giornalisti, meravigliosa invenzione di Benito Mussolini che nemmeno Stalin è stato capace di uguagliare, lo avrebbe convocato, ammonito e espulso.

Berlusconi ha perso la testa perché una piccola macchietta, sotto specie di una trasmissione che non è certo nelle corde della maggioranza degli italiani, e che sarebbe passata sconosciuta ai più se Berlusconi non avesse fatto il diavolo a quattro che ha fatto, gli è schizzata sullo sparato bianco della festa della ricostruzione.

Poi via con i funerali, momento culminante del cordoglio nazionale.

Poi l’assurda pretesa di portare i capi degli otto paesi più ricchi e potenti del mondo in Abruzzo per la già programmata, in Sardegna, riunione di settembre. C’è da prevedere che sarà una catastrofe, e anche una um,iliazione per i poveri abruzzesi esibiti come scimmie allo zoo davanti a decine di migliaia di stranieri al seguito dei potenti della terra.

Infine, gli italiani tornavano alla vita normale, e anche gli abruzzesi della costa si rivolgevano ai loro affari quotidiani, e anche gli abruzzesi del terremoto cercavano di recuperare un minimo di normalità, confidando nelle promesse del Politico numero uno. In quel momento prendeva il via la gestazione del piano per la ricostruzione.

Si era parlato prima di dodici miliardi di euro, scesi a otto ma finanziati non con nuove tasse e imposte, ma con una serie di spostamenti di voci del bilancio, cosa possibile visto che nell’enorme massa di soldi che la macchina dello stato macina, otto miliardi sono poca cosa e ci sono notevoli quantità di soldi che non sono utilizzati.

Ma si era anche parlato, da parte di Berlusconi, di tempi e scadenze. L’impegno più importante riguardava le case: quelle provvisorie, necessarie per togliere gli abruzzesi dalla precarietà delle tende, quelle definitive, che ciascun terremotato si sarebbe costruito sulle macerie della vecchia distrutta o dove più avrebbe gradito, purché sempre, rigorosamente antisismiche.

Berlusconi aveva rinnovato le sue promesse non più tardi di martedì sera, 5 maggio, in Tv, nel solito salotto di Vespa, davanti alla nazione,convocata col pretesto del bilancio di un anno del suo governo, ma interessata soprattutto a sentire la sua versione della sua privata vicenda matrimoniale, tra Veronica, Noemi e le veline.

Incaute affermazioni, clamorosamente smentite. Ora dall’Abruzzo comincia a trapelare la verità sulla ricostruzione. L’Italia è un paese approssimativo, dove dei documenti si leggono solo i titoli, se si leggono. Andiamo per slogan, votiamo per emozioni e quindi siamo esposti a promesse e imbonimenti di ogni genere. Non ci dobbiamo buttare troppo giù, peraltro, perché se pensiamo che gli americani hanno votato George Bush e i francesi Nicolas Sarkozy, allora il nostro Berlusconi è un gigante, purtroppo per lui anche nel volere essere sempre il primo della classe, anche quando non ha studiato.

Gli abruzzesi, però, sono gente seria. Hanno preso il decreto, lo hanno letto, lo hanno studiato, e hanno scoperto che quasi metà di loro passerà l’inverno in tenda e che il soldi delle case ci saranno solo a metà.

È a questo punto che un grande pezzo del fondale di cartapesta, stile western di Hollywood anni ‘50, è venuto giù. Il governo può insistere nelle sue illusioni. C’è ancora tempo per rimediare, siamo in primavera, piani alternativi si possono elaborare, i bisogni elementariu degli abruzzesi possono essere affrontati. Berlusconi, se ci si applica Lui personalmente, ha genio e inventiva per fare le cose bene.

Se no, chiunque ci sia al governo, il potere poltico ancora una volta avrà dimostrato di essere permeato dello stesso spirito sabaudo – borbonico di sempre, che tanto male ci ha fatto. E la scarsa fiducia dei cittadini nello stato, che Berlusconi ha eroicamente cercato di ricostruire, magari personalizzando un po’ troppo, ma con la carta pesta invece che con il cemento. Scenderà ancore di più. E sarà male per tutti. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Condoleeza Rice non sa spiegare a un bimbo americano perché il «waterboarding» era una tortura giustificabile.

Scolaro di 9 anni mette in crisi Condy Rice, di Umberto De Giovannangeli-l’Unità

Lezione di giornalismo. E di coraggio civile. A impartirla è un bambino di nove anni. A riceverla è Condoleezza Rice. L’ex segretaria di Stato Usa «interrogata» da un bambino di quarta elementare sul «waterboarding» e le altre torture adottate dalla Cia con i sospetti terroristi. Quella che fino a pochi mesi fa è stata tra le donne più potenti del mondo si è trovata a dover affrontare imbarazzanti, ed effettivamente non previste domande, sui metodi duri di interrogatorio approvati, tra gli altri, anche da lei durante l’amministrazione Bush, in occasione della sua visita ad una scuola elementare ebraica di Washington, prima sua uscita pubblica nella capitale dall’insediamento del presidente Barack Obama.

Dopo prevedibili domande sulla sua infanzia nell’Alabama segregazionista, è arrivata quella di Misha Lerner che ha chiesto cosa ne pensasse la Rice delle critiche espresse da Obama sui metodi di interrogatorio duro adottati dall’amministrazione Bush. In realtà, ha raccontato al Washington Post la mamma del bambino, Imma Lerner, originariamente la domanda del piccolo Misha era ancora più dura e le maestre lo hanno convinto a formularla in modo diverso evitando la parola tortura. «Fatemi dire subito una cosa – è stata la risposta della un po’ spiazzata Rice – il presidente Bush è sempre stato molto chiaro nel dire che avrebbe fatto di tutto per proteggere il Paese dopo l’11 settembre. Ma allo stesso tempo è stato sempre molto chiaro nell’affermare che non avrebbe mai fatto niente, proprio niente che fosse contrario alla legge ed i nostri obblighi internazionali e che era disposto ad autorizzare solo pratiche legali per difendere il Paese». Ai bambini ha ricordato che «eravamo tutti terrorizzati dall’idea che il Paese potesse essere attaccato di nuovo, l’11 settembre è stato il giorno più brutto del mio mandato di governo, costretta a vedere 3mila americani morire: ed in quelle condizioni difficili il presidente non era pronto a fare qualcosa di illegale, spero che la gente capisca che stavamo cercando di difendere il Paese».

Non è la prima volta che la Rice è costretta a difendere in pubblico le controverse pratiche di interrogatorio, equiparate a vere e proprie torture ora anche da esponenti dell’amministrazione Obama, adottate da Bush e che lei è stata una dei primi ad approvare, secondo quanto emerge da documenti pubblicati recentemente. L’altra settimana si era trovata sotto il fuoco di fila delle domande degli studenti della sua Stanford, l’università della California dove la Rice è tornata ad insegnare conclusa l’esperienza a Washington. Interrogata sullo stesso argomento, «Condi» aveva dato una risposta che aveva suscitato qualche perplessità, affermando che «noi non abbiamo mai torturato nessuno: per definizione, se autorizzata dal presidente, questa non è una violazione dei nostri impegni con la Convenzione Contro la Tortura» una frase che presentava qualche somiglianza con la famosa affermazione di Richard Nixon, dopo le dimissioni per il Watergate, nella sua intervista con David Frost, che «quando il presidente Usa fa qualcosa, per definizione non è illegale». Invece quelle pratiche sono illegali. A testimoniarlo sono anche le foto, il cui contenuto l’Unità ha anticipato nei giorni scorsi, che il Pentagono si è impegnato a rendere pubbliche entro il 28 maggio. Foto di abusi, di torture. Che rispondono alla domanda del piccolo Misha molto più delle giustificazioni di Condi Rice. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Chi non fa le riforme, non fa l’amore.

