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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza/3 (Fine).

di Pino Cabras da megachip.info

Nelle indecenti corrispondenze di molti giornali e telegiornali si asseconda il concetto che l’incursione delle forze armate israeliane servirà a distruggere la percezione di utilità di Hamas nella popolazione civile. Ridurre tutti alla disperazione per rovesciare Hamas, insomma. Di fronte a questo intendimento, ci basta rispolverare la definizione ufficiale di “terrorismo” adottata dal Dipartimento della Difesa Usa: «Il terrorismo è l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza per indurre paura, intesa a coartare o intimidire stati o società nonché al perseguimento di obiettivi che sono generalmente politici, religiosi e ideologici».

Non vi piace? Volete quella dell’Fbi? Eccola: «Il terrorismo è l’uso illegale della forza o della violenza a danno di persone o proprietà per intimidire o coartare un governo, la popolazione civile o un loro segmento, seguendo obiettivi politici o sociali».

Definizioni troppo americane? Torniamo in Europa, allora. La Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio Europeo il 13 giugno 2002 lo definiva come «ogni atto terroristico commesso, da uno o più individui, contro uno o più Stati, intenzionalmente, o tale da arrecare pregiudizio a un’organizzazione internazionale o a uno Stato. Deve trattarsi di atti terroristici commessi con l’intenzione di minacciare la popolazione e di ledere gravemente o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di uno Stato (omicidi, lesioni personali, cattura di ostaggi, ricatti, fabbricazione d’armi, attentati fatti eseguire da terzi, minaccia di porre in atto simili azioni …).».

Ecco, sfumiamo i termini statuali dei soggetti, andiamo agli atti concreti. Siamo lì. Siamo nell’ambito di fattispecie che definiscono forme di azione violenta e illegale, tali da mettere in pericolo la popolazione civile, e quindi indurre una condizione di “terrore” diffuso così da ottenere alcuni risultati di tipo politico.
Possiamo certo riconoscere questa definizione anche a carico di chi lancia i razzi Kassam, che lo spudorato corrispondente del Tg1 definisce missili, ma che sono poco più che delle catapulte, dagli effetti drammatici ma strategicamente trascurabili. Ma perché non riconoscerla a carico di chi invece – tranne le sue bombe atomiche – ha usato sinora  tutto il resto di un armamentario spaventoso e senza proporzione?

Questa critica dura e senza sconti alle classi dirigenti israeliane e ai loro alleati significa avere la volontà o la velleità di distruggere Israele? No, è la semplice opposizione alla ‘normale’ e spregiudicata politica di potenza di uno Stato guerresco contemporaneo. Uno Stato che – al pari degli altri Stati – non deve essere considerato in odore di santità né pervaso da fumi demoniaci, ma semplicemente valutato con tutto l’arsenale della critica razionale, per quello che fa e che progetta, per il potere che ha e per lo scontro che il suo potere genera.

Relativizziamo, anche in questo caso.
Il processo di costruzione di Israele come nazione non si è risparmiato indicibili crudeltà e ingiustizie, ma è stato così anche per gli Stati-nazione più forti che conosciamo. La Francia che passa per guerre civili e religiose e accresce la sua economia a spese delle colonie, la Spagna della “limpieza de la sangre” e della Conquista, gli Stati Uniti con la Nuova Frontiera che schiaccia i nativi, la Russia che edifica un impero con impressionanti democidi, la Germania che prende le misure del mondo con enormi massacri e genocidi, la Cina che calpesta le minoranze, la stessa nostra Italia che si unifica con grandi tributi di sangue e dove Cristo è più o meno sempre fermo a Eboli. Dietro tante epopee nazionali c’è un terribile bagno di sangue, che dovrebbe spingere a non demonizzare, ma semplicemente a riconoscere il crimine quando esso si manifesta con tanta capacità di devastazione. In questo caso, oltre al diritto alla vita delle persone, oltre al diritto del popolo palestinese, oltre al diritto internazionale, è in gioco la pace a livello globale, per l’insieme di relazioni che si disputano nello scenario mediorientale. Cui si aggiunge la pericolosissima tradizionale unilateralità del governo israeliano, ancora una volta “pares non recognoscens”, ora in una polveriera più sconvolta.
E, per come si stanno comportando i mass media, è in gioco la possibilità di raccontare ancora delle verità sulla barbarie.

Denunciare la strage di Gaza con una capacità di esecrazione equivalente a quella consumata per la strage di Mumbai. Si può?
Contrastare subito le aggressioni, adesso, non con invisibili autocritiche “a babbo morto”, come è avvenuto per l’aggressione della Georgia all’Ossetia del Sud. Si può?
Non lasciar passare in cavalleria terrificanti crimini di guerra, come si è fatto per Bush che candidamente ha ammesso che la devastazione dell’Iraq è nata da falsi pretesti. Si può? Si può farlo ora?
Raccontare che i razzi Kassam di questi giorni non c’entrano nulla, perché anche «Haaretz» riferisce che l’attacco era pianificato da mesi e mesi. Si può?
Se non si fa disinformazione, si può. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza/2.(Continua).

di Pino Cabras da megachip.info

Pur essendo la parola ‘terrorismo’ una delle più usate nella politica degli ultimi anni, la sua definizione non ha affatto interpretazioni univoche. In molte occasioni i vertici di capi di stato e di governo hanno trovato difficoltà quasi insormontabili quando hanno cercato una definizione minima comune. Se si ragiona un po’ sulla questione, si scoprono tante sfumature che sottostanno alle definizioni polimorfe di un fenomeno sfuggente. A stento troverete fattispecie ben delineate, mentre vi imbatterete più spesso in parole che si adatterebbero tranquillamente alla descrizione di certi atti di guerra e di spionaggio che invece sono coperti da una qualche vernice di legalità.

Dimenticate per un minuto i bersagli di solito segnalati da politici e mass media, scordate l’iconografia di un gruppo di kamikaze che si auto-organizza. Troppo facile.
Provate invece a pensare a certe azioni fatte con la copertura di eserciti, Stati, organizzazioni non governative, servizi, multinazionali della security imparentate con il mondo dello spionaggio. Saranno diversi i gradi di visibilità della copertura dei governi, ma vedrete che quelle definizioni tornano indietro come un boomerang.

La prima grande ondata di attacchi aerei in Iraq nel 2003 venne chiamata «Shock and Awe». Non è facile tradurre questa espressione in due parole, per la densità di richiami che contiene. Normalmente i giornali italiani tradussero “colpisci e terrorizza”, “colpisci e sgomenta”, per mantenere la forza icastica dell’espressione e approssimarsi comunque al significato. Ma è interessante perdere un po’ dell’effetto per cogliere i significati di un’altra possibile traduzione: “sconvolgi e induci in soggezione”. Si coglie così non tanto la furia cieca del fanatico rozzo, quanto la risolutezza metallica del fanatico freddo, che distilla la ‘strategia della tensione’ in un blitzkrieg. Quante volte ritorna l’espressione ‘Terrorismo di Stato’ e di ‘Stato terrorista’, nella Grozny annientata dai carri armati russi, nel Libano devastato dall’aviazione israeliana, nelle lotte di potere in Pakistan, nella memoria degli anni di piombo italiani? A ogni buon conto, l’organo neocon italiano, «Il Foglio», ha plaudito anche stavolta in prima pagina alla rivendicata “strategia shock and awe”.

Cos’è dunque il terrorismo? Il terrorismo non è solo una questione di terroristi. In un certo senso ce lo dicono anche le Convenzioni di Ginevra. Anche se non definiscono la nozione di “terrorismo”, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si riferiscono a “misure di terrorismo” e ad “atti di terrorismo”. L’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra in modo esplicito vieta che la popolazione civile venga fatta oggetto di «pene collettive, come pure [di] qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo». La vicenda di Gaza è un caso lampante di pena collettiva inflitta alla popolazione. E gli ultimatum che dicono “stiamo per bombardarvi”, lungi dal significare “vogliamo salvarvi la vita, spostatevi” sono atti d’intimidazione e induzione del terrore. Come stupirsi delle parole non prevenute di Richard Falk, pronunciate nel 2007, quando ancora l’assedio di Gaza non era giunto alle punte di crudeltà più recenti? Falk dichiarava: «È forse un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi alle pratiche di atrocità collettiva dei nazisti? Non credo. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo sconvolgente un’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre una comunità umana nella sua interezza a condizioni di massima crudeltà che ne mettono in pericolo la vita. La suggestione che questo modello di comportamento sia un olocausto in erba rappresenta un appello disperatissimo ai governi del mondo e all’opinione pubblica internazionale affinché agiscano d’urgenza per impedire che queste attuali tendenze al genocidio finiscano in una tragedia collettiva».

L’articolo 4 del Secondo Protocollo Aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra stabilisce che contro tutte «le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità […] siano proibiti in ogni tempo e in ogni luogo […] atti di terrorismo». Ancora una volta, senza arrivare alle definizioni “teologiche” di terrorismo, quelle della Guerra al Terrorismo per intenderci, il diritto internazionale ha cercato di codificare fattispecie precise. In entrambi i disposti delle Convenzioni di Ginevra si enfatizza che né singoli individui né la popolazione civile in quanto tale possono essere fatti oggetto di punizioni collettive che, fra l’altro, indurrebbero in essa una condizione di terrore.

Questo concetto si rafforza nel Primo Protocollo Aggiuntivo, laddove, all’articolo 51, è stabilito che «sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi» e che «sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile.»
Qualche azzeccagarbugli del diritto umanitario proverà a confondere le acque, giocando fra le definizioni di politica interna e internazionale degli interventi militari. Ma il disposto ricompare quasi alla lettera nel Secondo Protocollo Aggiuntivo: la qualificazione del conflitto come internazionale o interno non ha grande rilevanza.

La strage di Gaza è una misura di terrorismo. Un atto di terrorismo. Affermare che si volevano colpire i soldati di Hamas è una giustificazione sottile come la carta velina. I poveri poliziotti massacrati nel giorno del loro giuramento non erano certo persone che “partecipano direttamente alle ostilità”. Erano parte di una fragile infrastruttura di sicurezza interna del territorio. Fragile come il miraggio del misero stipendio– cosa rara in un luogo in cui ormai tutti sono disoccupati – che forse li allontanava dallo spettro della denutrizione toccata in sorte ai loro connazionali. In tutto e per tutto vittime civili anche i poliziotti morti, come i bambini morti nelle macerie delle scuole.

Che l’obiettivo fosse distruggere qualsiasi dimensione civile dei territori, lo dimostra in modo flagrante la disintegrazione dell’Università. Che si aggiunge alle devastazioni inflitte anni addietro a tutte le infrastrutture palestinesi. Sono rimasti i forni, senza elettricità e senza pane. (Beh, buona giornata)

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Attualità Popoli e politiche

L’enigma Gaza.(Continua).

di Pino Cabras – Megachip.info

Nei giorni dell’atroce strage di Gaza l’orrore si condensa inevitabilmente sulle immagini e le voci delle vittime. Tanti piccoli tasselli che non riescono a ricomporre ancora il quadro della tragedia. Capire e riflettere in mezzo a tanta sciagura è difficile. Ma dobbiamo farlo, per ricostruire i fatti e il contesto.

Dopo anni di occupazione, l’11 settembre 2005, l’esercito israeliano ammainò la bandiera a Gaza, non appena fu completato il rapido sgombero delle colonie ebraiche sulla Striscia, troppo costose da tenere. Lunghe colonne di mezzi militari si allontanavano. Era il disimpegno unilaterale di Ariel Sharon: nessun riconoscimento politico che mettesse alla pari gli interlocutori palestinesi. Gli israeliani salutavano, ma non se ne andavano. Il mare e il cielo erano interamente sotto controllo israeliano. E che controllo.

In mare, la misera marineria palestinese non aveva più diritto a pescare nemmeno sulla battigia. Nessun molo funzionante, nemmeno per commerciare un po’ di derrate alimentari fresche.

In cielo, nel corso degli ultimi tre anni non si contano le azioni di bombardamento. In cielo, soprattutto, i jet con la stella di David hanno volato di proposito e di continuo a velocità supersonica, specie di notte, per creare insopportabili rumori. Un trauma senza posa che non ha risparmiato i bambini.

In terra, tutto il confine con Israele era una barriera chiusa e impenetrabile. Non bastava lo sfiato esiguo del confine con l’Egitto a trasformare questo territorio in qualcosa di diverso da una prigione. Serrato in via definitiva il passaggio di Karni, da cui potevano entrare le importazioni palestinesi sbarcate nel vicinissimo porto israeliano di Ashdod, pochi chilometri a nord, i palestinesi dovevano affidarsi ai porti egiziani di Port Said o Alessandria, a 200 chilometri l’uno, a 400 l’altro, con costi insostenibili per una popolazione già stremata. Questa era Gaza resa libera. La più grande prigione del mondo, un popolo intero, un milione e mezzo di persone. E più di ogni altra prigione, piena di innocenti.

Quando nel 2005 ci fu il “ritiro” unilaterale, uno sguardo spassionato alle circostanze avrebbe permesso di capire al volo che quello non era un refolo di speranza, ma la base per un aggravarsi della situazione. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».

Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo. Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del “Movimento di Resistenza Islamico”. Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.

Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.

Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese:  «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).
Weissglass in fondo è uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato… [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.

I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.
Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui è ormai vietato entrare in Terra Santa per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Al solito, di fronte a vicende di guerra, i media occidentali più importanti manipolano pesantemente le notizie. Sono complici di quelle classi dirigenti che – dopo l’11 settembre  – hanno fatto di tutto per distruggere un ordinamento giuridico internazionale che ammetteva norme non basate sul solo diritto di potenza, inquinare i punti di riferimento concettuali per la definizione di ciò che è aggressione o tirannia o resistenza, mentre potenti interessi imperialistici condizionano l’economia – vicina a un baratro finanziario – entro la gabbia delle priorità militari. Gli Stati Uniti non stanno sollevando alcuna obiezione, rispetto all’ennesima azione scellerata del governo israeliano. Ma anche le voci europee sono flebilissime.

