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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Signore e signori, ecco a voi la crisi in tutto il suo splendore.

Nel 2009 ci saranno 1,9 milioni di disoccupati, un picco massimo rispetto a poco più di 1,5 mln nella media del 2007. Sono le nuove stime dell’Ufficio studi di Confcommercio, che prevede dunque per il 2009 e il 2010 un incremento inferiore all’8%.

Come se non bastasse, se il dato dovesse però superare la soglia dell’8%, questo “implicherebbe una riduzione del reddito disponibile reale che impatterebbe sui consumi e questo potrebbe indurre a rivedere al ribasso le previsioni”.

Come è noto, la pubblicità è l’anima del commercio, ma in Italia la pubblicità è nel comparto del commercio. Beh, buona giornata.

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Attualità

“Non si vede proprio come Berlusconi abbia la possibilità di onorare le promesse.”

Cambio di stagione.
di LUCA RICOLFI da lastampa.it
Ha fatto un certo scalpore la notizia, peraltro ampiamente prevedibile e prevista, che per il 2009 pagheremo ancora più tasse che per il 2008. Secondo il Corriere Economia il cosiddetto «Tax freedom day» – ossia il giorno di liberazione dalle tasse, in cui finalmente cominciamo a lavorare per noi stessi anziché per lo Stato – si è spostato di altri 2 giorni in avanti: quest’anno dovremo aspettare fino al 23 giugno, un vero record (dall’Unità d’Italia a oggi solo il governo D’Alema, nel 2000, riuscì a fare peggio). Né possiamo consolarci pensando che le cose siano destinate presto a cambiare: anche per i restanti anni della legislatura il Dpef prevede una pressione fiscale costante, attestata intorno al 43%, nonostante il programma elettorale del centro-destra confidasse in un calo della pressione fiscale di almeno 3 punti di Pil, dal 43% al 40%.

Qualcuno, come Alberto Mingardi sul Riformista, interpreta questo ennesimo raffreddamento dell’anima liberale del centro-destra come la conferma definitiva della fine di una stagione, la stagione iniziata nel 1994 con Berlusconi leader di una destra anti-fiscale, campione della società contro lo Stato, dell’individuo contro la burocrazia degli apparati. Rispetto alla coppia libertà-sicurezza, il centro-destra attuale penderebbe sempre di più verso la sicurezza, l’ordine, la tradizione. Forse è così, ma quel che è interessante è che i risultati non si vedono nemmeno lì.

Naturalmente non è colpa di un governo appena insediato se gli sbarchi raddoppiano, la criminalità è ai massimi storici (superata solo dal picco post-indulto del 2007), l’affollamento delle carceri è tornato a livelli drammatici, gli stessi – circa 60 mila detenuti per 43 mila posti – che nel 2006 indussero il povero Prodi a promulgare l’indulto. Però è difficile sfuggire all’impressione che il governo non sappia come gestire la situazione, nonostante l’impegno di Maroni: i posti nelle carceri sono sempre quelli, quelli nei Cpt – paradossalmente – sono destinati a diminuire proprio a causa dell’aumento dei tempi di permanenza (se un clandestino viene trattenuto 10 mesi anziché 2, la capacità di accoglienza si riduce proporzionalmente). Nel programma si parlava di «costruzione di nuove carceri», «aumento delle risorse per la giustizia», «garanzia della certezza della pena», tutto fa pensare invece che nel 2009 il governo sarà costretto a nuovi provvedimenti di emergenza, presumibilmente destinati a scattare l’estate prossima, quando le presenze in carcere (e forse anche nei Cpt, ora ridenominati Cie) toccheranno livelli insostenibili.

Ma non è tutto. I cavalli di battaglia elettorali del centro-destra non erano solo la riduzione delle tasse e la lotta a criminalità e immigrazione irregolare. C’era anche un terzo cavallo di battaglia, che stava particolarmente a cuore alla Lega e all’elettorato «padano»: l’adozione da parte del Parlamento nazionale della proposta di legge sul federalismo fiscale della Regione Lombardia (votata il 19 giugno 2007). Pure questo cavallo è nel frattempo caduto, anche se pochi se ne sono accorti: la «bozza Calderoli», che ha sostituito la proposta lombarda, è un drammatico passo indietro rispetto al progetto originario, e infatti ha ottenuto il consenso di tutte le forze che in origine si opponevano al federalismo, soprattutto governatori del Mezzogiorno e importanti settori della sinistra. Per non parlare dei recenti ripianamenti dei deficit di Catania, di Roma, della sanità laziale, o della costosissima conclusione di vicende come Alitalia e Malpensa. È grazie a questo genere di passaggi che il federalismo, che in origine era un’opportunità per diminuire la spesa e le tasse, ha oggi molte più probabilità di aumentarle entrambe.

Uno-due-tre: meno tasse, più sicurezza, federalismo «lombardo». Su queste tre cose, a mio giudizio le più qualificanti (anche se non necessariamente le più condivisibili) del programma di centro-destra, non si vede proprio come Berlusconi abbia la possibilità di onorare le promesse. Ciononostante il consenso a Berlusconi resta molto alto, anche se da qualche tempo in calo. Perché? Per due ragioni almeno. La prima è ovvia: il tradimento del programma per ora è evidente solo sul versante delle tasse, e in questo momento – con la recessione economica incombente – la gente chiede più protezione, non più libertà. I guai veri verranno se e quando esploderà il problema delle carceri e il federalismo, nonostante l’uscita dalla recessione, si mostrerà incapace di ridurre davvero le tasse e la spesa.

Ma la ragione più importante del perdurante consenso del centro-destra è un’altra: il Pdl non ha seri nemici a destra, esattamente come il Pci non ne aveva (e non ne tollerava) a sinistra. È questa la ragione politica per cui i fallimenti del governo non si traducono in consenso all’opposizione: federalismo vero, meno tasse, linea dura su criminalità e immigrazione sono «missioni» che interessano una parte considerevole dell’elettorato, ma non le forze di opposizione, che semmai considerano positivo il fatto che il centro-destra stia annacquando il suo programma. Gridare alle tasse troppo alte, alla pericolosità delle città, al pasticcio federalista non è congeniale a un’opposizione che pensa che le tasse siano «bellissime», gli immigrati «buonissimi», e il federalismo rischiosissimo a meno che noi illuminati lo rendiamo «equo e solidale». Insomma, il curioso della situazione è che il centro-destra sta abbandonando le sue bandiere, ma non c’è nessuno che abbia la voglia o la possibilità di raccoglierle. Per questo, almeno per ora, Berlusconi può dormire sonni tranquilli. Un po’ meno gli elettori che lo hanno votato sperando che, questa volta, avrebbe mantenuto le promesse. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Piombo Fuso: “Noi obiettori di coscienza siamo una esigua minoranza.”

«Combattere nella Striscia è insensato»
FRANCESCA PACI
INVIATA A TELAVIV da lastampa.it
Noam sa come i connazionali considerano quelli tipo lui. Ha già ricevuto decine di email anonime: «vigliacco», «traditore», «amico dei terroristi». Non se ne cura. Domenica 4 gennaio, il giorno dopo essere stato richiamato tra le fila dei riservisti, ha detto no. Noam Livne, 34 anni, dottorando in matematica al Weizmann Institute di Rehovot, è uno dei 9 refusenik che hanno rifiutato la divisa per l’operazione Piombo Fuso. «Sono andato alla base e ho spiegato al comandante che non avrei combattuto a Gaza per ragioni morali» racconta seduto a un tavolino del caffè Mersand, nel cuore di Tel Aviv. Fuori, al di là della vetrina che sembra dipinta da Hopper, ragazzi della sua età si dirigono verso la spiaggia per l’aperitivo nei locali affacciati sul mare, lo stesso di Gaza, il fronte distante meno di 100 chilometri.

Quali sono le ragioni morali di cui ha parlato al suo comandante?
«Questa guerra non serve. Non sono un disfattista, sono stato nell’esercito quattro anni, tre di leva e uno da ufficiale. Ho anche servito come riservista ma solo all’interno della linea verde, i confini del ’67. Nei territori palestinesi occupati non andrò mai, me ne sono convinto mentre ero in prigione».

Quando è stato in prigione?
«Nel gennaio 2002. C’era la seconda Intifada e io rifiutai di andare con le truppe a Nablus. Sono stato dentro tre settimane, ho letto molti libri e sono uscito ancora più convinto di non voler partecipare a un conflitto sbagliato e ingiusto. Quando decidi da che parte stare è facile, anche se gli altri non capiscono».

Che libri ha letto?
«Ne ricordo uno in particolare, La storia di Elsa Morante, mi ha influenzato tanto e mi ha dato forza».

L’80 per cento degli israeliani continua a sostenere la guerra. Non si sente isolato?
«Non sono del tutto solo per fortuna, ma noi obiettori di coscienza siamo una esigua minoranza. In questo Paese c’è un sistematico indottrinamento nazionalista, è difficile differenziarsi. Anche i palestinesi raccontano la loro storia parziale, e questo non aiuta. Io provo a capire la cronaca scartando il filtro della narrativa israeliana e di quella palestinese. E’ un lavoro da umanista, i nostri e i loro morti, come i nostri e i loro feriti, sono la stessa cosa».

Il governo israeliano dice che è stato Hamas a rompere la tregua.
«Hamas è diventato la giustificazione per qualsiasi tipo di reazione. Anche io odio Hamas, un partito di terroristi. Ma non riesco a essere felice se muoiono mille palestinesi».

Ha fiducia nella politica?
«Voto, sia pur senza grande entusiasmo. Il problema non sono i politici, anche se attribuisco gravi responsabilità al ministro della difesa Barak. Dopo il fallimento di Camp David Barak ha convinto il Paese che i palestinesi non fossero un partner possibile. In generale però, i politici sono l’espressione degli elettori e gli elettori qui non sono pronti alla pace».

Cosa farebbe se fosse nominato premier?
«A differenza dei guerrafondai, convinti che le armi siano la risposta, io non ne ho una. La situazione è difficile. La pace è difficile. E’ vero che i palestinesi capiscono meglio il linguaggio della violenza, ma anche noi israeliani. Entrambi ci rappresentiamo come mostri, un popolo di terroristi e un popolo di guerrieri assatanati. Non sono ottimista e non ho una soluzione, ma ho una direzione. Se fossi premier appoggerei l’iniziativa araba, spingerei perchè noi ebrei ci integrassimo nella regione, costruirei il confine sulla linea del ’67, senza aggiustamenti».

Il ragazzo che l’ha preceduto nel rifiutare di servire a Gaza è stato condannato a due settimane di prigione. Lei?
«Non hanno deciso, il comandante ha detto che avrebbero pensato a cosa fare di me. Forse mi processeranno».

Hamas potrebbe accettare la tregua. Cosa crede che accadrà?
«Un proverbio ebraico dice che la profezia è materia da stupidi».