Sciopero del sesso in Kenya/ Le donne vogliono riforme e non si concedono. Anche le escort aderiscono-da blitzquotidiano.it

Ci sono tanti modi per fare politica e in Kenya le donne ne hanno scelto uno che potrebbe essere più efficace di altri: lo sciopero del sesso, che peraltro ha un precedente illustre 2.500 anni fa nella Lisistrata di Aristofane.

Il motivo che ha indotto le attiviste del G-10, un gruppo che raccoglie organizzazioni femminili, a negare ai rispettivi mariti o compagni le loro grazie per una intera settimana sono le continue beghe all’interno della coalizione governativa che paralizzano il Paese, a quanto riferisce la Cnn. Le donne, invece, vogliono riforme.

Patricia Nyaundi, direttrice della Federation of Women Lawyers kenyota, ha intenzioni talmente serie che nello sciopero sta cercando di coinvolgere anche le prostitute, che verrebbero regolarmente risarcite dei perduti guadagni.

Le attiviste del G-10 hanno sollecitato ad aderire allo sciopero anche le mogli del presidente Mway Kibaki e del primo ministro Raila Odinga. Quest’ultima non ha avuto esitazioni ed ha dichiarato di essere d’accordo sullo sciopero ”al cento per cento”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche Società e costume

«Ma smettetela di parlare di Berlusconi; con tutti i problemi che affliggono l’Italia, le sue gag e le sue gaffes sono cose di nessuna importanza».

Berlusconi/ Silvio & Veronica e l’opposizione di Sua Maestà -blitzquotidiano.it
Che l’Italia sia ormai una repubblica monarchica e che re Silvio I sia già informalmente insediato lo dimostra la vicenda delle veline che il premier voleva mettere in lista. Una cosa che nemmeno il defunto dittatore del Turkmenistan, Saparmyrat Nyýazow, avrebbe mai osato. Segno che il potere e il successo ormai rischiano di ottenebrare, almeno di tanto in tanto, la fertile e geniale mente di uno dei più abili e capaci imprenditori e politici della storia d’Italia.

Ne è derivata una sceneggiata napoletana, con la sinistra che strillava e la signora Veronica (ex attrice a sua volta; «più fortunata delle altre», come una velina del presente le ha fatto notare) che richiamava il marito all’ordine. Infine l’urlo di trionfo dell’opposizione, quando Berlusconi ha dato il contrordine compagni, in un diktat da Varsavia (sempre dall’estero arrivano i diktat: ma se deve occuparsi delle cose italiane anche quando è in viaggio, perché si sposta?). Tutto ciò costituisce un indice di quanto in Italia si sia persa la bussola.

Ha scritto un lettore di Blitzquotidiano: «Ma smettetela di parlare di Berlusconi; con tutti i problemi che affliggono l’Italia, le sue gag e le sue gaffes sono cose di nessuna importanza». E ha pienamente ragione. Purtroppo però gag e gaffes sono sintomi di un malessere più grave e profondo.

La storia delle veline dimostra che la legge elettorale è una legge che rafforza la partitocrazia, cioè il super potere dei partiti. Sull’onda di quel movimento politico di massa che ai primi anni novanta portò alla fine della Dc e del Psi per darci il regime di Berlusconi, si era parlato di apertura dei partiti alla società civile, di avvicinamento dei parlamentari agli elettori e sul tema c’erano stati anche referendum e leggi. Poi, con un colpo di mano, Berlusconi ha fatto la sua legge elettorale, che andava benissimo anche alla sinistra orfana del centralismo democratico, in base alla quale chiunque andava bene, anche il cavallo di Caligola.

Nessuno però se ne preoccupa. Gli unici che, in qualche modo, puntano a un avvicinamento della politica agli elettori sono quelli della Lega, che ottengono la vittoria nell’imporre il federalismo fiscale, ma se si accontentano di questo rischiano una vittoria monca.

E intanto Berlusconi dice di voler mettere le veline in lista. Vede l’aria che tira, capisce che non gli conviene, fa marcia indietro. Non è escluso che la sua intelligenza abbia previsto tutto e che magari il caos sulle veline gli sia servito per far passare sotto silenzio qualche altro più importante problema: un po’ come il calciatore che, dovendo battere il rigore, fa la finta per mandare il portiere dall’altra parte.

Il silenzio della destra sulla vicenda nasconde non l’imbarazzo, ma il totale asservimento dello schieramento al volere del Capo.

E il caos sollevato dalla sinistra dimostra che l’opposizione c’è e lotta per lui: è l’opposizione di sua maestà. Infatti, con i suoi strepiti e urla, cosa ha ottenuto l’opposizione? Una bella vittoria di carta. I giornali esultano, e poi?

A Berlusconi è stata risparmiata una ciclopica sciocchezza, che avrebbe costituito un piccolo, forse, ma significativo argomento in campagna elettorale. Invece è stata tolta una castagna dal fuoco alle tante persone benpensanti della destra, è stato fatto capire al Cavaliere che se avesse insistito la storia gli si sarebbe ritorta contro. E ora potrà felicemente inserire delle persone più presentabili, con tante grazie all’opposizione. Di sua maestà, re Silvio I. (Beh, buona giornata).

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Natura Popoli e politiche Salute e benessere

La rivista “Nature” conferma le affermazione del principe Carlo: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”.

“Se non si agisce subito
tra 20 anni sarà catastrofe”
Sull’ultimo numero della rivista “Nature” le ricerche di autorevoli istituti che danno base scientifica alle affermazioni fatte qualche giorno fa a Roma dal principe Carlo di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it

Il principe Carlo lo aveva detto pochi giorni fa in maniera un po’ esoterica: “Ci restano solo 99 mesi prima di raggiungere il punto di non ritorno. Poi la storia ci giudicherà. E se non agiremo, i nostri nipoti non potranno mai perdonarci”. Qualcuno ha alzato il sopracciglio considerando questo nuovo campanello d’allarme sul cambiamento climatico un vezzo reale. E invece la base scientifica – pur con qualche approssimazione sulle date – c’è. Lo dimostra l’ultimo numero della rivista Nature che in The Climate Crunch mette assieme le ricerche di istituti molto autorevoli (dal Potsdam Institute for Climate Impact Research all’università di Oxford). Conti alla mano, risulta che se non si agisce immediatamente, nel giro di un paio di decenni subiremo un danno di portata catastrofica. Le lancette del count down vanno spostate: l’ora X non scatta più nel 2050 ma tra 20 anni.