Ernesto Balducci, quando nel 1991 scorreva il bollettino delle vittime nella Guerra del Golfo notava che a fronte di qualche centinaio di americani, c’erano centinaia di migliaia di morti iracheni: non più una guerra codificata dalla ragione e dal diritto, ma una strage. Credo che anche oggi la parola strage sia la più adatta a descrivere la scena di Gaza. Un’immane strage.
Fra i responsabili dell’eccidio c’è il ministro della difesa israeliano, l’ex premier Ehud Barak. Giustifica anche lui tutta questa ferocia pianificata in nome della lotta al terrorismo. (Beh, buona giornata).

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Attualità

Tutto quello che potremmo augurarci per il prossimo anno potrebbe essere già superato dai fatti.

 Scrive Ennio Remondino, noto e bravo corrispondente Rai, su megachip.info:

 “Vivendo in un paese musulmano (la sede di corrispondenza Rai da Istanbul), mi capita inoltre di pensare alla prevaricazione coloniale della nostra cultura cristiano-occidentale sul resto del mondo. Noi ed il nostro “Calendario Gregoriano” per contabilizzare persino lo scorrere del tempo e della vita.

Mi sono documentato ed ho scoperto che esistono almeno altri 10 Calendari. Ad Istanbul, per esempio, dovrei augurare “Buon 1430” , dalla data dell’Egira di Maometto. A Gerusalemme ovest, con gli amici ebrei, dovrei festeggiare il 5770 deciso dalla Bibbia. A Belgrado, il Natale giuliano e liturgico arriva con la nostra Epifania.

Per il mio amico e stimatissimo collega Paolo Longo, da Pechino, buon 4646, ma a partire dal 21 gennaio. Per Raffaele Fichera, dal Sud America, varrebbe l’intraducibile calendario Maya. Buon Capodanno che vi pare a tutti voi, e che le Feste finiscano presto. Col 2009 che ci attende avremo di che sprecare ottimismo.”

In effetti, non sfugge a nessuno che quest’anno è alquanto complicato fare e ricevere gli auguri per il prossimo anno. Uno rischia di fare delle gaffe terribili.

Che razza di buon anno si potrebbe mai augurare a un lavoratore dell’Alitalia, a uno della Fiat, a uno della Telecom, a un lavoratore chimico della Sardegna, a un pubblicitario di Milano, a un ingegnere dell’ex Motorola di Torino, a un alberghiero di Venezia, a un insegnate della scuola pubblica, a uno studente universitario, a un precario della pubblica amministrazione, a un lavoratore dello spettacolo? Auguri di che? Che non venga licenziato? Che ci siano i soldi per la cassa integrazione? Che trovi un altro lavoro? Che riesca a pagare il mutuo? O a comprare i mobili per la casa? O che arrivi alla quarta settimana? O che deve sempre e comunque essere ottimista e avere fiducia?

Meglio lasciar perdere. Bisognerebbe augurarsi che le cose non peggiorino, ma che razza di auguri sarebbero? Sarebbero scongiuri, altro che auguri.

Potremmo augurarci di essere trattati da cittadini, invece che da bambini, ai quali raccontare bugie sulla crisi economica, dopo avercele raccontate sulla crisi finanziaria, sulla crisi ambientale, sulla crisi energetica. Ma anche questi non sono auguri, ma diritti e doveri: primo fra tutti, il diritto di sapere e il dovere di agire.

Potremmo augurarci che scompaiano per consunzione fascisti, razzisti, sessisti, omofobi e xenofobi. Ma quello dipende dall’esercizio singolo e collettivo dei principi democratici della nostra Repubblica: il fatto che la mamma degli imbecilli è sempre incinta, non significa abbassare la guardia. Ma anche in questo caso che razza di augurio sarebbe: di chiudere i conti col passato, invece che guardare al futuro?

Potremmo augurarci di non vedere le solite facce tristi e ascoltare le solita litania di cazzate degli uomini dell’aparatnik del governo, che imperversano nei tg e nei talk show tutti i giorni dell’anno, a cui fanno da contraltare, con la simmetrica geometria della par condicio, altrettante facce tristi e parole scadute come lo yogurt di ieri i vari portavoce dell’opposizione, gli uni e gli altri eterodiretti da conduttori  self-embedded in una sceneggiatura trita e ritrita, tanto lontana dalla realtà economica e sociale, quanto arrogante e autoreferenziale. Ma che razza di augurio sarebbe? Di non dimenticare di acquistare nuove pile del telecomando, per cambiare prontamente canale?

A questo proposito, forse un augurio si potrebbe fare: quello di diminuire le ore davanti alla tv e aumentarle davanti a un buon giornale e a un bel libro.

Meno intrattenimento, più approfondimento, ecco l’augurio che mi sentirei di fare per il 2009. In futuro niente sarà come prima. Tutto quello che potremmo augurarci per il prossimo anno potrebbe già essere rapidamente superato dai fatti. Meglio prepararsi per tempo. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Basta una telefonata per uscire dalla crisi.

Fonte AGI, Roma, 16:53

CRISI: BERLUSCONI, NIENTE ALLARMI CONSUMI NON CALATI
“Ho sentito il presidente dei commercianti, Carlo Sangalli, e mi ha detto che non c’e’ stato nessun calo per gli alimentari. E gli altri generi si sono mantenuti sui livelli degli altri anni”. Lo ha affermato il premier Silvio Berlusconi intervistato da Sky Tg24. Il Premier aggiunge: “tutto sta nelle nostre mani”. (Beh, buona giornata).

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Cosa significa il tonfo dei consumi di Natale.

 

Secondo i dati del Codacons i consumi italiani, nel periodo natalizio, sono scesi del 20% rispetto all’anno scorso e per i prossimi saldi le attese sono per un calo degli acquisti del 30% rispetto all’anno scorso. Secondo Federconsumatori-Adusbef, inoltre, per i regali di Natale, gli italiani hanno speso quest’anno 2 miliardi in meno rispetto all’anno scorso.  A questo dato si aggiunge il rilevamento del’Osservatorio del turismo, secondo il quale i viaggi per le vacanze invernali registrano una flessione del 15%.  Se confermati, il combinato disposto tra questi due dati ci dice che non solo i ceti meno abbienti, ma anche i ceti medi si sono trovati in grave difficoltà economica in questa fine d’anno.

Il tonfo dei consumi che si è registrato a Natale significa almeno tre cose.

La prima è che gli appelli all’ottimismo e le professioni di fiducia sono risultati del tutto vani, se non addirittura hanno peggiorato la percezione della crisi. In principio si è voluto sottacerne la portata, poi si sono fatte ammissioni a mezza bocca, infine si cercato di minimizzare. E’ sembrata la barzelletta del medico che chiama il suo paziente per annunciargli una brutta notizia e una pessima: “ la brutta notizia è che lei ha ventiquattro ore di vita, la pessima è che mi sono dimenticato di telefonare ieri.” Per una volta,  nello spazio di poche settimane, realtà e percezione della realtà sono arrivate in perfetta sincronia alle feste natalizie.

La seconda cosa che il tonfo dei consumi ha dimostrato è che le misure anticrisi si sono rivelate del tutto tardive e inefficaci. L’attitudine “compassionevole” ha deluso e preoccupato. Non si è avuto il coraggio di operare scelte coraggiose, come in altri paesi della Ue si è fatto per tempo. Bonus figli e social card sono scivolate via come l’acqua.  In proporzione, ha fatto meglio il cardinale Tettamanzi a Milano che il capo del governo a Roma. Chi diceva che il pacchetto anti-crisi era vuoto aveva ragione. Chi sosteneva e sostiene ancora la necessità di un forte intervento del welfare (Obama docet) ha visto per tempo la portata della crisi economica. Le ragioni dello sciopero generale indetto dalla Cgil, dai sindacati di base e dall’Onda degli studenti c’erano tutte. Avrebbero, per altro, fermato la tendenza alla messa in cassa integrazione generalizzata, nonché ai tagli pesanti e generalizzati degli occupati, scelte spesso proditorie, più politiche che economiche assunte da Confindustria per forzare la mano degli aiuti alle imprese. Ostinarsi a non favorire salari e stipendi, chiudere gli occhi di fronte al precariato ha materialmente depresso i consumi, oltre che frustrato i livelli economici delle famiglie, impoverendole sia di soldi che di futuro.

Il tonfo dei consumi ha un terzo risvolto, che riguarda l’inefficacia dimostrata della pubblicità durante questa crisi. La tv ha fallito. In Italia circa il 70% delle risorse pubblicitarie sono investite in televisione, a danno della carta stampata e degli altri mass media, compreso internet. Dunque, il fallimento della tv è ancora più clamoroso. C’è una vera e propria emergenza che colpisce la comunicazione commerciale in Italia. Allo strutturale ritardo nello sviluppo di forme più moderne e articolate di comunicazione pubblicitaria si è aggiunta la cecità di chi crede ancora che prendere a ceffoni il telespettatore con una gragnola di spot e di telepromozioni sia sufficiente per superare il crollo della propensione alla spesa di milioni di italiani.

Il comune denominatore dei tre significati del tonfo dei consumi natalizi è che le cure si sono rivelate peggiori del male. Bisogna cambiare medico (infermieri compresi).  Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

E’ finita la pacchia.

I gruppi familiari con capitalizzazione superiore a mille milioni scesi da 20 a 11
I Rocca ancora in testa, Berlusconi perde 3 miliardi

La crisi colpisce anche i ricchi
dimezzati i Paperoni della Borsa

di ETTORE LIVINI


MILANO – La crisi dimezza il numero dei miliardari a Piazza Affari. La valanga dei subprime non ha risparmiato nemmeno i portafogli delle grandi dinastie del Belpaese che sotto l’albero di Natale si sono ritrovate quasi tutte con un patrimonio azionario dimezzato rispetto al 2007. I Paperoni con più di 1 miliardo in tasca sono oggi solo undici contro i venti dell’anno scorso, mentre le dieci famiglie più ricche hanno visto sparire dal loro portafoglio (virtuale) in dodici mesi ben 26 miliardi, bruciando qualcosa come 71 milioni di euro al giorno. Performance che riflettono, impietosamente, lo scivolone dell’indice Mibtel, crollato da gennaio del 49,6%, riportando l’orologio della Borsa di Milano indietro di 10 anni esatti.

A guidare la classifica dei super-ricchi sono ancora i Rocca (quelli della Tenaris) che però hanno visto andare in fumo in questo periodo la bellezza di 5 miliardi. Dal podio è sparito invece Romain Zaleski. Il raider franco-polacco aveva scalato la graduatoria un gradino alla volta fino al secondo posto del 2007. Un’ascesa, però, drogata dai debiti e legata a filo doppio ai capricci dei mercati. Tant’è che il suo “tesoretto” è stato vittima di una bella sforbiciata crollando a 3,4 miliardi, il 57% in meno del Natale 2007, costringendo le banche a stendere una rete di salvataggio per evitare il default della sua cassaforte Carlo Tassara.

Tiene – invece – un po’ meglio (si fa per dire) chi fa industria e lega i suoi profitti alle fabbriche più che all’andamento di Piazza Affari. Leonardo del Vecchio ha guadagnato una posizione piazzandosi alle spalle dei Rocca, seguito a ruota dai Benetton. Quasi 3 miliardi ha “perso” pure il premier Silvio Berlusconi, penalizzato dal crollo in Borsa di Mediaset, Mondadori, Mediolanum e tradito persino in termini di performance dall’ultimo gioiello di famiglia, il 2% di Mediobanca rastrellato dalla Fininvest.


Tra le vittime eccellenti ne brillano almeno due. Il primo è Luigi Zunino: penalizzato dal crollo degli immobili, dopo un po’ d’anni di gloria ha visto il suo patrimonio perdere quasi il 75% del valore. E poi gli Agnelli: l’anno nero della Fiat ha contagiato pure il valore delle holding del Lingotto, dall’Ifil fino all’Ifi. Tanto che gli eredi dell’avvocato hanno oggi in tasca partecipazioni azionarie per poco più di 250 milioni, un quarto di fine 2007. Malissimo è andata anche a Marco Tronchetti Provera che a causa della debacle della Camfin, capofila di Pirelli, ha visto la sua ricchezza azionaria ridimensionata dell’80% circa a poco meno di 50 milioni.

A sorridere a Piazza Affari sono in pochi visto che i titoli in attivo nel 2008 si contano sulle dita di una mano. Un Natale felice l’ha passato – ad esempio – la famiglia Landi. Il titolo della loro azienda attiva nei sistemi di alimentazione per auto ha sfidato la forza di gravità e i subprime guadagnando in dodici mesi quasi il 50%. Qualche spicciolo l’ha raggranellato anche il numero uno della Lazio Claudio Lotito visto che le azioni dei biancazzurri sono oggi in rialzo frazionale.

Se i privati piangono, anche lo Stato, nel suo piccolo, non ha molto da ridere. Le partecipazioni in portafoglio al Tesoro (che a tutt’oggi ha ancora la palma di investitore più ricco di Piazza Affari) valgono – tra Eni, Enel, Finmeccanica e Terna – un po’ più di 26 miliardi di euro. Un bel gruzzoletto, per carità, ma in ogni caso ben 15 miliardi in meno del patrimonio di azioni pubbliche a dicembre dell’anno scorso.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il Solstizio d’Inverno della pubblicità italiana.

