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Verso Copenhagen 2009: “alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.”

Alla faccia di Copenaghen, dal blog di VALERIO GUALERZI-repubblica.it
Altro che vertice di Copenaghen affossato dalla prepotenza del G2, dalla timidezza di Obama e dalla sfrenata corsa cinese allo sviluppo a suon di emissioni. Non c’è bisogno di andare così lontano per cercare i sicari dell’impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Basta guardarsi in casa. E’ di questi giorni la notizia di alcuni emendamenti presentati dal governo alla Finanziaria 2010 che se approvati ucciderebbero nella culla lo sviluppo delle rinnovabili italiane.

A denunciare l’agguato nel quale rischiano di cadere soprattutto eolico, solare e biomasse, è un cartello di associazioni ambientaliste e organizzazioni del settore. Il testo, spiega un comunicato congiunto di ANEV, APER, FEDERPERN, FIPER, GREENPEACE ITALIA, ISES ITALIA, ITABIA, KYOTO CLUB e LEGAMBIENTE, prevede ben tre passaggi deleteri per lo svilluppo delle rinnovabili

1) “rimodulazione in forte riduzione, causa l’impraticabilità dell’obbligo di dotare gli impianti di idonea capacità di accumulo, dei coefficienti di incentivazione delle fonti rinnovabili non programmabili, là dove Terna dichiara di avere difficoltà di dispacciamento”.

Detto in altre parole: come è noto le rinnovabili portano molti vantaggi, ma richiedono un adeguamento della rete di trasmissione e distribuzione. Per questo Bruxelles (Direttiva 2001/77/CE e successive) impone ai gestori delle reti “di garantire la priorità di dispacciamento alle fonti rinnovabili e di prevedere e risolvere in anticipo, attraverso le attività di idoneo sviluppo della rete, le problematiche connesse all’inserimento delle fonti rinnovabili nel sistema elettrico nazionale”. Ma in disprezzo a questo principio (e a qualsiasi logica di impegno ambientale) l’emendamento governativo chiede invece che si sviluppino nuovi impianti solo lì dove la rete è in grado di assorbirne la produzione.

2) ”riduzione drastica del valore del prezzo di riferimento del Certificato Verde che passerebbe dal prezzo medio di mercato pari a circa 85,00 €/MWh a circa 40,00 €/MWh (pari alla differenza tra 120 €/MWh e il prezzo medio dell’energia elettrica)”. In questo caso il proposito dell’emendamento è fin troppo chiaro;

3) ”invece di impegnare Terna a realizzare i necessari è già previsti piani di potenziamento delle reti, gli si attribuisce l’insindacabile potere di stabilire la massima quantità di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile non programmabile che può essere connessa ed erogata”. Una modifica che fa il paio con il punto 1 : non si fissa un obiettivo di espansione e si chiede a tutti gli attori interessati di adeguarsi, ma si delega a Terna il compito di pronunciare la parola finale su quanta energia rinnovabile si può “permettere” il Paese.

Sulla base di queste intenzioni, le associazioni denunciano quindi come gli emendamenti proposti, “anche a causa della loro estemporaneità, debbano essere ritirati, dato che la loro approvazione provocherebbe innanzitutto una forte confusione nel mercato, tra gli operatori e negli investitori, a causa del repentino ennesimo mutamento delle regole del gioco in corsa”.

“Tali emendamenti, inoltre – denunciano ancora il comunicato – provocherebbero la crisi di un settore, quello della produzione di energia da fonte rinnovabile, attualmente in grande sviluppo, oltre tutto anticiclico e con notevoli prospettive economico-occupazionali (almeno 250.000 addetti diretti ed indiretti al 2020), e impedirebbero all’Italia di mantenere gli impegni per il raggiungimento degli obiettivi vincolanti al 2020 (17% dei consumi finali di energia coperti da fonti rinnovabili), definiti in sede europea nel pacchetto Energia-Clima, con la grave conseguenza di dover sostenere elevate penalità finanziarie a causa del mancato raggiungimento del target”. (Beh, buona giornata).

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Verso Copenhagen 2009: non è vero che la Cina è contro la riduzione delle immissioni di Co2.

di Loretta Napoleoni-ilcannocchiale.it

La visita del Presidente Obama in Cina ha confermato che ormai Pechino sa e puo’ dire di no a Washington. Per nascondere l’imbarazzo, l’amministrazione americana e la stampa internazionale hanno ripreso a recitare il mantra dell’inquinamento: la Cina ignora le esortazioni degli scienziati e dei paesi industrializzati affinche’ riduca il suo consumo energetico. “Nulla di piu’ falso,” afferma un analista della City di Londra.

“Si tratta dell’ennesima leggenda metropolitana dura a morire”. Che pero’ a ridosso dell’incontro di Copenhagen molti continuano a credere veritiera.

Pechino ha una sua strategia per sostituire nel breve periodo la produzione energetica degli idrocarburi con fonti rinnovabili e si chiama delocalizzazione. Non si puo’ certamente dire altrettanto dell’amministrazione Obama che invece mantiene un atteggiamento di profonda ambiguita’ rispetto a queste tematiche.

Da qualche tempo il partito comunista incoraggia provincie e regioni a riconvertire l’energia al punto che ormai i progetti ecologici vengono visti come tappe essenziali nello sviluppo economico. E’ cosi’ iniziata una gara tra le autorita’ locali a chi protegge e preserva meglio l’ambiente. In testa al momento c’e’ Ordos, una regione che comprende gran parte del deserto della Mongolia.

E’ chiaro che all’origine di questa competitivita’ c’e’ la certezza che il fabbisogno energetico cinese e’ potenzialmente tanto elevato che deve necessariamente essere soddisfatto con fonti rinnovabili, se se ne vogliono contenere i costi. Ed e’ questa la filosofia che da qualche anno la regione Ordos persegue. Qui l’americana First Solar sta costruendo la piu’ grande centrale fotovoltaica al mondo.

Del complesso fara’ parte anche una centrale eolica dieci volte piu’ potente di quella texana, la Roscoe Wind Complex, che al momento e’ la piu’ grande al mondo ed una centrale a biomassa.

Il governatore di Ordos, Mr.Du, ha da diversi anni in cantiere un progetto che presto trasformera’ parte del deserto mongolo in una sterminata foresta di pini. Dal 2000 a oggi la percentuale di verde nella regione e’ salita dal 20 all’81%.

La campagna contro l’inquinamento e’ dunque iniziata e quello che fino a qualche anno fa’ era un paese dove non esistevano controlli nelle fabbriche oggi ne chiude a centinaia per salvare l’ambiente. Anche la legislazione energetica rispecchia questo nuovo atteggiamento e fissa come obbiettivo il ricorso alle rinnovabili per soddisfare il 15% della produzione nazionale entro il 2020. Ci riusciranno? Si accettano scommesse. (Beh, buona giornata).

Fonte: http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/2009/11/24/il_15_percento.html.

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Basta col Pil, bisogna creare un nuovo sistema di misurazione della ricchezza, magari improntato sulla sostenibilità.

da greenreport.it.

Che cosa conta nella vita? Qual è la ricchezza e come la si misura? Sono domande cui cerca di rispondere Patrick Viveret, filosofo e consigliere referente della Corte dei Conti, incaricato nell’ agosto 2000 da Guy Hascoët, sottosegretario di stato per l’economia solidale del governo francese, di scrivere un “Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza”.

“Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale” è appunto il rapporto di Viveret volto a ripensare ciò che nella vita umana rappresenta un valore e a proporre, sulla base di nuovi criteri, un nuovo sistema di contabilità nazionale, non esclusivamente appiattito su valori numerici, come il Pil (prodotto interno lordo), ma soprattutto basato su valori qualitativi ed esistenziali. (Le intenzioni di fondo che portarono alla commissione del lavoro infatti erano quelle di sottrarsi progressivamente alla “dittatura del Pil”, considerato ormai da molti “un termometro che rende malati”).
Il rapporto di Viveret si sviluppa in due fasi. Mentre la prima fase è di tipo “esplorativo” mirata ad aprire il dibattito – si compone di due grossi capitoli e di una conclusione programmatica – ed è focalizzata sui problemi e sulle incongruenze della contabilità nazionale lorda basata prevalentemente sul Pil; la seconda – che consta di tre capitoli e di una breve conclusione – è una vera e propria sintesi delle discussioni di un anno intorno al tema affrontato dove, fra l’altro, l’autore, stimola, comunque, a continuare nella riflessione.

Il prodotto interno lordo e la sua evoluzione, il “tasso di crescita”, è diventato un vero “indicatore sociale” nelle società occidentali ossessionate dalla misurazione monetaria, viene di continuo evocato, ma molto spesso senza mai precisare le sue condizioni di costruzione, i suoi paradossi e i suoi limiti. Viene, però, considerato positivo, anche se ignora l’insieme delle ricchezze non monetarie e anche quando contabilizza in maniera positiva il numero di distruzioni ambientali, insoddisfazioni personali, malattie. Perché comunque sia, i disastri ambientali e umani generano flussi monetari per le riparazioni, gli indennizzi o le sostituzioni.

Del resto il Pil misura sola le transazioni monetarie senza distinguere fra quelle positive o quelle negative e trascura tutte quelle a titolo gratuito o comunque non quantificabili monetarmene (come ad esempio il volontariato di qualsiasi genere).

Ma, in ogni caso il calo o il rialzo del Pil dai governi viene interpretato come il declino o la ripresa del Paese. Senza interrogarsi se davvero l’aumento del Pil fa la ricchezza della popolazione di un Paese e se davvero il Pil è lo strumento adeguato per misurarla.
Il Pil è indifferente al concetto di benessere dell’essere umano ossia alla soddisfazione di bisogni fondamentali come il cibo, la casa, una buona salute, relazioni solide e la possibilità di realizzare il potenziale di ogni singolo individuo. Però, gran parte dei governi e anche dei consumatori-individui, credono che al crescere dei consumi corrisponda un miglioramento del benessere.

Ma non è esattamente così perché la società occidentale dei consumi che poggia fondamentalmente su tre pilastri come la pubblicità, il credito e l’ obsolescenta programmata crea anche disagi e infelicità. La tesi secondo cui più si consuma più siamo felici si rivela errata, perché il livello di soddisfazione di vita a un certo punto non tende ad aumentare all’aumento del reddito mentre il numero percentuale di depressi, bulimici e anoressici aumenta.

E allora come fare? Creare un nuovo sistema, magari improntato sulla sostenibilità. Per Viverent l’obiettivo da raggiungere è una nuova responsabilità ecologica e sociale, mediante un nuovo approccio alla ricchezza e uno Stato ecologicamente e socialmente responsabile. Infatti, ogni indicatore di ricchezza è una “scelta sociale e politica”.

Ma accanto a un nuovo paradigma, occorre anche una strategia “ambiziosa”, che tenga conto del fatto che ci sono valori umani che non si possono contabilizzare, ma che sono evidenti ed importanti per la società. Cambiare paradigma significa anche non continuare a ruotare intorno al concetto che «solo» l’impresa sia unica produttrice di ricchezza. Altrimenti, le teorie sul capitale sociale, naturale ed umano non avrebbero ragione di esistere.