E’ un risultato a cui si arriva seguendo due percorsi logici diversi e convergenti. Partiamo dal primo: le emissioni di carbonio. Gli scienziati hanno calcolato che, per contenere l’aumento di temperatura entro i 2 gradi (il livello oltre il quale il prezzo per l’umanità diventa altissimo), bisogna stare ben al di sotto del tetto complessivo di mille miliardi di tonnellate di carbonio. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo consumato quasi metà di questi mille miliardi. Al ritmo attuale di aumento delle emissioni ci giocheremmo la dote restante in una ventina di anni.

Quest’ordine di grandezza torna seguendo un altro ragionamento. Prendiamo la concentrazione delle emissioni di anidride carbonica: in atmosfera c’erano circa 280 parti per milione di CO2 all’alba della rivoluzione industriale, oggi abbiamo superato quota 385 e l’incremento è sempre più veloce: ormai ha superato le due parti per milione l’anno e si avvia verso le 3 parti per anno. Con un incremento di 3 parti per milione l’anno per arrivare a una concentrazione di 450 parti, che è il tetto da considerare invalicabile, ci vorrebbero per l’appunto una ventina di anni.

Tutto ciò ha dei risvolti pratici molto concreti perché l’analisi scientifica lascia aperte due opzioni. O supponiamo che un virus sconosciuto si sia impossessato dei migliori climatologi del mondo portandoli ad affermazioni prive di senso, oppure li prendiamo sul serio e tagliamo subito le emissioni serra che sono prodotte dal consumo di combustibili fossili e dalla deforestazione. La rivista Nature, poco incline a credere all’esistenza del virus che colpisce gli scienziati, arriva a questa conclusione: “Solo un terzo delle riserve economicamente sfruttabili di petrolio, gas e carbone può essere consumato entro il 2100, se vogliamo evitare un aumento di temperatura di 2 gradi”.

E non è detto che anche la stima dei 20 anni non risulti troppo generosa. James Hansen, che per anni ha guidato il Goddard Institute della Nasa, sostiene che il tetto va abbassato e bisognerebbe restare molto al di sotto delle 450 parti per milione. “Anch’io credo che bisognerebbe partire subito e mettere il mondo in sicurezza nell’arco di un decennio perché le capacità di recupero degli ecosistemi stanno arrivando al limite di rottura”, precisa il climatologo Vincenzo Ferrara. “Gli oceani e le foreste che finora hanno assorbito circa una metà del carbonio emesso dalle attività umane sono sempre meno in grado di continuare a svolgere questa funzione: se queste spugne di anidride carbonica smetteranno di catturarla il cambiamento climatico subirà un’accelerazione drammatica”.

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democrazia Popoli e politiche

L’Italia s’è berlusconizzata.

Berlusconi & The Economist/ Di nuovo sotto tiro:”Ha Berlusconizzato l’Italia e resterà al potere indefinitamente” dablitzquotidiano.it

Il settimanale The Economist torna all’attacco del presidente del consiglio Silvio Berlusconi con un lungo articolo intitolato ”La Berlusconizzazione dell’Italia”. L’articolo è corredato da una caricatura di Berlusconi raffigurato come un giocatore del Milan con lo stivale italiano al posto della gamba destra.

”La maggior parte degli italiani sembra perdonargli, o per lo meno non andare oltre, le sue innumerevoli gaffe, sia quelle fatte nel corso di talk show televisivi, sia quelle consumate nel corso di summit internazionali”.

Il settimanale britannico quindi non molla e torna alla carica contro il premier italiano a poche settimane dalla vittoria legale nella causa per la copertina intitolata “Perché Berlusconi non è adatto a governare l’Italia”, che – nel 2001 – aveva spinto Berlusconi a presentare un ricorso per diffamazione presso il Tribunale di Milano.

Questa volta The Economist tenta di spiegare come Silvio Berlusconi avrebbe ulteriormente consolidato il suo potere personale.

“The Economist” esamina il paradosso di un primo ministro che rimane ‘’significativamente più popolare della maggior parte degli altri leader europei, anche quando il Fondo monetario internazionale prevede che il Pil italiano crollerà quest’anno del 4,4%, mostrando un calo maggiore di quello di Gran Bretagna, Francia o Spagna”.

E la spiegazione fornita dal settimanale britannico fa leva su argomenti di ordine demografico, puntando sulla constatazione che ”ogni italiano sotto l’età dei trent’anni ha raggiunto la maturità politica sotto l’influenza dell’impero mediatico della famiglia Berlusconi”.

”Quindici anni fa – osserva l’Economist – un ‘azzurro’ rappresentava l’Italia nelle competizioni sportive internazionali e un ‘moderato’ era un centrista”. ”Oggi – continua il settimanale – un azzurro è qualcuno che rappresenta Berlusconi in Parlamento, un moderato o qualcuno che vota per lui”.

The Economist rileva poi la forza dell’impatto della ”berlusconizzazione” sull’Italia: ”un impatto tale da infondere nella maggior parte della società italiana la convinzione che l’attuale primo ministro resterà al potere indefinitamente”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
The Economist

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Veline&politica: “E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico.”

Le veline e l’evoluzione
della specie (im)politica
di Ilvo Diamanti -la Repubblica

Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l’indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.
Amplificando la vicenda. Come, d’altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che – non da oggi – la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l’informazione, l’informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d’altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di “Striscia la notizia”. Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l’icona e il simbolo dell’informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica – e non – sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell’informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all’informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire…

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po’ ambiguo. Strizzando l’occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da “momenti alti” di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l’intera giornata. Mattine sull’Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c’è politico disposto a rinunciare a un’occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c’è la televisione? Ma se c’è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all’altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l’immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant’altro sono già stati – taluni sono ancora – in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all’altro dello spazio politico, da un partito all’altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all’abbandono dei luoghi sociali della politica.

All’evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L’evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista. (Beh, buona giornata).

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Attualità Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Peste suina: il virus, il panico, i governi.

In un bell’articolo apparso oggi sul quotidiano la Repubblica, il professor Umberto Veronesi scrive: “Se da un lato i rischi per la salute in un mondo consumista e globalizzato aumentano, dall’altro aumentano anche gli strumenti per capirle e le misure per farvi fronte. Faccio quindi un appello alla gente perché, proprio nei momenti di maggiore insicurezza, come questo, abbia ancora più fiducia nella scienza, nella medicina, e nelle capacità dei suoi uomini di salvaguardare il loro bene più prezioso: la salute.”

Tutto giusto, se non fosse che il problema non è la fiducia nella scienza, quanto la sfiducia nellla politica, in particolare nei Governi. Ha detto una volta Nelson Mandela che certi governi dell’Africa sono stati una epidemia peggiore dell’Aids, virus ha ha flaggellato quel continente e che ancora continua a mietere vittime. I governi del mondo globalizzato hanno fatto “carne di porco” di quasi tutti i diritti, compreso il diritto alla salute, che ha sempre lasciato il posto al profitto. E’ questo che crea panico, più del virus della peste suina. Beh, buona giornata.

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Animali Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Peste suina: quando lanciano gli allarmi, spesso esagerano. E se esagerassero anche quando dicono che non c’è pericolo?