Una gelida ventata di licenziamenti ha attraversato le agenzie di pubblicità italiane in prossimità di queste vacanze invernali. La crisi pensa più velocemente dei manager: sarà perché forse leggono poco i giornali, sarà perché forse evitano le trasmissioni televisive “ansiogene”, fatto sta che nei dieci giorni precedenti al Natale sono andati perduti decine e decine di posti di lavoro nello stesso lasso di tempo, con la stessa frettolosa decisione.  Che le cose sarebbero andate così come sono poi andate era ben chiaro da mesi. Ciononostante, abbiamo assistito, non senza stupore, a varie e insistenti dichiarazioni rese alla stampa di settore da importanti manager di agenzie italiane nelle quali si diceva che non c’erano problemi, che tutto andava bene. Un perdita talmente secca del senso della realtà non si era mai verificato in modo così evidente. Poi la verità ha preso il sopravvento su piccole strategie comunicative.

Non è mai stata una novità nel mercato della comunicazione commerciale il fatto che alla perdita di un budget corrispondesse la perdita di lavoro di creativi e addetti al contatto col cliente, tuttavia questa volta si è verificata una dose inconsueta di sadismo: una agenzia tra le prime dieci in Italia ha comunicato il licenziamento  agli interessati via telefono; un’altra lo ha fatto all’indomani della festa aziendale, inaugurando un rituale che potrebbe essere definito “stasera brindo con te, domattina ti sbatto fuori”. Si hanno notizie, nonostante la cortina di silenzio che si è innalzata tra l’omertà dei manager e il pudore degli interessati, di tagli consistenti a tutti i livelli, in ogni ordine e grado, tra le grandi e le piccole agenzie che compongono il mercato della pubblicità italiana.

Quando, appunto, la verità è venuta a galla, nonostante proclami di buona salute finanziaria che alla luce dei fatti suonano viepiù grotteschi si è finalmente capito che la crisi ha esondato perché le agenzie sono state completamente impreparate ai nuovi scenari economici; che la crisi ha travolto  gli argini perché i livelli di cultura professionale erano fradici e pericolanti; che la crisi ha alluvionato giovani talenti, tra i quali molte giovani donne perché le agenzie italiane non si sono rinnovate in tempo. Quando non si vogliono vedere i nodi che vengono al pettine, è il pettine che viene ai nodi e li strappa con dolore, invece che scioglierli.

Esistono responsabilità personali tra coloro che dirigono le agenzie, non fosse altro perché la sola cosa che sono stati capaci di fare è stato tagliare tutto, tranne che i propri emolumenti. Cionondimeno le responsabilità collettive sono ancora più evidenti. La pubblicità italiana, avvitata su sé stessa ha smaccatamente rinunciato a essere uno strumento valido, efficace e duraturo per aiutare le aziende a resistere alla crisi e a prepararsi alla ripresa. Quelli che dovevano far vedere come si fa, hanno semplicemente dato il peggio di sé.

Se gli utenti della pubblicità italiana, gli investitori nella comunicazione commerciale avevano dubbi sulla effettiva capacità delle rispettive  agenzie, oggi sembrano maturare la certezza che così come è organizzato il mercato della comunicazione  in Italia l’agenzia di pubblicità vale poco, per non dire che serve a niente.

Anzi, l’agenzia di pubblicità così come la conosciamo in Italia sembra confermare in pieno le scelte di quegli imprenditori che da tempo hanno deciso di pagare sempre meno le loro agenzie. La perdita di autorevolezza ha fatto spazio alla mancanza di fiducia, la mancanza di fiducia ha raffreddato la propensione agli investimenti, la crisi degli investimenti ha ridotto l’agenzia da azienda di servizi a  incerto fornitore di servigi.

Con quale risultato? Proprio quello che si legge nelle misere cifrette che annaspano sotto la bottom line dei fogli elettronici che avvelenano il sonno dei direttori finanziari.  E’ inutile nasconderselo: quest’anno la pubblicità italiana nella stragrande maggioranza dei casi non è riuscita nemmeno nell’obiettivo del break even.

Sarebbe troppo comodo dare la colpa alla crisi che attraversa l’economia reale, dopo aver fatto scempio di quella finanziaria. Comunque, non risolverebbe il problema. Perché l’elenco degli errori esiziali è tanto lungo quanto noto, da ben prima si appalesasse l’attuale crisi.  L’agenzia di pubblicità “classica” dopo aver distrutto cultura professionale, sta distruggendo valori economici e, come logica conseguenza, distrugge talenti e azzera posti di lavoro.

Chi ha pensato di essere così furbo da fare profitti senza produrre idee, ha scoperto che senza idee si fanno solo perdite.

 Il sistema-paese avrebbe bisogno di una spinta innovativa nella comunicazione commerciale.  Lo chiedono le imprese, lo avvertono i consumatori: ci vuole una spinta che sappia  attraversare il nostro sistema dei media, riorganizzare i centri di produzione di idee; urge un nuovo modo di fare e di pensare la pubblicità, che sappia essere il centro motore di un forte e complessivo rinnovamento.

Le nostrane agenzie di pubblicità non ne sono capaci. Chi è causa della crisi non può essere la soluzione della crisi che ha oggettivamente (ma anche soggettivamente, sia chiaro) contribuire ad aggravare. Ci sono ovviamente brillanti e solitarie eccezioni, ma che, come tutte le eccezioni confermano la regola.

Sono proprio quelle eccezioni, però, che ci dimostrano che è urgente un cambio di punto di vista, la prefigurazione di nuove prospettive, sia nel pensare che nell’agire. La concomitanza tra la crisi ambientale, la crisi energetica e la crisi finanziaria globale è stata definita “la tempesta perfetta” da Jeremy Rifkin. Dobbiamo prendere seriamente in considerazione che la crisi dell’informazione mondiale è la  “quarta crisi” che si aggiunge alla tempesta perfetta. Le implicazioni con la democrazia e il rapporto con l’opinione pubblica che la  “quarta crisi” porta con sé meritano un approfondimento in altra sede. Qui basti ricordare che anche i consumatori fanno parte dell’opinione pubblica, raggiunta a vario titolo dai media. Se i  media classici sono in crisi da tempo, la pubblicità, che è nata e cresciuta all’interno dei media non può che subire e pagare il suo tributo alla “quarta crisi”.

Allora non c’è che da rimboccarsi le maniche  e dare vita a un agenzia di “nuova generazione” che sappia raccordare i messaggi commerciali delle aziende con il sentimento comune dei cittadini- consumatori, con i quali costruire nuove relazioni, utilizzando tutti gli strumenti, tutti i veicoli, in una piattaforma multicanale e convergente che sappia fare delle nuove tecnologie le proprie fondamenta. Sulle quali rifondare cultura professionale, liberare intuizioni, creare un ambiente favorevole alla creatività pubblicitaria e a lungimiranti strategie di marketing.

Fuori dalle pastoie delle agenzie “classiche” ci sono concrete possibilità che la “quarta crisi” sia il luogo favorevole per dare vita  all’agenzia di “nuova generazione”. Perché  idee forti e nuove  siano creative di scenari, più ricchi e promettenti per le aziende, per i consumatori, per il mercato. Beh, buona giornata.

p.s.: a tutti i lettori ‘guri (pare che in tempi di crisi bisogna tagliare).

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Attualità Natura Società e costume

Il sindaco che straparla di un fiume che non straripa.

Alemanno, il Tevere e il linguaggio dell’emergenza
di Giulio Gargia

Il 12 dicembre il Tevere minaccia di invadere Roma. La Protezione Civile ha proclamato lo stato di calamità naturale. Intere zone sono pronte all’evacuazione. Alle 15,31 il sindaco Gianni Alemanno detta una dichiarazione, riportata tra le altre , dall’Adn Kronos. Il primo cittadino informa che le forze di sicurezza stanno evacuando il Coni, spiega che “l’ Isola Tiberina non è a rischio evacuazione” (dall’ospedale Fatebenefratelli fanno sapere che sono comunque pronti ad affrontare l’emergenza) e ricorda che le zone più in pericolo “restano Ponte Milvio e le aree golenali, sia a valle che a monte della città, dove possono esserci degli straripamenti”.

Insomma , il sindaco ha dato indicazioni chiare e pronunciato parole precise: il pericolo sta nelle aree golenali a monte e a valle della città. Ed è imminente. La furia del Tevere si concentrerà lì.
Ma , mentre è chiaro dove sia Ponte Milvio, non è affatto precisato quali siano queste “ aree golenali” dove bisogna temere il peggio. Quali diavolo sono ?
La Prenestina, Monti, il Ghetto, Prati ? Come si differenziano dalle “aree non golenali “ ? Quando la notizia mi raggiunge, come mi accorgo se sto passando per una di queste ? Alemanno non ritiene di doverlo divulgare e ci lascia soli con la madre di tutte le domande.
Questione che in tempi normali avrebbe interessato solo specialisti e cultori dei quiz di Gerry Scotti, che pero almeno ti dà 4 opzioni e un aiutino da casa. Ma che ora, con il Tevere che sta per straripare, sembra drammaticamente urgente risolvere.

Ora, chi scrive confessa la sua ignoranza. Pur essendo mediamente ritenuto dai suoi studenti dell’Università e dai diversi giornali con cui collabora una persona mediamente colta e informata, non ha la minima idea di cosa possa essere “un’area golenale”. Ora, si potrebbe fare una ricerca
e saperlo in una mezz’oretta. O in un paio d’ore al massimo. O forse telefonare a qualche amico geologo.

Ma certo la prospettiva di una drammatica inondazione in quelle aree ( che si continua a non dire dove siano ) non aiuta a mantenere la calma. E soprattutto innervosisce un’altra domanda : ma perché Alemanno non le indica, come ha fatto con Ponte Milvio ? Ha voglia di giocare al piccolo geologo ? Perché obbliga tre milioni di romani a una gigantesca caccia al tesoro al contrario per sapere se si trovano in queste benedette aree o no ?

Ora che il peggio è passato, questa notazione può avere il sapore di una beffa. Ma sarebbe bastato un ferito o un metro d’acqua in più del fiume per far assumere alla criptica indicazione del sindaco un tono tragico. Immaginate infatti lo scenario prefigurato da molti : il Tevere esonda, e colonne di auto e di persone pressate dall’acqua chiedono, bestemmiando con un certo vigore, ai pizzardoni e agli uomini dell’ineffabile Bertolaso di portarli fuori dalle “ aree golenali”…
Dulcis in fundo, anche i colleghi dell’Adn Kronos ( non so cosa abbiamo fatto quelli delle altre testate cui è stata resa la dichiarazione – ndr ) avrebbero potuto, con poco sforzo, tradurre in nomi l’enigmatica espressione geologica del sindaco. Ottemperando a un preciso dovere giornalistico: la divulgazione di notizie di interesse pubblico.

PS – Naturalmente, ora chi scrive sa cosa sono e dove si trovano le “aree golenali “ a Roma. Ma non ritiene di dovervelo svelare. Perché , in fondo, un umile cronista non può contraddire la volontà di un sindaco eletto dal voto democratico, e particolarmente apprezzato proprio nelle “ aree golenali”… (Beh, buona giornata)

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

La crisi economica e il modo migliore per affrontarla.

La crisi come occasione
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

La parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario: più che una parola, è albero dai rami incessanti. In greco antico significa un gran numero di cose tra cui: separazione, scelta, giudizio. Il verbo, krino, vuol dire anche decidere. In medicina si parla di giorno critico o di giorni critici: per Ippocrate (e per Galeno nel secondo secolo dC) è l’ora in cui la malattia si decide: o precipita nella morte o s’affaccia alla ripresa. È il punto di passaggio, di svolta. Il termine riapparve nei sommovimenti enormi del ’700: nella rivoluzione francese, in quella industriale. La vera crisi, per Burckhardt, non cambia solo i regimi: scompone i fondamenti della società, come avvenne nelle migrazioni germaniche. Quel che la caratterizza è la straordinaria accelerazione del tempo: «Il processo mondiale d’un tratto cade in preda a una terribile rapidità: sviluppi che solitamente mettono secoli a crescere, passano in mesi e settimane come fantasmi in fuga» (Jacob Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale).

Il concetto di crisi fu evocato con affanno sempre più frequente dopo il primo conflitto mondiale. Lo storico Reinhart Koselleck la chiama «cataratta degli eventi» e sottolinea il suo volto ambiguo: è una condanna, ma anche un’occasione che ci trasforma. Nel Vangelo di Giovanni (5, 24) Gesù la raffigura come temibile: «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita». Nella versione greca, andare incontro al giudizio è letteralmente «entrare nella krisis», nel processo. Al tempo stesso crisi è intelletto all’opera, che redime: «L’uomo che non ha alcuna krisis non è in grado di giudicare nulla», scrive Johann Heinrich Zedler nell’Universal-Lexikon del 1737.

Anche la crisi che traversiamo oggi è «vera crisi»: momento di decisione, climax d’un male, e se ne abbiamo coscienza, occasione. Uscirne è possibile, purché non manchi la diagnosi: secondo Galeno, i giorni critici sono valutabili solo se l’inizio del male è definito con precisione.
Gli economisti non bastano a tale scopo, e ancor meno i politici. Spesso vedono le cose più da vicino i letterati, i filosofi, gli storici, i teologi, i medici. Se la società è un corpo – dagli esordi è la tesi dei filosofi – questi sono i suoi giorni critici: può morire o guarire, mutando forma e maniere d’esistere.