(Beh, buona giornata)

 

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: “Con un pronto soccorso in cui arrivano cinquanta feriti alla volta sarebbe in difficoltà anche il migliore ospedale di Oslo”. La testimonianza dei medici Mads Gilbert ed Erik Fosse.

di Sophie Shihab – Le Monde (da megachip.info)

La testimonianza dei medici Mads Gilbert ed Erik Fosse

Dall’inviata speciale Sophie Shihab ad Al-Arish, Egitto – In questi ultimi giorni le televisioni arabe che trasmettono da Gaza hanno mostrato dei feriti di tipo nuovo – adulti e bambini le cui gambe erano ridotte a resti carbonizzati e insanguinati. Domenica 11 gennaio ne hanno dato testimonianza due medici norvegesi, unici occidentali presenti nell’ospedale della città.

I dottori Mads Gilbert ed Erik Fosse, che operano nella regione da una ventina d’anni con l’organizzazione non governativa (ONG) norvegese Norwac, hanno potuto lasciare il territorio il giorno prima, con quindici feriti gravi, attraverso il confine con l’Egitto. Non senza ostacoli fino all’ultimo: “Tre giorni fa il nostro convoglio, peraltro guidato dal Comitato internazionale della Croce Rossa, ha dovuto fare dietro front prima di arrivare a Khan Younis, dove dei carri armati ci hanno sparato addosso per fermarci”, hanno detto ai giornalisti presenti ad Al-Arish.

Due giorni dopo il convoglio è passato, ma i medici e l’ambasciatore norvegese venuto ad accoglierli sono rimasti bloccati tutta la notte “per motivi burocratici” all’interno del terminal egiziano di Rafah, aperto esclusivamente per le missioni sanitarie. Quella notte i vetri di alcune finestre e un soffitto del terminal sono stati distrutti dall’onda d’urto di una delle bombe sganciate nelle vicinanze.

“A 2 metri il corpo è troncato in due; a 8 metri le gambe sono tagliate, bruciate”
“All’ospedale Al-Shifa di Gaza non abbiamo visto ustioni da fosforo né lesioni da bombe a grappolo. Ma abbiamo visto delle vittime di ciò che abbiamo tutti i motivi di pensare sia il nuovo tipo d’arma sperimentato dall’esercito americano e noto con l’acronimo DIME – cioè Dense Inert Metal Explosive”, hanno dichiarato i medici.

Si tratta di piccole sfere di carbonio contenenti una lega di tungsteno, cobalto, nichel o ferro, con un enorme potere esplosivo che si dissipa però nel raggio di 10 metri. “A 2 metri il corpo è troncato in due; a 8 metri le gambe sono tagliate e bruciate come da migliaia di punture d’ago. Non abbiamo visto i corpi sezionati, ma abbiamo visto molti amputati. C’erano stati casi simili nel sud del Libano nel 2006 e abbiamo visto la stessa cosa a Gaza sempre nel 2006, durante l’operazione israeliana “Pioggia d’estate”. Degli esperimenti sui topi di laboratorio hanno mostrato che queste particelle che restano nel corpo sono cancerogene”, hanno spiegato.

Un medico palestinese intervistato domenica da Al-Jazeera ha parlato della sua impotenza in questi casi: “Non hanno alcuna traccia di metallo in corpo, ma strane emorragie interne. Una sostanza brucia i loro vasi sanguigni e provoca la morte, non possiamo fare nulla”. Secondo la prima équipe di medici arabi autorizzata a entrare nel territorio, giunta venerdì da sud all’ospedale di Khan Younis, quest’ultimo ha accolto “decine” di casi di questo tipo.

I medici norvegesi, da parte loro, si sono trovati costretti – hanno detto – a testimoniare ciò che hanno visto, in assenza a Gaza di ogni altro rappresentante del “mondo occidentale”, medico o giornalista che fosse: “Può essere che questa guerra sia il laboratorio dei fabbricanti di morte? Può essere che nel XXI secolo si possano imprigionare 1,5 milioni di persone e far loro tutto ciò che si vuole chiamandoli terroristi?”

Giunti a quattro giorni dall’inizio della guerra all’ospedale Al-Shifa, che hanno conosciuto prima e dopo l’assedio, hanno trovato un edificio e delle attrezzature “allo stremo”, un personale spossato, moribondi ovunque. Il materiale che avevano preparato è rimasto bloccato al valico di Erez.

“Con un pronto soccorso in cui arrivano cinquanta feriti alla volta sarebbe in difficoltà anche il migliore ospedale di Oslo”, raccontano. “Qui le bombe potevano uccidere dieci persone al minuto. I vetri delle finestre dell’ospedale sono andati a pezzi con l’esplosione che ha distrutto la vicina moschea. Durante alcuni allarmi il personale ha dovuto rifugiarsi nei corridoi. Il loro coraggio è incredibile. Possono dormire da due a tre ore al giorno. La maggior parte ha subito perdite tra i propri cari, alla radio interna ascoltano la litania dei nuovi luoghi attaccati e a volte capita che i loro familiari si trovino proprio lì, ma devono continuare a lavorare… La mattina della nostra partenza, al pronto soccorso, ho chiesto come era andata la notte. Un’infermiera ha sorriso. Poi è scoppiata a piangere”.

A questo punto del racconto la voce del dottor Gilbert vacilla. “Vede”, si riprende sorridendo tranquillo, “Anch’io…”
(Beh, buona giornata).
 

Leggere anche “Questa è una guerra totale contro la popolazione civile palestinese”, due interviste del Dottor Gilbert

Originale: Des médecins évoquent l’usage “d’un nouveau type d’arme” à Gaza

Mads Gilbert ed Erik Fosse

Articolo originale pubblicato il 12/1/2009

L’autore

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.

URL di questo articolo su Tlaxcala: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=6806&lg=it

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Attualità Popoli e politiche

” L’esercito israeliano sa benissimo dove trovarmi anche stanotte: sto sopra le ambulanze dell’ospedale Al Quds in Gaza city.”

di Vittorio Arrigoni, Gaza City – il Manifesto, da megachip.info

Dal mare non più i suoi generosi frutti, nulla dell’amore per i suoi flutti che rispecchiano il cielo, solo la morte portata in dote da navi da guerra che arano il suo spettro liquido. Del mare proviamo a fare ancora corridoio salvifico, una breccia su questa terra martoriata, confiscata e imprigionata, stuprata in ogni suo palmo, ridotta ad un cimitero per salme che non trovano riposo. Da qualche giorno anche i funerali sono diventati target di attacchi dell’aereonautica israliana, come se i palestinesi uccisi meritassero un’ulteriore punizione anche da morti.

Se un corridoio umanitario stenta a schiudersi per venire in soccorso a una popolazione ridotta allo stremo delle forze, ci penserà la Spirit of humanity, una delle nostre barche targata Free Gaza Movement. Salpata ieri da Larnaca, Cipro, cercherà di condurre sino al porto di Gaza oltre a tonnellate di medicinali una quarantina fra dottori, infermieri, giornalisti, parlamentari europei, attivisti per i diritti umani, rappresentanti di 17 diverse nazioni.
Esseri veramenti umani, come me, come i tanti in Italia che mi testimoniano la loro indignazione, disposti a rischiare la vita piuttosto che continuare a restare seduti e ignavi nel salotto buono di casa, dinnanzi ad un televisore che rimanda solo una minima parte del massacro che ci sta affliggendo.

Il 27 dicembre i miei amici ci provarono con la Dignity, furono attaccati dalla marina israeliana che tentò di affondarli, lanciato l’Sos dovettero rifugiare in Libano coi motori in avaria e una falla nello scafo. Per puro caso non ci furono feriti gravi in quell’occasione, ci auguriamo che oggi siano rispettate le loro vite e i diritti umani. Ci sono terribili catastrofi naturali a questo mondo, come terremoti e uragani, inevitabili. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria innaturale perpetrata da Israele ai danni di un popolo che vorrebbe ridotto alla più completa miseria, sottomissione.

Una popolazione disperata che non trova più il pane e il latte per nutrire i suoi figli. Che non piange neanche più i suoi lutti perché anche agli occhi è stata imposta una ferrea dieta. Il mondo intero non può ignorare questa tragedia, e se lo fa, non includeteci in questo mondo. Ogni giorno invochiamo forze che governano sopra di noi affinché fermino questo genocidio in corso, per questa mattina chiediamo solo che la nostra piccola imbarcazione approdi a Gaza con il suo carico di compassione, pace, amore, empatia, che a tutti i palestinesi siano concessi gli stessi diritti di cui godono gli israeliani, e qualsiasi altro popolo del pianeta. Il mare come ancora di speranza, il mare come meta di distruzione.

Secondo l’agenzia di stampa Ma’an, e la Reuters conferma, gli Stati Uniti stanno per rifornire di 300 tonnellate di armi Israele, tramite due navi cargo in partenza dalla Grecia. Armi e una grande quantità di esplosivo e detonatori, tutto il necessario per spianare la Striscia da migliaia delle sue abitazioni.
Sono già 120 mila gli sfollati da Gaza a Jabalia, ma i più, compresi diversi miei amici non si sono mossi, non sanno dove rifugiarsi. Giornalisti, dottori e becchini. Sono le professioni che lavorano di più qui a Gaza, senza sosta ormai da 16 giorni. Gli avvoltoi, oltre i caccia bombardieri, preoccupano e fomentano disprezzo, specie quelli che fino a ieri sedevano sulla stessa sedia del compianto Arafat, e ora anelano a venire a riprendersi il trono sulle ceneri di quel che di Gaza sarà.

Siamo giunti a 923 vittime, 4150 i feriti, 255 i bambini palestinesi orribilmente trucidati. Il computo delle vittime civile israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4. Gira voce che Olmert avrebbe fatto sapere ai suoi che il raggiungimento di 1000 vittime civili è il termine ultimo per arrestare questa brutale offensiva infanticida. Un po’ come succede alla Vucciria di Palermo, dove i quarti di manzo goccialano sangue all’aperto, e si contratta la carne un tanto al chilo.

Le apparizioni di Ismail Haniyeh sullo schermo sono seguitissime dai palestinesi della Striscia. Non si può parlare di tregua senza contemporaneamente prefissare una fine dell’assedio. Continuare ad assediare una Gaza ridotta in macerie, non permettere il confluire di viveri e medicinali, impedire la fuoriuscita di malati e di feriti, significa condannarla a una più lunga agonia. Questo il sunto delle parole del leader di Hamas, pronunciate stasera da un bunker chissa dove sottoterra, che fanno breccia nell’opinione pubblica gazawi. Il discorso di un leader che avrebbe potuto fuggire a ripararsi altrove, e invece è rimasto qui a prendersi le bombe in testa come chiunque altro.

Questo mie prose odierne sono state troncate sul nascere dalla solita telefonata intimidatoria che ordina l’evocuazione prima di un bombardamento. Mi trovo nel palazzo dove risiedono i principali media internazionali, fra gli altri, Al Jazeera, Ramattan e Reuters. Abbiamo dovuto staccare i pc dalle pareti, precipitarci giù per le scale e riversarci in strada, dove con gli occhi incollati al cielo cerchiamo di scorgere da dove giungerà il fulmine distruttivo.