Il Messico tra polemiche e panico
“Ci staranno dicendo la verità?” da repubblica.it

Strade semideserte, l’esercito che distribuisce a tutti mascherine azzurre, l’ordine di evitare ogni contatto non necessario con la gente, di non stringere mani, non condividere posate o bicchieri, non baciarsi. E’ quasi surreale l’atmosfera asettica che si respira a Città del Messico, paralizzata dall’emergenza influenza suina, e nelle altre zone del Messico dove si trovano i focolai del contagio. E la gente non sa bene come reagire all’allarme: le numerose testimonianze che arrivano ai giornali, alle reti tv, siti e network – locali ed internazionali – raccontano di persone spaventate, trovatesi da un giorno all’altro in un incubo che ha cambiato loro la vita, anche se qualcuno è convinto che l’allarme dato dai media sia esagerato.

“Ho paura, lavoro per una grande compagnia e credo che questa influenza sia molto contagiosa” scrive Nallely L alla Bbc. “E’ tutto molto strano”, continua, “la gente rimane in casa o esce solo per andare a fare la spesa o all’ospedale. La maggioranza gira con le mascherine sulla bocca, concerti, festival, perfino la messa sono stati cancellati. Le trasmissioni alla radio e alla tv sono interrotte da comunicati che informano sui sintomi, e dicono di andare subito dal dottore se ci si sente malati”.

Molti temono che le autorità non stiano dicendo tutta la verità: “Mia cognata vive nello stato di San Luis Potosi”, racconta Migdalia Cruz, da Phoeniz, in Arizona. “Lì ci sono già stati almeno 78 morti, solo in città, non 68 in tutto il Messico come continuano a dire”.

“La verità è che le cose sono ben lontane dall’essere sotto controllo” le fa eco Carla, da Città del Messico. “E’ peggio di quello che crediamo, qualcuno la prende come uno scherzo, ma io no”.

Neppure le famose mascherine azzurre, distribuite per le strade e su bus e metropolitane riescono a tranquillizzare e la fobia è ormai generalizzata: “Mi preoccupa vedere come stanno lavorando i soldati che distribuiscono le protezioni. Perché non si mettono i guanti di lattice?” chiede Amelia Batani, che scrive al forum online del quotidiano messicano El Universal.

Ansia condivisa anche da Araceli Cruz, studentessa di 24 anni, che dice: “Potevano fermarla in tempo, ora hanno lasciato che si diffondesse fra la gente”.

Si ha paura di ammalarsi anche andando al lavoro. Due colleghi di Adriana, che scrive sempre da Città del Messico, hanno avuto sintomi influenzali qualche giorno fa, ma il dottore li ha fatti tornare al lavoro. “Io lavoro in un call center, non ci sono finestre e non è possibile aerare i locali e ci sono almeno 400 persone che ci lavorano”, racconta preoccupata. “Fate voi i calcoli: i locali non sono stati sterilizzati e il rischio di contagio è altissimo”.

La preoccupazione non è solo della gente comune. Anche i medici non sono tranquilli: uno di loro, che si firma “medico mexicano” in servizio negli ospedali messicani scrive nella sezione dedicata di El Mundo, descrivendo una situazione da panico, dando vita ad un’accesa discussione sul forum. “Sono specializzato in malattie respiratorie e in terapia intensiva”, dice. “I trattamenti antivirali non stanno avendo il successo sperato e la gente continua a morire, anche giovani di meno di 30 o 20 anni. Il personale è molto spaventato, data la virulenza del virus. Nella struttura dove lavoro, almeno 3-4 persone al giorno muoiono per questa epidemia”. E aggiunge: “Ci dicono di non parlare con la stampa, che verremo sanzionati se lo facciamo”.

Qualche voce fuori dal coro c’è. Come Jordi, che invita tutti a darsi una calmata e dice che il quadro non è poi così fosco: “Siamo in uno stato di preoccupazione, ma non c’è alcun panico”. Difficile, però, che riesca a rasserenare qualcuno. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Il ceto medio impoverito è sul piede di guerra: “una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista.”

Crisi, le microimprese pagano il conto di Dario Di Vico da corriere.it
La «secessione» del piccolo ceto medio Viaggio tra imprenditori e artigiani. E le associazioni alzano il tiro

A Varese artigiani e banchieri del credito cooperativo hanno addirittura steso una «Carta dei Valori del territorio del Nord Ovest», un’area decisiva per lo sviluppo del Paese visto che ospita due cattedrali della modernità come la Fiera di Rho e l’aeroporto della Malpensa. Il documento assomiglia a un Manifesto del piccolo ceto medio, rende omaggio «al mercato» ma lo integra e lo «circonda» con una serie di principi di ispirazione comunitaria che rimandano alla «centralità della persona», alla «unità della famiglia», alla «ricerca della qualità» e al «metodo dell’ascolto». Fino a tessere l’elogio del volontariato. A Bergamo una dozzina di associazioni del mondo produttivo, comprese la Coldiretti e la Lega Coop, hanno creato un cartello per cercare di imporre un loro candidato alla testa della locale Camera di Commercio, tradizionale roccaforte degli industriali.

Da Roma lo slogan scelto dalla Confartigianato per il reclutamento 2009 suona quasi apocalittico: «O il declino o noi». Intanto da mesi le banche di Credito Cooperativo continuano a guadagnare quote di mercato con tanto di riconoscimento sia della Banca d’Italia sia del ministro Giulio Tremonti. I piccoli banchieri sostengono di aver lavorato in funzione anti-ciclica, hanno aperto i rubinetti del credito quando la recessione ha cominciato a mordere e gli altri li chiudevano. E presentano tutto ciò come un modo diverso di fare banca secondo i principi della «simmetria informativa». Banchieri e imprenditori che dispongono delle stesse informazioni. Tutto il mondo dei piccoli è in fibrillazione. Le microimprese, gli artigiani, le partite Iva, i commercianti, i piccoli professionisti non vogliono più far tappezzeria.

Si preparano a dar vita a una secessione sociale, vogliono staccarsi da una rappresentazione del Paese che non li convince, anzi li irrita. Come se la crisi avesse rotto i freni inibitori e le accuse all’establishment, che prima venivano sussurrate, oggi vengono gridate. Le loro associazioni, bianche o rosse che siano state nel Novecento, stanno così vivendo una nuova stagione di protagonismo: le iniziative in giro per l’Italia non si contano più e tutto questo ambaradan sta mettendo in mostra, tra l’altro, una nuova classe dirigente che non sembra aver paura di sfidare il mondo dei grandi interessi industriali o creditizi. La Primavera dei Piccoli non solo riguarda solo le loro terre d’elezione, a partire dal mitico Nord Est dove i registri delle Camere di Commercio segnalano un’impresa ogni otto persone vecchi e bambini compresi. Ma anche Urbino — solo per fare un esempio — dove è partita una spinta dal basso per una legge di iniziativa popolare a difesa del made in Italy con l’istituzione del marchio «100 per cento Italia» e persino a Roma, al IV municipio le associazioni di Via e i piccoli imprenditori presenti sul territorio si stanno mobilitando a difesa dei propri interessi.