Pietro Citati individua la radice del male nella passione dei consumi: frenesia che descrive con parole deliziose, ironiche, sgomente, evocando la telecamera americana che nel 1952 riprese una massaia che s’aggirava nel supermercato (Repubblica, 3 dicembre 2008). La camera registra i movimenti delle sue palpebre ed ecco d’un tratto i battiti crollano davanti agli scaffali, fino a raggiungere la media di quattordici al minuto, da trentadue che erano: «Una media subumana, come quella dei pesci; tutte le signore precipitavano in una forma di trance ipnoide. Molte erano così ipnotizzate, che a volte incontravano vecchi amici e conoscenti senza riconoscerli e salutarli». Sono decenni che nuotiamo come pesci, gli occhi sbarrati, consumando senza fiutare la crisi: scriteriati. Questo ci ha cambiati profondamente. In America ha distrutto il risparmio.

Ovunque, politici e responsabili finanziari sbigottiscono davanti all’incanto spezzato (alla bolla scoppiata). Vorrebbero che la stoffa di cui è fatto – l’illusione – non si strappasse mai: perché le campagne elettorali son cucite con quei fili, vivono della chimera d’un progresso ineluttabile, senza costi. L’America dopo il Vietnam respingeva le guerre: le voleva «a zero morti». Poi ricominciò a volerle, ma «a zero tasse». Importante nell’ipnosi è accaparrare sempre più, anche se mancano i mezzi: l’ipnosi, restringendo la coscienza, è il contrario della crisi. In America finanza e politica estera sono «entrate nella crisi» simultaneamente. Il 7 agosto inizia la guerra georgiana, e pure i ciechi scoprono che Washington non può alcunché: ha aizzato Saakashvili, ma senza mezzi per sostenerlo. Esattamente un mese dopo, fra il 7 e il 16 settembre, scoppia la bolla finanziaria (salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, poi bancarotta di Lehman Brothers, poi salvataggio di Aig). Per decenni si è sentito dire: ci sono compagnie troppo grosse per fallire. Era menzogna: non erano troppo grandi né Lehman, né l’impero Usa. Le bolle esistono nella finanza, in politica, nelle teste. Sono i giorni critici della nostra mente.

La trance ipnoide ha stravolto modi di vivere, di convivere con l’altro in casa e nel mondo. Ci ha chiusi nella sfiducia. Lo storico Andrew Bacevich lega tutte queste esperienze, e racconta come dall’impero della produzione l’America sia passata, ancor prima di Reagan, all’impero dei consumi (The Limits of Power, Metropolitan Books 2008). Nel tragitto si son perse (specie in America) nozioni fondanti: la nozione del debito, che nella nostra cultura non è senza colpa ed è divenuto un fine positivo in sé, incondizionato. La nozione della fiducia, senza cui ogni debito degrada. La nozione del limite. Il Padre nostro dice, in Luca 11, 2-4: «Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore». In ebraico peccato e debito sono un’unica parola. La poetessa Margaret Atwood ricorda come il concetto di debito – essenziale nel romanzo dell’800: Emma Bovary si suicida perché un creditore non ripagato minaccia di rivelare il suo adulterio – sia oggi vanificato (Payback: Debt and the Shadow Side of Wealth, Toronto 2008). Soprattutto in America, le banche spingono all’indebitamento, più che a prudenza e risparmio. Scrive Zygmunt Bauman che un debitore che vuol restituire puntualmente (che «pensa al dopo») è sospetto: è «l’incubo dei prestatori». Non è «di alcuna utilità», perché il debito riciclato è fonte prima del loro profitto costante.

Ma il debito sconnesso da fiducia non è pungolato solo da banche o Wall Street. È un ottundersi generale dei cervelli, è l’ebete pensare positivo che il governante invoca con linguaggio sempre più pubblicitario, sempre meno politico. Main Street – che poi siamo noi, cittadini e consumatori – è vittima tutt’altro che innocente di Wall Street. Come nel Grande Crollo del ’29 descritto da John K. Galbraith, siamo affetti da una follia seminale (seminal lunacy) che accomuna potenti e milioni d’impotenti. Per questo è così vacuo il politico che incita a ricominciare i consumi come se niente fosse. Il suo dichiarare, i linguisti lo definiscono performativo: basta dire «la crisi non c’è», e la crisi smette di essere (le dichiarazioni performative sono predilette da Berlusconi). I politici sono responsabili, avendo ceduto a un mercato senza regole. Ora intervengono, ma senza curare la fonte del male. La crisi, cioè la svolta trasformatrice, è rinviata.

Naturalmente hanno le loro ragioni: il crollo dei consumi farà male. Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia, ricorda che comporterà disoccupazione dilatata, ulteriori cadute dei redditi e del valore delle case, aumento dei debiti, credito scarso. Ma qualcosa di non negativo può nascerne: un rapporto col debito più realistico e leale, una fiducia riscoperta, un consumo adattato alle possibilità (New York Times, 28 novembre).
Crisi vuol dire decidere, a occhi non sbarrati come la massaia del ’52 ma aperti: sul peggio sempre possibile, sulle bugie del pensare positivo, sulla duplice responsabilità verso la Terra che roviniamo, e verso i figli cui addossiamo i nostri debiti. Terra e figli sono i nostri discendenti: ignorarli perché i loro tempi son più lunghi dei nostri e perché non abiteremo il loro mondo (un mondo con meno petrolio, meno automobili) è senza dignità e chiude speranze altrui. Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Alla faccia di Facebook.

Con Amici come questi…
di Tom Hodgkinson – The Guardian

Facebook ha 59 milioni di utenti – e due milioni di nuovi iscritti ogni settimana. Ma tra questi non troverete Tom Hodgkinson che rilascia volontariamente i propri dati personali; non ora che conosce la politica delle persone che stanno dietro questo sito di social networking.

Io disprezzo Facebook. Questa azienda statunitense di enorme successo si descrive come «un servizio che ti mette in contatto con la gente che ti sta intorno». Ma fermiamoci un attimo. Perché mai avrei bisogno di un computer per mettermi in contatto con la gente che mi sta intorno? Perché le mie relazioni sociali debbono essere mediate dalla fantasia di un manipolo di smanettoni informatici in California? Che ha di male il baretto?

E poi, Facebook mette davvero in contatto la gente? Non è vero invece che ci separa l’uno dall’altro, dal momento che invece di fare qualcosa di piacevole come mangiare, parlare, ballare e bere coi miei amici, mando loro soltanto dei messaggini sgrammaticati e foto divertenti nel ciberspazio, inchiodato alla scrivania? Un mio amico poco tempo fa mi ha detto di aver trascorso un sabato notte a casa da solo su Facebook, bevendo seduto alla sua scrivania. Che immagine deprimente. Altro che mettere in contatto la gente, Facebook ci isola, fermi nel posto di lavoro.

Per di più, Facebook fa leva, per così dire, sulla nostra vanità e autostima. Se carico una mia foto che ritrae il mio profilo migliore, e assieme metto una lista delle cose che mi piacciono, posso costruire una rappresentazione artificiale di me stesso, con lo scopo di essere sessualmente attraente e di guadagnarmi l’altrui approvazione. («Mi piace Facebook», mi ha detto un altro amico. «Mi ha fatto trombare»). Incoraggia inoltre una inquietante competitività intorno all’amicizia: sembra che nell’amicizia oggi conti la quantità, e la qualità non sia affatto considerata. Più amici hai, meglio sei. Sei “popolare”, nel senso che i liceali statunitensi amano tanto. A riprova di ciò sta la copertina della nuova rivista su Facebook dell’editore Dennis Publishing: «Come raddoppiare la tua lista di amici».

Sembra, però, che io sia piuttosto solo nella mia ostilità. Mentre scriviamo, Facebook sostiene di avere 59 milioni di utenti attivi, compresi 7 milioni dal Regno Unito, la terza nazione per numero di clienti dopo gli Usa e il Canada. Cinquantanove milioni di babbei, che hanno dato tutti volontariamente le informazioni della propria carta d’identità e le proprie scelte di consumatore a un’azienda statunitense che non conoscono. Due milioni di persone si iscrivono ogni settimana. Se proseguirà all’attuale volume di crescita, Facebook supererà i 200 milioni di utenti attivi nello stesso periodo dell’anno prossimo. E personalmente prevedo che, anzi, il suo volume di crescita subirà un’accelerazione nei mesi venturi. Come ha dichiarato il portavoce di Facebook Chris Hughes: «[Facebook] ha raggiunto una tale integrazione che è difficile sbarazzarsene».

Tutto ciò sarebbe sufficiente a farmi rifiutare Facebook per sempre. Ma ci sono altre ragioni per odiarlo. Molte altre ragioni.

Facebook è un progetto ben foraggiato, e le persone che stanno dietro il finanziamento, un gruppo di capitalisti “di rischio” della Silicon Valley, hanno un’ideologia ben congegnata che sperano di diffondere in tutto il mondo. Facebook è una delle manifestazioni di questa ideologia. Come Paypal prima di esso, è un esperimento sociale, un’espressione di un particolare tipo di liberalismo neoconservatore. Su Facebook puoi essere libero di essere chi vuoi, a patto che non ti dia fastidio essere bombardato da pubblicità delle marche più famose al mondo. Come con Paypal, i confini nazionali sono una cosa ormai obsoleta.

Malgrado il progetto sia stato concepito inizialmente dalla star da copertina Mark Zuckerberg, il vero volto che sta dietro Facebook è il quarantenne venture capitalist della Silicon Valley e filosofo “futurista” Peter Thiel. Ci sono soltanto tre consiglieri di amministrazione per Facebook, e sono Thiel, Zuckerberg e un terzo investitore che si chiama Jim Breyer, che proviene da un’azienda di venture capital, la Accel Partners (di lui parleremo più avanti). Thiel investì 500 mila dollari in Facebook quando gli studenti di Harvard Zuckerberg, Chris Hughes e Dustin Moskowitz lo incontrarono a San Francisco nel giugno del 2004, non appena fecero partire il sito. Thiel, secondo la stampa, oggi possiede il 7 per cento di Facebook, quota che, secondo l’attuale stima del valore dell’azienda di 15 miliardi di dollari, vale più di un miliardo. Chi siano esattamente i cofondatori originali di Facebook è controverso, ma chiunque siano, Zuckerberg è l’unico rimasto nel consiglio d’amministrazione, malgrado Hughes e Moskowitz lavorino ancora per l’azienda.

Thiel è considerato da molti nella Silicon Valley e nel mondo del venture capital a stelle e strisce come un genio del liberismo. È il cofondatore e amministratore delegato del sistema bancario virtuale Paypal, che vendette a Ebay per un miliardo e mezzo di dollari, tenendo per sé 55 milioni. Gestisce anche un hedge fund da 3 miliardi di euro, il Clarium Capital Management, e un fondo di venture capital, Founders Fund. La rivista Bloomberg Markets l’ha recentemente descritto come «uno dei manager di hedge fund più di successo del paese». Ha fatto i soldi scommettendo sul rialzo del prezzo del petrolio e azzeccando la previsione che il dollaro si sarebbe indebolito. Lui e i suoi straricchi compagni della Silicon Valley sono stati recentemente etichettati come “La mafia di Paypal” dalla rivista Fortune, il cui cronista ha notato anche che Thiel ha un maggiordomo in livrea e una supercar della McLaren da 500 mila dollari. Thiel è anche un campione di scacchi ed ama la competizione. Si dice che una volta dopo aver perso una partita, in un accesso d’ira, abbia gettato a terra tutte le pedine. E non si scusa per la sua iper-competitività: «Un buon perdente resta sempre un perdente».

Ma Thiel è più di un semplice capitalista scaltro e avido. Infatti è anche un filosofo “futurista” e un attivista neocon. Filosofo laureato a Stanford, nel 1998 fu tra gli autori del libro The Diversity Myth [Il Mito della Diversità, ndt], un attacco dettagliato all’ideologia multiculturalista e liberal che dominava Stanford. In questo libro sosteneva che la “multicultura” portava con sé una diminuzione delle libertà personali. Da studente di Stanford, Thiel fondò un giornale destrorso, che esiste ancora, la Stanford Review, il cui motto è Fiat Lux (“Sia la luce”). Thiel è membro di TheVanguard.org, un gruppo di pressione neoconservatore basato su internet, nato per attaccare MoveOn.org, gruppo di pressione liberal attivo sul web. Thiel si dichiara «estremamente libertario».

TheVanguard è gestito da un certo Rod D. Martin, capitalista-filosofo molto ammirato da Thiel. Sul sito, Thiel dice: «Rod è una delle menti di spicco nel nostro paese per quanto riguarda la creazione di nuove e necessarie idee sulle politiche pubbliche. Ha una comprensione dell’America più completa di quella che hanno della propria azienda molti amministratori delegati».

Il piccolo assaggio che segue, preso dal loro sito, vi darà l’idea della loro visione del mondo: «TheVanguard.org è una comunità online che crede nei valori conservatori, nel libero mercato e nella limitazione del governo come gli strumenti migliori per portare speranza e opportunità sempre maggiori per tutti, specie per i più poveri fra noi». Il loro scopo è quello di promuovere linee politiche che «diano nuova forma all’America e al mondo intero». TheVanguard descrive le proprie politiche come «reaganiane-thatcheriane». Il messaggio del presidente recita così: «Oggi daremo a MoveOn [il sito liberal], a Hillary e ai media di sinistra una lezione che non si aspetterebbero mai».

Non ci sono dubbi sulle idee politiche di Thiel. Ma qual è la sua filosofia? Sono andato ad ascoltarmi, in un podcast, un discorso di Thiel circa le sue idee sul futuro. La sua filosofia, in breve, è questa: fin dal XVII secolo, alcuni pensatori illuminati hanno strappato il mondo dalla sua antiquata vita legata alla natura – e qui cita la famosa descrizione fatta da Thomas Hobbes della vita come «meschina, brutale e breve» – per portarlo verso un nuovo mondo virtuale nel quale la natura è conquistata. Il valore è ora assegnato alle cose immaginarie. Thiel afferma che PayPal è nato proprio da questa credenza: che si possa trovare valore non in oggetti concreti fatti da mano d’uomo, ma in relazioni fra esseri umani. Paypal è un modo di spostare denaro in giro per il mondo senza limitazioni. Bloomberg Markets la pone così: «Per Thiel, PayPal significa libertà: permetterebbe alla gente di scansare i controlli sulla valuta e spostare denaro in giro per il mondo».