Questa notte non ci saranno telecamere e reporter a documentare il massacro di civili, aleggia il fondato sospetto che le vittime innocenti saranno più del solito. Ancora per strada fisso Alberto e gli strizzo un occhio, si avvicina e gli sussurrò in un orecchio se ritiene plausibile che la telefonata intimidatoria sia stato un segnale per noi due soli, dopo la scoperta di un sito statunitense che ci ha messo una taglia sulla testa: «Allertare i militari dell’Idf per colpire l’Ism. Numero da chiamare se localizzate i covi di Hamas con i membri dell’Ism. Dall’America chiamate 011-972-2-5839749. Da altri paesi non digitare lo 011. Aiutateci a neutralizzare l’Ism, che è ormai parte integrante di Hamas sin dall’inizio della guerra. Bersaglio Ism n°1 per le forze aeree israeliane e truppe di terra dell’idf: invito all’omicidio di Vittorio Arrigoni (foto sotto, ndr) che attualmente assiste Hamas a Gaza». Dal sito www.stoptheism.com.

Non prendetevi la briga di visitarlo né tantomeno di linkarlo ai vostri siti. È una testimonianza sociologica da tramandare ai posteri. Analizzando questi tempi, il futuro pronuncerà la sua sentenza inappellabile, di come l’odio fosse il sentimento più puro, e il livore verso il diverso muovesse eserciti e fosse il collante di intere masse di uomini,
Non è necessario che i miei detrattori e chi mi vorrebbe martire compongano quel numero, l’esercito israeliano sa benissimo dove trovarmi anche stanotte: sto sopra le ambulanze dell’ospedale Al Quds in Gaza city. Restiamo umani.  (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche

Chi è il ministro degli Esteri in Italia?

Melhem Mistou, ambasciatore del Libano e decano degli ambasciatori della Lega araba a Roma, scrive a D’Alema di avere “il piacere di esprimerle a nome degli ambasciatori arabi in Italia pieno apprezzamento per le posizioni che Sua Eccellenza ha espresso e mantenuto sin dall’inizio dell’ultima gravissima crisi che ancora oggi insanguina la striscia di Gaza”.

A nome dei suoi colleghi, l’ambasciatore del Libano chiude la lettera ringraziando D’Alema “per il suo infaticabile impegno alla ricerca del dialogo e di una pace possibile”.

E’  l’ambasciatore  Melhem Mistuo che non sa che D’Alema non è più il ministro degli Esteri italiano o è Franco Frattini che non sa di essere il ministro degli Esteri  in carica?  Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

C’era una volta l’ottimismo del premier.

Secondo i dati Istat, la produzione industriale italiana è crollata a novembre 2008. L’indice, segnala l’Istat, ha registrato una diminuzione di -12,3% su base annua e di -3,6% nel confronto sui primi undici mesi. Il calo su base mensile è pari a – 2,3%. Il mercato dell’auto è andato a -46%. Negli stessi giorni di novembre 2008, in un comizio elettorale a Teramo per le elezioni in Abruzzo, Berlusconi disse:“Io dico ai cittadini: solo voi potete, non cambiando le vostre abitudini di vita e il vostro stile di acquisti, evitare che si precipiti in una crisi reale”. Eravamo già nella merda fino al collo, perché fare l’onda? Beh, buona giornata.

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Attualità Salute e benessere Società e costume

Quando è “la capa che non è bùona”.

Secondo eminenti scienziati, noi uomini, nel senso di genere umano,  non possiamo rievocare un ricordo e apprendere cose nuove contemporaneamente: il nostro cervello è dotato di una ‘leva di scambio’ tra i due binari di apprendimento e memoria, che spegne le funzioni della memoria e accende quelle dell’apprendimento o viceversa.

 

Pubblicata sulla rivista PLoS Biology, la scoperta è di Sander Daselaar dell’Università di Amsterdam e Roberto Cabeza della Duke University, che sospettavano da tempo che nel nostro cervello due funzioni importanti come apprendimento e memoria non possono attivarsi contemporaneamente, ovvero se siamo presi dal richiamare alla memoria un fatto, difficilmente in quello stesso istante potremo incamerare nella memoria un fatto nuovo di zecca.

I ricercatori hanno monitorato il cervello di un gruppo di giovani con la risonanza magnetica funzionale mentre i volontari erano alle prese con un gioco, in cui dovevano imparare delle parole e contemporaneamente ricordare immagini.

E’ emerso prima di tutto che le due attività svolte insieme mandano ‘in tilt’ il cervello che non si mostra capace di portarle a termine contemporaneamente. E poi si è anche visto che quando si passa dalla ‘modalità  apprendimento’ a quella memoria, o viceversa, si attiva una regione della parte frontale sinistra del cervello, una ‘leva di scambio’ che gli permette di passare rapidamente dalla funzione memoria a quella apprendimento e viceversa.

Conosco un sacco di gente che deve avere un guasto alla leva di scambio: cerca di capire qualcosa quando invece dovrebbe ricordare, cerca di ricordare quando invece dovrebbe capire. Sono quelli che scambiano il passato col futuro, e vivono il presente in perenne tilt. Ne è piena la politica, la televisione e, ahinoi, la pubblicità. Beh, buona giornata.

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”. Dedicato al ministro degli esteri italiano.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”.

Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’. “Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel.

“Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel.

Secondo il commissario europeo per lo Sviluppo e gli Aiuti Umanitari, il belga Louis Michel, con la sua offensiva nella Striscia di Gaza “Israele non sta rispettando le norme del diritto internazionale umanitario”, e di cio’ ci sono prove “sulle quali concordano gli esperti”. Lo denuncia lo stesso euro-commissario in un’intervista rilasciata al quotidiano ‘La Libre Belgique’.

“Il primo obbligo di una Potenza occupante consiste nel rispettare le vite degli abitanti, nel proteggere la popolazione, nel garantire il nutrimento e nel prendersene cura”, puntualizza Michel. “Nel caso specifico cio’ palesemente non avviene, e io non posso accettarlo. Quando poi una cosa del genere viene da una democrazia, accettarla diventa ancora piu’ difficile”.

Sul giornale il commissario allo Sviluppo sembra poi prendere le distanze dalla decisione dell’Unione Europea, il mese scorso, d’intensificare i rapporti con lo Stato ebraico. “Dobbiamo stare attenti a non ricorrere a strumenti che possano rafforzare una delle parti, e consolidare l’idea secondo cui non siamo capaci di un approccio equilibrato”, avverte infatti Michel. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Leggi e diritto

Alitalia: anche con un poco di zucchero la pillola non va giù.

Dice Bonaiuti, il ventriloquo di Berlusconi:
“Con il centrosinistra, Air France si sarebbe presa tutta l’Alitalia, ora solo una quota. E’ stato rispettato l’assunto fondamentale, è cioè l’italianità è stata mantenuta”. Lo afferma Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ai microfoni di Rainews 24.

 

Scrive Le Figaro:

Air France domina i cieli europei”, è il grande titolo in prima pagina di Le Figaro questa mattina. Il quotidiano francese celebra l’acquisizione del 25% di Alitalia e il fatto che, “con 99 milioni di passeggeri trasportati ogni anno nel mondo, la compagnia francese supera i suoi concorrenti British Airways e Lufthansa”.

Dice Gasparri, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Mi auguro che senso di responsabilità e soprattutto fiducia nella nuova compagnia prevalgano presto sull’incoscienza di alcuni agitatori che oggi, limitando i servizi essenziali con proteste e scioperi, stanno causando gravi disagi per i viaggiatori. La soluzione che si è profilata per Alitalia era l’unica possibile per mantenere la nostra compagnia di bandiera e soprattutto per darle una prospettiva”. Lo dichiara il presidente del Pdl al Senato Maurizio Gasparri.

Scrive le Figaro:

“La compagnia franco-olandese sborserà 323 milioni di euro per acquistare il 25 per cento del capitale della sua omologa italiana, ottenendo tre sedie nel consiglio d’ amministrazione”. Lo scrive Le Figaro, sottolineando che “questa volta la notizia è veramente ufficiale”. Al suo fianco, prosegue il quotidiano francese, ci saranno “gli imprenditori italiani mobilizzati dal premier Silvio Berlusconi”. Per Le Figaro questa rappresenta “una bella vittoria per Air France-Klm”, ma soprattutto “per il suo presidente”.

 Dice Sacconi, altro ventriloquo di Berlusconi:

“Tutti i profeti di sventura sono stati smentiti: ce l’abbiamo fatta, la nuova Alitalia c’è” dice il ministro del Welfare Maurizio Sacconi. Di fronte alle agitazioni che hanno interessato alcuni aeroporti, per il ministro bisogna usare gli strumenti opportuni: “credo che si debba garantire la continuità del servizio – ha spiegato Sacconi – penso che sia davvero giunta l’ora di riformare la regolazione del diritto di sciopero nei servizi di pubblica utilità”.

A proposito di strumenti opportuni per “garantire la continuità del servizio”:

La terza sezione del tribunale civile di Roma si è riservata in merito alla possibilità di inviare gli atti alla Corte costituzionale, per decidere di una eventuale questione di legittimità costituzionale del decreto 138 del 2008, che ha modificato la legge Marzano e ha permesso il commissariamento e la vendita di Alitalia. Lo comunica il Codacons, che ha promosso un giudizio di fronte al tribunale civile per veder annullata “l’ammissione della società Alitalia alla procedura di amministrazione straordinaria”.

Beh, buona giornata.

 

 

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Attualità Popoli e politiche

Gaza: D’Alema tira il sasso, poi nasconde la mano.

“Non c’e’ dubbio che il sovrapporsi della guerra contro Hamas con la campagna elettorale in Israele sia particolarmente sgradevole”. Lo ha detto l’esponente del Pd ed ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, durante la conferenza stampa tenuta oggi presso la sede della Stampa estera a Roma. Sollecitato dalle domande dei giornalisti D’Alema ha pero’ precisato che “e’ improprio parlare, a questo riguardo, di guerra elettorale”. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Pubblicità e mass media

La sfiducia nella fiducia.

 

 Secondo quanto reso noto da Isae, l’Istituto di studi e analisi economica (www.isae.it), la fiducia  è crollata ai minimi storici in Europa sia tra i consumatori che tra le imprese. E’ quanto emerge dalla rilevazione relativa al mese di dicembre, nella quale si  sottolinea che l’indice di fiducia dei consumatori è sceso da -25 a -30 che è il minimo storico dal 1985, anno di inizio della serie storica di riferimento.

In particolare peggiorano le previsioni sulla situazione economica generale e aumentano fortemente le preoccupazioni sull’occupazione. “L’indice continua a calare in Germania, Francia e Spagna” mentre al di fuori dell’area euro “la fiducia si deteriora anche nel Regno Unito”, si legge nel comunicato stampa diffuso da Isae.

La fiducia delle imprese manifatturiere nell’area euro si attesta a -33 da -25 del mese precedente, segnando anche in questo caso un record negativo dal 1985. “Il peggioramento è diffuso ovunque- sostiene Isae- pur essendo particolarmente sensibile in Germania, Spagna e Francia; al di fuori dell’area euro la fiducia migliora, seppur leggermente, nel Regno Unito”.

 

Anche negli Usa, gli indici della fiducia sembrano migliorare leggermente. Per quanto riguarda la fiducia nei consumatori, Isae rileva che l’indice elaborato dal Conference Board subisce un nuovo sensibile calo e si riporta al minimo storico registrato ad ottobre (a 38 da 44,7); peggiorano sia il sottoindice relativo alla situazione corrente (a 29,4 da42,3) sia quello relativo alle aspettative ( a 43,8 da 46,2)

 

Di segno opposto, appare l’indicatore elaborato dall’Università del Michigan, che invece risale a 60,1 (da 55,3); contemporaneamente migliora il sottoindice che raccoglie i giudizi sulla situazione presente (a 69,5 da 57,5), mentre è quasi stabile quello relativo alla situazione futura (a 54 da 53,9).