La verità è che la paura fa novanta e le varie Confcommercio o Cna hanno il fondato sospetto che alla fine a pagare il conto della crisi siano loro e solo loro, i piccoli. Così mentre nelle grandi organizzazioni, come la Confindustria, emergono dopo mesi di pessimismo le prime analisi sugli spiragli del post-crisi, a Varese i dirigenti della Confartigianato hanno chiamato a raccolta i giornali per suonare l’allarme e denunciare quella che chiamano «la forbice dei tassi». «La crisi del credito costa alle imprese 13,8 miliardi l’anno — hanno accusato — e la colpa è delle banche che non adeguano i tassi di mercato a quelli di riferimento della Bce». Secondo le cifre elaborate dagli artigiani, mentre i grand commis di Francoforte hanno ridotto il costo del denaro di 2,25%, il calo di cui si sono giovate le piccole imprese che si presentano allo sportello è misero: solo lo 0,77%. Il mancato ribasso costa a un’azienda del Nord Ovest in media 3.300 euro e per un artigiano far tornare i conti diventa un rompicapo. Spiega Pietro Lavazza della Confartigianato dell’Alto Milanese: «Se da noi si continua a fare impresa è perché ci siamo noi piccoli, altrimenti l’area attorno a Legnano, che pure in passato aveva ospitato grandi complessi industriali, diventerebbe una zona dormitorio dove la ricchezza viene consumata ma non viene prodotta».

Concetti non dissimili vengono fuori dagli uomini della Confcommercio. «Attenti all’effetto banlieue» è il loro refrain. E anche in questo caso tornano in ballo i valori di un’italianità tradizionale ma non per questo arcaica. Argomenta Mariano Bella dell’ufficio studi: «I negozi continuano a chiudere e le nostre città rischiano di non somigliare più a se stesse ma per l’appunto alle banlieue parigine, quelle sempre sul filo della rivolta. Senza fruttivendoli, macellerie, panetterie avanza la desertificazione dei centri storici ma anche delle periferie. E se fino a poco tempo il commercio assorbiva occupazione dagli altri settori ora non è più così». I numeri che produce Bella sono impressionanti: nel solo 2008 hanno chiuso circa 40 mila esercizi, di cui almeno 7 mila tra alberghi e ristoranti. E la previsione, ma forse è il caso di dire la certezza, è che nel 2009 questo record negativo possa essere ampiamente superato. Si dirà: chiudono i piccoli negozi e arrivano (finalmente) i moderni supermercati. No, almeno al Nord — nel Mezzogiorno tutto è più lento — non è più così, «il travaso dal piccolo al grande sta per finire» e quindi il commercio non svolge già più quel ruolo di tampone occupazionale che ha svolto in passato contribuendo, tra l’altro, alla regolarizzazione di un buon numero di immigrati.

Se i piccoli commercianti hanno i capelli dritti anche le imprese manifatturiere di piccola dimensione sono in ambasce. Lo dimostra, tra gli altri, uno studio della Dun & Bradstreet, una società americana che ogni anno analizza le imprese italiane studiando bilanci e andamento dei loro affari. Il loro è un bollettino di guerra: nella fascia delle aziende con meno di 250 dipendenti e un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro rischiano di chiudere o fallire oltre al 6% dei negozi, anche il 7% delle industrie manifatturiere, il 9% delle aziende di trasporto e addirittura il 12% delle imprese edili. Spiega Paolo Engheben, amministratore delegato della D&B, che «in Italia è sempre più difficile ricevere i pagamenti in orario e non solo quelli che riguardano la pubblica amministrazione. Le imprese sia grandi sia medie onorano i contratti ben oltre la scadenze delle fatture e nell’ultimo trimestre del 2008 per i ricevere i propri soldi le piccole hanno dovuto aspettare anche più di 200 giorni».

In parole povere chi sta a valle del processo produttivo, i subfornitori, rimane schiacciato dalla crisi e magari dai comportamenti delle grandi aziende, che hanno richiamato lavorazioni o interi pezzi del processo produttivo dati all’esterno. I numeri elaborati da D&B sono confermati da Movimprese, il monitoraggio su natalità e mortalità delle imprese aggiornato con regolarità dall’Unioncamere. Il segnale è di allarme rosso soprattutto per l’artigianato delle regioni settentrionali. Compreso il Nord Est. «Quella che manca è la liquidità, non i lavori — puntualizza Giuseppe Bortolussi della Cgia di Mestre —. L’artigiano non li accetta perché ha paura di non venir pagato mentre quando un falegname compra il legno o un posatore le piastrelle deve pagare in contanti». Nonostante la crisi li falcidi i piccoli artigiani, imprenditori o commercianti temono, anzi sono convinti, di non far notizia. Quando i portoni delle microimprese chiudono non c’è nessuna organizzazione sindacale a presidiarli, nessun politico a presentare (almeno) la canonica interrogazione parlamentare, nessun cronista a registrare il lutto. Se avessero tradizioni barricadere magari bloccherebbero i binari delle stazioni o andrebbero a farsi sentire sotto le finestre di quei prefetti chiamati dal governo a controllare l’andamento delle economie locali. Ma non lo fanno.

Poco meno di un anno fa Silvio Berlusconi all’assemblea nazionale della Confartigianato disse che «se una cosa va bene alle piccole imprese, va bene al Paese». I fatti, però, sostiene il presidente Giorgio Guerrini, non sono arrivati e finora il governo ha avuto occhi e orecchie solo per le banche e per la Fiat. «Ma una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista». Del resto nonostante sia largamente maggioritario per numeri, il piccolo ceto medio non ha mai goduto di buona letteratura. Persino i precari dei call center hanno trovato il loro Aldo Nove o le loro Ferilli che li hanno immortalati nell’immaginario collettivo con un libro o con un film, loro no.

Il cinema è ancora innamorato della grande industria come se da Rocco e i suoi fratelli che raccontava l’immigrazione in fabbrica alla recente Signorina Effe , con Flm e Fiat protagoniste, non fosse cambiato niente nel nostro capitalismo. E per trovare un romanzo dedicato alle angosce del piccolo imprenditore bisogna ripescare il non recentissimo L’età dell’oro del pratese Edoardo Nesi che racconta le peripezie di un cenciaiolo alle prese con la concorrenza dei cinesi. La sinistra poi — che gli intellettuali ha sempre frequentato con maggiore intensità — il piccolo non l’ha mai amato, l’ha sempre considerato il ventre molle della nazione contrapposto alla Grande Fabbrica, al Grande Imprenditore, al Patto dei produttori. «Per i piccoli commercianti che chiudono non ci sono ammortizzatori sociali come per gli operai, queste cose contano», commenta Bella della Confcommercio. Che spiega come la sua organizzazione abbia cercato di evitare di fare «battaglie di retroguardia», ovvero lottare contro le liberalizzazioni, le lenzuolate alla Bersani. «Ma deregolare solo e sempre il commercio è stato un errore della politica. I piccoli si sono visti ancora una volta nel mirino».

Un modo di presentare il mercato e le modernizzazioni come una sciagura e non come un’opportunità per favorire la concorrenza e aprire la società. «Artigiani e micro-imprenditori — sostiene Savino Pezzotta, bergamasco doc, ex segretario della Cisl — hanno con il mercato un rapporto ambivalente. Ne temono la durezza, ma sanno starci dentro e non si tirano indietro. Se c’è da battersi per conquistare fatturato in Cina le microimprese delle mie zone non si fanno pregare, prendono l’aereo e vanno». Ma si deve trattare di un mercato che non usa due pesi e due misure, che non salva il carrozzone di Stato chiamato Alitalia e invece si gira dall’altra parte quando chiudono i battenti le piccole imprese. (Beh, buona giornata).