Chiaramente, Facebook è un altro esperimento iper-capitalista: si possono ricavare soldi dall’amicizia? Si possono creare comunità libere dai confini nazionali, e poi vendere loro Coca Cola? Facebook non è per niente creativo. Non produce assolutamente nulla. Tutto quello che fa è mediare relazioni che si sarebbero allacciate in ogni caso.

Il mentore filosofico di Thiel è un certo René Girard dell’università di Stanford, ideatore di una teoria del comportamento umano chiamata “desiderio mimetico”. Girard ritiene che le persone siano essenzialmente come pecore e si imitino l’una con l’altra senza pensarci troppo su. La teoria sembra essere provata anche nel caso dei mondi virtuali di Thiel: l’oggetto desiderato è irrilevante; è sufficiente soltanto che gli esseri umani abbiamo la tendenza a muoversi in greggi. Da qui derivano le bolle finanziarie. Da qui deriva l’enorme popolarità di Facebook. Girard è un habitué delle serate intellettuali di Thiel. Tra l’altro, una cosa che non potrete trovare nella filosofia di Thiel sono gli antiquati concetti che appartengono al mondo reale, come Arte, Bellezza, Amore, Piacere e Verità.

Internet è un’immensa attrattiva per i neocon come Thiel, perché promette, in un certo senso, libertà nelle relazioni umane e negli affari, libertà dalle noiose leggi nazionali, dai confini nazionali e da altre cose di questo genere. Internet apre un mondo di espansione per il libero mercato e per il laissez-faire. Thiel sembra approvare anche i paradisi fiscali offshore, e sostiene che il 40 per cento della ricchezza mondiale si trova in posti come Vanuatu, le isole Cayman, Monaco e le Barbados. Penso sia giusto dire che Thiel, come Rupert Murdoch, è contrario alle tasse. Gli piace anche la globalizzazione della cultura digitale, perché rende quasi inattaccabili i padroni delle banche: «I lavoratori non possono fare una rivoluzione per impossessarsi di una banca, se quella banca ha sede a Vanuatu», dice.

Se la vita del passato era meschina, brutale e breve, Thiel vuole rendere la vita del futuro molto più lunga, investendo a questo fine in un’azienda che esplora tecnologie per allungare la vita. Ha promesso tre milioni e mezzo di sterline a un gerontologo di Cambridge, Aubrey de Grey, che sta cercando la chiave dell’immortalità. Thiel è anche membro del collegio dei consulenti di qualcosa come il Singularity Institute for Artificial Intelligence. Nel suo fantastico sito internet, si trovano le seguenti parole: «La Singularity è la creazione tecnologica di un’intelligenza superiore a quella umana. Ci sono parecchie tecnologie […] che vanno in questa direzione […] l’Intelligenza Artificiale […] interfacce che collegano direttamente computer e cervello […] ingegneria genetica […] differenti tecnologie che, se raggiungessero una certa soglia di complessità, permetterebbero la creazione di un’intelligenza superiore a quella umana».

Per sua stessa ammissione, quindi, Thiel sta cercando di distruggere il mondo reale, da lui chiamato anche “natura”, e di installare al suo posto un mondo virtuale. Ed è in questo contesto che dobbiamo vedere il successo di Facebook. Facebook è un esperimento volto deliberatamente alla manipolazione mondiale, e Thiel è un brillante personaggio del pantheon neoconservatore con un debole per incredibili fantasie “tecno-utopiche”. E io non voglio aiutarlo a diventare più ricco.

Il terzo membro del consiglio di amministrazione di Facebook è Jim Breyer. È parte della ditta di venture capital Accel Partners, che ha messo 12 milioni e 700 mila dollari per il progetto Facebook nell’aprile 2005. Oltre a essere membro di questi giganti statunitensi, della stessa caratura di Wal-Mart e Marvel Entertainment, è anche ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA). Sono queste le persone che hanno successo in America, perché investono in nuovi e giovani talenti, come Zuckerberg. La più recente raccolta di finanziamenti di Facebook fu portata avanti da un’azienda, la Greylock Venture Capital, che fornì 27 milioni 500 mila dollari. Uno dei più vecchi soci di Greylock è Howard Cox, altro ex presidente della NVCA, e membro del CdA di In-Q-Tel. Che cos’è In-Q-Tel? Beh, che ci crediate o no (andatevi a vedere il suo sito), è la costola della Cia nel capitale di rischio. Dopo l’Undici Settembre, la comunità dei servizi segreti Usa divenne così entusiasta delle possibilità della nuova tecnologia e delle innovazioni del settore privato, che nel 1999 costituì il proprio fondo di capitale di rischio, l’In-Q-Tel, che «identifica e collabora con le aziende che sviluppano tecnologie all’avanguardia, per aiutare a rilasciare questi ritrovati alla Central Intelligence Agency e alla più vasta US Intelligence Community (IC) al fine di promuovere la loro missione»*.

Il dipartimento della difesa statunitense e la Cia amano la tecnologia perché rende lo spionaggio più facile. «Abbiamo bisogno di trovare nuovi modi per dissuadere i nuovi avversari», disse nel 2003 il segretario della Difesa Donald Rumsfeld. «Dobbiamo fare il salto nell’era dell’informatica, che costituisce le fondamenta essenziali dei nostri sforzi di cambiamento». Il primo presidente di In-Q-Tel fu Gilman Louie, che sedette nel CdA di NVCA assieme a Breyer. Un’altra figura chiave nel team di In-Q-Tel è Anita K. Jones, ex direttrice della sezione ricerca e ingegneria del dipartimento della Difesa, e, assieme a Breyer, membro del CdA di BBN Technologies. Quando abbandonò il dipartimento della Difesa, il senatore Chuck Robb le fece questo omaggio: «Lei ha unito tecnologia e comunità militari operative per dare vita a piani dettagliati con il fine di sostenere il dominio Usa sui campi di battaglia del prossimo secolo».

Ora, anche se non si accetta l’idea che Facebook sia una specie di estensione del programma imperialistico statunitense incrociata con uno strumento per raccogliere immense quantità d’informazioni, non si può in nessun modo negare che, come affare, sia davvero geniale. Qualche smanettone online ha fatto intendere che la sua valutazione di 15 miliardi di dollari sia eccessiva, ma io direi semmai che è troppo contenuta. La sua grandezza dà le vertigini, e il potenziale di crescita è virtualmente infinito. «Vogliamo che tutti siano in grado di usare Facebook», dice l’impersonale voce del Grande Fratello sul sito. E penso proprio che lo faranno. È l’enorme potenziale di Facebook che spinse Microsoft a comprarne l’1,6 per cento per 240 milioni di dollari. Recentemente circolano voci secondo cui un investitore asiatico, Lee Ka-Shing, il nono uomo più ricco della terra, abbia comprato lo 0,4 per cento di Facebook per 60 milioni di dollari.

I creatori del sito non fanno altro che giocherellare col programma. In genere, stanno seduti con le mani in mano a guardare milioni di “drogati” di Facebook fornire di spontanea volontà i dettagli della loro carta d’identità, le loro foto e la lista dei loro oggetti di consumo preferiti. Ricevuto questo smisurato database di esseri umani, Facebook vende semplicemente le informazioni agli inserzionisti, o, come ha detto Zuckerberg in uno degli ultimi post sul blog, «cerca di aiutare le persone a condividere informazioni con i loro amici riguardo alle cose che fanno sul web». Ed è infatti proprio ciò che accade. Il 6 novembre dello scorso anno, Facebook annunciò che 12 marchi mondiali erano saliti a bordo. Tra essi, c’erano Coca Cola, Blockbuster, Verizon, Sony Pictures e Condé Nast. Ben allenati in stronzate da marketing di altissimo livello, i loro rappresentanti gongolavano con commenti come questo:

«Con Facebook Ads, i nostri marchi possono diventare parte del modo di comunicare e interagire degli utenti su Facebook», disse Carol Kruse vicepresidente della sezione marketing interattivo globale, gruppo Coca Cola.

«È un modo innovativo di far nascere e crescere relazioni con milioni di utenti di Facebook permettendo loro di interagire con Blockbuster in maniera conveniente, pertinente e divertente», disse Jim Keyes, presidente e amministratore delegato di Blockbuster. «Ciò va al di là della creazione di pubblicità efficaci. Si tratta piuttosto della partecipazione di Blockbuster alla comunità dei consumatori, cosicché, in cambio, i consumatori si sentano motivati a condividere i vantaggi del nostro marchio con gli amici».

“Condividere” è la parola in lingua di Facebook che sta per “pubblicizzare”. Chi si registra a Facebook diventa un girovago che parla delle reclame di Blockbuster o della Coca Cola, e tesse le lodi di questi marchi agli amici. Stiamo assistendo alla mercificazione delle relazioni umane, l’estrazione di valore capitalistico dall’amicizia.

Ora, in confronto a Facebook, i giornali, per esempio, come modello d’impresa, sembrano disperatamente fuori moda. Un giornale vende spazi pubblicitari alle imprese che cercano di vendere la loro roba ai lettori. Un sistema che è però molto meno complesso di quello di Facebook. E questo per due ragioni. La prima è che i giornali debbono sopportare fastidiose spese per pagare i giornalisti che forniscono contenuti. Facebook, invece, i contenuti li ha gratis. La secondo è che Facebook può calibrare la pubblicità con una precisione infinitamente superiore rispetto a un giornale. Se, per esempio, si dice su Facebook di amare il film This Is Spinal Tap, quando uscirà nei cinema un film simile, state pur sicuri che vi terranno informati. Mandandovi la pubblicità.

È vero che Facebook ultimamente è stato nell’occhio del ciclone per il suo programma di pubblicità Beacon. Agli utenti veniva recapitato un messaggio che diceva che i loro amici avevano fatto acquisti in un certo negozio online. Furono 46 mila gli utenti a reputare questo tipo di pubblicità troppo invasiva, tanto che giunsero a firmare una petizione dal titolo «Facebook, smettila di invadere la mia privacy!». Zuckerberg si scusò nel blog aziendale, scrivendo che il sistema era ora cambiato da “opt out” [1] a “opt in” [2]. Io ho il sospetto però che questa piccola ribellione per essere stati così spietatamente mercificati sarà presto dimenticata: dopotutto, ci fu un’ondata di protesta nazionale da parte del movimento delle libertà civili quando si dibattè nel Regno Unito l’idea di una forza di polizia a metà del XIX secolo.

E per di più, voi utenti di Facebook avete mai letto davvero l’informativa sulla privacy? Ti dice che non è che di privacy ne hai poi molta. Facebook fa finta di essere un luogo di libertà, ma in realtà è più simile a un regime totalitario virtuale mosso dall’ideologia, con una popolazione che molto presto sarà superiore a quella del Regno Unito. Thiel e gli altri hanno dato vita al loro paese, un paese di consumatori.

Ora, voi, come Thiel e gli altri nuovi signori del ciberuniverso, potreste reputare questo esperimento sociale tremendamente eccitante. Ecco qui finalmente lo Stato illuminista desiderato ardentemente fin dal tempo in cui i Puritani, nel XVII secolo salparono verso l’America del Nord. Un mondo dove tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, a seconda di chi li sta guardando. I confini nazionali sono un’anticaglia. Tutti ora fanno capriole insieme in uno spazio virtuale dove ci si può esprimere a ruota libera. La natura è stata conquistata attraverso l’illimitata ingegnosità umana. E voi potreste decidere di inviare a quel geniale investitore di Thiel tutti i vostri soldi, aspettando con impazienza la quotazione ufficiale dell’inarrestabile Facebook.

O, in alternativa, potreste riflettere e rifiutare di essere parte di questo ben foraggiato programma, volto a creare un’arida repubblica virtuale, dove voi stessi e le vostre relazioni con gli amici siete convertiti in merce da vendere ai colossi multinazionali. Potreste decidere di non essere parte di questa Opa contro il mondo.

Per quanto mi riguarda, rifuggirò Facebook, rimarrò scollegato il più possibile, e trascorrerò il tempo che ho risparmiato non andando su Facebook facendo qualcosa di utile, come leggere un libro. Perché sprecare il mio tempo su Facebook quando non ho ancora letto l’Endimione di Keats? Quando devo piantare semi nel mio orto? Non voglio rifuggire la natura, anzi, mi ci voglio ricollegare. Al diavolo l’aria condizionata! E se avessi voglia di mettermi in contatto con la gente intorno a me, tornerei a usare un’antica tecnologia. È gratis, è facile da usare e ti permette un’esperienza di condivisione di informazioni senza pari: è la parola.

L’informativa sulla privacy di Facebook

Per farvi quattro risate, provate a sostituire le parole “Grande Fratello” dove compare la parola “Facebook”

1 Ti recapiteremo pubblicità

«L’uso di Facebook ti dà la possibilità di stabilire un tuo profilo personale, instaurare relazioni, mandare messaggi, fare ricerche e domande, formare gruppi, organizzare eventi, aggiungere applicazioni e trasmettere informazioni attraverso vari canali. Noi raccogliamo queste informazioni al fine di poterti fornire servizi personalizzati»

2 Non puoi cancellare niente

«Quando aggiorni le informazioni, noi facciamo una copia di backup della versione precedente dei tuoi dati, e la conserviamo per un periodo di tempo ragionevole per permetterti di ritornare alla versione precedente»

3 Tutti possono dare un’occhiata alle tue intime confessioni

« […] e non possiamo garantire – e non lo garantiamo – che i contenuti da te postati sul sito non siano visionati da persone non autorizzate. Non siamo responsabili dell’elusione di preferenze sulla privacy o di misure di sicurezza contenute nel sito. Sii al corrente del fatto che, anche dopo la cancellazione, copie dei contenuti da te forniti potrebbero rimanere visibili in pagine d’archivio e di memoria cache e anche da altri utenti che li abbiano copiati e messi da parte nel proprio pc».