 

Poiché la politica e le politiche anticrisi giocano un ruolo determinante sull’andamento degli indicatori della fiducia, è evidente il ruolo positivo giocato da Gordon Brown in Uk e, per quanto riguarda gli Usa, il prossimo atteso insediamento alla  Casa Bianca di Barak Obama.

 

Della situazione italiana, Isae si era occupato il 30 dicembre scorso, rilevando il preoccupante crollo  del clima di fiducia tra le imprese italiane. Dalle costruzioni, al commercio ai servizi di mercato l’indice di fiducia registrato dall’Isae a dicembre risulta  in calo, e in alcuni casi scende ai minimi da dieci anni.

L’Istituto di Studi e Analisi Economica aveva diffusi tre diverse inchieste dalle quali emergeva lo stesso dato: le imprese continuano a vedere nero. In particolare, per le costruzioni a novembre l’indice di fiducia delle imprese diminuisce per il terzo mese consecutivo e “si posiziona sul livello più basso registrato da dicembre 1998”.

“In forte caduta”, secondo l’Isae anche la fiducia dei commercianti (in questo caso il dato è di dicembre e non sembrano aver avuto effetto positivo i tradizionali acquisti di Natale): l’indice, considerato al netto della componete stagionale, continua a scendere e, portandosi da 96,9 a 88,8, raggiunge il valore minimo dall’ottobre del 2001″.

Male anche il clima di fiducia nei servizi di mercato: a dicembre l’indice è sceso a -26 da -23 dello scorso mese “a causa del marcato peggioramento – spiega l’Istituto – dei giudizi sugli ordini”.

 

Su base territoriale, l’indice èsceso da 67,6 a 63,8 nel Nord Ovest, da 71,4 a 63,1 nel Nord Est e da 80,0 a 75,8 nel Centro; una sostanziale stabilità si registra invece nelle regioni meridionali, dove l’indice passa da 75,9 a 75,5.

Peggiorate anche le previsioni sull’andamento degli ordini, dei livelli di produzione e della liquidità, contemporaneamente si segnala  un forte peggioramento, nei giudizi e le previsioni sull’andamento del fatturato all’esportazione.

Le imprese hanno confermato le difficoltà di accesso al credito emerse già nell’indagine dello scorso mese di novembre: circa il 13% di quelle che hanno avuto recenti contatti con le banche non hanno ottenuto il finanziamento sperato (era poco più del 14% a novembre). Nella maggior parte dei casi, il mancato finanziamento è stato dovuto a un esplicito rifiuto da parte degli operatori finanziari.

Le banche italiane hanno, dunque, una precisa responsabilità nell’aggravarsi del quadro economico del paese. Nonostante gli fossero stati garantiti aiuti statali in caso di difficoltà, le banche italiane fanno quello che da sempre gli riesce meglio: agiscono sulla leva del credito secondo logiche interne, poco compatibili col sistema delle piccole e medie imprese. Alla faccia di quelli che sostengono che il nostro sistema bancario è sano, è più che chiaro che il sistema bancario è sfacciatamente egoista: sa solo prendere, non intende rischiare. Come si fa ad avere fiducia delle banche se le banche non hanno fiducia nelle famiglie e nelle piccole e medie imprese?

La politica ha una responsabilità precisa e non più rinviabile. Governo e opposizione si rincorrono su una agenda che non ha all’ordine del giorno la reale condizione dell’economia del paese. Che senso hanno polemiche su Giustizia e Federalismo, quando il paese versa in gravi condizioni sociali ed economiche? Il Governo pensa davvero di essersela  già cavata col pacchetto delle misure anticrisi? L’opposizione pensa davvero a qualcuno importi un fico delle beghe sulla questione morale? Le priorità sono i redditi, il precariato, i consumi, il credito alle piccole imprese, mentre l’agenda della politica italiana è ferma a quindici anni fa. Come si fa ad avere fiducia nella politica se la politica non si accorge del crollo di tutti gli indicatori sulla fiducia?

L’informazione ha la sua parte di responsabilità. I giornali appaiono frustrati dalla invadenza dell’informazione-spettacolo fornita dalle tv (tranne rare quanto vituperate eccezioni). I giornali perdono copie, raccolta pubblicitaria e progressivamente autorevolezza. Per questo l’opinione pubblica italiana è frastornata. Non riesce a trovare la consapevolezza di una forte pressione sulla politica perché adotti subito le misure necessarie a non fare del 2009 un anno orribilis.  Gli italiani stanno per pagare il prezzo salato della mancanza di una informazione pluralistica, svincolata dalle alchimie politiche. Come si fa ad avere fiducia nella informazione se l’informazione non ha fiducia nella sue capacità di dire con chiarezza come stanno davvero le cose?

La pubblicità italiana  vive uno dei momenti peggiori dal dopoguerra. In ritardo su tutti i livelli del’innovazione degli strumenti e dei linguaggi, la pubblicità italiana, abbarbicata al totem della tv come veicolo principe della comunicazione commerciale ha finito per delegittimare se stessa, agli occhi delle imprese e a quelli dei consumatori. Quando i consumi crollano, nonostante la forte pressione televisiva, vuol dire che messaggi e veicoli pubblicitari sono nettamente inadeguati alla domanda che proviene dal mercato della comunicazione. Come si fa ad avere fiducia nella pubblicità se la pubblicità rinuncia a costruire fiducia nelle marche da parte dei consumatori?

Il fondamentalismo neoliberista, che crede il mercato sia il demiurgo del benessere nazionale e globale  mostra tutta la sua inconsistenza proprio di fronte alla peggiore crisi dal ’29.

Ha scritto recentemente Zygmunt Bauman:” Molto prima che l’ultima bolla del mercato esplodesse, c’erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra”. (“Così cambia il nostro stile di vita”, Repubblica 10 gennaio).

Quando crolla la fiducia nelle banche, nella politica, nell’informazione e nella pubblicità crolla la fiducia stessa in questo nostro modello di sviluppo. Allora diventa urgente cambiare le regole, non solo del gioco, ma anche dei giocatori in campo. Beh, buona giornata.



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Attualità Finanza - Economia - Lavoro

Italia, paradiso capitalista.

di Hans Suter.

I nuovi azionisti di Alitalia hanno guadagnato, prima ancora che si fosse alzato in volo un solo aereo, il loro bel aggio per la vendita del 25% ad Air France. E questo dopo che lo stato italiano è rimasto con la bad company. Fantastico. Aspettiamo di leggere le lodi dell’operazione sul foglio della Confindustria. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Socializzare le perdite, privatizzare i profitti.”

NON TOCCA A NOI PAGARE LA LORO CRISI! PDF Stampa E-mail
da sdlintercategoriale.it 
 

Appello internazionale già sottoscritto da 30 organizzazioni sindacali tra cui SdL intercategoriale

Partita dagli Stati Uniti, la crisi finanziaria si è estesa al mondo intero, per due ragioni. Innanzitutto, tutti i meccanismi che avrebbero potuto arginarla sono stati distrutti dalla deregulation finanziaria attuata dai governi, che hanno rimosso ogni ostacolo alla libera circolazione dei capitali.

Inoltre, poiché quasi tutte le istituzioni finanziarie del mondo hanno partecipato alla corsa alle speculazioni in ambito finanziario, nessun paese è stato protetto dalla deflagrazione.

 

Questa crisi è la prova del fallimento totale dell’ideologia neoliberista e delle politiche che mirano a mettere le sorti dell’umanità nelle mani del mercato.

Se non fosse in gioco il destino di miliardi di esseri umani, verrebbe da ridere a vedere quelli che erano gli adoratori beati della libera concorrenza, come i nostri governanti, trasformarsi in apostoli dell’intervento dello Stato. Ma questa apparente inversione di tendenza non deve ingannare nessuno.

Perché l’invocato intervento dello Stato è finalizzato a salvare interessi privati, secondo la ben nota regola “socializzare le perdite, privatizzare i profitti”.

Così migliaia di miliardi di denaro pubblico, i nostri soldi, vengono oggi riversati senza batter ciglio nelle tasche di banche e grandi azionisti da salvare, mentre è “impossibile” destinare la minima risorsa a far fronte ai bisogni sociali.

Ma non è tutto. La crisi finanziaria ha colpito l’economia reale, c’è la recessione con il suo strascico di licenziamenti; padroni e governi sono ben decisi a continuare ad attaccare i diritti sociali di lavoratrici e lavoratori, soprattutto sul terreno della previdenza sociale, del welfare e del diritto del lavoro.

Il loro obiettivo è di far pagare la crisi a lavoratrici e lavoratori, predicando l’“unità nazionale” in ogni paese per cercare di indorare la pillola.

In quanto sindacaliste e sindacalisti, noi costruiamo invece la solidarietà internazionale di lavoratrici e lavoratori per contrastarli! Padroni e azionisti si sono ingozzati di dividendi, sgravi fiscali di ogni genere, remunerazioni demenziali e si sono assicurati delle fortune la cui entità supera la comprensione.

Tocca a loro pagare la loro crisi.

A noi tocca il compito di imporre le nostre esigenze sociali. Più che mai, la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori è all’ordine del giorno. Per salvare il loro sistema capitalista, loro si sono organizzati internazionalmente: Il movimento sindacale deve agire al di sopra delle frontiere per imporre un sistema alternativo a quello che sfrutta chi lavora, saccheggia i paesi sottosviluppati, pianifica a tavolino la carestia in gran parte del pianeta… Ovunque ci troviamo, sviluppiamo il conflitto sociale e costruiamo la resistenza comune!

Union syndicale Solidaires (Francia) 

  • Sindacato dei Lavoratori Intercategoriale SdL Intercategoriale (Italia) 
  • Union Syndicale des Travailleurs Kanaks et Exploités USTKE (Kanaky) 
  • Syndicat National Autonome des Personnels de l’Administration Publique SNAPAP (Algeria) 
  • Confederazione Unitaria di Base CUB (Italie) 
  • Confederazione Italiana di Base Unicobas (Italia) 
  • Confederazione COBAS (Italia) 
  • Conseil des Lycées d’Algérie CLA (Algeria) 
  • Syndicat des Travailleurs Corses STC (Corsica) 
  • Syndicat indépendant des écoliers, des étudiants et des apprentis SISA (Suisse) 
  • Syndical libre Agosto 80 (Polonia) 
  • La Fragua (Argentina) 
  • Confederazione Intersindacale (Stato Spagnolo) 
  • Coordinadora Sindical (Stato Spagnolo) 
  • Sindacato dei Lavoratori Andalusi STA (Andalusia) 
  • Intersindacale Canarie 
  • Intersindacale Aragona 
  • Intersindacale Baleari 
  • Intersindacale Valencia 
  • STEE-EILAS (Paesi Baschi) 
  • Corrente sindacale di sinistra Asturia 
  • Confederazione Intersindacale Alternativa d Catalogna IAC (Catalogna) 
  • Central de los Trabajadores Argentinos CTA (Argentina) 
  • Central Unitaria de los Trabajadores CUT (Colombia) 
  • Confédération des Syndicats Autonomes CSA (Sénégal) 
  • Renouveau de l’Action Syndicale RAS (Congo) 
  • Fédération SUD service public (cantone del Vaud, Svizzera) 
  • Syndicat unique des travailleurs des transports aériens et activités annexes du Sénégal SUTTAAAS (Sénégal) 
  • Organisation Démocratique du Travail ODT (Maroc) 
  • Confederacion General del Trabajo CGT (Etat espagnol)

 

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Di seguito la versione in francese, inglese e spagnolo dell’appello

NOUS N’AVONS PAS À PAYER LEUR CRISE !