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Animali Attualità Finanza - Economia - Lavoro Natura Popoli e politiche Salute e benessere Società e costume

Peste suina: la Fattoria degli animali di Orwell si è globalizzata.

La peste nascosta fra i grattacieli
nelle strade un nemico invisibile
di VITTORIO ZUCCONI-Repubblica

WASHINGTON – Nella città della perenne Apocalisse reale e immaginaria, non poteva non sbarcare anche la peste orwelliana, la vendetta dei maiali sugli umani, sotto forma dell’influenza suina, un nemico invisibile che ha colpito il quartiere di Queens con otto studenti ammalati.

Con una densità di undicimila abitanti per chilometro quadrato, più del triplo di Milano, e una umanità che ogni giorno si accalca nelle sue strade, nella carrozze della metropolitana, nei treni dei pendolari, nelle conigliere dei suoi grattacieli, i quattro borghi che formano New York sono il terreno di cultura ideale per ogni batterio, virus e microrganismo che si trasmetta per contatto umano. E dunque l’incubatrice perfetta per la diffusione della nuova psicosi da fine del mondo che dalle porcilaie del Messico ha attraversato la frontiera del Rio Grande e si sta allargando al Nord.
Casi di questa variante del virus influenzale trasmissibile dai maiali e agli umani sono stati registrati anche in passato, creando addirittura una campagna di vaccinazione collettiva del tutto inutile e in molti casi micidiale ordinata dal presidente Ford nel 1976, e da giorni sono segnalati nelle zone di confine con il Messico, Stati come la California, l’Arizona e il Messico.

Ma è lo sbarco a New York del virus, individuato in otto studenti del Liceo San Francesco a Queens a trasformare l’epidemia di questa forma temibile, ma non nuova come le prime notizie frettolosamente indicano, di influenza in un evento che ha raggiunto addirittura la Casa Bianca, dalla quale il Presidente Obama è stato costretto a comunicare di star benissimo, al ritorno dal viaggio in Messico.

Queens è, ancora più di Brooklyn lentamente rinconquistato dalla borghesia middle class debordata da Manhattan, l’ultimo e il massimo melting pot, crogiolo di razze e di lingue, di New York, lo sterminato “borough”, borgo, nel quale convivono emigrati arabi e africani, latinos e asiatici. Fu sopra le casette di Queens, che pochi giorni dopo l’11 settembre, precipitò un aereo di linea, facendo subito pensare a una nuova ondata di attacchi terroristici, che nei mesi scorsi virò senza più motori in funzione il jet che poi miracolosamente planò sul fiume Hudson.
Queens ospita quell’aeroporto nel quale si affolla ogni giorno la babele del mondo, il John F. Kennedy, e che le agenzia per la sicurezza guardano come al formicaio nel quale potrebbero annidarsi le cellule maligne del prossimo attacco.

Era dunque ovvio, se non atteso, che sarebbero stati i leggendari tabloid di New York a sporcare per primi le loro prime pagine con gli annunci della nuova peste, a mettere in guardia, e quindi a causare, l’onda di panico che sta afferrando il popolo della “Grande Mela” e che ha spinto 100 degli studenti del Liceo San Francesco a farsi visitare in massa tutti convinti di avere contratto il virus dell’influenza suina dopo una gita scolastica di massa proprio a Città del Messico. Risultandone infetti soltanto in otto, forse nove, in forme blande, anche grazie alla loro età e salute generale. Ma da ieri, dopo l’esplosione dei titoli e delle news locali, gli ospedali e i pronto soccorso di questa nazione città sono invasi da tutti coloro che esibiscono quei sintomi vaghi e insieme sinistri, mal di gola, stanchezza, brividi, tosse, particolarmente diffusi grazie alle allergie primaverili.

Da sempre, con orgoglio e con ansia contenuta, New York sa di essere, vuole essere la terra dove il mondo finirà, per essersi vista tante volte al cinema in quel ruolo. Anche questa ennesima “pandemia” che spazzerà via l’umanità, come la dovevano spazzare via l’influenza aviaria, la Sars, il prione della mucca pazza, l’Ebola, la febbre gialla, la nuova tubercolosi resistente agli antibiotici, il retrovirus, ha ora in New York il proprio palcoscenico ideale, capace di toccare il mondo che in questa città la lasciato qualcosa di se stesso e porta quel senso oscuro, orwellianamente perfetto, della vendetta del mondo dei maiali contro il mondo degli umani. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

«Date da mangiare ai poveri! Mangiate i ricchi!»: manifestazioni e scontri a Washington contro il vertice del Fondo monetario internazionale.

(fonte: lastampa.it)
Più di una dozzina di vetri di banche infranti, scontri con la polizia e qualche ferito. Finora si tratta solo di episodi, ma la polizia di Washington rimane in stato di allerta, nel fine settimana in cui si svolgono le riunioni primaverili del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

I cartelloni portati dai manifestanti lanciano infatti messaggi inequivocabili. «Capitalismo, non resuscitare», e anche «Date da mangiare ai poveri! Mangiate i ricchi!». Il clima si è fatto più teso, quando sei persone sono state arrestate dopo aver infranto i vetri di alcune banche della città, in particolare – stando a quanto riporta il Washington Post – di una filiale di Wachovia Bank e di un’altra di Pnc Bank.

Altri disordini sono stati scatenati poco dopo da un rally organizzato da 200 persone circa vicino alla sede dell’Fmi e della Banca Mondiale.

I manifestanti hanno tentato di entrare nelle strade chiuse al traffico; a quel punto la polizia è intervenuta con manganelli e spray al pepe nell’intento di allontanare gli attivisti.

Alcuni manifestanti sono stati spinti a terra ma, secondo quanto spiegato da Jeffrey Harold, responsabile della polizia di Washington D.C., le autorità sono state costrette a intervenire in quanto sorprese dalla folla. Durante il tafferuglio, un 22enne è stato arrestato dopo aver spruzzato dello spray al pepe contro un poliziotto.

I manifestanti hanno però puntato il dito contro la reazione della polizia che, a loro avviso, avrebbe agito senza lanciare alcun avvertimento. La reazione delle forze dell’ordine, ha confermato dal canto suo il reverendo Don Thompson, di 73 anni, «è stata molto eccessiva. Non ci hanno dato il tempo di lasciare libera la strada». Lo stesso Thompson è finito a terra, mentre i poliziotti stavano allontanando i dimostranti.

Raccontando l’accaduto Nicole Davis, 22 anni di Washington, ha riferito che la polizia ha sollevato fisicamente lei e altri nove manifestanti dalla strada al marciapiede. Nello spiegare i motivi della sua personale protesta, Davis ha detto che «chiaramente, il capitalismo non sta funzionando» e che «c’è bisogno di un sistema differente». Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Fmi decide a tavolino che ci sono segnali di ripresa economica.