Occorre evitare poi il rischio di «mercantilizzare» ancor più la visione sociale e la stessa vita umana. E questo in un certo senso è direttamente legato ad una nuova concezione della moneta, che da pacificatrice e mediatrice degli scambi, è diventata strumento di violenza e di dominazione economica, politica e sociale. Ecco perché – come sostiene Viverent – pronosticare «una riabilitazione della nozione del bene comune o dell’ interesse generale» non può essere considerata un’illusione, ma una necessità, un percorso che confluisca in giuste prospettive di sviluppo umano, di una nuova politica (nazionale, europea e internazionale), di un nuovo modo di intendere i rapporti umani tra uomo ed uomo e tra uomo e ambiente.

E dobbiamo fare in modo che i principi di cooperazione e di solidarietà siano determinanti nella sfera economica, sociale, pubblica e culturale e che dalla logica dei «vincenti/perdenti» si passi alla logica «cooperanti/guadagnanti».
(Beh, buona giornata).

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Copenhagen 2009 come Kyoto: un bluff la riduzione delle emissioni di Co2.

Clima, accordo Usa-Cina, stop tagli di Co2, Copenhagen in serie B-da blitzquotidiano.it

A venti giorni dalla conferenza di Copenhagen che avrebbe dovuto sancire un accordo storico sulla riduzione delle emissioni, da un incontro Usa-Cina arriva uno stop ai tagli di Co2
I Paesi dell’Apec, l’associazione per la cooperazione economica Asia-Pacifico, riuniti a Singapore, infatti hanno ”riaffermato il loro impegno ad operare per un risultato ambizioso a Copenaghen”, ma non compaiono impegni su obiettivi numerici di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra.

Il presidente americano Barack Obama ha aperto domenica a Singapore, con una riunione a sorpresa dedicata proprio al clima, la giornata più intensa della sua visita in Asia.
Obama ha partecipato ad un breakfast di lavoro fuori programma per ascoltare una proposta del premier danese Lars Lokke Rasmussen di giungere ad un accordo sul clima in due fasi: una intesa politica (a Copenhagen) e quindi legale (in colloqui successivi), con l’ipotesi di un prossimo incontro in Messico.

Secondo la Casa Bianca la proposta fatta da Rasmussen rappresenta ”una valutazione realistica del fatto che non è possibile a questo punto sperare di raggiungere da qui a Copenhagen un accordo internazionale legalmente vincolante che possa essere approvato alla conferenza in Danimarca”.

Un funzionario della Casa Bianca presente all’incontro ha detto che ”è stato manifestato un ampio sostegno dai leader al fatto che l’incontro di Copenhagen deve concludersi con un successo, che si arrivi ad una intesa che possa far segnare un vero progresso e aprire la porta all’accordo conclusivo”. Rasmussen non ha dato molti dettagli sulla fase successiva, post-Copenhagen, che dovrebbe concentrarsi sugli aspetti legali della intesa.

L’accordo politico dovrebbe coprire comunque – ha detto la Casa Bianca – tutti gli aspetti più importanti della fase successiva: traguardi numerici, fasi previste per giungere alla meta finale, sostegno tecnologico, aspetti finanziari. Il presidente Obama non ha comunque ancora deciso se recarsi a Copenhagen in dicembre alla conferenza sul clima.

Tra le barriere che vincolano un accordo globale a Copenaghen, c’è però l’incapacità del Congresso per il clima e l’energia, di emanare una legislazione che fissa obiettivi vincolanti sui gas a effetto serra negli Stati Uniti. Senza un tale impegno, le altre nazioni sono quindi riluttanti a rispettare i loro impegni. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Scuola Società e costume

Libera Chiesa in libero Stato (in libera scuola).

Ci siamo tolti anche questa croce di GIORGIA SPINA.

Una mattina l’Italia si sveglia e vede smontato un altro mito.
Dopo i giorni dei Lodi di un premier che si è guadagnato, da solo, anche tante infamie e delle sentenze che dichiarano che i “Primi super pares” vengano lasciati nei libri di latino, finalmente questo Paese mette una croce sopra un altro dei grandi dilemmi degli ultimi tempi.

Con buona pace della Santa Sede, l’oggetto simbolo del culto cristiano, da questa mattina, non assisterà più alle lezioni nelle scuole italiane.

Impossibile pensare che la sentenza della Corte dei Diritti dell’Uomo non scatenasse il putiferio. Beh, cosa ci aspettavamo? Gli ultimi eventi ci avevano fatto credere in segnali di miglioramento, ma mica a un miracolo?
Il Dizionario della Lingua Italiana Garzanti, alla voce “croce” , scrive, in prima definizione quanto segue: “antico strumento di supplizio fatto con due pali di legno incrociati. […]”. Beh, che si trattasse di una rogna lo avevamo capito, visto tutto il polverone sollevato dal caso.

In seconda definizione, sempre il Garzanti, continua: “ riproduzione della croce di Cristo, assurto a simbolo della religione cristiana”. Ecco, leggiamo bene: simbolo della religione cristiana.
Ora, in un libretto che molti hanno cercato di interpretare a proprio favore e piacimento, dal titolo di Costituzione, all’articolo 7 si legge: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. […]”.

A questo punto, la domanda nasce spontanea (come diceva qualcuno in un vecchio programma tv): c’è ancora qualcuno che sa dell’esistenza di una Costituzione e di un Dizionario della Lingua Italiana come testi realmente esistenti e non come il fantasma del Bau bau? Perché prima di fare tanto chiasso da pollaio, non lasciamo il libro di Moccia sul comodino e ci avviciniamo a qualcosa che potrebbe ben indirizzare le nostre opinioni e le nostre eventuali proteste?

Se non fosse ancora del tutto chiaro il concetto, la presenza di un simbolo di culto religioso all’interno di un’istituzione laica, in quanto statale (chiamasi proprietà transitiva. In matematica la si studiava suppergiù in terza elementare.), come la scuola, non è giustificata.
Per essere esaurienti e corretti fino in fondo: l’articolo 7 sopra citato recita, inoltre, che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi. Tali Patti trattano anche dell’istruzione, nella Scuola Italiana, alla religione cattolica.

La religione è quindi, da considerarsi, una materia di insegnamento all’interno dell’istituzione scolastica. Liscio come l’olio.

Ma nelle aule compaiono forse poster di Manzoni e Leopardi? Foto di Pitagora? Quadri delle battaglie e dei personaggi che hanno fatto la Storia? Dipinti di Monet, Caravaggio e Warhol? Piuttosto che classi sembrerebbero bazar! Eppure anche la Letteratura, la Matematica, la Storia e l’Arte sono materie d’insegnamento della nostra Scuola Italiana. Se poi ci dice sfiga e la Scuola è un Liceo, come la mettiamo con tutti i filosofi?

E ancora: se consideriamo che molte religioni sono da considerarsi, per i non praticanti, delle filosofie, Maometto, Buddah e il dio Piripicchio, o chi per lui, li mettiamo in girotondo accanto alla croce, o sotto braccetto a Hegel?
Qui non si discutono credenze personali, non si vuole rinnegare o disprezzare alcun culto, ma semplicemente sottolineare, se ancora ce ne fosse bisogno, che a Scuola si impara, non si prega. Per quello hanno costruito le chiese.

A oggi quel che conta è che hanno tolto i crocifissi dalla Scuola. Andate in pace. (Beh, buona giornata)

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Attualità democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche Salute e benessere Scuola

Cosa succederà dopo che Berlusconi e la Chiesa avranno fatto la pace.

(da blitzquotidiano.it)
……”Pochi forse si porranno la domanda più fastidiosa: quanto costerà all’Italia, in denaro e in libertà, la pace con il Vaticano? Mentre infatti appare difficile che la Chiesa scarichi Berlusconi in mancanza di alternative valide dal suo punto di vista, è verosimile che cerchi di trarre il massimo vantaggio dalla situazione di debolezza del primo ministro per le polemiche sulla sua vita sessuale che hanno dominato l’estate: saranno concessioni di tipo fiscale o a favore della scuola religiosa o degli insegnanti di religione; saranno concessioni in materia di libertà individuali, come la pillola Ru486.

Fronti aperti ce ne sono tanti, incluso l’atteggiamento del Governo, cui la Lega di Umberto Bossi fa da pilota, in materia di clandestini. Nei paesi di loro provenienza la Chiesa è molto impegnata nella sua opera di missione e ottenere qualcosa in questo campo sarebbe un gran colpo d’immagine.” ……(Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

Quando erano gli emigrati italiani a crepare e a essere buttati a mare.

Quando i migranti eravamo noi: “I nostri morti gettati nell’oceano”di GIULIA VOLA-Repubblica.

Loro muoiono nel Mediterraneo. Quando gli emigrati eravamo noi, morivamo nell’Atlantico. “Buttarono nell’Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre”. Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla “Merica” a bordo del ‘Matteo Bruzzo’. Una casa con i muri bianchi, la cucina grande, le stanze ariose e l’orto nel retro. “In barca gli dicevano ‘coma esto, gringo de mierda’, mangia questo. Era pane e vermi. Vide morire di fame una donna incinta. Ma cosa poteva fare?”.

Maria parla un po’ in piemontese e un po’ in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. “La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia. A l’è vera? Non è vero?”. La domanda rimane sospesa, Maria apre i cassetti, cerca ricordi. “Mio padre – dice – all’inizio vendeva la verdura che coltivava ma nessuno capiva la sua lingua. Così vendeva tutto a 5 centesimi”.

Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Noi finivamo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventilli in mano ai privati. Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi, dove era più facile”.

Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul Corriere della Sera nel 1902: “L’Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria (…). Più in alto, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!”.

Gli stessi graffiti ricoprono adesso le pareti dei Cie, memoria recente del transito dei migranti di oggi, stranieri di tutto il mondo, che lavorano nei cantieri, nei campi, nelle cucine dei ristoranti, nelle case, invadono i quartieri, contaminando le loro e le nostre abitudini. Noi, i “gringos” di allora, invadevamo “le passeggiate perché sono gratuite, le chiese perché credenti devoti e mansueti, gli ospedali, i teatri, gli asili, i circoli e i mercati”: così scriveva infastidito all’inizio del secolo il sociologo argentino Ramos Mejía.

Numeri alla mano, dal 1886 al 1889 gli emigrati partiti da Genova e sbarcati a Buenos Aires raddoppiarono da 43mila a 88mila. Nel 1897 nel porto argentino erano già sbarcati un milione di italiani. Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano dei nostri. In provincia di Cordoba i 4.600 del 1869 diventarono 240mila nel 1914. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornaciai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, domestici, gelatai e parrucchieri: non avevamo concorrenza.