Partie des Etats-Unis, la crise financière s’est étendue au reste du monde et ce pour deux raisons. Tout d’abord, tous les pare-feux qui auraient pu permettre de la contenir ont été détruits par la déréglementation financière mise en œuvre par les gouvernements, aucune entrave n’étant plus mise à la libre circulation des capitaux. Ensuite, la quasi totalité des institutions financières du monde ayant participé à la course spéculative engagée dans la finance, aucun pays n’a été protégé de la déflagration. Cette crise marque l’échec absolu de l’idéologie néolibérale et des politiques qui visent à confier au marché le sort de l’humanité. Si le sort de milliards d’êtres humains n’était pas en jeu, il serait comique de voir ceux qui, comme tous nos gouvernants, étaient des adorateurs béats de la libre concurrence, se transformer en apôtres de l’intervention de l’Etat. Mais ce changement de posture ne doit tromper personne. Car s’ils décident que l’Etat intervienne, c’est pour sauver des intérêts privés suivant le précepte bien connu : “socialiser les pertes et privatiser les profits”. Ainsi des milliers de milliards d’argent public, notre argent, sont aujourd’hui déversés, sans discuter, pour sauver les banques et les actionnaires, alors qu’il est « impossible » de trouver le moindre sou pour répondre aux besoins sociaux. Mais ce n’est pas tout. La crise financière a touché l’économie réelle, la récession est là avec son cortège de licenciements ; patrons et gouvernements sont bien décidés à continuer à s’attaquer aux droits sociaux des salarié-e-s, notamment en matière de protection sociale ou de droit du travail. Leur objectif est de faire payer la crise aux salarié-e-s en prônant dans chaque pays « l’unité nationale » pour essayer de faire passer la pilule. Syndicalistes, nous construisons la solidarité internationale des travailleurs/ses pour leur répondre ! Les patrons et les actionnaires se sont gavés de dividendes, de cadeaux fiscaux de toutes sortes, de rémunérations démentielles avec, à la clef, des fortunes qui dépassent l’entendement. C’est à eux de payer leur crise. A nous de leur imposer nos exigences sociales. Plus que jamais, la mobilisation des salarié-e-s est à l’ordre du jour ! Pour sauver leur système capitaliste, ils sont organisés internationalement : le mouvement syndical doit agir à travers les frontières pour imposer un autre système que celui qui exploite les travailleurs/ses, pille les pays sous développés, organise la famine d’une partie de la planète, … Partout, développons les luttes sociales, et construisons la résistance commune !

 

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WE DON’T HAVE TO PAY FOR THEIR CRISIS!

Originated in the US, the financial crisis spread to the rest of the world for two reasons. The first of them is that all the firewalls that could have been able to contain it had been destroyed by the financial deregulation put in force by the governments, with no more interference with the free circulation of capital. The second one is that because of the involvement of the world financial institutions into the financial speculative run, no country had been protected from the explosion. This crisis shows the absolute failure of both the neoliberal ideology and policies whose aim is to entrust to the market the future of the humanity. If the destiny of billions of human being were not at stake, it should be comical to see those who, as for example our governments, were blessed worshippers of free competition, transformed into apostle of State intervention. But this move in the posture must not mislead anyone. Because if they decide that the State has to intervene, it’s only in order to save private interest according to the well-known precept: “socialize the losses and privatize the profits”. Thus, thousands of billions of public money, i.e. our money, are to-day poured, without any bargaining, in order to save the banks and the shareholders. At the same time, it is said that it is “impossible” to find out a single penny to satisfy social needs. But that’s not all. The financial crisis impact the “real economy” , the recession is there, with a lot of redundancies. Employers and governments are well decided to attack the social rights of the employees, especially about social protection and labour laws. Their aim is to make the employees pay for the crisis, advocating in each country “national unity” in order to get them to accept that. We have to build up international solidarity to riposte! Employers and shareholders filled up with dividends, tax exemptions, mad remunerations, with fortunes beyond all understanding as well. They have to pay for their crisis. It’s up to us to impose them our social claims. More than ever, the agenda is to mobilize the employees! To save their capitalist system, they are worldwide organize: the trade union movement must act throughout boundaries in order to impose an other system that this one which exploit the employees, pillage the developing countries, organize the famine in a part of the planet….. Everywhere, we have to develop social struggles and build up a common resistance!

 

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NO NOS TOCA PAGAR SU CRISIS!

La crisis financiera arrancó en EE-UU, y se extendió al mundo entero por dos motivos. Primero, todos los cortafuegos que habrían podido mantenerla a raya han sido destruidos por la desregulación financiera implementada por los gobiernos, pues ya no existe ninguna traba para la libre circulación de los capitales. Luego, habiendo participado la casi totalidad de las instituciones financieras del mundo en la carrera especulativa que se da en la banca, ningún país se halló a salvo de la deflagración. Esta crisis significa el fracaso integral de la ideología neoliberal y de las políticas cuya óptica es entregar al mercado la suerte de la humanidad. Si la suerte de miles de millones de seres humanos no estuviera en juego, sería para reírse ver a quienes, como todos nuestros gobernantes, eran adoradores beatos de la libre competencia, convirtiéndose en apóstoles de la intervención del Estado. Pero ese cambio de postura no debe engañar a nadie. Pues si deciden que intervenga el Estado, es para salvar intereses privados según el conocido precepto: “socializar las pérdidas y privatizar las ganancias”. Así billones de dinero público, nuestro dinero, se vierten hoy día sin regatear para rescatar los bancos, mientras que resulta “imposible” encontrar ni un real para responder a las necesidades sociales. Pero hay más: la crisis financiera ha alcanzado la economía real, la recesión está aquí, con su comitiva de despidos; patronos y gobiernos se ven muy resueltos a seguir atacando los derechos sociales de l@s asalariad@s, tanto en la protección social como en el derecho laboral. Su objetivo es hacer pagar la crisis a l@s asalariad@s, pregonando en cada país “unidad nacional” para tratar de que traguemos la píldora. Sindicalistas, vamos construyendo la solidaridad internacional de l@s trabajadores-as para responderles. Los patronos y accionistas se han atiborrado de dividendos, de regalos fiscales de toda clase, de remuneraciones demenciales, que desembocaron en fortunas propiamente inimaginables. A ellos les toca pagarse su crisis. A nosotros, imponer nuestras exigencias sociales. ¡Más que nunca, la movilización de l@s asalariad@s está en la agenda! Para rescatar su sistema capitalista, se han organizado a escala internacional: el movimiento sindical debe actuar a través de las fronteras para imponer otro sistema que no sea el que explota a l@s trabajadores-as, saquea a los países subdesarrollados, organiza el hambre de una parte del planeta… En todas partes, ¡a desarrollar las luchas sociales y a construir la resistencia común! (Beh, buona giornata).

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Attualità

Parte la nuova Alitalia, volano parole grosse.

La Moratti va alla guerra. Ed è gelo con Berlusconi.

di FRANCESCO VERDERAMI, da corriere.it

La «guerra di Letizia» era iniziata giovedì scorso, quando il sindaco di Milano si era presentata scura in volto nell’abitazione romana del premier, scagliandosi contro l’intesa Alitalia-Air France e il ridimensionamento di Malpensa. Ma Berlusconi non avrebbe mai immaginato che la Moratti si sarebbe espressa allo stesso modo in tv. Perché domenica in tv la Moratti ha utilizzato gli stessi concetti, le stesse parole brandite nel colloquio con il premier. Quell’affondo pubblico contro il governo e i «patrioti» dell’ «operazione Az» è stato vissuto dal Cavaliere come un vero e proprio «attacco personale», argomentato con espressioni «ingenerose» e «gratuite».

La «guerra di Letizia» ha messo in subbuglio i palazzi romani della politica e quelli più felpati del mondo economico milanese. Dai vertici societari filtra una «forte irritazione» verso la Moratti, stato d’animo che accompagna il premier da lunedì della scorsa settimana, quando il sindaco si recò nella sede del Carroccio di via Bellerio, dove Umberto Bossi aveva riunito lo stato maggiore leghista per intestarsi la battaglia a difesa di Malpensa e degli «interessi del Nord»: «Che c’è andata a fare? Che bisogno c’era? È sbagliato correre dietro alla Lega. Non è così che si compete con loro. Così si accredita invece l’idea che solo loro rappresentino il Nord». Perciò Berlusconi uscì allo scoperto, perciò pose l’altolà al Senatùr: «Al Nord ci penso io», disse.

Doveva contrastare quelle «manovre elettorali» che danneggiavano la sua immagine e aprivano la competition in vista delle Europee. L’intervista della Moratti a Lucia Annunziata incide, se possibile, in modo ancor più pesante: perché è dal sindaco di Milano —non dall’opposizione e nemmeno dalla Lega—che giungono critiche severe al progetto su cui il premier ha messo la faccia. Non è un caso se tra Berlusconi e la Moratti sia calato il gelo. D’altronde già quel giovedì della scorsa settimana il sindaco aveva interpretato il mancato invito a pranzo con Bossi come un gesto politico prima che di «scortesia». A muso duro era iniziato e si era concluso anche il rendez vous con Colaninno, incontrato a palazzo Grazioli insieme al sindaco di Roma Gianni Alemanno.

La Moratti a più riprese aveva insistito perché tornasse in gioco la compagnia aerea tedesca. «Guarda che non ci hanno offerto nulla, Letizia ». «No Roberto, voi state affossando Malpensa». È stato un crescendo rossiniano. «Noi punteremmo su Malpensa se Linate fosse ridimensionata, altrimenti non si può fare». «Lufthansa è interessata a entrambi gli scali». «È interessata solo a far fallire la trattativa con Air France». «Non è vero, dovete insistere». A quel punto un Colaninno esasperato, ha chiuso il discorso provocatoriamente: «Va bene, Letizia. Se le cose stanno così, chiama subito il presidente di Lufthansa. Chiamalo ora. Digli che sono pronto a cedergli la mia quota di Alitalia, se vuole. Ottanta milioni e la facciamo finita». Sembrava dovesse finire lì, invece la «guerra di Letizia» è proseguita in tv. «È stato imbarazzante ascoltare certe cose dal mio sindaco», commenta il forzista Mario Valducci, che fa capire l’umore nell’inner circle del Cavaliere: «È andata eccessivamente sopra le righe. È stata irriconoscente verso Berlusconi ».