4 Il tuo profilo di marketing fatto da noi sarà imbattibile

«Facebook potrebbe inoltre raccogliere informazioni su di te da altre fonti, come giornali, blog, servizi di instant messaging, e altri utenti di Facebook attraverso le operazioni del servizio che forniamo (ad esempio, le photo tag) al fine di fornirti informazioni più utili e un’esperienza più personalizzata».

5 Scegliere di non ricevere più notifiche non significa non ricevere più notifiche

«Facebook si riserva il diritto di mandarti notifiche circa il tuo account anche se hai scelto di non ricevere più notifiche via mail»

6 La Cia potrebbe dare un’occhiata alla tua roba quando ne ha voglia

«Scegliendo di usare Facebook, dai il consenso al trasferimento e al trattamento dei tuoi dati personali negli Stati Uniti […] Ci potrebbe venir richiesto di rivelare i tuoi dati in seguito a richieste legali, come citazioni in giudizio od ordini da parte di un tribunale, o in ottemperanza di leggi in vigore. In ogni caso non riveliamo queste informazioni finché non abbiamo una buona fiducia e convinzione che la richiesta di informazioni da parte delle forze dell’ordine o da parte dell’attore della lite soddisfi le norme in vigore. Potremmo altresì condividere account o altre informazioni quando lo riteniamo necessario per osservare gli obblighi di legge, al fine di proteggere i nostri interessi e le nostre proprietà, al fine di scongiurare truffe o altre attività illegali perpetrate per mezzo di Facebook o usando il nome di Facebook, o per scongiurare imminenti lesioni personali. Ciò potrebbe implicare la condivisione di informazioni con altre aziende, legali, agenti o agenzie governative»

*Nota del Redattore: nella versione originale l’articolo è preceduto dalla seguente rettifica:

“La rettifica che segue è stata stampata nella sezione Rettifiche e chiarimenti del Guardian, mercoledì 16 gennaio 2008

L’entusiasmo della comunità dei servizi segreti statunitensi per il rinnovamento hi-tech dopo l’Undici Settembre e la creazione dell’In-Q-Tel, il suo fondo di venture capital, nel 1999, sono stati anacronisticamente correlati nell’articolo qui sotto. Dal momento che l’attentato alle Torri Gemelle avvenne nel 2001, non può essere stato ciò che ha portato alla fondazione dell’In-Q-Tel due anni prima.”

NOTE DEL TRADUTTORE

[1] Con il termine inglese opt-out (in cui opt è l’abbreviazione di option, opzione) ci si riferisce ad un concetto della comunicazione commerciale diretta (direct marketing), secondo cui il destinatario della comunicazione commerciale non desiderata ha la possibilità di opporsi ad ulteriori invii per il futuro. (fonte: Wikipedia)

[2] Si definisce opt-in il concetto inverso, ovvero la comunicazione commerciale può essere indirizzata soltanto a chi abbia preventivamente manifestato il consenso a riceverla. (fonte: Wikipedia)

Tom Hodgkinson è uno scrittore britannico. Ha collaborato con testate quali ‘The Sunday Telegraph’, ‘The Guardian’ e ‘The Sunday Times’ ed è direttore della rivista ‘The Idler’. Hodgkinson è autore di due libri: ‘How To Be Idle’ (‘L’ozio come stile di vita’, Rizzoli, 2005) e ‘How To Be Free’ (‘La libertà come stile di vita’, Rizzoli, 2007).

Titolo originale: “With friends like these…”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Tradotto da PAOLO YOGURT per ComeDonChisciotte ;
Link originale: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=5266
(Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La cena che si è fatta beffe dei lavoratori di Alitalia.

In gran spolvero, l’altra sera a Villa Madama sono convenuti i nuovi padroni della Cai, la cordata dei “patrioti”, come sono stati definiti dal presidente del consiglio gli industriali italiani che hanno rilevato Alitalia. Ignari anche del solo senso della decenza, auto di lusso con autisti e scorte al seguito sono sfilate di fronte a un paio di centinai di lavoratori, andati lì a protestare contro questo sfoggio di ottimismo sulla loro pelle, questa sfacciata esibizione di potere politico ed economico. Un pessimo esempio di tracotanza, in periodo di crisi che consiglierebbe, almeno, un poco di sobrietà. Uno schiaffo umiliante sulla faccia di undicimila lavoratori, ai quali si stanno recapitando le lettere di messa in cassa integrazione a zero ore.

Mentre si procrastina di data in data la partenza della nuova compagnia e quindi le lettere di assunzione ancora non sono state spedite, la condizione materiale e psicologica dei lavoratori di Alitalia è molto vicina al dramma. Proprio mentre si alzavano i calici a Villa Madama, migliaia di persone si stanno chiedendo che razza di Natale passeranno loro, i loro figli, i loro famigliari.

Ho parlato al telefono con Paolo Maras, segretario di Sdl, uno dei sindacati di base che si è opposto al famigerato “Lodo Letta”. Mi ha detto cose che mi hanno messo di cattivo umore: mi parlava di uomini fatti e di donne con figli a carico visti piangere lacrime di rabbia e impotenza, agitando quelle lettere, come fossero tante sentenze di condanna definitiva all’ espulsione dal mercato del lavoro.

Mentre il capo del governo prometteva ai suoi ospiti tanti futuri guadagni dall’operazione Cai, e forse ha calcato la mano proprio perché qualcuno di loro non si sfili all’ultimo momento, come pare sia intenzionato a fare, ai piloti, agli assistenti di volo, ai tecnici, agli impiegati, agli operai e agli addetti aeroportuali non rimane che prendere atto di essere stati le cavie di un laboratorio, il cui esperimento politico e sociale rischia di essere esportato anche in altri settori imprenditoriali.

Alitalia era un azienda a partecipazione statale, la nuova compagnia è una azienda a “partecipazione governativa”, che ha violentato le relazioni industriali, ha messo alla gogna il sindacato, ha spazzato via diritti acquisiti dai lavoratori, compreso il riconoscimento dell’anzianità del servizio prestato in Alitalia. Se in tutto il mondo l’economia globalizzata sta cercando di uscire dalla crisi economica, riformando, in tutto o in parte il teorema “meno stato, più mercato”, in Italia si sperimenta una nuova formula: “meno stato, più Berlusconi”. Questo laboratorio politico e sindacale si è avvalso di una enorme macchina propagandistica, di complicità oggettive di gran parte dei media, di un tacito, quando non smaccatamente esplicito consenso trasversale, fin dentro le forze dell’opposizione parlamentare per far passare i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali come corresponsabili e complici del fallimento della compagnia.

Oggi che quei lavoratori sono stati decimati dal plotone d’esecuzione di norme e regole del nuovo contratto, che non si sono neppure volute discutere con i sindacati, alla maggioranza degli esclusi non si riconosce nemmeno l’onore di aver fatto per anni il loro dovere di professionisti, di essere stati il vero legame con la clientela di Alitalia. Quella clientela che verrà trattata con la stessa moneta con cui si sono trattati i dipendenti, come dimostrano le deboli raccomandazioni dell’Antitrust in materia di tariffe e di tratte.

Nella cena di Villa Madama si è consumato un pasto macabro, il conto salato lo pagheranno i cittadini, i passeggeri, i futuri dipendenti della nuova compagnia. Ma soprattutto il conto lo pagherà la democrazia sindacale del nostro paese, l’intero movimento dei lavoratori italiani. In un paese che vanta più di mille morti sul lavoro nel 2008, si è voluto aggiungere il sovrapprezzo della pulizia etnica contro i lavoratori del trasporto aereo, i lavoratori precari in prima fila.

Il presidente del consiglio ha detto ai suoi ospiti di Villa Madama che la Cai sarà un nuovo asset capace di intercettare lo sviluppo del turismo da e verso l’Italia: parole “patriottiche” che nascondono, neanche poi tanto, l’augurio che l’esperimento Cai tracci la nuova rotta che dovranno prendere in futuro le relazioni tra Capitale e Lavoro. Si tratta di un piano di volo che prevede una precisa rotta di collisione, dalla quale i lavoratori ne escano con le ossa rotte, la dignità offesa, il futuro inesistente.

Alla cena di Villa Madama si è inaugurata in Italia la teoria della lotta di classe al contrario. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Perché il governo di destra non è all’altezza della crisi.

Pubblico un ampio stralcio di un articolo del fondatore de La Repubblica, tratto da repubblica.it. Mi sembra la fotografia molto nitida dell’atteggiamento politico del governo italiano di fronte alla crisi economica attuale. La domanda è: perché l’attuale governo non è all’altezza della crisi? Credo la risposta sia: chi è politicamente figlio del neoliberismo, chi ha creduto fermamente nel paradigma “meno stato, più mercato”, chi praticato la “finanza creativa”, chi ha osannato il susseguirsi delle “bolle speculative” come contributo alla crescita economica, chi ha fatto degli stilemi del capitalismo senza regole la sua idea-forza non può guidare il Paese fuori dalla crisi, senza creare ulteriori disastri politici, sociali ed economici. Chi è parte del male, può essere la medicina contro la malattia? Beh, buona giornata.

Campane d’allarme
e trombe stonate
di EUGENIO SCALFARI

NON c’è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l’allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell’economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di “great depression, part 2” riferendosi a quella del ’29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l’Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l’industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell’Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L’effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull’occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un’accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l’apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l’America ha già disseminato nel resto dell’Occidente, l’effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un’intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all’opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all’interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l’avesse dimenticato che fu l’allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un’imposta unica basata sui consumi e un’imposta patrimoniale di successione che al di là d’una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un’aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell’Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici “sono in sicurezza”. Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest’ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l’euro senza il quale staremmo da tempo sott’acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell’evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l’abolizione dell’Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l’anno; l’Alitalia tricolore è costata all’erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un’elemosina di 6 miliardi “una tantum” alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all’Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po’ meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c’è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell’Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all’opposizione. Per Tremonti la via d’uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

* * *

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Attualità Scuola

Ultime notizie da Roma, ridente cittadina in provincia della Città del Vaticano.

Alle ore 11,09 un certo monsignor Stenca, membro della Cei, la conferenza episcopale italiana, ai margini di un convegno ecclesiastico rilascia una breve dichiarazione ai giornalisti che seguivano l’evento. La dichiarazione suona più o meno così: contro i tagli di 130 milioni di euro alla scuola cattolica, dichiariamo la mobilitazione generale dei genitori e delle famiglie.

Alle ore 12,39 un certo Vegas, sottosegretario al ministero dell’economia dichiara alla stampa che i tagli alla scuola cattolica verranno ritirati con un emendamento che il governo si impegna a presentare nel prossimo imminente dibattito parlamentare sulla legge Finanziaria.

Sono 90 giorni che gli studenti, gli insegnanti, i bidelli, i professori, i ricercatori, i rettori e i genitori protestano contro i tagli alla scuola pubblica italiana. Sono bastati solo 90 minuti perché il governo ridesse i soldi alla scuola privata.

Alla maniera di Woody Allen, possiamo tranquillamente affermare che in Italia comanda lo Stato, il Vaticano prende solo le decisioni. Beh buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il vero conflitto di interessi.

Fatto salvo il diritto di critica a una misura adottata dal governo, diritto esercitato da Sky, diretta parte in causa, ma anche giustamente esercitato dai giornali italiani, la polemica attorno al conflitto di interessi è un modo tipicamente italiano di affrontare la realtà. Qualcuno ha giustamente detto che in Italia gli scandali non sono fatti, ma semplici opinioni. Il che di per se è proprio uno scandalo. Le parole logorano gli avvenimenti, i commenti esagerano il racconto dei fatti, il dibattito va sopra le righe, i toni si accendono, la polemica infuria. Dopo di che tutto si spegne, alla maniera del detto popolare che recita “passata la festa, gabbato lo santo”.

Il fatto è che il conflitto di interessi c’è. Il fatto è che la legge Frattini contro il conflitto di interessi non è mai stata efficace. Il fatto è che il precedente governo Prodi non ha modificato quella legge inefficace. Il fatto è che l’attuale governo nega l’esistenza del fatto che il conflitto di interessi c’è. Dopo di che ognuno può legittimamente esprimere il suo punto di vista in merito. Ma le opinioni passano, i fatti restano. Questo modo di ragionare fa molto male alla comprensione della realtà, proprio in un momento cruciale della nostra economia, che perde colpi, sotto la pressione dei mercati globali, ma subisce i colpi di una visione per niente lucida della gravità della situazione.

Un lampante conflitto di interessi si sta sviluppando, ancora una volta tra i fatti e le opinioni. Telecom Italia annuncia altri 4000 esuberi, che si aggiungono ai 5000 già dichiarati. Fiat annuncia un massiccio ricorso alla cassa integrazione. Motorola ha chiuso a Torino. Panasonic ha chiuso a Pisticci, in Lucania. La CGIL parla di 450.000 precari che perderanno il posto di lavoro. I sindacati di base parlano dell’allontanamento di oltre 500.000 precari dalla scuola e dal pubblico impiego. La CISL prevede una perdita del posto di lavoro pari a 980.000 unità. La vicenda Alitalia ha messo nell’incertezza migliaia di dipendenti. E’ un fatto assodato che i consumi stiano crollando. E’ un fatto assodato la crisi finanziaria stia impattando ferocemente sull’economia reale. Si possono avere opinioni diverse sull’efficacia delle misure anti-crisi adottate dall’attuale governo. Ma non si può negare la gravità di una situazione che giorno per giorno si sta allargandosi a tutti i comparti della nostra economia: dalla manifattura ai servizi, dal commercio ai trasporti, dalla grande alla piccola e media azienda, dal lavoro dipendente a quello autonomo, dai media alla pubblicità.