“Si lavorava da matin a seira e la domenica si andava a messa ben vestiti – raccontano le sorelle Fusero, nipoti di Bartolomeo arrivato a Buenos Aires il 22 novembre 1905, a 22 anni – . I bambini mangiavano il gelato, le donne bevevano la limonata e gli uomini il vermouth. Si cantava Quel mazzolin di fiori, La Piemontesina e Ciao bela mora ciao, si giocava a bocce e si chiacchierava. La sera si mangiava la bagna càuda e prima di andare a dormire si pregava: il parroco dovette imparare il piemontese perché le donne, non riuscivano a confessarsi. Nduma bin! Eravamo messi bene! Siamo nati tutti nella stessa camera, all’ombra di un magnolia nata da un seme portato dall’Italia”.

Centoventi anni dopo, i nuovi migranti inseguono in Europa il posto migliore dove vivere. Poi chiamano a raccolta il coniuge, i figli, il fratello, l’amico. Nel frattempo mandano i soldi a casa. “Noi, poveri e affamati di allora, andavamo a fare l’America – racconta la nipote di Giuseppe Caffaratti, torinese arrivato in Argentina nel 1890 a 15 anni – perché peggio di com’era in Italia non si poteva: era uno sgiai, uno schifo”. “Emigravamo per mangè”, racconta Reinaldo Avila, nipote di Giuseppe partito da Caraglio, in provincia di Cuneo, nel 1883. “Mio nonno era un contadino ignorante, si è spaccato la schiena nei campi. Oggi qui tocca ai boliviani e in Italia agli africani. È la vita”.

Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: “Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull’Oceano. Si salvò solo lei”. Si fuggiva dalle cartoline precetto, il terrore delle madri: “Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra, disse mia nonna a mio padre Fernando – racconta Gladis Fiacchini – . Siamo cugini di Renato Zero, ma abbiamo perso i contatti: mio padre non volle mai più ritornare indietro”.

Altri fuggivano dopo aver visto la morte in faccia. “Ci imbarcammo sulla ‘Filippa’ senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania”, ricorda Letizia Garessio. Suo marito, Miguel Bautista Pistone, argentino nato da italiani emigrati in America a metà ‘800, era tornato in Italia dopo aver fatto fortuna e durante la guerra era finito in un campo di concentramento: “Miguel era pelle e ossa – dice Letizia – , che cosa potevano fargli? Chi gli avrebbe impedito di salvarsi?”. Gli dico che ora l’Italia respinge i profughi che vengono dal mare: “Meno male che siamo nati un secolo fa e che siamo scappati qui – commenta – . Miguel tornò in Italia solo una volta per vendere tutto e comprare una casa qui”.

“Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello – racconta Antonio Caballero – , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l’Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l’italiano perché nessuno me l’ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti”.

I migranti di oggi arrivano in Italia con il sogno di guadagnare per poter tornare in patria. Ma anche loro spesso finiscono per mettere radici. Come il nonno di Teresa Burdone, piemontese emigrato in Argentina alla fine dell’Ottocento: “Quasi tutti noi – dice Teresa – , figli o nipoti di italiani, abbiamo la doppia cittadinanza e un’altra vita da vivere, ma il cognome ci ricorda che siamo stranieri da sempre”. (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Cosa succede quando lasciamo fare al Governo orribili leggi, come quella sull’immigrazione.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia di EZIO MAURO-la Repubblica.

Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell’ospedale “Cervello”. Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con “L’Aurora”. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient’altro.

“Adei”, madre, sto andando, pensa senza dormire. “Amlak”, dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: “Giù, giù, vai in mare, vai”. Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. “Mai”, acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete “mai” nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. “E’ arrivato – dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato”. I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. “Meut”, la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie “semai”, il cielo, verrà dal mare, “bahari”. Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, “Adei, Amlak, semai, bahari, meut”. Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’ un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l’altro naufrago ricoverato al “Cervello”, Hadengai, in camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c’è scritto “la vita è un bene prezioso”. (Beh, buona giornata).

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La strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa: le legge contro i clandestini sono un’arma di distruzione di massa, nella guerra tra poveri in Italia e contro i poveri del mondo.

Quei morti che gridano dal fondo del mare di EUGENIO SCALFARI
È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell’avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al “chissenefrega” di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall’altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il “Corriere della Sera”, ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all’interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione “Repubblica” ma il nostro, com’è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d’una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un “Pater noster” come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d’ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché “noi qui non li vogliamo”.
Alla vergogna c’è un limite. Noi l’abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l’elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell’Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull’accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c’entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell’Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell’Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l’importanza dell’asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall’Africa sahariana e dal Corno d’Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l’altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno “status” particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d’un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo “Rimbalza il clandestino”.
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l’autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall’intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell’Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l’ha fornita l’onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell’Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell’ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al “Corriere della Sera” di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel ’93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d’aver convinto il premier all’opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C’è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all’interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell’appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l’esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli “spiriti animali” e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal “O Franza o Spagna purché se magna” e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l’errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l’articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c’è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell’Unità d’Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche

Un popolo spaventato si governa meglio. Ecco come Bush ottenne il secondo mandato alla Casa Bianca. (Ogni allusione alle politiche sulla sicurezza del governo Berlusconi è assolutamente intenzionale).

Usa/ L’amministrazione Bush voleva alzare il livello di allerta contro il terrorismo alla vigilia delle elezioni 2004, una mossa politica più che di sicurezza-blitzquotidiano.it

Escono nuove rivelazione sulla politica di George W. Bush e soprattutto su come l’ex presidente degli Stati Uniti usasse la paura per gli attentati terroristici come mezzo per ottenere consensi. L’ex capo della Sicurezza degli Stati Uniti, Tom Ridge, infatti, rivela, nel suo libro “The Test of Our Times” (Un’indagine sui nostri tempi) che nel 2004 Bush tentò di far innalzare il livello di allerta sul terrorismo. Una richiesta che Ridge e altri della Sicurezza ritennero ingiustificata, tanto che la proposta venne bocciata.

Secondo quanto scrive Ridge, anche il Generale John Ashcroft e il segretario della Difesa Donald Rumsfeld appoggiarono la proposta di Bush, sostenendo che gli eventi internazionali, le minacce di Bin Laden e le elezioni alle porte avrebbero portato ad un incremento delle possibilità di attacchi terroristici.

Ma Ridge sostiene, come sostenne all’epoca opponendosi alla proposta, che le motivazioni che spinsero Bush a voler alzare il livello di allerta erano più politiche che di sicurezza. L’ex governatore della Pennsylvania, infatti, sottolinea come non ci fosse nessun dato concreto che potesse far temere un attacco terroristico.

Un’ipotesi che l’ex consulente alla Sicurezza, Frances Townsend, rimanda al mittente sostenendo che sulla proposta di Bush «vi fu un dibattito e Tom Ridge non era l’unica persona contraria all’incremento del livello di allerta, ma non ci furono mai discussioni di stampo politico».

A guardare il risultato di quelle elezioni e delle motivazioni che spinsero la maggior parte degli Americani a votare per Bush, qualche dubbio viene che Ridge avesse ragione. Proprio nell’agosto 2004 Bush tornò a parlare del pericolo di attentati terroristici e due mesi dopo i sondaggi dicevano che per un elettore su cinque il terrorismo era l’argomento che aveva maggiormente influenzato il voto. L’86 per cento di quegli elettori votò per Bush, consacrandone la vittoria, solo il 14 per cento preferì il candidato democratico John Kerry. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Silvietto e il G8, Silviotto e il G Etto:”Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti.”

Chi rompe la tregua paga
di BARBARA SPINELLI-La Stampa.
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.

Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.

Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.

Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.

Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.

Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.

Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.

Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco – wstawac – che intima di alzarsi.

Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.

Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.

Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane – presumibilmente ascoltato da Carla – perché le first ladies non venissero al G8.

L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento. (Beh, buona giornata).

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Silvietto e il G8, Silviotto e il G Etto: io speriamo che me la cavo.

Tra gli italiani vince l’idea che il vertice ci ha rafforzati. Per il 38 per cento dei nostri concittadini l’immagine del Paese è migliorata, il 33 la considera invece immutata di RENATO MANNHEIMER-corriere.it

Il G8 si è conclu­so con numero­se prese di posi­zione di rilevante im­portanza strategica. Sarebbe auspicabile che — contrariamen­te a quanto è talvolta accaduto in passato — queste trovassero poi una concreta applicazione nella real­tà. Come molti hanno osservato, uno dei limiti dei consessi interna­zionali di questo genere è la difficile traduzione delle intenzioni in com­portamenti concreti. Anche per que­sto, alcuni valutano criticamente queste riunioni, proponendone in certi casi l’allargamento o, più rara­mente, la limitazione nel numero dei partecipanti. La netta maggioranza degli italia­ni, comunque ritiene valida la sca­denza del G8. Più del 70% la giudica infatti «molto» o «abbastanza» im­portante. Questa opinione è notevol­mente più accentuata tra i giovani (specie se studenti) e tra chi possie­de un titolo di studio medio-alto.

C’è da notare anche un’accentuazio­ne di questo orientamento nelle don­ne che finiscono col costituire uno dei segmenti sociali più interessati e partecipi. Dal punto di vista della col­locazione politica, l’opinione sull’im­portanza degli appuntamenti del G8 non è però unanime, poiché si rileva un netto maggior favore da parte de­gli elettori del centrodestra, stimola­ti forse anche dalla funzione svolta da Berlusconi in quanto presidente di questa edizione. Ma anche quasi tre elettori del centrosinistra su quat­tro riconoscono il rilievo dell’even­to. Il quale sembra aver rappresenta­to un successo per l’Italia, sia dal punto di vista organizzativo, sia, in parte, da quello dei contenuti propo­sti. Anche questa opinione appare condivisa dalla maggioranza relati­va. In questo caso, però, i giovani fi­no ai 35 anni risultano più scettici: tra costoro la maggioranza relativa non vede mutamenti significativi nell’immagine del Paese, che appaio­no invece più presenti tra chi ha su­perato i 45 anni, specie se laureato. Com’era facile attendersi, il proprio orientamento politico (che funzio­na, come sempre accade, da «facilita­tore » per formare la propria opinio­ne su tematiche complesse o di cui si sa poco) gioca un ruolo centrale in questa valutazione: i votanti per il centrodestra appaiono assai più con­vinti (per il 60%) che l’immagine del­­l’Italia si sia rafforzata. Questa opi­nione è invece condivisa solo dal 24% degli elettori del centrosinistra, tra i quali quasi uno su cinque è del parere che, tutto sommato, la nostra immagine si sia indebolita a seguito del G8 e delle vicende connesse.

Il G8 parrebbe aver costituito un successo personale anche per Berlu­sconi. Tanto che quest’ultimo vede, proprio in questi giorni, un significa­tivo incremento delle intenzioni di voto per il suo partito (superando il risultato delle Europee e avvicinan­dosi nuovamente all’obiettivo del 40%), dopo aver subito un’erosione nelle scorse settimane, anche a se­guito delle vicende personali che lo hanno coinvolto. Le quali, tuttavia, potrebbero tornare alla ribalta già nei prossimi giorni, ora che la «tre­gua » del G8 si è esaurita. (Beh, buona giornata).