Eppure alla Moratti era chiaro fin da giovedì che sarebbe stata una battaglia solitaria, l’aveva intuito facendo capolino al vertice tra il premier e Bossi, che si erano intanto messi d’accordo sull’intesa Az-Air France e sull’emendamento a favore di Malpensa, presentato poi nel dl anti-crisi. Perciò non si capisce il motivo per cui non si sia fermata. C’è chi rammenta che si è candidata alla guida della città da indipendente, facendo balenare l’incredibile scenario di una rottura con Berlusconi. Ma il Cavaliere, per quanto irritato, troverà il modo di ricucire lo strappo. C’è poi chi, più semplicemente, ricorda il carattere della Moratti. «Letizia è fatta così», commenta olimpico il ministro della Difesa, Ignazio La Russa: «Giovedì scorso mi ha chiamato alle sette di sera. Milano era bloccata sotto la neve e lei aveva bisogno subito di 400 militari per pulire le strade. Mi sono attivato. Mi avesse detto grazie…».

In realtà, al fondo delle tensioni con Berlusconi resta il contenzioso su Expo 2015, quando la Moratti non si è sentita sostenuta dal premier nel braccio di ferro con Giulio Tremonti, che ha accentrato sull’Economia i meccanismi di controllo dei fondi pubblici. Anche Tremonti è stato colpito dagli strali in tv della Moratti. Vecchie ruggini tra i due. Nel 2001, «Giulio» fu sarcastico nel centellinare i soldi per la riforma scolastica: «Letizia, devi capire. Questo è il governo, mica tuo marito». Qualche tempo fa si è ripetuto con una battuta che ha fatto il giro dei ministri: «Politicamente non ne azzecca una. In Francia aveva puntato su Ségolène Royale, in America su Hillary Clinton…». (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

“Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale”.

Pubbblico un ampio stralcio di “Con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano” di EUGENIO SCALFARI, da repubblica.it

(* * *)

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell’economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l’azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L’affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l’altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l’intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l’Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d’una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita “svendita” da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell’azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l’insensatezza di questo “vaudeville” per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c’era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la “Meridiana” il cui amministratore ha scodellato le cifre in un’intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d’amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt’altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l’azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all’ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l’aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

“Malpensa ha tutte le chance per essere l'”hub” (l’aeroporto internazionale) italiano” ha detto il ministro dell’Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un’impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l’opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata “liberalizzazione”, alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola “liberalizzazione” nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l’ha per l’area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell’Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l’ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli “slot”.

Per arrivare ad un’effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l’imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l’elemosina della “social card” finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d’una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell’abolizione dell’Ici e nel costo dell’Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l’evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l’ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l’oceano. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

Crisi: stiamo perdendo fiducia nella fiducia.

Così la crisi cambia il nostro stile di vita

Che cosa temono maggiormente i nostri contemporanei, in particolare gli abitanti delle dieci città più grandi e più importanti del pianeta, e quali sono le loro (e le nostre!) più assillanti e tormentose preoccupazioni, quali le cause più minacciose all’ origine dei loro (e nostri!) incubi (se ne hanno~)?
Dal sondaggio del World Social Survey del luglio 2008 è stato possibile dedurre differenze sbalorditive tra i vari Paesi. Tra le principali preoccupazioni che assillano gli americani in cima all’ elenco ci sono la paura che il loro standard di vita precipiti in un immediato futuro, la paura di perdere il posto di lavoro, il timore che la vita dei loro figli sia più difficile di quella dei loro genitori. Gli americani sono stati i primi a dover stringere la cinghia e ad avvertire la morsa della crisi, poiché gli enti che erogavano mutui subprime, e ancor più coloro che erogavano prestiti, erano nei guai già a luglio.
In Gran Bretagna nessuno di questi cupi presagi ha raggiunto il vertice della classifica delle paure, e nessuno ha trovato posto tra le prime otto preoccupazioni più di frequente citate dagli intervistati. Nel novembre 2008, però – dopo cinque mesi appena – un altro sondaggio ha permesso di apprendere che un britannico su due dormiva meno bene di quanto dormisse sei mesi prima, che uno su quattro si svegliava più di tre volte ogni notte, che due su tre imputavano la loro insonnia soprattutto alla penuria di soldi e allo spettro della disoccupazione.
Uno dei risultati più sconcertanti tra i molteplici della crisi creditizia, è – come possiamo constatare da altre prove e da una consapevolezza comune che si diffonde rapidamente – quanto connesse (anzi, in realtà, interconnesse e reciprocamente dipendenti) siano le nostre vite, le nostre prospettive e le nostre paure nel nostro mondo globalizzato. Non soltanto gli americani e i britannici, che per molti anni hanno vissuto a credito, spendendo e spandendo ben al di sopra dei loro mezzi, ma anche popoli di nazioni relativamente puritane – parsimoniose e prudenti, fiere delle loro esportazioni che superavano le loro importazioni, orgogliose dei loro budget di governo come pure di ogni singolo nucleo famigliare che non precipitavano nell’ insolvenza – avvertono ora queste preoccupazioni e scoprono di colpo che dormire bene di notte è un vero e proprio lusso (come i clienti della Germania, per esempio, che non sono più in grado di permettersi i beni che essa vorrebbe esportare).
In un paese lontano del Queensland in Australia, una giovane che oggi ha 23 anni e si chiama Siobhan Healey alcuni anni fa ha ottenuto la sua prima carta di credito: quello è stato – a suo dire – il giorno della sua emancipazione. Finalmente era libera di poter gestire da sola le proprie finanze, libera di scegliere le sue priorità, libera di far corrispondere i suoi desideri alla realtà. Non molto tempo dopo, la giovane ha chiesto e ottenuto una seconda carta di credito per far fronte agli interessi e ai debiti accumulati sulla prima.
Passato poco tempo ancora, ha appreso altresì il prezzo della sua tanto agognata “libertà finanziaria”, per la precisione nel momento in cui ha scoperto che la seconda carta di credito non bastava a far fronte e a coprire gli interessi dei debiti della prima. Si è quindi rivolta a una banca per ottenere un prestito necessario a saldare gli scoperti di entrambe le carte, che a quel punto avevano già raggiunto la spaventosa cifra di 26.000 dollari australiani. Seguendo però l’ esempio degli amici ha preso in prestito altri soldi ancora, per finanziarsi un viaggio oltreoceano – un must per chiunque abbia la sua età. Adesso, finalmente, è stata assalita dalla consapevolezza di avere pochissime chance di poter mai ripagare da sola il proprio debito, e ha compreso che sottoscrivere sempre più prestiti non è il modo giusto per farlo. E così ha dichiarato – purtroppo per lei, con uno o finanche due anni di troppo – di aver “cambiato completamente mentalità e di aver imparato che per fare acquisti è necessario risparmiare”. Attualmente ha assunto un consulente finanziario, ha interpellato un amministratore e conciliatore che la aiuterà poco alla volta a tirarsi fuori dal baratro nel quale è caduta. Ma costoro la aiuteranno davvero a “cambiare radicalmente mentalità”? Resta da vedere. E quale aiuto trarrà dalle loro lezioni, se nessuno sarà disposto a offrirle un’ altra sospensione della pena? Ben Paris, portavoce di Debt Mediator Australia, non si stupisce né si sconcerta più di tanto: paragona la tragica vicenda di Healey a “giocare al gioco delle sedie sul ponte del Titanic”, per aggiungere quindi senza indugio che è del tutto normale per i giovani “prendere soldi in prestito ben oltre i propri mezzi”, e fa notare che il caso di Siobhan Healey non è affatto unico e fuori dalla norma: «Ogni anno riceviamo 25.000 giovani che sono in situazione critica dal punto di vista finanziario, e questa è soltanto la punta dell’ iceberg».
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, in Germania e in Australia per uomini e donne, per giovani e vecchi è ormai lapalissiano che sono giunti al termine i bei tempi in cui potevano ancora credere che nel caso in cui fossero finiti nei guai ci sarebbe sempre stato qualcuno accanto a loro o nei paraggi disposto in qualche modo a offrire un “prestito ponte” fino al momento in cui le loro fortune non fossero tornate a sorridere loro.
Tre anni fa, mentre raccoglieva materiale per un suo articolo, Tim Adams del londinese Observer riuscì in pochissimo tempo a mettere insieme “la cifra teorica di centomila sterline semplicemente dando ripetutamente il cognome da nubile della madre in qualche telefonata a banche cordiali e società di credito in competizione tra loro per accaparrarsi un nuovo cliente”, mentre di recente non è riuscito a ottenere un’ estensione di diecimila sterline per il mutuo da una società bancaria con la quale ha rapporti da ben quaranta anni.
Molto prima che l’ ultima bolla del mercato esplodesse, c’ erano già numerosi segnali dai quali si evinceva che la fiducia reciproca – il fatto di credere nella serietà, nell’ affidabilità e nella buona volontà altrui – non era poi così grande come avrebbe potuto essere in una società meno liquida e instabile e dunque più prevedibile e affidabile della nostra. Ma l’ esplosione della bolla dei prestiti erogati e sottoscritti ha inferto un duro colpo a quella fiducia, proprio dove più fa male e dove la ferita è più deleteria.
Nel nostro mondo pullulante di rischi, un mondo che ci blandiva, spronava e costringeva a essere temerari e coraggiosi e a proseguire nelle nostre acrobazie al trapezio anche se le reti di sicurezza andavano scomparendo una dopo l’ altra, le banche in fin dei conti si sono presentate come l’ ultimo riparo sicuro, si sono spacciate per l’ ultimo bastione della fiducia: hanno promesso di ammortizzare la nostra caduta, se fossimo mai caduti. E noi abbiamo creduto anche che le banche avrebbero calcolato i rischi meglio di quanto fossimo capaci noi, e che ci avrebbero pertanto difeso dalle temibili conseguenze di mosse azzardate, sconsigliabili e stolte. Il fatto che riconoscessero il nostro status di individui meritevoli di fiducia costituiva una sorta di certificato della nostra sagacia, era la prova indiscutibile della nostra competenza che ci serviva per andare avanti.
Adesso, invece, i direttori di banca hanno perso fiducia nell’ affidabilità di coloro ai quali erogavano i loro prestiti – affidabilità che loro stessi hanno messo maggiorente a rischio, esortando i loro clienti esistenti e i loro aspiranti clienti a vivere al di sopra dei loro mezzi, a spendere soldi non ancora guadagnati e che tutto sommato avevano ben scarse speranze di poter mai guadagnare, rassicurandoli che in caso di necessità il soccorso da parte delle loro banche amichevoli e sorridenti, sempre-pronte-ad-arrivare-anche-con-breve-preavviso non sarebbe venuto meno. Invece, noi tutti abbiamo perso fiducia nell’ affidabilità delle capacità di giudizio delle banche e nell’ attendibilità delle loro promesse. Una volta sparito il sorriso dalle facce benevolenti dei manager di banca, ciò che è affiorato da sotto la maschera non era affatto rassicurante: sinistre e spietate maschere facciali di contenimento di esperti in recupero crediti e agenti addetti agli espropri.
Abbiamo perso fiducia anche nei nostri esperti, nei consiglieri, negli specialisti in previsioni economiche, in coloro che pretendevano di avere una linea diretta con il futuro e di sapere perfettamente come riconoscere le iniziative sicure e prudenti da quelle avventate e stolte. Le banche assumevano – non è forse vero? – i consulenti migliori, quelli che non ci saremmo mai sognati di poter interpellare né tanto meno di retribuire per i loro servigi, e guarda un po’ in quali guai sono finiti! La fiducia – così sembra – sta vivendo tempi quanto mai difficili, come mai prima d’ ora. Non possiamo più seguire la fiducia nello spazio intergalattico nel quale è stata proiettata.
Siamo infatti abituati ad avere a che fare con “questioni di fiducia” a nostra dimensione, umana, modesta: la maggior parte di noi si è imbattuta in questa questione faccia a faccia quando si è trattato di prendere in prestito o di prestare qualche centinaio, forse qualche migliaio di sterline o di euro, al più cento o duecentomila al massimo, nella rara circostanza in cui si comperava una casa o si apriva un’ attività.
Ogni giorno dai giornali apprendevamo che mentre noi eravamo in coda per ricevere magri sussidi statali, le scuole, gli ospedali, i teatri, le ferrovie, i trasporti municipali e altre istituzioni fondamentali per la nostra vita di tutti i giorni dovevano arrabattarsi e farsi in mille per ottenere finanziamenti di un milione o di qualche milione di sterline o di euro che – così sostenevano – avrebbero fatto la differenza tra la normalità e la catastrofe. Adesso su quegli stessi giornali leggiamo che al fine di ripristinare la fiducia tra banche e clienti, occorrono miliardi di sterline o di euro. Anzi, neppure miliardi, ma un numero non meglio quantificato di centinaia di miliardi. Il presidente eletto americano qualche giorno fa ha parlato di un trilione di dollari, nel momento stesso in cui alcuni commentatori facevano notare che le misure e i provvedimenti che egli ha in mente di realizzare costeranno molto, molto di più.
Come ha calcolato Tim Adams, le cifre sbandierate in questi giorni in relazione al probabile costo che comporterà il ritorno alla normalità è equivalente (in valori attuali) all’ importo complessivo speso per il Piano Marshall (l’ Italia e Trieste ricevettero, per procedere alla ricostruzione post-bellica, poco più di un miliardo di dollari del budget complessivo previsto dal Piano Marshall e corrispondente a poco più di 12 miliardi di dollari), per il programma spaziale della Nasa e per la guerra del Vietnam. Tale cifra mette a dura prova la nostra comprensione. Va al di là di quello che riusciamo anche solo a immaginare.
Non siamo più saggi e non sappiamo che cosa fare di più (al di là di quello che noi, intesi come voi e io, possiamo singolarmente fare), non più di quanto saremmo e sapremmo fare se ci fosse stato detto che i ministri delle Finanze nel loro meeting d’ emergenza indetto per un certo giorno avessero convocato una schiera di angeli e l’ avessero fatta arrivare sulla Terra per porre rimedio a ciò che noi – indolenti esseri umani – abbiamo così rovinosamente distrutto. Unica reazione ragionevole dovrebbe sembrarci la preghiera, se solo sapessimo a quale arcangelo in carica indirizzare debitamente le nostre invocazioni.
E’ troppo presto per dire se la crisi finanziaria ci stia cambiando e se all’ uscita dal tunnel saremo di fatto diversi. Per quanto riguarda la prognosi, ammiro – anche se non necessariamente invidio – gli esperti che non avendo apparentemente perduto un briciolo della loro fiducia in loro stessi, malgrado tutti i rovesci di fortuna e il fatto di averci rimesso la faccia, si precipitano a fare previsioni su quanti lavoratori complessivamente perderanno il loro posto di lavoro prima che torni a esserci un certo benessere, a che ora dell’ anno prossimo o di quello dopo ancora le banche riprenderanno a erogare prestiti e noi potremo ricominciare a chiederli, e a quali comodità della nostra esistenza dovremo rinunciare temporaneamente o per sempre: la cena al ristorante? Le vacanze all’ estero? I regali di Natale? Gli alimenti biologici, per altro costosi? Temo che, come il resto di noi, gli esperti siano sopraffatti dalla smisurata entità di questo enorme problema col quale siamo attualmente alle prese. Come i generali, anche loro combattono le battaglie del passato, le uniche che conoscono~
Ma il crollo collettivo di quella fiducia che aveva caratterizzato, sorretto e mantenuto nei binari la nostra esistenza nei decenni recenti, e la sua fuga nel regno dell’ inimmaginabile, non hanno sicuramente precedenti, e pertanto non vi è alcuna ovvia e naturale lezione di storia che possiamo trarre e mandare a mente. L’ unico confronto storico che sembra all’ altezza della nostra situazione è quello con Winston Churchill che dichiarò, proprio mentre stava per diventare palese a tutti, che l’ unica strada verso la vittoria che egli si sentiva di poter responsabilmente promettere alla nazione in difficoltà, era quella che prevedeva ancora più sudore, più fatica, più sacrifici~ (Beh, buona giornata). 
Traduzione di Anna Bissanti
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Crisi: il piano di Obama non è minimamente adeguato. Parola di Paul Krugman.