Il vero conflitto di interessi del Paese è negare i fatti, a favore di una professione di ottimismo che non ha solide basi, se non quelle di un atteggiamento fondamentalista nelle capacità automatiche del mercato di rigenerare se stesso.
La consapevolezza della gravità della situazione aiuta la ricerca di soluzioni credibili ed efficaci. Al contrario, diffondere vaghi appelli all’ottimismo e alla fiducia fa perdere tempo alle decisioni, confonde le idee, disperde energie altrimenti meglio utilizzabili. Non è più il tempo in cui l’emozione può prendere il posto della ragione. Se guardiamo in faccia la crisi, siamo già nella condizione di superarla. Se ne neghiamo la portata, ne diventiamo gregari, ci trasformiamo in portatori sani di una delle peggiori malattie economiche mai viste.

E’ bene allora che l’informazione dica le cose come le cose stanno. E’bene che lo facciano i giornali, che lo faccia la tv. Sarebbe un sollievo lo facesse la politica. E’ bene che lo capisca anche la pubblicità: basta emozioni, intenti aspirazionali, ragionamenti con “la pancia”.

E’ il momento dell’intelligenza, dell’arguzia, della sobrietà, dell’irriverenza verso il convenzionale e il conformismo. Sia nella creazione di nuove idee, sia nel metodo e negli strumenti. Solo così le marche non entrano in conflitto di interessi con il sentire comune dei consumatori. Beh, buona giornata.

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

La Costituzione, i diritti e l’uguaglianza. Allegato a “I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere”.

Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale ha scritto questo intervento pubblicato su «la Repubblica» del 26 novembre 2008. L’importante riflessione di Zagrebelsky sulla «Costituzione in bilico» è un contributo al mio molto più modesto “I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere”. (Beh, buona giornata).

Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il “regime”, inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è “il” o “un” fascismo; oppure, più in generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc.
Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all’analisi, della demonizzazione politica, funzionale all’isteria e allo scontro.

Ma “regime” è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di “Ancien Régime”, di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista.
Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo. Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da “esiste attualmente un regime” in “il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente”? Che l’Italia viva un’esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste.
Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del ‘48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito.

Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico. Che cosa significa “costituzione in bilico”?

Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell’Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l’esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata. Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell’incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento.

I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono.
Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.

Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.

* * *

Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario.

Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli.
Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia.
Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità.
Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi.
Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale.
Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione.
Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione.

Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima (il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli.

Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.). Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola “politica”: forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l’etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l’integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all’uguaglianza.

* * *
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell’uguaglianza.
In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge “ferrea”.

E’la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell’azione politica.
La costituzione – questa costituzione che assume l’uguaglianza come suo principio essenziale – è in bilico proprio su questo punto.

Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo “clandestini”, quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali, anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino.

Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove chi più ha, più può.
Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato.

Analogamente, anche l’organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza. Così come è una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso. E’una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico. L’indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata.

Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato. La causa è sempre e solo una: l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del “regime”. Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici.

Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i “dispotismi asiatici”, dove tutto sembrava dipendere dall’arbitrio di uno solo, khan, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese.
Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più “orientale” dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni».
Sarà pur vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.

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Attualità Popoli e politiche

I diritti civili in un paese che quasi non ne sente più il dovere.

Giovedì 27 scorso a Milano, al Palazzo delle Stelline, Kerry Kennedy ha presentato la mostra Speak Truth To Power, realizzata dalla Robert F. Kennedy Foundation Europe, con le foto di Eddie Adams, famoso fotoreporter vincitore del Pulitzer.
L’iniziativa, ospitata dal Centro culturale francese, patrocinata dalla Provincia di Milano e sponsorizzata da Altavia è propedeutica a un modulo didattico sui diritti civili nel mondo che farà il giro delle scuole della Lombardia.

Durante il suo intervento, Kerry Kennedy ha detto che anche in Italia esistono problemi di tutela dei diritti civili: nel trattamento dei migranti e i relativi gravi episodi di xenofobia, ma anche sui temi della condizione delle donne, la violenza nei confronti delle quali è statisticamente in aumento nel nostro Paese. Parole sante.

L’elenco delle violazione dei diritti civili in Italia è tuttavia più lungo. A parte il fatto che le donne italiane sono discriminate nei posti di lavoro, a cominciare dalle retribuzioni per arrivare alle possibilità di carriera, l’elenco delle violazioni non può che comprendere i brutti episodi di brutalità poliziesca durante il G8 di Genova, ma anche la violazione delle norme sulla sicurezza nei posti di lavoro, con il suo tristissimo corollario dello stillicidio quotidiano di morti e feriti. Per non parlare della silenziosa discriminazione nei confronti dei diversamente abili che si muovono con enorme difficoltà nelle città, nei luoghi pubblici e privati. Per arrivare alla violazione dei diritti e alla vera e propria discriminazione nei confronti dei lavoratori precari, dei lavoratori costretti al lavoro sommerso, cioè in nero. Per passare all’intolleranza verso i musulmani, verso i nomadi, verso le minoranze etnico-linguistiche.

Insomma, la violazione dei diritti è come un piatto di ciliegie, una tira l’altra. Con il risultato, orribile da dire, di creare una sorta di assuefazione, che genera indifferenza, quel girarsi dall’altra parte tipico di società che hanno perduto la certezza dei diritti, compreso il diritto-dovere di farsi carico, anche individualmente, della solidarietà immediata e contestuale agli episodi discriminatori di qualsiasi tipo.

C’è un’aria cattiva che viene dalla politica, in particolare da quelle forze che per demagogia o per vile compiacenza agli istinti più bassi, predica intolleranza, discriminazione, separazione.

Ecco perché mi ha colpito la notizia dei marinai di Lampedusa che, con l’ausilio della Guardia Costiera di Mazara del Vallo, hanno sentito il dovere di uscire di notte col mare grosso, e con i loro pescherecci hanno tratto in salvo 650 migranti alla deriva sui barconi fatiscenti. La propaganda anti migrazione non gli ha avvelenato né la coscienza né il coraggio di agire a proprio rischio e pericolo. Lo hanno fatto perché sentivano il dovere di farlo. Un esempio da imitare.

Ero presente alla presentazione di Speak Truth To Power, invitato da Altavia ho preso la parola per dire che il messaggio che la Fondazione RFK lanciava con quella importante iniziativa ha due parole chiave: idee e coraggio. Le idee come attitudine a pensare oltre i recinti dell’esistente, coraggio come metodo per affrontare le conseguenze delle proprie idee.
Sono infatti convinto che i cambiamenti si prefigurano quando idee e coraggio trovano una sintesi felice, capace di disegnare un nuovo più promettente perimetro in cui coesistano libertà individuali e quelle collettive: nelle vita, nella società come nella professione e nell’azienda senza libertà di fare e di pensare non ci possono essere significativi successi. Vale per tutti, anche per chi opera nella comunicazione, compresa quella commerciale.

Quando sono uscito dal Palazzo delle Stelline a Milano ho preso un taxi. L’autoradio era sintonizzata sul notiziario di una stazione locale: la notizia di apertura diceva che un dipendente di una nota catena di supermercati si era scazzottato con il suo caporeparto, perché quello si era rifiutato di dargli il permesso di interrompere il servizio, il tempo necessario per andare in bagno.

C’è davvero bisogno di riportare i diritti individuali e collettivi al centro della nostra attenzione, perché è proprio una situazione di merda quella che nega anche il diritto di fare la pipì. Non sentite anche voi forte il dovere dei diritti civili, di cittadinanza, del lavoro, di genere, politici e religiosi? Non fosse altro per non buttare nel cesso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, né la Costituzione della Repubblica italiana. Beh, buona giornata.

Per informazioni su Speak Truth To Power: www.rfkennedyeurope.org.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La crisi e le imprese. Allegato 3° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

Un primo concreto passo avanti.

Di Alberto Orioli, da sole24ore.com

 

Se l’algido linguaggio legislativo lasciasse spazio ai sentimenti, il decreto varato ieri si intitolerebbe: «Disposizioni urgenti sulla fiducia e l’ottimismo di Stato». Almeno questo è l’obiettivo del progetto neo-keynesiano messo a punto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma i fatti e il contesto rendono molto difficile forzare le cose dell’economia e tantomeno le emozioni collettive anche per chi, con tenacia, persegue la politica della positività (e del consumo).
L’Europa ha scelto la via di un semi-bluff, ben presto smascherato. Il piano Ue, un agglomerato di fondi nazionali – il cui totale rischia di diventare meno della somma degli addendi – invece di creare speranza rischia di indurre l’effetto contrario e di innescare una guerra tra poveri nei Paesi di Eurolandia. La scelta di Londra di abbattere l’Iva e la tentazione di Berlino di aiutare l’auto tedesca rischiano di dare un pericoloso segnale di “liberi tutti” proprio mentre servirebbe una politica coordinata per gestire la svolta verso quella green economy che diventerà, invece, il vero cantiere dell’America di Obama. Una possibile crisi nella crisi di cui l’Europa porta tutta la responsabilità.Il Governo di Roma, con l’annuncio fatto a Washington di un maxi-piano da 80 miliardi che univa passato, presente e futuro, ha reagito d’impulso con una risposta mediatica a uso del G-20 (dove peraltro Sarkozy ha esibito dati su una crescita del Pil assai “sospetta”). Per coerenza ieri Berlusconi e Tremonti l’hanno ricordato, anche se hanno dovuto spiegare che si tratta di interventi diversi e non direttamente sommabili. Il decreto, in realtà, più pragmatico e consono a questi tempi di economia della sobrietà, mette in campo 6 miliardi “reali” immediati e ne promette 25-30 per grandi interventi entro il 2013 se andrà a buon fine l’operazione (storica) di riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate. Con il piano Barroso se ne rimettono in gioco ancora 5, altrimenti persi.

Il Governo ha rinunciato a forzare i margini sul deficit che la Ue comunque ci consentirebbe: risorse in più per mezzo punto di Pil (pari a 8 miliardi) non avrebbero destato scandalo e non è certo che avrebbero nemmeno causato i paventati contraccolpi sugli spread dei titoli di Stato. Ma tant’è. Tremonti, con coerenza da uomo delle istituzioni tanto più rispettabile perchè scomoda, rimane attestato sul deficit zero nel 2011. E disegna il canone aureo dell’economia sociale di mercato cui, da qualche tempo, si ispira: un mix tra misure assistenziali e per la famiglia (3,6 miliardi), programmi di sviluppo e investimenti (16,5 miliardi) e azioni fiscali per le imprese (2,4 miliardi).

Il Governo ritiene di avere risorse sufficienti. È augurabile che sia nel giusto, altrimenti ci troveremo presto senza benzina. L’Iva è in calo e anche il gettito Ires prevedibilmente fletterà; la Robin Hood tax non ha portato nelle casse pubbliche tutto il gettito previsto, ma probabilmente la metà. Il decreto promette sconti sull’Irap e limature agli acconti Ires (non Irpef), un sistema di recupero dei crediti delle imprese verso lo Stato e risparmi virtuali dovuti a un nuovo pacchetto di semplificazioni burocratiche. Non c’è molto di più. Tantomeno la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e tecnologia: sarebbe stato un altro importante segnale di sistema su quale dovrà diventare il modello di sviluppo dell’Italia. Forse arriverà in futuro, forse no.

L’evidente sbilanciamento a favore del capitolo infrastrutture – scelta comunque positiva – sarà anche il campo di sperimentazione del nuovo ruolo dello Stato. Il motore principale è la Cassa depositi e prestiti che cambia natura e capacità di azione perché userà senza vincoli il risparmio postale. La Cdp, poi, è stata candidata a diventare fondo di garanzia pubblica per l’azione calmieratrice sul credito e, forse in un secondo tempo, anche testa di ponte nelle partecipazioni ex bancarie al capitale della Banca d’Italia. La Repubblica diventerà poi compratore di ultima istanza per i bond delle banche necessari a riportare su ratio più competitivi il patrimonio degli istituti italiani. È chiara la nuova impronta interventista, ma nella visione tremontiana c’è un’idea di fondo di un soggetto pubblico di supporto e di correzione, senza interferenze (apparenti) nella gestione di mercato delle imprese, senza esercizio diretto (apparente) di poteri operativi. Come dire: una moral suasion “armata” o “spintanea”, come quella che sarà esercitata – parola di Tremonti e Calderoli – per fermare la dinamica delle tariffe.