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Silvietto e il G8, Silviotto e il G Etto:”Faccio questa precisazione, ovvia ma spesso dimenticata da chi commenta i risultati di questo genere di incontri, a cominciare spesso da alcuni degli stessi partecipanti desiderosi di ricevere vantaggi di immagine anche a costo di manipolare la realtà di quanto è accaduto. “

Il meritato successo di un abile anfitrione di EUGENIO SCALFARI-Repubblica.

“PRENDIAMO ispirazione dalle intuizioni e dalle scelte lungimiranti che emersero alla vigilia o all’indomani della conclusione della seconda guerra mondiale, quando nacquero le Nazioni Unite e ancor prima le istituzioni di Bretton Woods. Da allora molto si è costruito ma non poco purtroppo si è negli ultimi anni venuto perdendo”.

Queste parole sono state pronunciate la sera di giovedì scorso da Giorgio Napolitano nella cena da lui offerta all’Aquila a tutti i leaders mondiali presenti al G8, diventato per l’occasione un G14 con la partecipazione dei principali paesi emergenti.

Non si poteva dir meglio con poche parole e non si può adottare metro migliore per valutare i risultati di questo penultimo incontro dei paesi occidentali che presto cederanno il posto ad altre e più allargate forme di consultazione internazionale.

Occorre comunque ricordare che il G8 non è mai stato un organo decisionale perché nessuno dei governi che vi partecipano gli ha mai conferito una parte della propria sovranità. Ciò non toglie tuttavia che su alcuni temi specifici i governi possano firmare accordi operativi, formulando su altri temi raccomandazioni di indirizzo che dovranno poi essere tradotte in apposite norme da parte di istituzioni dotate di poteri operativi.
Faccio questa precisazione, ovvia ma spesso dimenticata da chi commenta i risultati di questo genere di incontri, a cominciare spesso da alcuni degli stessi partecipanti desiderosi di ricevere vantaggi di immagine anche a costo di manipolare la realtà di quanto è accaduto.

Al G8 dell’Aquila c’erano tre temi specifici e un tema generale di puro indirizzo. Quest’ultimo riguardava lo stato della crisi economica mondiale, la diagnosi delle possibili terapie da raccomandare. Quanto ai temi specifici, peraltro di grande portata, riguardavano il clima, gli aiuti ai paesi poveri e principalmente all’Africa, la politica dei paesi del G8 nei confronti dell’Iran.

I giudizi, o come si dice la pagella da compilare sugli esiti dell’incontro aquilano vanno dunque articolati su questa tastiera ed è quanto cercheremo di fare.

* * *

La diagnosi sullo stato attuale della crisi è stata abbastanza difforme. Barack Obama è nella sostanza il più pessimista, ritiene che il peggio sia al suo culmine e che si aggraverà ancora nel prossimo autunno e nell’inverno del 2010. Il peggio che determina il suo giudizio riguarda il delicatissimo tema della disoccupazione che in Usa ha già raggiunto il 10 per cento e potrebbe aumentare fino all’11 nei prossimi mesi con effetti pesanti sui redditi e sui consumi.

Il presidente americano inoltre non è ancora del tutto tranquillo sulla tenuta di alcune istituzioni bancarie e non esclude altri massicci interventi a sostegno sia di banche sia di grandi imprese a corto di capitali.

Il pessimismo operativo di Obama ha tuttavia come contrappeso il suo robusto ottimismo politico, che ha profuso in abbondanza e con notevole efficacia su tutto l’andamento del G8.

Al polo opposto della diagnosi di Obama si è collocato Berlusconi, secondo il quale il peggio è già passato e la disoccupazione non presenta scenari drammatici.

Di questa divergente diagnosi ha dato conto lo stesso Berlusconi in una delle sue conferenze stampa, spiegando però che il parere di Obama su queste materie è assai più importante del suo: un esempio molto infrequente di modestia che il premier italiano ha offerto per ingraziarsi il suo principale interlocutore. Lui è fatto così, vuole essere amato. Per essere amato da Obama ha anche buttato alle ortiche Bush. Quella è acqua passata. Obama invece è da conquistare e la modestia ne è stata questa volta lo strumento.

Il ministro Tremonti aveva proposto, con la collaborazione dell’Ocse e del governo tedesco, alcune nuove regole da introdurre nel sistema economico internazionale. Un documento di 13 cartelle è stato presentato al G8 con il titolo ambizioso di Global Legal Standard e menzionato favorevolmente come raccomandazione da esaminare nelle competenti sedi operative, suscitando una immodesta soddisfazione dello stesso Tremonti.

Di quali regole si tratta? In realtà non sono regole vere e proprie né potevano esserlo trattandosi di raccomandazioni di indirizzo. Ed anche per un’altra ragione: si enunciano valori e, come sappiamo, i valori non sono norme ma auspici e modi di sentire; riguardano più il dover essere che l’essere.

I valori tremontiani elencati nel documento sono l’etica nelle decisioni economiche, la trasparenza di quelle decisioni, la lotta contro la corruzione, la lotta contro l’evasione fiscale, la vigilanza del credito, la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza. Ma chi mai oserebbe incitare gli operatori ad essere disonesti, a mentire, a favorire i monopoli e ad evadere le imposte? E quale uomo d’affari, imprenditore, banchiere si riconoscerebbe in un ritratto così perverso?

Debbo dire che a Tremonti va riconosciuta una notevole audacia: raccomandare la lotta all’evasione fiscale, quella contro i monopoli, la trasparenza delle decisioni da parte di uno dei principali membri dei governi berlusconiani è come parlar di corda in casa dell’impiccato. Ma il punto non è questo o non soltanto questo. Si tratta soltanto di raccomandazioni e non di altro.

Nel frattempo e nello stesso giorno in cui Tremonti presentava il suo documento al G8, il governatore Draghi annunciava un documento assai più corposo redatto dal “Financial Stability Forum” che è l’organo del Fmi da lui guidato, dove non si parla di valori ma di norme concrete che saranno imposte alle banche e alle istituzioni finanziarie quando lo studio del Fsf sarà definitivamente approvato entro l’anno in corso. Da notare che nel Fsf non sono rappresentati soltanto i paesi del G8 ma un ventaglio molto più ampio e quindi assai più interessante per l’operatività di quelle regole.

* * *

Bastano pochi accenni per i tre temi specifici affrontati dal G8, dei quali i giornali di tutto il mondo hanno già ampiamente parlato nei giorni scorsi.

Iran. I temi da affrontare in materia erano due: il nucleare iraniano e la repressione violenta del dissenso e quindi una violazione molto grave dei diritti di libertà in quel paese teocratico.

Entrambi i temi sono stati in qualche modo elusi nel documento approvato all’unanimità dal G8. La riprovazione delle violenze è stata affidata alle dichiarazioni di singoli capi di governo, tra i quali il più severo è stato il presidente francese Sarkozy. Sul tema del riarmo nucleare è intervenuto seccamente Obama, che attenderà comunque fino alla fine dell’anno sperando nell’avvio di un negoziato costruttivo. La vera e solenne reprimenda approvata all’unanimità (Russia compresa) nei confronti del governo iraniano è stata lanciata contro il negazionismo dell’Olocausto da parte di Ahmadinejad: era il meno attuale dei temi e forse per questo è stato scelto dopo una serrata discussione da parte degli “sherpa” durata a quanto si sa per due settimane.

Sul clima si è registrato un mezzo fallimento quando sono entrati in gioco i Cinque emergenti (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica). I quali hanno accettato il principio dei 2 gradi di riscaldamento del pianeta come limite estremo, superato il quale ci sarebbe una catastrofe climatica planetaria; ma non hanno invece acconsentito a ridurre le proprie emissioni di gas inquinanti.

Se ne riparlerà in un’apposita riunione a fine anno a Copenaghen. Il colpo di scena di Obama è stato a questo punto l’impegno per il proprio paese di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra facendo della ricerca di energie alternative il centro del rilancio industriale americano. La speranza è che un impegno del genere serva di orientamento anche al gruppo dei Cinque, il che però è tutto da verificare.

Infine l’Africa e i poveri. Tutti i paesi ricchi sono allo stato dei fatti largamente inadempienti rispetto agli impegni presi nei precedenti vertici. Il più inadempiente di tutti è il nostro: avremmo già dovuto versare un miliardo di dollari mentre abbiamo finora conferito 30 milioni, pari al 3 per cento di quanto dovuto. Ora Berlusconi ha promesso un versamento entro il prossimo agosto di 130 milioni e lo ha presentato come una manna. Questo è lo stato dei fatti per quanto ci riguarda.

Nel meeting del G8 è stato deciso un aiuto, destinato soprattutto all’agricoltura, di 20 miliardi di dollari. La cifra è cospicua ma restano tuttora indefinite le modalità e i tempi, chi guiderà gli investimenti e quando. Comunque su questo tema un mezzo successo politico c’è indubbiamente stato, ma è il solo dell’intero vertice.

Del tutto inevaso è stato invece il vero tema che i Grandi del mondo dovranno porsi e che invece è stato del tutto ignorato salvo che dalla Cina e dal gruppo dei Cinque emergenti: il nuovo assetto monetario internazionale. In altre parole il problema del dollaro.

La Cina vuole che si costruisca una moneta di conto e di riserva, calcolata attraverso una sorta di paniere ponderato delle principali monete a partire dal dollaro, dall’euro, dallo yen e naturalmente dallo yuan cinese. Moneta amministrata dall’Fmi, le cui quote di appartenenza dovranno essere profondamente riviste per fare appunto spazio ai paesi emergenti che sono rappresentati attualmente da quote soltanto simboliche.

Sarà un’operazione complessa, che vede gli Usa in totale disaccordo, ma che la Cina sembra decisa a portare avanti facendo leva sulla sua posizione di primo creditore degli Stati Uniti e primo detentore di riserve in dollari.

Sarà questo il vero tema del prossimo futuro, adombrato nel richiamo alle istituzioni nate a Bretton Woods nelle parole di Napolitano che abbiamo citato all’inizio. Un tema denso di implicazioni, che vedrà diminuire drasticamente il peso dei singoli Stati europei a beneficio dell’Unione europea e delle istituzioni che la rappresentano a cominciare dalla Banca centrale.

Questo tema sarà al centro della prima assemblea del Fondo monetario internazionale che è destinato a diventare la vera sede dei dibattiti e delle decisioni.

* * *

Ultimo argomento: il successo di Berlusconi e quindi dell’Italia, perché è vero che nei vertici internazionali un successo del governo è patrimonio comune al di là dei partiti e delle persone.

Berlusconi ha avuto successo, ha ricevuto complimenti da tutti, ha evitato con abilità i guai che incombevano sul suo capo e di questo gli va dato atto.

Per che cosa è stato complimentato? Per il suo ruolo, magistralmente ricoperto, di padrone di casa. Se lo è meritato. E’ un compito che sa gestire molto bene come dimostrò nell’analogo meeting di Pratica di Mare: alloggiamento perfetto, cibo eccellente, sicurezza garantita, intrattenimento rilassante. Il “Financial Times” di ieri, che era stato il giornale tra i più severi nei suoi confronti, ha titolato “Da playboy a statista”, ma ha sbagliato l’ultima parola, doveva scrivere anfitrione. Lo statista si è visto ben poco anche perché l’unico statista in campo è stato Obama e con lui nessuno era in grado di competere.