Crisi, recessione, ripresa/ Draghi, Geithner, Zhou, Tremonti: c’è ancora, ma quasi non c’è più da blitzquotidiano.it

Riuniti a Washington, nella sede dell’Imfc, braccio operativo del Fondo monetario internazionale, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha detto: “Nelle ultime settimane abbiamo assistito a un modesto recupero di fiducia sul mercato. Sembra che gli scenari peggiori sulle prospettive dell’economia globale e del sistema finanziario non siano più così centrali nel pensiero dei partecipanti al mercato”.

Secondo l’agenzia di stampa Agi, Draghi ha detto che il miglioramento di clima “offre una finestra di opportunità unica sia per le azioni a breve termine tese a stabilizzare le istituzioni e promuovere l’espansione del credito sia per realizzare misure tese a rafforzare il sistema nel lungo periodo”.

Ha proseguito Draghi: il nostro obiettivo principale è rompere il circolo vizioso che si è instaurato tra il sistema finanziario e l’economia reale”. In questa direzione, ha sottolineato il governatore, “un punto chiave” è “ripulire i bilanci delle istituzioni finanziarie”. Dal canto loro, “le autorità hanno adottato un’ampia gamma di misure per iniettare capitale nelle banche, garantire i loro obblighi e ridurre o rimuovere la loro esposizione verso gli asset tossici”.

L’obiettivo finale di queste azioni, ha osservato ancora Draghi, è “creare un contesto in cui le banche siano in grado di ripulire i loro bilanci attraverso una crescita sostenibile dei profitti e raccogliere il capitale di cui hanno bisogno dal mercato privatoa un costo relativamente bassi”. Ciò, ha aggiunto Draghi,”significa anche fornire sufficiente trasparenza sulle esposizioni a rischio per consentire al mercato di distinguere tra banche deboli e banche forti e ridurne le incertezze”.

“Parte centrale di questo processo”, ha affermato il governatore, sono gli stress test, che rappresentano “uno sforzo per migliorare la trasparenza”. Proprio gli stress test negli Stati Uniti sono stati uno degli argomenti al centro della riunione, anche se, ha detto Draghi, se ne è parlato in termini generali senza andare nel dettaglio dei risultati dei singoli istituti.

Draghi però ha anche detto che la situazione di capitale delle banche italiane è positiva. ”Conduciamo regolarmente stress test: se avessero rilevato situazione di sottocapitalizzazione, l’autorità di vigilanza avrebbe reagito”.

Alla riunione del Fondo c’era anche il segretario al Tesoro americano, Timothy Githner. Ha detto: la ripresa economica negli Stati Uniti non è dietro l’angolo, anche se il peggio è forse ormai alle spalle. ”L’economia statunitense ha di fronte sfide serie e ci vorrà tempo perché i fondamentali migliorino”. Geithner non ha comunque mancato di sottolineare che “ci sono alcuni segnali positivi e gli sforzi per stabilire la stabilità del mercato finanziario e stimolare la crescita sono ben avviati”. Insomma, gli Usa “stanno facendo la loro parte ma siamo consapevoli”, ha concluso Geithner, “che la nostra ripresa dipendera’ da quella mondiale”.

C’era anche il presidente della Banca Centrale Cinese, Zhou Xiaochuan. La Cina, ha detto è nelle condizioni di poter mantenere un ritmo di crescita stabile e relativamente elevato. Zhou ha affermato che i trend di crescita cinesi non cambieranno nel lungo termine e che il governo di Pechino continuerà a portare avanti le politiche fiscali e di espansione monetaria adeguate a rispondere alla crisi.

E c’era anche il ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti: ”Sul fronte dell’occupazione non sono in vista nuovi interventi”, ha detto. “La base di riferimento è il recovery plan europeo. Riteniamo che quanto messo in campo sia sufficiente. Se servirà altro lo metteremo in campo”. (Beh, buona giornata).

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democrazia Popoli e politiche

Che cos’è diventata la politica ai tempi del berlusconismo.

LA POLITICA ACCORCIATA

di Aldo Schiavone -La Repubblica

IL POTERE politico, nel tempo della crisi. Non solo la sua composizione sostanziale: i rapporti di forza che lo determinano, le strutturee le decisioni che gli danno effettività e consistenza. Anche il suo riflesso mediatico, che è non meno penetrantee reale; lo spettacolo che mette in scena ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita quotidiana. È questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti – che si tratti di economia o di terremoto, e tanto più se di tutt’ e due insieme – l’ immagine della politica tende inevitabilmente a trasformarsi.

Lo stato d’ eccezione – e la storica fragilità dell’ Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni – spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione “contratta” e semplificata del potere, e a soddisfarsene come l’ unica adeguata alla concitazione e all’ incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non sembra siano necessarie mediazioni.

C’ è bisogno di presa diretta. Una politica “accorciata” al massimo (c’ è chi dice “verticalizzata”, ma dubito che sia la parola giusta), e anche una politica “vicina” e “veloce”, che non si nasconde nelle nebbie dell’ indistinto. Se la situazione precipita, il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente: e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa condizione come l’ inevitabile “deriva populista” che accompagna sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione di difficoltà e di paure.

È qualcosa di simile a una “legge tendenziale”, cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi, fondamentalmente diversi, di comportarsi di frontea questa specie di obbligato slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a rendere “istituzionale” la spinta populista, ad assumerne acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, e a farne l’ unico centro di una strategia politica che non sa e non vuole vedere altro.

Esso mira unicamente a stabilire e ad alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il “suo” popolo, e a comprimere e marginalizzare tutto il resto – altre forme di rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali – come un inutile impaccio. L’ emergenza – crisi economica, terremoto, gestione dei rifiuti a Napoli – è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una “grazia” che arriva dall’ alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza, risorse; e dall’ altro un “capo” che sceglie e decide per tutti, al più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. È un modo di stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il transfert di sovranità alla base dell’ investitura a governare.

È lo stile di Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d’ urgenza, perché non c’ è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della “frontiera democratica”. Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il consenso in egemonia.

A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di partecipazione collettiva, di presenza democratica “dal basso”; innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un’ idea complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero l’ emergenza e lo stato d’ eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire un’ egemonia intellettuale e morale. È lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo).

In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po’ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie – forse non tutte “politicamente corrette”, ma questo è il vero e ineludibile nodo della questione – di quella parte di popolo già “liquefatta” dalla trasformazione postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale del Paese, di ridargli insomma un’ anima “popolare” condivisa, e nello stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più senso critico. Ne saremo capaci? (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

25 Aprile: “per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute.”

di Marco Revelli
Le piazze rubate
del 25 aprile da ilmanifesto.it

Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l’equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni – l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.

Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.

Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.

Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?

Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Ovunque nel mondo il fondamentalismo religioso è un po’ pazzo e un po’ pericoloso. Insopportabile, sempre.

di Francesco Battistini da corriere.it

GERUSALEMME – Separati in bus. Pensiline col divisorio. Niente calche immonde. E nessun bisogno di cedere il posto alle signore. Perché le signore devono viaggiare su mezzi propri, con linee a parte, salendo e scendendo ad apposite fermate. L’ultima battaglia dei rabbini estremi è la chiacchiera preferita, sugli autobus di Gerusalemme, e gli animi si scaldano: al sindaco della città, Nir Barkat, è arrivata l’ennesima petizione degli ultraortodossi che considerano immondo, nella città sacra, vedere questi carichi di persone mischiate fra loro all’ora di punta, uomini e donne che si schiacciano (e quindi si toccano) senza pudore.