L’accelerazione delle procedure di investimento per le grandi infrastrutture è una delle novità più rilevanti. Ci hanno provato in tanti, con poco successo. Si vedrà se l’aggiramento dei ricorsi blocca-opere, previsto dal decreto, andrà a buon fine. È più che auspicabile.
È comunque anche questa la via migliore per ritrovare la fiducia smarrita; per paradosso infatti non sono i provvedimenti eccezionali a infondere l’ottimismo dei comportamenti (anzi confermano l’idea dell’emergenza e lasciano scorie di ansia) ma i segnali di una nuova ordinarietà prosperosa. Per tradurre poi la fiducia in consumi (non sono la stessa cosa) serve il reddito, che passa anche da investimenti pubblici e privati e dalle aspettative positive sull’occupazione. E si alimenta anche con i bonus e le elargizioni strettamente assistenziali – pure presenti nel provvedimento – anche se non è chiaro se queste finiranno a risparmio o a consumo. L’impatto più duro della crisi si dovrebbe sentire nella prima metà del prossimo anno. Per quell’evenienza dovrebbero essere attivati gli ammortizzatori sociali rifinanziati: se però le conseguenze saranno mezzo milione di posti di lavoro persi, anche il nuovo sforzo si rivelerà poca cosa. Sarà allora, probabilmente, che il cosiddetto “fondo Sacconi” dovrà essere rabboccato o con parte dei fondi per il Sud o con nuove risorse. Magari tentando un’ulteriore riforma che porti finalmente a un sistema di ammortizzatori sociali universali, non più legati a scelte discrezionali politico-sindacali e semmai ancorati a reali programmi di riqualificazione e reinserimento.
Sarebbe un’altra di quelle riforme “normali” che permettono a un Paese di generare fiducia duratura. Per non parlare di quale effetto tonificante potrebbe avere la firma dell’accordo sulla riforma della contrattazione, unico strumento adatto ad accrescere e redistribuire la produttività, vera lacuna di sistema dell’Italia. È fondamentale, a questo scopo, l’arricchimento della dote finanziaria destinata agli sgravi fiscali per il salario di secondo livello per i quali è stato fatto un primo passo.

Si riapre – ed è un bene – il capitolo sull’evasione fiscale. Le risorse, in effetti, sono lì, sommerse da sempre. Ci sono 100 miliardi su cui esercitarsi. In attesa di risultati a sei zeri magari si può cominciare vigilando sulla social card: sarebbe grave se una tessera destinata ai più poveri finisse ai più furbi. (Beh, buona giornata).

 

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Attualità Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il sindacato di base. Allegato 2° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

IL TEMPO STRINGE: OCCORRE ACCELERARE IL

PROCESSO UNITARIO DEI SINDACATI DI BASE!

di Fabrizio Tomaselli, coordinatore nazionale SdL.

 

Il processo di lento avvicinamento delle posizioni delle più rappresentative organizzazioni sindacali di

base, (Cub – Confederazione Cobas – SdL intercategoriale) in atto da tempo, ha subito una positiva

accelerazione con l’Assemblea nazionale del maggio 2008 a Milano.

I delegati ed i rappresentanti dei tre sindacati che hanno promosso l’Assemblea hanno di fatto

avviato dal basso un processo di lavoro unitario che deve necessariamente portare ad un percorso

che veda progressivamente avvicinarsi le tre sigle sindacali e tenda alla costruzione di un sindacato

unitario e di massa che rappresenti una reale e concreta alternativa a Cgil, Cisl, Uil e Ugl.

Una volontà che come SdL intercategoriale abbiamo raccolto con convinzione.

Il bilancio che facciamo, a sei mesi dall’Assemblea di Milano, è solo parzialmente positivo. Se è vero

che in questi mesi si sono moltiplicati i momenti di confronto e di iniziativa comune, sia a livello

nazionale che territoriale, nei diversi comparti del mondo del lavoro, mancano strumenti di

elaborazione e di intervento comuni.

La grande partecipazione alla manifestazione nazionale di Roma del 17 ottobre dimostra che

l’attrattiva e le potenzialità che le tre organizzazioni esprimono in situazioni promosse e costruite

unitariamente è ben più ampia della sommatoria delle singole sigle e ciò rappresenta un

incoraggiante segnale verso la ricerca di luoghi e di interventi unitari sempre più stretti e

complessivi.

E’ evidente che i tempi e le modalità di tale percorso devono essere ben ponderati e che il processo

di avvicinamento deve risultare graduale: le tre organizzazioni hanno infatti storie e prassi diverse

ed anche al loro interno presentano sensibilità non sempre omogenee.

Il permanere di organizzazioni sindacali oggettivamente ancora in concorrenza tra loro, tuttavia,

riduce l’impatto della nostra azione e amplifica la consapevolezza di quanto uno strumento

realmente unitario potrebbe giovare alla causa che ci siamo prefissati.

Qualsiasi processo non è e non può essere immutabile e deve adattarsi alla situazione che lo richiede

o che lo condiziona.

Se è quindi vero che non sarà possibile dare vita a breve ad un unico soggetto, ma se è a questo

che dobbiamo tendere per dare risposte concrete alle necessità dei lavoratori, è indispensabile

considerare lo scenario che si sta delineando in questi ultimi mesi e soprattutto le tendenze di

carattere economico, politico e sociale che stanno investendo l’Italia ed il mondo intero.

La crisi economica ormai conclamata, insieme al contesto politico, sociale e sindacale degli ultimi

mesi impongono, infatti, un salto di qualità nel nostro agire.

Posizioni ed analisi che sino a pochissimo tempo fa erano considerate indiscutibili oggi mostrano la

corda. E così le contraddizioni tra capitale e lavoro, che da sempre le nostre organizzazioni sindacali

hanno individuato come elementi decisivi su cui fare leva nell’azione quotidiana, stanno tornando

drammaticamente di attualità ed è proprio il venir meno dei margini di mediazione su cui la

concertazione dei sindacati confederali aveva potuto ancora parzialmente contare che richiede con

urgenza la messa a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori di uno strumento alternativo

adeguato, per quantità e qualità, a raccogliere la sfida.

La crisi mondiale è soltanto al suo inizio: dopo aver investito la finanza ora sta destabilizzando anche

la cosiddetta economia reale, con conseguenze severe sulle condizioni di centinaia di milioni di

lavoratori in tutto il mondo che già vivono da decenni una realtà di estrema precarietà.

In questo panorama cambia in Italia, come in molti altri Paesi, il rapporto tra lavoratore e sindacato

e tra sindacato e azienda. Flessibilità della manodopera e salario, utilizzati come variabile dipendente

dall’aumento della produttività – dello sfruttamento si sarebbe detto in altri tempi – sono i

fondamentali su cui padroni e governo vogliono costruire un sistema di relazioni industriali/sindacali

del tutto asservito alle necessità/compatibilità aziendali.

Una prospettiva a cui Cisl, Uil e Ugl hanno già dato il loro assenso e che la Cgil, per ragioni

contingenti, oggi dichiara di voler contrastare. Un verbalismo senza progetto, la strumentalità

evidente di chi, dopo aver contribuito a smantellare pezzo dopo pezzo conquiste, tutele e strumenti

di contrattazione esigibili, oggi vede messo in discussione il ruolo del suo stesso apparato. Un

apparato che freme dalla voglia di tornare al tavolo con Governo e Confindustria perché le regole

sulla rappresentanza che la Cgil stessa ha contribuito a definire negli anni, negano fondamentali

diritti sindacali a chi non firma i contratti.

Al “sindacato dei servizi” si accompagna ora il “sindacato notaio” chiamato semplicemente a

ratificare contratti ritagliati sulle esigenze delle aziende.

Il conflitto non è compatibile con il consociativismo cui fanno appello le imprese: le esigenze di chi

lavora devono sottostare a quelle dell’impresa e del mercato. Al sindacato viene offerto al massimo

di entrare con il suo apparato nel business degli enti bilaterali e dei gestori di fondi pensione.

E’ in questo contesto che anche noi dobbiamo ripensare strumenti della rappresentanza che non

siano fini a se stessi, che non prevedano semplicemente l’estrema difesa di un indifendibile

esistente.

Lo strumento principe in mano ai lavoratori è ancora il Sindacato nella sua più nobile accezione. Ma

la conquista di condizioni di vita dignitose necessita di un sindacato in grado di costruire conflitto

reale e non proclami velleitari.

E’ indispensabile mettere da parte le alchimie “organizzative” e ragionare con estrema concretezza a

partire dal fatto che le nuove generazioni entrate nel mondo del lavoro a partire dagli anni ’80,

hanno conosciuto solo il lato arrendevole, burocratico e concertativo dei grandi apparati sindacali e

ne hanno giustamente disgusto. La mutata composizione sociale del lavoro dipendente, la

frantumazione/contrapposizione alimentata ad arte tra i vari segmenti del mondo del lavoro (stabili e

precari, nativi e migranti, operai e impiegati, pubblici e privati …) non può non costringerci a

sperimentare nuove forme organizzative e nuovi strumenti informativi che partano dal denominatore

comune che a noi piace definire come “intercategorialità”.

Per questo motivo crediamo sia indispensabile cogliere l’occasione, forse l’ultima in questo Paese per

i prossimi anni, per accelerare il processo unitario tra SdL intercategoriale, Cub e Confederazione

Cobas, a partire da un lavoro comune nei territori, per arrivare ad una nuova grande Assemblea

nazionale che coinvolga nuovi settori di lavoratori, anche al di là delle aree già organizzate nei tre

sindacati di base.

E’ necessario farlo rapidamente: è indispensabile farlo con il rigore necessario ma senza riserve

mentali, perseguendo con determinazione l’obiettivo, pena la distruzione certa di qualsiasi ipotesi di

alternativa sindacale per i prossimi anni! Proviamoci qui ed ora! (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

La crisi e il ceto medio. Allegato 1° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

“Ceto medio in crisi, alla ricerca
della cittadinanza sociale perduta”

Negli Usa il piano di salvataggio della middle class è tra i principali impegni di Obama
E in Italia? E’ difficile già tracciare i confini e identificare le ragioni del malessere
di ROSARIA AMATO da Repubblica.it

Il presidente neoeletto degli Stati Uniti ha garantito che “un piano di salvataggio della classe media” sarà tra le sue priorità, una volta insediato alla Casa Bianca. Ma di “malessere del ceto medio” si parla da anni in tutti i Paesi occidentali, anche se le soluzioni stentano ad arrivare. “Ceto medio. Perché e come occuparsene”, è il titolo del volume, edito da Il Mulino, che raccoglie i primi risultati delle ricerche condotte da un gruppo di lavoro costituito presso il Consiglio italiano per le Scienze Sociali, del quale fanno parte 12 ricercatori e 18 borsisti. Il progetto è coordinato dal sociologo Arnaldo Bagnasco.

Professore, ma perché è così importante salvare il ceto medio?
“Quello che sappiamo è che una crisi pesante del ceto medio ha sempre giocato contro la democrazia. Certo, è rischioso fare confronti con il passato, ma per esempio quando in Germania c’è stata una forte deriva in senso totalitario, negli anni che portarono Hitler al potere, certamente erano coinvolte fasce di contadini e operai, ma il punto fondamentale era che c’era un ceto medio diseducato politicamente, che non era in grado di fornire alcun appiglio culturale. Dobbiamo avere paura di un ceto medio culturalmente e politicamente disorientato”.

Cosa ha innescato la crisi del ceto medio?
“Abbiamo avviato le nostre indagini circa un anno fa. La nostra idea è stata quella secondo la quale si capisce molto dei cambiamenti attuali se si comincia a guardare nel mezzo della scala sociale. La questione del ceto medio è stata sollevata innanzitutto da inchieste giornalistiche, e non solo in Italia, soprattutto negli Stati Uniti, dove la middle class è il perno non solo della società, ma anche dell’idea di società. Il sogno americano consiste proprio in questo, nella possibilità per tutti di acquistare una posizione sicura e ragionevole nella società. Negli Stati Uniti questa prospettiva è andata in crisi soprattutto con lo sfrenato liberismo di mercato. Per cui c’è stato un allungamento della parte della struttura sociale che era nel mezzo: molti sono scesi verso il basso, pochi sono schizzati verso l’alto. E’ successo anche in Italia. Per cui è entrata in crisi l’idea di ceto medio come condizione di piena cittadinanza sociale”.

Chi fa parte del ceto medio oggi?
“Il ceto medio costituiva il 60 per cento della popolazione; adesso questa percentuale è un po’ scesa, è tra il 50 e il 60. Include autonomi o dipendenti, del pubblico o del privato. Un insieme di popolazione che, sulla base di risorse proprie o con il contributo dei sistemi di welfare, rispetto al passato ha raggiunto condizioni di sicurezza, un buon reddito, la garanzia sulla cura della propria salute e la tranquillità per quando si diventa anziani. Una parte di questa popolazione adesso si considera a rischio, è in difficoltà. Ed è difficile ricollocarla, perché non può essere definita come classe popolare o classe operaia: si tratta di ceto medio in difficoltà. Il problema riguarda soprattutto i giovani, che avvertono un ingresso difficile nella vita adulta”.
Ma è soltanto lo status economico che definisce il ceto medio, e in questo caso le soluzioni alla crisi sono quindi solo di tipo economico?
“Quando si ragiona sul ceto medio, si fa riferimento non soltanto a livelli di reddito e di consumo, ma anche a scelte precise. C’è un’importante questione di status, abitudini alle quali il ceto medio difficilmente rinuncia: le vacanze, gli spettacoli, uscire a cena fuori, le dimensioni culturali sono molto importanti, per questo vanno studiate bene a fondo”.

E dunque quali dovrebbero essere le linee fondamentali di una politica a favore del ceto medio? Se negli Stati Uniti il nuovo presidente Obama sembra saperlo molto bene, in Italia si attendono proposte.
“Con questi nostri primi risultati intendiamo orientare delle discussioni pubbliche che possano aprire prospettive in relazione alla politica. Nei prossimi mesi abbiamo in programma una serie di iniziative pubbliche, nel corso delle quali discuteremo con vari interlocutori delle implicazioni delle nostre ricerche. Tenendo presente che nel ceto medio c’è di tutto: Sylos Labini parlava di ‘topi nel formaggio’ per indicare le classi chiuse in se stesse. Ma c’è anche un ceto medio di sviluppo, fatto soprattutto da artigiani e piccoli imprenditori. Ci sono gli immigrati di ceto medio, o che lo stanno diventando. Nella classe media sono entrati anche gli operai. Linee diverse, ma che possiamo ricomporre in una politica complessiva”. (Beh, buona giornata).

 

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