Berlusconi avrebbe potuto esercitare una piccola parte da statista associando al successo l’opposizione che ha accettato la tregua chiesta da Napolitano. Ma nemmeno questo ha fatto. Ha continuato ad attaccarla tutti i giorni, chiamandola “opposizione-cadavere, comunista, faziosa”. Poi, una volta chiuso il sipario sul G8 dell’Aquila, è andato ancora più in là: si sta rimangiando l’impegno preso anche in suo nome dal ministro Alfano con il Quirinale circa una pausa nella legge sulle intercettazioni; ha ripetuto che non ha intenzione di trattare alcunché con l’opposizione; ha maltrattato i suoi dissidenti interni; ha richiamato all’ordine perfino la Lega. “Ora dev’esser chiaro a tutti che sono io che comando” ha detto ieri. L’ora della carota è passata e si ricomincia col bastone.

Ho letto ieri un interessante articolo del collega La Spina su “La Stampa”. Scrive che la maggiore sobrietà dimostrata da Berlusconi al G8 è stata probabilmente l’effetto delle critiche acerbe di cui è stato oggetto da parte di alcuni giornali ai quali (scrive La Spina) andrebbe riconosciuto il merito del “new look” saggio e prudente del nostro premier di solito scapestrato.
Forse La Spina ha ragione; forse quel merito ad alcuni giornali andrebbe riconosciuto. Purtroppo però quella saggezza e quella prudenza di cui parla il collega sono già dietro le spalle.

Dal canto nostro, poiché è di noi che si parla, le nostre riserve e le nostre critiche non cesseranno se non altro per indurre il premier scapestrato a cambiare definitivamente comportamenti pubblici e privati che sono l’esatto contrario da quelli ai quali un capo di governo dovrebbe attenersi.

Continueremo dunque a pubblicare notizie di fatti come è compito di ogni giornale, ma non speriamo e non ci illudiamo di vedere effetti vistosi. Salvo quello di vedere il premier far bene il mestiere dell’anfitrione, ma di questo eravamo certi. Purtroppo non è di questo che ha bisogno il nostro Paese. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Il G8 secondo il New York Times:« una programmazione imperdonabilmente negligente da parte del governo ospite, l’Italia, e la debolezza politica di molti dei leader presenti, lascia poco spazio all’ottimismo».

(fonte:corriere.it)
Il Presidente Usa Barack Obama dovrebbe assumere la guida del vertice del G8 al via in Italia, per evitare che sia uno spreco di tempo e di impegno. E’ quanto scrive nel giorno dell’apertura del summit in un editoriale il quotidiano americano The New York Times. Non sono i problemi a mancare, precisa il quotidiano, «ma una programmazione imperdonabilmente negligente da parte del governo ospite, l’Italia, e la debolezza politica di molti dei leader presenti, lascia poco spazio all’ottimismo».

LA GUIDA – Per questo, scrive il Nyt, «se questa sessione non vuole essere uno spreco di tempo e impegno, il Presidente Obama dovrà assumerne la guida», trasformando la fiducia politica che si è guadagnato negli ultimi sei mesi in capitale diplomatico. Il quotidiano invita quindi il Presidente americano a «fare nuove pressioni sulla Germania perché investa di più nel pacchetto di stimolo», a intervenire sugli altri leader per scongiurare «pericolose tendenze protezionistiche» e a sollecitare una «decisa presa di posizione da parte del G8, Russia inclusa», contro l’ambizione nucleare iraniana.

CLIMA – Sui cambiamenti climatici, gli Stati Uniti sono ancora molto indietro rispetto all’Europa, ammette il Nyt, per cui Obama dovrà fare pressioni sul Congresso americano perchè approvi la sua legge per la riduzione delle emissioni. Al vertice, i leader del G8 «dovrebbero impegnarsi a rispettare l’obiettivo» di raddoppiare gli aiuti ai Paesi poveri, e «ogni Paese dovrebbe annunciare un contributo preciso per questo e il prossimo anno». «Tradizionalmente è l’ospite a dettare tono, tema e agenda di questi incontri – prosegue il quotidiano – ma il premier italiano, Silvio Berlusconi, ha speso gran parte delle sue energie, nelle ultime settimane, a cercare di eludere le accuse pubblicate dalla stampa sulle sue frequentazioni con escort e minorenni. “Showmanship”: forse. Leadership: no». «Tutti i Paesi presenti all’Aquila hanno un chiaro interesse a favorire una più forte e rapida ripresa economica, a fermare la corsa nucleare dell’Iran, a rallentare il riscaldamento terrestre e a sostenere lo sviluppo delle nazioni più povere del mondo – conclude il Nyt – spetta ad Obama ricordarlo ai leader e stimolarli». Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Proteste in tutta la Penisola contro il G8 dell’Aquila.

(fonte:ilmessaggero)
Riflettori puntati su Roma, città blindata per la visita di Barack Obama, dopo le manifestazioni di ieri. Sono circa 3mila gli agenti della polizia impiegati nella capitale, negli aeroporti e sulla Roma-L’Aquila.

Blitz da Benetton, no global aggrediti da passanti. Tre manifestanti a volto coperto della V-Strategy, il gruppo che fa parte della rete di contestazione al G8, hanno compiuto un blitz all’interno di un negozio Benetton in via Magna grecia a San Giovanni. Hanno tirato vernice viola prima sulle vetrine e poi all’interno del locale. Al momento del blitz, nel negozio c’erano dei clienti e una bimba su un passeggino è stata colpita da schizzi di vernice. Alcuni passanti, vista la scena, hanno reagito e c’è stata una colluttazione con i tre manifestanti che poi sono riusciti a fuggire. Sulla vetrina del negozio con spray viola i manifestanti hanno lasciato scritto: «Benetton uguale Impregilo».

Dopo il blitz due fotografi sono stati denunciati. I due, uno dell’Ansa e l’altro di un quotidiano, avrebbero, secondo alcune testimonianze, favorito la fuga dei manifestanti. Accuse respinte dai due fotografi. «Io ho semplicemente fatto il mio lavoro – racconta uno dei fotografi – non ho favorito la fuga di nessuno. Mi trovavo tra l’altro ad almeno due metri di distanza. C’è una telecamera nella strada che spero abbia ripreso la scena per chiarire quanto siano allucinanti le accuse che ci vengono fatte».

A piazza di Spagna striscione contro il G8. Sono stati rilasciati, dopo essere stati identificati, gli attivisti del movimento «Avaaz-Il mondo in azione», quattro francesi e un greco, fermati dalla polizia questa mattina a piazza di Spagna mentre stavano esponendo uno striscione contro il G8. Nello striscione, sequestrato dai carabinieri, era stata tracciata la scritta: «Manteniamo il clima freddo così Berlusconi può tenere i suoi vestiti addosso».

Striscioni al Ministero dell’Economia. In via XX Settembre alcune decine di manifestanti hanno aperto striscioni con le scritte «G8-Fmi-Banca Mondiale, chi saccheggia e devasta siete voi» e «Il G8 è un terremoto, siamo tutti aquilani». I manifestanti, con caschi gialli e bianchi, hanno anche esposto cartelli con la scritta «Indebitati di tutto il mondo unitevi» e hanno sistemato volantini sui parabrezza delle auto. Sul posto è subito intervenuta la polizia, che si è schierata in tenuta antisommossa. Alcuni contestatori hanno coperto il volto con l’immagine del presidente Usa Barack Obama. Molti gli slogan contro il ministro italiano dell’economia Giulio Tremonti e contro la crisi.

Pigneto: studenti occupano edificio abbandonato. Un centinaio di studenti dell’Onda hanno occupato un edificio abbandonato di tre piani in via Fortebraccio nel quartiere del Pigneto. I manifestanti hanno rivendicato «il diritto a un giusto welfare contro gli affitti supercari per gli universitari».

Vestiti da “Bianconiglio” occupano ufficio della Sapienza. Alcune decine di studenti hanno occupato un ufficio dell’univerità La Sapienza in via Regina Elena con il volto coperto dalla maschera del “Bianconiglio”, il personaggio di «Alice nel paese delle meraviglie». Hanno chiesto l’immediata liberazione degli arrestati per gli scontri di Torino lo scorso maggio e dei ragazzi di ieri per i disordini avvenuti a Roma. I manifestanti hanno simbolicamente circondato l’entrata dell’edificio con del nastro bianco e rosso. L’ufficio occupato è quello di “Sapienza e Innovazione”.

Bocca della Verità: «I grandi cucinano la terra». I leader del mondo in versione chef cucinano a fuoco lento la terra. È l’azione dimostrativa «I leader del g8 cucinano il pianeta, serve una ricetta per fermare i cambiamenti climatici», andata in scena questa mattina nei pressi della Bocca della Verità. A organizzarla Oxfam International, gruppo di ong che combattono la povertà, e la ong di cooperazione allo sviluppo Ucodep.

Manifestazioni davanti ai due carceri romani. A Rebibbia manifestanti hanno esposto uno striscione con su scritto «Stop al G8, burn the state». Alcune centinaia di persone, invece, hanno dato vita ad un sit-in di fronte a Regina Coeli, dove sono detenute le persone arrestate ieri nel corso di una manifestazione che si stava svolgendo tra Testaccio e Lulngotevere. «Tutte libere! Tutti liberi!», lo slogan dei volantini.

Arresto per due manifestanti fermati ieri a Termini. Si tratta di un italiano e uno spagnolo che fanno salire a 10 il numero complessivo degli arrestati nella giornata di ieri.

Consigliere regionale denuncia: i 5 ragazzi in semi-isolamento. «Gli agenti penitenziari di Regina Coeli questo pomeriggio esultavano: “Abbiamo fatto fuori l’Onda”. L’ho sentito con le mie orecchie e lo reputo estremamente grave», ha detto la consigliera del Lazio Anna Evelina Pizzo (Sinistra e Libertà). «Ho fatto visita ai 5 ragazzi detenuti qui – ha raccontato Pizzo – uno spagnolo, uno scozzese e tre italiani. Sono imprigionati in una sezione del carcere (la VII) che, a quanto ci riferisce il comandante, è stata completamente svuotata per far posto ai futuri arresti del G8. Sono in semi-isolamento – ha proseguito – e mi hanno detto di essere stati chiusi in celle blindate fino a poco prima che arrivassi». La consigliera, che ha parlato «attraverso le sbarre con i detenuti», ha aggiunto che «i ragazzi non hanno problemi di salute, fatta eccezione per uno che non riesce a sentire».

Assessore regionale: una delle tre ragazze è stata malmenata. «E’ stata malmenata al momento dell’arresto e riporta lividi alle gambe, dietro la schiena e al braccio destro», ha riferito l’assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri che si è recato nel carcere di Rebibbia. «All’inizio non volevano farci vedere le ragazze – ha raccontato Nieri – ed è stata la prima volta in assoluto che ci hanno fatto resistenza nel vedere un detenuto. Abbiamo dovuto ricordare che l’articolo 67 dell’ordinamento penitenziario non prevede vincoli alla visite. Le arrestate sono giovanissime – ha aggiunto – la ragazza che ha subito maltrattamenti è di San Benedetto del Tronto e ha circa vent’anni, poi c’è una romana e una giovane tedesca».