Il piano obama non basta

«Non credo che sia troppo tardi per cambiare direzione, ma lo sarà se non adotteremo quanto prima provvedimenti drastici. Se non faremo nulla, questa recessione potrà durare anni».Questo è ciò che ha dichiarato giovedì scorso il presidente eletto Barack Obama, spiegando perché l’ America ha bisogno che il governo reagisca alla depressione economica in modo estremamente aggressivo. Ha ragione.
Questa è la crisi economica più pericolosa dai tempi della Grande Depressione, e potrebbe facilmente trasformarsi in una prolungata recessione. Tuttavia la ricetta di Obama non è all’ altezza della sua diagnosi. Il piano da lui suggerito non è energico come le parole che ha usato per la minaccia economica. In realtà, esso è al di sotto di quanto sarebbe necessario. Consideriamo quanto è grande l’ economia americana. In presenza di una domanda adeguata alla capacità produttiva, nei prossimi due anni l’ America potrebbe produrre beni e servizi per un valore di oltre 30 miliardi di dollari. Ma con la flessione dei consumi e degli investimenti si sta aprendo un enorme divario tra ciò che l’ economia americana è in grado di produrre e ciò che è in grado di vendere.
E il piano di Obama non è minimamente adeguato a riempire questo “scarto produttivo”. Agli inizi di questa settimana, il Congressional Budget Office (CBO) ha reso nota la sua ultima analisi del bilancio e del panorama economico. Il CBO ha spiegato che, in assenza di un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe salire al di sopra del 9 per cento già agli inizi del 2010 e rimanere elevato per gli anni successivi. Per quanto tetra, tuttavia, questa previsione, è in realtà ottimistica, se paragonata ad alcune previsioni indipendenti.
Obama stesso ha ripetuto che, senza un piano di stimolo, il tasso di disoccupazione potrebbe diventare a due cifre. Nondimeno, anche il Congressional Budget Office afferma che “nei prossimi due anni la produzione economica sarà mediamente del 6,8 per cento al di sotto del suo potenziale”. Ciò si traduce in una perdita di produzione di 2,1 trilioni di dollari.
«La nostra economia potrebbe rimanere di un trilione di dollari al di sotto della sua piena capacità», ha dichiarato giovedì scorso Obama. Bene, in realtà egli ha sottostimato la situazione. Per ridurre uno scarto di oltre 2 trilioni di dollari -forse molti di più, se le previsioni del CBO dovessero rivelarsi troppo ottimistiche – Obama presenta un piano da 775 miliardi di dollari. E ciò non è sufficiente. A volte, lo stimolo fiscale può avere un effetto “moltiplicatore”: oltre agli effetti diretti degli investimenti nelle infrastrutture sulla domanda, per esempio, ve ne può essere anche un altro, in quanto profitti più elevati portano ad una maggiore spesa destinata ai consumi. Le valutazioni medie suggeriscono che un dollaro di spesa pubblica aumenta il Pil di circa 1 dollaro e mezzo. Tuttavia, solamente il 60 per cento del piano di Obama consiste in spesa pubblica. Il resto è composto da tagli fiscali – e molti economisti sono scettici sulla misura in cui molti di questi tagli, in particolare quelli destinati alle attività economiche, potranno effettivamente incoraggiare la spesa (numerosi senatori Democratici condividono questi dubbi).
Howard Gleckman, dell’ organismo indipendente Tax Policy Center, li ha riassunti nel titolo di un recente post del suo blog : “molti dollari, non un grande affare”. La sostanza è che non è probabile che il piano di Obama possa ridurre di più della metà l’ incombente scarto produttivo, e facilmente potrebbe svolgere meno di un terzo del compito che è chiamato ad assolvere. Perché Obama non cerca di fare di più? E’ il timore di far aumentare il debito a limitare il suo piano? Vi sono dei pericoli collegati al prestito governativo su vasta scala – e il rapporto del CBO di questa settimana per l’ anno in corso prevede un deficit di 1,2 trilioni di dollari. Tuttavia, sarebbe ancora più pericoloso intervenire in modo inadeguato nel salvataggio dell’ economia.
Giovedì scorso, il presidente eletto ha parlato in modo eloquente e preciso circa le conseguenze dell’ inazione -esiste un rischio reale di scivolare in una prolungata trappola deflazionistica di tipo giapponese- ma le conseguenze di un’ azione inadeguata non sono molto migliori. E’ la mancanza di opportunità di spesa a limitare il suo piano? Esiste soltanto un numero limitato di progetti di investimento pubblico “shovel-ready”, vale a dire, progetti a cui può essere dato inizio abbastanza rapidamente da riuscire ad aiutare l’ economia nel breve termine. Tuttavia, vi sono altre forme di spesa pubblica, specie nel campo dell’ assistenza sanitaria, che possono fare del bene e allo stesso tempo favorire l’ economia nel momento del bisogno. Oppure il piano è limitato dalla prudenza politica? Lo scorso dicembre alcuni servizi giornalistici indicavano che gli assistenti di Obama erano ansiosi di mantenere il costo finale del piano economico al di sotto della soglia, politicamente sensibile, del trilione di dollari.
C’ è stato anche chi ha suggerito che l’ inclusione nel piano di ampie riduzioni fiscali per le attività commerciali , che vanno ad aggiungere il loro costo ma che faranno ben poco per l’ economia, sia un tentativo di conquistare voti Repubblicani al Congresso. Qualunque sia la spiegazione, il piano di Obama non sembra adeguato alle necessità dell’ economia. Certo, un terzo di pagnotta è meglio di niente. Ma in questo momento abbiamo di fronte due gravi divari economici: quello tra il potenziale economico e il suo probabile rendimento e quello tra l’ austera retorica economica di Obama e il suo deludente piano. (Beh, buona giornata).
Copyright New York Times (Traduzione di Antonella Cesarini) 
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Il dilemma storico di Israele:”puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?”.

Il fardello dell’uomo israeliano
 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Non molto tempo prima dell’offensiva contro Gaza, il premier israeliano Ehud Olmert pose a se stesso e al proprio popolo una domanda gelida, senza precedenti. Una domanda non concernente i valori e la morale, ma la pura utilità.

Era il 29 settembre, e in un’intervista a Yedioth Ahronoth denunciò quarant’anni di cecità: quella d’Israele e la propria. Disse che era arrivato il momento, non rinviabile, in cui lo Stato doveva mutare natura e scegliere come vivere e sopravvivere: se guerreggiando in permanenza, o cercando la pace coi vicini.