Mai più: i rabbini vogliono altre carrozze kosher, maschi di qua e femmine di là, anzi vogliono solo pullman timorati di Dio, come già ne hanno ottenuti l’anno scorso quando la compagnia municipalizzata Egged provvide alle loro esigenze e si dotò di mezzi secondo morale. Le intenzioni sono serie e l’hanno dimostrato giovedì sera, dopo un sit-in di duemila persone all’ingresso di Meah Sharim, il quartiere dei turboreligiosi: «Traveling the right way», viaggiare nel modo giusto e sulla retta via, hanno scandito sotto un palco. Al corteo hanno partecipato anche autisti della Egged, che appoggiano l’idea dei bus separati. Per le gerarchie religiose di Gerusalemme, i trasporti pubblici sono un’ossessione. Durante l’ultima campagna elettorale, hanno chiesto e ottenuto che le pubblicità sulle fiancate dei mezzi non mostrassero foto di candidate donne: la stessa Tzipi Livni s’è dovuta accontentare di scritte acchiappavoti.

L’anno scorso, un gruppo di rabbini s’è scagliato contro gl’infernali lavori della metropolitana scoperta che, da mesi e almeno fino al 2011, stanno paralizzando il traffico cittadino. La loro preoccupazione non è l’effetto devastante del trenino, che in barba a ogni vincolo e nell’assordante silenzio dell’Unesco passerà perfino sotto le antiche mura di Suleimano il Magnifico: no, gli ortodossi temono la «contaminazione« che la nuova linea provocherà, costringendoli a entrare in quartieri che di solito evitano. Pure qui, la protesta monta e la compagnia tranviaria è dovuta ricorrere all’acquisto di carrozze speciali, blindate, a prova di sassaiole: non solo per le eventuali reazioni dei religiosi, ma soprattutto perché il trenino elettrico finirà per sfiorare anche zone calde palestinesi.

Tanto attivismo comincia a stancare e a suscitare reazioni, in una città dove ormai i religiosi sono più del 30 per cento della popolazione. Alla manifestazione dell’altro giorno, se n’è opposta un’altra (più piccola) di giovani israeliani con cartelli che dicevano «non vogliamo diventare un altro Iran», «no all’apartheid dei trasporti», «no alla segregazione sugli autobus»… Ferma anche la risposta di Rachel Azaria, responsabile del comune di Gerusalemme: «Il trasporto è un diritto di libertà – dice -. Io non obbligo nessuno a sedersi vicino a me. E chiunque può decidere, da solo, se sedersi o no vicino a qualcun altro. Non possiamo accettare, però, che qualcuno venga a dirci come dobbiamo sederci e viaggiare sui nostri autobus. Non fosse così, non lo chiameremmo trasporto pubblico». (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

“Si è messo a gridare che le scelte si equivalevano, io partigiano e lui repubblichino. Tutti e due cambattevamo per gli ideali. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto e la storia non la raccontano i vincitori ma semplicemente chi ha buona memoria”.

Quando una scelta non vale l’altra
pagine della guerra di Liberazione
Mario Dal Pra e la disputa sull’8 settembre e i militari italiani

di MATTEO TONELLI da repubblica.it
“Si è messo a gridare che le scelte si equivalevano, io partigiano e lui repubblichino. Tutti e due cambattevamo per gli ideali. Gli ho detto: puoi girarla come vuoi, tanto la ragione resta ragione e il torto resta torto e la storia non la raccontano i vincitori ma semplicemente chi ha buona memoria”. Basterebbe questo per dare il senso di “I nostri occhi sporchi di terra” di Dario Buzzolan (Baldini e Castoldi. 303 pagine. euro 17,50). Un romanzo che parla di uomini che hanno saputo scegliere, di prezzi da pagare. E di valori che non scoloriscono con il tempo.

La guerra è appena finita. E’ il 1954, l’Italia è libera ma la scia di sangue non si arresta. Quarant’anni dopo, una figlia vede sparire suo padre Davide. Si pensa a un suicidio ma non è così. La ricerca svela una storia fatta di rancori. Di storie private che si intrecciano con quelle pubbliche. Davide è accusato di aver ucciso un repubblichino dopo la fine della guerra, per pura vendetta personale. Torna la guerra partigiana, l’odio, la morte, la delusione nel vedere, a fine guerra, che chi massacrava e torturava veniva amnistiato. E più tardi avvertire sulla pelle quel senso di messa in discussione delle scelte “obbligate” fatte quarant’anni prima. Eppoi l’amore per una donna che tiene insieme la storia. Parte così il percorso della ragazza che oscilla tra il presente e il passato. Alla fine troverà il padre. E anche la risposta alla domanda se può esistere un mondo migliore.

Sabbia negli ingranaggi. Piccoli gesti anonimi ma decisivi. Perché la guerra di Liberazione si è combattuta anche così. Non solo imbracciando un mitra ma anche minando, dall’interno, l’ingranaggio degli occupanti. Dagli archivi di Oreste Lisandri, Cristiano Armati ha tratto “Il libretto rosso dei partigiani” (Purple Press. 119 pagine. euro 9,9). Un invito al sabotaggio e alla resistenza passiva diffuso a Roma. Minuziose istruzioni, celate dalla copertina dell’orario dei treni, per operai, ingegneri, agricoltori, meccanici. Qualche esempio: “Se cade una bomba vicino alla fabbrica approfittatene per rompere le macchine”; “sbagliate la velocità delle macchine, non mettete olio lubrificante”, “fate saltare le turbine aumentando il flusso d’aria nel condensatore”. Ed ancora i trasporti. Ferrovie in primis: “Uno dei mezzi migliori per frenare lo sforzo di guerra tedesco consiste nell’applicare alla lettera i regolamenti. Limitare la velocità, andare al passo”. Pagine che indicano minuziosamente una strada. Che per essere percorsa aveva bisogno quello che nessuno manuale avrebbe mai potuto dare: il coraggio.

Era il 1974 quando Mario Dal Pra, filosofo, dirigente del Partito d’Azione e membro del Comitato di Liberazione Nazionale, vide pubblicato “La guerra partigiana in Italia. Settembre 1943-Maggio 1944 (Giunti, pagine 336, euro 14,50,). Un libro che somma memorie e testimonianze raccolte dopo le elezioni del 1948. Mettendo una dietro l’altra le relazioni dei partigiani combattenti consegnate al Cnl. Un’opera che non piacque a Raffarele Cadorna, comandante in capo del Corpo volontari della libertà, indispettito per come Del Pra aveva accusato di disfattismo le alte gerachie dell’esercito. Ed è questo il senso delle note polemiche che Cadorna aggiunge di suo pugno al libro. Che in una frase di Dal Pra, scolpisce il senso stesso della guerra di Liberazione. Quell’unione di forze diverse, sia quelle antifasciste “già selezionate durante la lotta nascosta contro il fascismo prima e dopo il 25 luglio”, sia le altre “non coincidenti con quelle antifasciste”. Dall’unione di questi sforzi “nacque la guerra partigiana in Italia”. E questa fu la sua grandezza. (Beh, buona giornata).

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