Carsoli: 4 olandesi fermati poi rilasciati. Sono stati rilasciati senza alcuna denuncia i 4 giovani olandesi, fra i 27 e i 30 anni, che erano stati fermati stamattina dalla polizia stradale a Carsoli lungo la A/24. Dagli accertamenti effettuati è infatti emerso che uno dei 4 aveva un tesserino professionale da giornalista della federazione olandese, mentre gli altri 3 sono cineoperatori e tecnici. All’interno dell’auto la polizia aveva trovato un caschetto e una maschera antigas che avevano fatto scattare i controlli. I 4 hanno però spiegato che si trattava di materiale che sarebbe servito loro in caso di manifestazione dei no-global.

L’Aquila: tre fogli di via obbligatorio. È stato denunciato a piede libero e sottoposto al provvedimento del foglio di via obbligatorio un 25enne in possesso di mazza ferrata lunga 50 centimetri. E’ stato identificato dalla polizia ferroviaria su un treno in arrivo a Sulmona. Aveva con se anche sassi avvolti in panni e una batteria da 12 volt. Il giovane di Policoro (Matera) ha confermato ai poliziotti che si stava recando a L’Aquila. Altri due fogli di via sono stati disposti nei confronti di due 25enni nell’hinterland milanese. La polizia stradale li ha identificati e ha verificato che avevano precedenti per porto d’armi ed oggetti atti ad offendere oltre che per lesioni personali.

Torino: 6 anarchici fermati. Soldi finti cosparsi di passata di pomodoro sull’ingresso dell’Unione industriale di Torino, simbolo del legame fra il potere economico e «il sangue, la sofferenza, la schiavitù dei miliardi di esseri umani vittime delle politiche degli 8 criminali che si riuniscono all’Aquila». E’ l’azione messa in atto stanotte da un gruppo di anarchici torinesi. I sei appartenenti alla Fai torinese sono stati fermati e denunciati per danneggiamento. Alla mezzanotte gli anarchici hanno sparso decine di mazzette di soldi fotocopiati, finte banconote da 20, 50 e 100 euro e sacchetti di monetine false, circondandoli di una pozza sangue-pomodoro, sulla porta dell’Unione industriale di via Fanti. I carabinieri hanno riconosciuto alcuni di loro e la loro auto, una Fiat Doblò.

Firenze, Trieste e Torino: occupato il rettorato. Circa 50 studenti della rete dei collettivi ha occupato stamani il rettorato dell’ateneo. La protesta è terminata verso le 12.30. Gli studenti identificati verranno denunciati per interruzione di pubblico servizio. Una denuncia per «manifestazione non autorizzata» scatterà, invece, per una ventina di giovani che non erano riusciti a entrare, per l’intervento delle forze dell’ordine e che avevano organizzato un presidio davanti allo stesso rettorato. Una decina di rappresentanti del movimento studentesco, invece, hanno occupato la sede del rettorato dell’università di Trieste. Una cinquantina di studenti ha fatto irruzione e occupato la sala «Mario Allara» dell’università di Torino dove era in corso una riunione sindacale.

L’Aquila: maxi scritta di protesta e manifesti in città. “Yes we camp!”, recita la grande scritta di protesta, con lettere di plastica, che alcuni comitati cittadini hanno sistemato sulla collina di Roio che domina l’autostrada A24 dell’Aquila. «La gente pensa che la ricostruzione sta procedendo liscia, che gli aquilani sono già tornati nelle loro case e invece siamo tutti accampati, a tre mesi dal sisma», dice Mattia Lolli, del Comitato 3e32. I manifestanti, alcune decine di giovani, sottolineano che non ce l’hanno con il G8, ma che la loro «battaglia» è finalizzata esclusivamente a informare l’opinione pubblica «che le cose all’Aquila non vanno come dicono, perchè la ricostruzione non è mai partita, e, sotto le tende, le persone più anziane stanno morendo». Anche su molti muri dell’Aquila sono stati affissi grandi manifesti con la scritta «Yes we camp, but we don’t go away».

Siena: dai bastioni della fortezza striscione contro il vertice. «Non arrivi al 28? Colpa del G8», è il testo dello striscione appeso ai bastioni della Fortezza medicea. Contemporaneamente alcuni giovani dello stesso collettivo hanno distribuito alcuni volantini.

Padova: tensione davanti al Tribunale. Una cinquantina di disobbedienti volevano affiggere degli striscioni di solidarietà a favore di Massimiliano Gallob, leader del centro sociale patavino, e Benjamin Bondean, arrestati lunedì mattina su ordinanza di custodia cautelare del gip di Torino. Dopo che le forze dell’ordine non hanno lasciato affiggere gli striscioni, sulla parete esterna del Tribunale, il gruppo ha iniziato a spingere contro gli scudi degli agenti del reparto mobile. Con una breve carica di alleggerimento i dimostranti sono stati allontanati e il gruppo di attivisti si è sciolto. Beh, buona giornata.

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Il G8 non è un bell’ambiente.

(Fonte:ilmessaggero.it)
Salta l’accordo di riduzione delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050. Si apre con una sconfitta il G8 dell’Aquila al quale partecipano i leader di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia, Canada e Giappone. Era proprio il clima, accanto alla crisi finanziaria, uno dei temi principali del summit che si svolge nella caserma della scuola della Guardia di Finanza di Coppito, in Abruzzo. Il tema verrà affrontato domani al Major economies Forum, cui, oltre ai paesi del G8, partecipano anche Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

Silvio Berlusconi ha commentato che fra i partecipanti del G8 c’è un accordo sostanziale sul clima, ora bisogna «verificare» se sia possibile un’intesa con India e Cina.

Cina e India: niente accordo su taglio emissioni gas serra. Non ci sarà lo sperato storico accordo di riduzione delle emissioni di gas serra del 50% entro il 2050. Ci sarà invece un’indicazione più blanda, che sottolinea l’importanza di non consentire un surriscaldamento del pianeta superiore ai gue gradi centigradi. Secondo fonti del vertice, India e Cina si sarebbero infatti opposte a identificare obiettivi concreti di riduzione delle emissioni. I due paesi ritengono che i paesi occidentali debbano prima tagliare drasticamente le loro emissioni entro il 2020 se poi vogliono imporre target ambiziosi al resto del mondo. Il tema sarà affrontato giovedì ai lavori del Major economies Forum, cui, oltre ai paesi del G8, partecipano anche Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, incontro presieduto da Obama. Berlusconi aveva anticipato ieri che sul tema dell’ambiente non c’era unanimità. Beh, buona giornata.

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Romano Prodi sul G8: è assurdo che Cina, India e Brasile non partecipino da protagonisti.

Romano Prodi ha aperto i lavori del “Global think-tank summit” che si è svolto in questi giorni a Pechino alla presenza delle più alte autorità cinesi e dalla Capitale cinese ha inviato al Messaggero questa sua riflessione alla vigilia del G8-da ilmessaggero.it

” Nello scorso autunno il governo cinese decise, con una operazione senza precedenti, di iniettare nel sistema economico un’enormequantità di risorse, pari a 575 miliardi dollari, circa il 17% del Prodotto interno lordo.

La decisione veniva in un momento in cui qui a Pechino vi era paura. Era infatti la prima volta, dopo tanti anni, che il sistema rallentava vistosamente la propria crescita e la prima volta, probabilmente dalla fine della seconda guerra mondiale, che milioni di disoccupati affollavano le stazioni ferroviarie delle metropoli costiere per tornare verso le campagne.

Anche se i tassi di crescita non raggiungono ancora le incredibili cifre precedenti alla crisi, il motore dell’economia cinese ha dimostrato formidabili capacità di resistenza e di flessibilità. Oggi marcia, secondo le statistiche, tra il 6% e l’8% di crescita annua. Il piano d’intervento straordinario si è concentrato verso un colossale programma di lavori pubblici (ferrovie, autostrade, infrastrutture in genere), verso una rianimazione dell’ormai moribondo sistema sanitario e verso nuovi investimenti nel sistema scolastico per un migliore accesso allo studio. Sono stati inoltre previsti sussidi diretti alle popolazioni rurali e veri e propri aiuti finanziari alle classi più povere per l’acquisto di beni di consumo durevole, come gli elettrodomestici.

Un’operazione dedicata a rimediare, attraverso l’aumento della domanda interna, al crollo delle esportazioni. E, nello stesso tempo, a cambiare progressivamente i comportamenti economici dei cinesi finora spinti, in conseguenza dell’incertezza sul loro futuro, a risparmiare il più possibile a scapito dei consumi. L’intervento sembra funzionare: esso si esprime nel miglioramento della crescita ma, ancor di più, nel miglioramento delle prospettive future.

In questi giorni si sono riuniti, qui a Pechino, i rappresentanti di moltissimi think-tank e istituti di ricerca internazionali per discutere del futuro dell’economia del mondo. L’opinione largamente dominante è che sarà la Cina a guidare la ripresa. Naturalmente la Cina non potrà da sola cambiare lo stato delle cose dato che, nonostante i suoi giganteschi progressi, essa rappresenta ancora meno del 10% dell’economia mondiale. E chi, tra i grandi blocchi economici, seguirà la Cina nella via della ripresa? Ancora una volta la risposta degli esperti è quasi corale nel prevedere che il resto dell’Asia e gli Stati Uniti precederanno l’Europa, anche se poi nessuno è ancora in grado di dire quando questo avverrà.

Sul perché, invece, non vi sono dubbi: gli Stati Uniti hanno adottato anch’essi misure di politica economica forti e immediate, mentre i Paesi europei vanno ognuno per conto proprio, senza una strategia comune né nei confronti degli investitori, né dei consumatori. Ci si limita a constatare il raffreddamento dello spirito europeo emerso anche dalle precedenti elezioni, senza mettere in rilievo l’enorme costo che questo comporta sia in termini economici sia in termini politici.

L’evoluzione cinese è comunque così rapida che si fa sempre più strada l’idea che dagli otto grandi del G8 si possa, fra non molto, passare ad un mondo governato dai G2, cioè dagli Stati Uniti e dalla Cina. Un’idea che ritengo certo prematura e forse anche impossibile perché sono gli stessi cinesi, consapevoli dei propri problemi, a preferire un mondo con più protagonisti, in modo da assumere progressivamente un forte ruolo negli assetti mondiali senza però provocare tensioni per loro pericolose o addirittura irrimediabili.

È una strategia perfettamente in linea con la politica degli ultimi decenni, volta ad assumere responsabilità sempre più forti, usando come strumento una società che cambia più nelle cose e nei comportamenti che non nelle sue strutture istituzionali. Con un impressionante ritmo di cambiamento ma senza rotture di continuità che potrebbero bloccare il cambiamento stesso.

Chi pensava che la società cinese non fosse in grado di resistere a tutto questo si è finora sbagliato e credo che, come la reazione alla presente crisi ha dimostrato, la robustezza del sistema politico e sociale possa per ancora lungo tempo accompagnare la sua espansione economica.

I problemi da risolvere sono ancora tanti: più della metà dei suoi abitanti sono in situazione di povertà, le tensioni etnico-religiose nelle provincie periferiche ancora forti, mentre le impressionanti differenze sociali potranno essere solo marginalmente alleviate dal pacchetto delle misure economiche adottate dal governo. Il cammino della Cina è quindi lungo, anche se la direzione è già segnata, ed è quella di essere nel numero ristretto delle grandi forze politiche che guideranno il nostro futuro. Questo destino è inevitabile: dobbiamo semplicemente operare in modo che il ruolo che la Cina coprirà nel mondo (dato che essa ha ormai una politica globale) sia sempre più cooperativo e non conflittuale.

Considero quindi una assoluta bizzarrìa della storia che la Cina e gli altri grandi nuovi protagonisti della politica mondiale come l’India e il Brasile non si seggano attorno al tavolo dei G8 ma siano relegati, con complicate finzioni diplomatiche, a mangiare in cucina. Le finzioni possono mascherare la realtà per un periodo di tempo brevissimo. Il periodo per adattare il G8 alla realtà della storia è già passato da un pezzo.” (Beh, buona giornata).

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Per la stampa estera il G8 non è ancora cominciato ed è già un disastro.

di ENRICO FRANCESCHINI-repubblica.it

Un summit che sta “discendendo nel caos”, su cui è meglio avere “basse aspettative” e che potrebbe addirittura produrre, oltre al rischio di nuove “gaffe di Berlusconi” e controversie sulla sua vita privata, proposte per “espellere l’Italia dal G8” e sostituirla con la Spagna. Sono le indiscrezioni raccolte dalla stampa estera tra le delegazioni degli altri paesi invitati al vertice che si apre domani all’Aquila e i commenti e le previsioni che alcuni dei più autorevoli giornali del mondo, dal Financial Times al Wall Street Journal, fanno sull’appuntamento internazionale che richiama i grandi della terra, e le luci dei riflettori, sul nostro paese.

“Crescono le pressioni all’interno del G8 per espellere l’Italia, mentre i preparativi per il summit scendono nel caos”, è il titolo del Guardian di Londra. Nell’assenza di qualsiasi iniziativa sostanziale da parte italiana per organizzare l’agenda del vertice, scrive il quotidiano della capitale britannica, “gli Stati Uniti hanno assunto il controllo”, con un giro di conferenze telefoniche effettuate dai loro “sherpa”, come si chiamano in gergo gli alti funzionari che pianificano i temi e le iniziative del G8, per “iniettare all’ultimo momento qualche significato” nell’incontro dell’Aquila. “Che sia un altro paese a organizzare le telefonate degli sherpa è un fatto senza precedenti”, dice al Guardian un alto esponente della delegazione di un paese del G8. “Gli italiani sono stati semplicemente terribili. Non c’è stata organizzazione e non c’è stata pianificazione”.

Dice allo stesso giornale un altro diplomatico europeo coinvolto nei preparativi del vertice: “Il G8 è un club e per far parte di un club ci sono le quote d’iscrizione. L’Italia non ha pagato la propria”. Le proteste dietro le quinte del summit sono arrivate al punto, prosegue l’articolo del Guardian, da far circolare suggerimenti di espellere l’Italia dal G8 o da un gruppo che ne diventi il successore. Una possibilità che circola nelle capitali europee, secondo il giornale, è che la Spagna, che ha un reddito pro capite più alto e versa in aiuti al Terzo Mondo una percentuale più alta del pil, “prenda il posto dell’Italia”.

Il ministero degli Esteri italiano, afferma Julian Borger, corrispondente diplomatico del Guardian e autore dell’articolo, non ha risposto a richieste di commentare simili critiche. Oltre alle fonti anonime, il giornalista riporta il parere di Richard Gowan, un analista del Centre for International Cooperation presso la New york University: “I preparativi italiani per il vertice sono stati caotici dall’inizio alla fine”, dice il politologo. “Già in gennaio gli italiani dicevano di non avere una visione per il summit e che se l’amministrazione Obama aveva delle idee loro erano pronti a seguire le istruzioni degli americani”. Il giornale conclude che l’Italia ha cercato di coprire la mancanza di sostanza aumentando la lista degli ospiti, che secondo una stima saranno ben 44. “Gli italiani non hanno idee e hanno deciso che la cosa migliore è allargare l’agenda al massimo in modo da oscurare il fatto che non hanno un’agenda”, dice ancora il professor Gowan.

Giudizio analogo è espresso da un editoriale non firmato, dunque espressione della direzione del giornale, sul Financial Times. “Da settimane”, scrive il quotidiano finanziario, “le notizie sulla vita privata del 72enne leader italiano sono stato un totale imbarazzo, ma la sua reputazione è calata per ragioni che vanno al di là dei recenti titoli di giornale”. Il Ft afferma che Berlusconi è sempre stato giudicato all’estero come una figura controversa e imprevedibile. Durante il suo precedente governo, dal 2001 al 2006, Bush “aveva bisogno di corteggiarlo” perché Washington era in conflitto con Chirac e Schroeder, “ma oggi tutto è cambiato, Francia e Germania hanno leader fortemente pro-americani, sicché Obama non ha bisogno di essere tollerante verso Berlusconi come il suo predecessore”. Il giornale cita le questioni che hanno irritato gli Usa e gli altri membri del G8: l’inadempienza dell’Italia sugli aiuti all’Africa, lo scarso interesse del premier italiano sull’impegno per combattere il cambiamento climatico, la sua ambizione di mediare sull’Iran e sulla Russia. “Le previsioni non sono buone”, conclude il Financial Times, ricordando che la prima volta che Berlusconi presiedette un summit del G8 gli fu inviata una comunicazione giudiziaria (Napoli, 1994), la seconda volta il summit fu rovinato dalle proteste e dagli scontri (Genova 2001): meglio tenere “le aspettative vasse” per la terza volta.

Sempre sul Financial Times, un secondo articolo, firmato dal columnist più autorevole di affari internazionale Quentin Peel, rivela che l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, noto per essere uno dei diplomatici più tranquilli e posati della scena internazionale, ha perso la pazienza e ha scritto “una dura lettera personale” a Berlusconi, rimproverandolo per non avere mantenuto gli impegni da lui presi al precedente G8 sugli aiuti all’Africa. In proposito, un corsivo del Guardian ironizza che il premier italiano potrebbe venire ribattezzato “mister 3 per cento”, come lo ha chiamato Bob Geldof, il cantante paladino degli aiuti ai paesi poveri, nel senso che Berlusconi “mantiene solo il 3 per cento delle promesse fatte”.

A Berlusconi dedica la prima e la terza pagina anche il Daily Telegraph, il più diffuso quotidiano “di qualità” britannico. In prima pubblica una gigantografia di una giovane donna con una maglia traforata sotto la quale non indossa niente: “Quale leader europeo porta il suo ministro pieno di glamour al G8?” è il titolone che l’accompagna. La donna è Mara Carfagna, rivela un articolo a pagina 3, e il leader ovviamente è Berlusconi: “la modella in topless che è diventata ministro riceve il compito di intrattenere le moglie al G8”, afferma il servizio all’interno, a causa dell’assenza di Veronica Lario che ha chiesto il divorzio accusando il marito di avere “rapporti copn minorenni” dopo la sua partecipazione alla festa per il 18esimo compleanno di Noemi Letizia.

Altri articoli sulle difficoltà logistiche e politiche del summit, che si sommano agli scandali sulla vita privata del premier, appaiono sull’Independent, sul Times e su giornali di altri paesi. Il Wall Street Journal rivela che lo scetticismo e la preoccupazione degli altri leader del G8 è tale che Angela Merkel ha confidato a un consigliere politico che starà attenta a come viene fotografata accanto a Berlusconi durante il summit “nel contesto delle prossime elezioni tedesche”: un’immagine ridicola o offensiva accanto al premier italiano, si rende conto il cancelliere della Germania, potrebbe costargli la rielezione.(Beh, buona giornata).

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Ha ancora senso il G8?

L’ULTIMO G8 di Vito Tanzi -lavoce.info

Gli otto grandi del mondo si incontrano tra pochi giorni in Italia, a L’Aquila. Ma ha ancora senso una riunione dei G8, quando ne sono esclusi paesi come Brasile, Cina o India? Tanto più che le decisioni prese dal G8 non saranno certo accolte con entusiasmo da paesi che non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo.

Tra pochi giorni, l’Italia ospiterà a L’Aquila, presso la scuola della Guardia di Finanza, la trentaquattresima riunione dei G8, i cui rappresentanti sono spesso descritti dai giornali come gli otto “grandi” della terra. Con il passare degli anni il numero dei “grandi” è aumentato rendendo l’appartenenza al gruppo progressivamente meno esclusiva. Certo, è stato più facile aumentare il numero dei membri del club che sostituire i paesi diventati meno importanti con quelli che sono diventati più importanti: nel corso degli anni, i membri sono infatti aumentati da cinque a sette e, nel 2007, con l’ammissione della Russia, si è arrivati a otto. C’è da aspettarsi che nei prossimi anni i G8 diventeranno i G13, con l’ammissione di Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa.

COME DEFINIRLI PICCOLI?

Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa oggi sono ovviamente molto importanti nel mondo e la loro esclusione dal gruppo dei “grandi” sembra strana. Èdifficile considerare paesi come la Cina, l’India e il Brasile come “piccoli”. E forse lo stesso si può dire per il Messico e il Sud Africa. Nel loro insieme questi cinque paesi coprono una proporzione enorme della superficie terrestre. Includono la metà della popolazione del mondo. Posseggono enormi risorse minerarie ed energetiche. Realizzano una proporzione alta e crescente delle automobili prodotte nel mondo. Sono diventati leader in alcuni settori di alta tecnologia, come satelliti, fabbricazione di aerei, tecnologie delle comunicazioni. Con l’eccezione del Messico, questi paesi stanno crescendo più rapidamente degli attuali membri del G8. Non solo: oltre a Brasile, Cina, India, Messico e Sud Africa, ci sono altri paesi che per la loro importanza meriterebbero di fare parte del club.È facile quindi capire perché il G20 sta progressivamente rimpiazzando in importanza il G8.

A L’Aquila i G8 prenderanno decisioni – se le dichiarazioni espresse alla fine del summit si potranno considerare “decisioni” – che poi cercheranno di “vendere” alle altre nazioni. Ma è facile anticipare la mancanza di entusiasmo da parte dei paesi che non fanno parte dei G8 verso queste decisioni, alla cui preparazione non hanno partecipato.

DIVISIONI TRA I G8

È allora interessante passare in rassegna i principali temi che saranno discussi a L’Aquila. La conferenza stampa, tenuta a Washington il 15 giugno dal presidente Obama e dal presidente del Consiglio Berlusconi, ci dà qualche informazione. Barack Obama ha menzionato quattro temi: (a) la creazione di una struttura legale permanente e internazionale per combattere il terrorismo; (b) la riduzione degli arsenali nucleari; (c) la sicurezza nella disponibilità di cibo nei paesi poveri; e (d) la discussione della situazione economica mondiale.

Silvio Berlusconi ha dichiarato che l’obiettivo del summit è quello di raggiungere “soluzioni concrete” su molte questioni “estremamente importanti”. E ne ha citate alcune. In primo luogo, sviluppare principi che impediscano il ripetersi della crisi economica e che possano essere accettati da tutti i paesi. Sembrerebbe una missione impossibile. Forse conscio delle difficoltà, il presidente del Consiglio ha aggiunto che questo lavoro probabilmente non sarà completato a L’Aquila, ma ha manifestato la speranza che possa essere ultimato nella prossima riunione dei G20 a Pittsburgh. Questo obiettivo non era stato menzionato da Obama. Sulla sicurezza alimentare nei paesi poveri, Berlusconi ha aggiunto che gli Stati Uniti metteranno a disposizione di vari paesi “una quantità enorme di moneta” per garantire il raggiungimento di quest’obiettivo. Stranamente, Obama non aveva fatto menzione alcuna di queste somme. E data la situazione dei conti pubblici negli Stati Uniti, è improbabile che voglia mettere “una quantità enorme di moneta” a disposizione di altri paesi. Berlusconi ha citato anche i cambiamenti climatici, la riduzione delle emissioni di CO2 e il rilancio del Doha Round. Anche questi sono temi che non erano stati citati da Obama.

Èchiaro che ci sono già divergenze all’interno dei G8 sugli obiettivi importanti da promuovere o raggiungere.
Berlusconi ha dichiarato anche che altri dodici paesi – India, Cina, Sud Africa, Messico, Brasile, Egitto, Corea del Sud, Indonesia, Australia, Olanda, Spagna e Danimarca – parteciperanno a vari incontri collaterali alla riunione dei G8. Due osservazioni. La prima è che è difficile credere che si potrà raggiungere qualcosa di concreto rispetto a temi così difficili in tre giorni. La seconda è che la partecipazione degli altri dodici paesi trasforma de facto il summit dei G8 in un summit dei G20. Forse è giunto il momento di sciogliere il G8 e sostituirlo col G20. E cominciare a pensare seriamente alla creazione di meccanismi permanenti che possano proporre soluzioni concrete ai problemi del mondo. Riunioni come quella dell’Aquila sono utili per creare rapporti tra i governanti dei paesi più importanti, non per risolvere questioni concrete.
(Beh, buona giornata).

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I ventuno arresti degli studenti dell’Onda: il vecchio trucco di costruire il nemico interno per nascondere le difficoltà esterne.

Scontri G8 università Torino: 21 arresti. Da Milano a Palermo studenti occupano-ilmessaggero.it

Università occupate in tutta Italia dopo che 21 persone sono state raggiunte da misure cautelari (16 in carcere e cinque ai domiciliari) per gli incidenti avvenuti lo scorso 18 maggio a Torino in occasione del G8 dell’Università. Il Gip motiva le ordinanze con il rischio di reiterazione dei reati al summit dell’Aquila, ossia pericolo che gli indagati ripetano quelle azione al vertice. Il procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli ha parlato di manifestanti «organizzati in modo paramilitare». Negli arresti colpiti in particolare due centri sociali “storici”: il Pedro di Padova e l’Insurgencia di Napoli.

Gip: rischio reiterazione reati all’Aquila. GLi arresti vengono motivati dal giudice per le indagini preliminari con il pericolo di reiterazione dei reati, anche «in vista dell’imminente apertura dei lavori del G8» dell’Aquila. Gli arrestati, si legge infatti nell’ordinanza, «appartengono a un comune ambiente, riconducibile al movimento antagonista non solo torinese, in grado di elaborare un disegno criminale collettivo ben organizzato, preparato in anticipo, suscettibile di porre in serio pericolo l’incolumità personale delle forze dell’ordine e di turbare gravemente l’ordine pubblico». Ciò «rende evidente l’estrema concretezza e gravità del rischio di reiterazione di analoghe condotte criminose». Tanto più, conclude il giudice, «in vista dell’imminente apertura dei lavori del G8».

Sul web messaggio e foto di una bomba carta. Sulla pagina lombarda del sito web Indymedia, uno dei portali di riferimento della galassia antagonista, è apparso un post intitolato «E allora ‘l’onda si fece bomba», accompagnato dalla foto di una bomba carta. Il messaggio è rimasto visibile per circa mezz’ora, poi è stato cancellato. Nell’immagine, a sinistra ci sono una miccia, quella che sembra polvere da sparo, un foglio di carta e un piccolo cilindro. A destra l’ordigno pronto. Sotto, la scritta: «Pensate che gli arresti ci spaventano? Pensate di impedirci di manifestare? Pensate che gabbie e manganelli salveranno la vostra società di sfruttamento? Pensate male». Il post anonimo, inserito alle 16.26, è stato immediatamente più volte commentato prima di essere rimosso.

Le occupazioni. Prima l’occupazione del rettorato dell’ateneo di Torino, poi quella di tante altre università da parte degli studenti dell’Onda che chiedono ai rettori di prendere posizioni contro gli arresti. Occupati l’ufficio del pro-rettore de La Sapienza (gli studenti hanno deciso che resteranno anche stanotte) la facoltà di Architettura di Roma Tre, il Rettorato di Bologna, della Federico II a Napoli, di Pisa, Venezia, e La Statale di Milano dove la situazione è tornata alla normalità dopo che gli studenti hanno incontrato il preside della facoltà di Lettere e Filosofia. Gli universitari si sono uniti a un presidio già previsto davanti alla Prefettura contro la nuova normativa in tema di sicurezza. A Venezia il Rettore Carlo Magnani ha preso posizione contraria agli arresti. Protesta anche a Genova con gli studenti dell’Onda che sono entrati con striscioni alla conferenza strategica sul futuro della città. Il rettore dell’ateneo genovese, Giacomo Deferrari, ha risposto esprimendo solidarietà. Solidarietà anche da parte del sindaco di Genova Marta Vincenzi. Si mobilitano anche gli studenti di Cagliari che entrano in assemblea permanente nella facoltà di Scienze della Formazione. Protesta anche a Palermo con l’occupazione delle facoltà di Lettere e
Filosofia e di Scienze politiche.

Cortei, striscioni e proteste. Sarebbero un centinaio a Napoli dove domani si prevede una mobilitazione, una ventina quelli del movimento pisano dell’Onda a Pisa, a Bologna gli studenti hanno improvvisato un corteo, alla Sapienza i ragazzi hanno invaso l’ufficio del pro-rettore Avallone, a Roma Tre una cinquantina di aderenti della Rete V Strategy che fa parte del cartello anti G8 hanno occupato Architettura. Alla Statale di Milano esposti striscioni dal rettorato con la scritta “Liberi tutti, liberi subito”.

Agnoletto: si alimenta la tensione verso il summit dell’Aquila. Gli arresti «a due giorni dal G8 dell’Aquila è un chiaro messaggio da parte del Governo, che così facendo alimenta ed esaspera il clima di tensione verso l’evento (come aveva fatto a Genova, otto anni fa)». Vittorio Agnoletto, portavoce del Genoa Social Forum ai tempi del G8 di Genova parla di «strategia finalizzata a spostare l’attenzione dei media e dei cittadini dalle due vere notizie: il fallimento annunciato di quest’ennesimo vertice e l’evidente perdita di credibilità di Berlusconi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale»

Luca Casarini, il leader dei disobbedienti, ha sottolineato che si tratta di «arresti preventivi di stampo fascista, un’operazione politica fatta prima del G8 e dopo il vertice si smonterà». Per Luca Casarini «dietro» quanto accaduto «c’è la mano dei servizi segreti italiani: non siamo disposti ad accettare questo tipo di imposizioni e di vergogne nazionali». «Chiunque ci sia dietro – spiega – pagherà molto caro quello che sta succedendo».

Onda: Maroni il mandante. E’ Roberto Maroni sottolinea l’Onda Anomala di Torino, «il mandante di questa operazione che, oltre a reprimere il dissenso, compie una azione preventiva in vista dell’imminente G8 dell’Aquila». Di «arresti ad orologeria» parla anche Lele Rizzo, leader del network antagonista torinese: «Potevano fare tutto dieci giorni fa», afferma Rizzo, che scagiona i suoi compagni arrestati: «Al corteo – dice – di paramilitare c’era ben poco».

Gli arresti. Dodici persone sono state arrestate a Torino, mentre le altre a Padova, Bologna, Napoli e L’Aquila. A Padova ordine di arresto per il leader del centro sociale padovano Pedro Max Gallob e un esponente dell’ala universitaria della disobbedienza padovana, attualmente in Iran, suo paese di origine. Un altro attivista è stato sottoposto a perquisizione domiciliare. All’Aquila arrestato Egidio Giordano, napoletano di 25 anni, uno dei leader del centro sociale Insurgencia di Napoli che ha partecipato alla fiaccolata di ieri dei cittadini aquilani. Alcuni degli arrestati, ha inoltre reso noto la procura di Torino, hanno partecipato agli scontri di Vincenza, sabato scorso in occasione della manifestazione No Dal Molin.

Legale leader centro sociale Padova: strana l’ordinanza dopo tanto tempo. È «particolare» che le ordinanze di custodia per i tafferugli di Torino del maggio scorso «vengano emesse, per un episodio di scontri di piazza, a distanza di più di un mese dall’accaduto». La riflessione è dell’avvocato Aurora D’Agostino, legale che assiste Max Gallob, e che ha annunciato il ricorso al tribunale del riesame. Il legale ha anche detto che l’ordinanza del gip è datata 3 luglio, ma non si sa quando la procura ha chiesto le misure cautelari. L’avvocato D’Agostino ha anche detto che la procura aveva chiesto i domiciliari per tre persone, mentre il gip ha ritenuto di applicare tale misura a cinque giovani, mentre per gli altri 16 ha firmato l’ordinanza di custodia in carcere. Dopo aver ricordato che nell’ordinanza si contesta ai giovani l’uso di bastoni ed estintori ed il lancio di pietre e fumogeni, il legale ha sottolineato che le lesioni riportate dagli uomini delle forze dell’ordine, reato indicato tra le accuse, vanno da prognosi di tre o quattro giorni alla più grave di 15 giorni.

Tra gli indagati anche uno studente di Gemonio, 25 anni, denunciato per violenza privata in concorso. Nella sua abitazione la Digos ha trovato fogli e volantini che dimostrerebbero, secondo gli investigatori, che lo studente è vicino all’area del centro sociale Askatasuna. Avrebbe partecipato a una delle manifestazioni in cui erano state chiuse con delle catene le entrate di una banca nel capoluogo piemontese.

Nelle scorse settimane erano già state arrestate due persone. Domenico Sisi, parente del sindacalista Vincenzo Sisi processato a Milano con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica, e Alessandro Arrigoni, dipendente della prefettura di Milano. Entrambi avevano poi avuto l’obbligo di dimora.(Beh, buona giornata).

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