Non negò le colpe di Hamas e di molti Stati arabi, ma invitò i connazionali a concentrarsi sul «proprio fardello di colpa». Il fardello consisteva negli automatismi del pensiero militarizzato: «Gli sforzi di un primo ministro devono puntare alla pace o costantemente aspirare a rendere il paese più forte, più forte, più forte, con l’obiettivo di vincere una guerra?».

Aggiunse che personalmente non ne poteva più di leggere i rapporti dei propri generali: «Possibile che non abbiano imparato assolutamente nulla? Per loro esistono solo i carri armati e la terra, il controllo dei territori e i territori controllati, la conquista di questa e quella collina. Tutte cose senza valore». L’unico valore da ritrovare era la pace, perseguibile a un’unica condizione: liquidando le colonie, restituendo «quasi tutti se non tutti i territori», dando ai palestinesi «l’equivalente di quel che Israele terrà per sé». Alla Siria andava reso il Golan, ai palestinesi parte di Gerusalemme. Così parlò il primo ministro d’Israele, non un preconcetto nemico dello Stato ebraico e del suo popolo.

Da queste parole sembra passato un tempo enorme e oggi non sono che fumo e fame di vento, come nel Qohèlet. Allora l’opportunità era imperativa, vicina. Nemmeno tre mesi dopo, la guerra è decretata «senza alternative». Allora Olmert pareva ascoltare gli intellettuali contrari alle soluzioni belliche: da Tom Segev a Gideon Levy a Abraham Yehoshua che tra i primi, su La Stampa, ha invocato negli ultimi giorni la tregua. Tre mesi dopo il pensiero militarizzato si riaccende e il dissenso si dirada. Non restano che Segev, Gideon Levy, Yossi Sarid. Perfino Yehoshua considera vana una reazione proporzionata ai missili di Hamas «perché la capacità di sopportazione e resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani». La domanda gelida di Olmert, a settembre, era la seguente e resta valida: «Che faremo, dopo aver vinto una guerra? Pagheremo prezzi pesanti e dopo averli pagati dovremo dire all’avversario: cominciamo un negoziato».

Secondo Olmert, Israele era a un bivio: «Per quarant’anni abbiamo rifiutato di guardare la realtà con occhi aperti (…). Abbiamo perso il senso delle proporzioni».
Non poche cose s’intuiscono, anche se ai giornalisti è vietato il teatro di guerra. Quel paesaggio che da giorni vediamo sugli schermi, alle spalle dei reporter, è praticamente tutta Gaza: non più di 40 chilometri di lunghezza, 9,7 chilometri di profondità. Con 360 chilometri quadrati, Gaza è più piccola di Roma e abitata da 1,5 milioni di palestinesi.

Inevitabile che in un lembo sì minuscolo i civili abbattuti siano tanti (metà degli uccisi, secondo alcuni). Inevitabile chiedersi se i governanti israeliani non persistano nella cecità, quando negano che la loro guerra sia contro i civili e un disastro umanitario.
Israele ha serie ragioni da accampare: i missili di Hamas sulle città del Sud, da anni e malgrado il ritiro unilaterale voluto da Sharon nel 2005, generano angoscia e collera indicibile, anche se i morti non sono molti. Ma ci sono cose non dette, in chi giustamente s’indigna: cose che questi ultimi nascondono a se stessi, dure da ammettere, non vere.
Non è vero, innanzitutto, che lo Stato israeliano reagisca senza voler penalizzare i civili.

Bersagliando i luoghi da cui partono i missili di Hamas, esso sa che subito Hamas e i missili si sposteranno altrove, e che in quei luoghi non resteranno che i civili: vecchi, donne, bambini. Lo dicono essi stessi, ai giornalisti: «Quando parte un missile vicino alle nostre case, scuole, moschee, sappiamo che non Hamas sarà colpito, ma noi». La domanda è tremenda: come spiegare agli abitanti di Gaza la differenza con rappresaglie che, come a Marzabotto, sacrificarono centinaia di civili al posto di introvabili partigiani?
Secondo: non è vero che non esistessero alternative all’attacco aereo e terrestre. Se la tregua con Hamas non ha funzionato, è perché mai iniziò veramente. Perché i coloni avevano evacuato la Striscia ma Israele manteneva il controllo dei cieli, del mare, dei confini. Il cessate il fuoco negoziato a giugno prevedeva la fine del lancio di missili palestinesi ma anche la rimozione del blocco di Gaza, imputabile a Israele. I missili son diminuiti, anche se non scomparsi: ne cadevano a centinaia tra maggio e giugno, ne son caduti meno di 20 nei quattro mesi successivi. Nulla invece è accaduto per il blocco.

Questo è il «fardello di colpe» israeliane, non piccolo, e ancora una volta la geografia aiuta a capire. Dice il governo d’Israele che dal 2005 Gaza appartiene ai palestinesi, ma che non è servito a nulla. È falso anche questo, perché Gaza essendo priva di autonomia non è messa alla prova. Non le manca solo il controllo dell’aria, del mare. Ci sono sei punti di passaggio che dovrebbero consentire il transito di cibo, acqua, elettricità, uomini (lungo la frontiera con Israele il valico Erez a Nord, i valichi Nahal Oz, Karni, Kissufim, Sufa a Est; ai confini con l’Egitto il valico Rafah) e tutti sono chiusi. Per una briciola come Gaza è impossibile vivere senza rapporti coll’esterno, ed essi sono bloccati da quando Hamas ha vinto le elezioni e rotto con Fatah. Anche in tal caso un’intera popolazione paga per i politici, e quando il cardinale Martino parla di campo di concentramento (altri parlano di prigione a cielo aperto) non s’allontana dai fatti. I tunnel servono a contrabbandare armi, è vero. Ma anche a trasportare cibo, medicine, pezzi industriali di ricambio. Il disastro umanitario a Gaza non comincia oggi. E quel milione e mezzo è lì perché cacciatovi dall’esercito israeliano nel ’48.
La punizione è parola chiave, in numerose guerre israeliane. Ma la punizione en masse dei civili non punisce in realtà nessuno, e accresce ire omicide nei contemporanei e nei discendenti. È una sorta di vendetta esibita. È guerra terapeutica che libera da inibizioni morali, guerra fatta per roteare gli occhi, scrive Yossi Sarid (Haaretz, 9 gennaio). È non solo feroce, ma vana. I missili di Hamas continuano a colpire e hanno addirittura allungato la gittata: ormai colpiscono Beer Sheva (36 chilometri dalla centrale atomica di Dimona) e la base di Tel Nof (27 chilometri da Tel Aviv).

Gaza e Cisgiordania sono più che mai interdipendenti. Quel che accade in Cisgiordania ha pesato amaramente su Gaza, e pesa ancora. In questo caso sì: non c’è alternativa alla decolonizzazione e al ritiro. Anche Israele, come tanti imperi, deve passare di qui. Deve smettere di separare i teatri d’azione: di edificare nuove colonie ogni volta che negozia o ogni volta che guerreggia su altri fronti, in Libano o a Gaza. È quello che teme anche oggi Dror Etkes, coordinatore dell’associazione israeliana Yesh Din (volontari per i diritti umani): «Posso certificare che proprio in queste ore stanno spianando terre in Cisgiordania per una nuova colonia presso Etz Efraim, e per un avamposto presso Kedumim». In un libro di Idith Zertal e Akiva Eldar (Lords of the Land, New York 2007) è scritto che la pace è irraggiungibile se non si riconosce che ogni singola colonia, e non solo i cosiddetti avamposti illegali, viola la legge internazionale; se non ci si spoglia dell’ossessione delle armi e delle terre idolatrate, che Olmert stesso ha denunciato poche settimane fa. (beh, buona giornata).

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L’Antitrust e le banche italiane:”Un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza.”

Il conto al consumatore
 
di FRANCESCO MANACORDA da lastampa.it
E dunque – ci spiega l’Antitrust – i salotti buoni del capitalismo sono presumibilmente salotti dove ci si annoia parecchio: sempre le solite facce; sempre tutti assieme senza troppe distinzioni tra amici e nemici, concorrenti o alleati; sempre tante poltrone occupate da pochi noti e mai una ventata d’aria nuova.
Ci si annoia, ma – dato non secondario – si esercita un potere vero. E un potere tanto più forte perché autoreferenziale.

Basta mettere a confronto le tabelle dell’Autorità con le cronache finanziarie di questi anni – ma anche di qualche decennio fa, proprio a dimostrazione di un sistema bloccato – per vederlo con chiarezza. Sono le Assicurazioni Generali e Mediobanca i grandi gruppi dove si affolla il maggior numero di azionisti che sono anche concorrenti delle società, ossia che di lavoro fanno gli assicuratori o i banchieri. E ancora questi due nomi, assieme alla Premafin dei Ligresti, a Intesa Sanpaolo e alla roccaforte della finanza cattolica lombarda Ubi Banca, sono quelli che spiccano nella classifica delle società dove trionfano i recordmen delle cariche incrociate. Un’intesa cordiale che attraversa il fior fiore della finanza di casa nostra e il cui conto – questo l’indagine Antitrust non lo dice, ma i confronti internazionali sui costi dei servizi finanziari sono lì a dimostrarlo – lo paga il consumatore.

Certo, dopo le tempeste finanziarie che hanno spazzato via tanta finanza anglosassone con relativa pretesa di superiorità etica e funzionale, ci sarà anche chi cercherà di dimostrare che il rugginoso sistema italiano non è così malvagio: avremo pure banchieri inamovibili, ma da queste parti ancora non si è visto un Bernie Madoff. Il punto però non è questo, bensì il fatto che – patologie alla Madoff a parte – un sistema così bloccato è un sistema che in una certa misura assicura dai rischi, ma di sicuro elimina a monte molte opportunità: siano quelle di potenziali concorrenti che si vedono la strada bloccata da una concentrazione anche informale come quella che si crea nella riservatezza dei consigli d’amministrazione, e per questo ancor più difficile da affrontare, o quelle dei consumatori. E che il bilancio tra rischi evitati e opportunità perdute alla fine sia positivo è tutto da dimostrare.

Ma in fondo è miope anche gettare tutte le colpe sulle stanze chiuse del capitalismo. I risultati dell’indagine Antitrust si possono allargare ben oltre quei confini – per quanto significativi – arrivando a definire un vero e proprio carattere nazionale che postula il prevalere della corporazione sulla concorrenza, l’affermarsi della pura e semplice relazione su qualsiasi criterio di merito. Se ne trovano tracce ovunque, anche scendendo le scale che portano dall’empireo della grande finanza al mondo reale: dai piloti Alitalia sicuri che senza di loro non si vola, ai notai davanti ai quali si blocca ogni semplificazione burocratica, passando per farmacisti, tassisti, dinastie universitarie. E anche per i giornalisti, tuona chi propone di abolirne l’ordine professionale.

Poco da meravigliarsi, allora, se il tema civile prima ancora che politico del conflitto d’interessi è affondato in Italia per anni nella palude del dibattito a oltranza fino a scomparire definitivamente. L’affermarsi di quello che Guido Rossi ha chiamato il «conflitto endemico» nasce anche da un terreno assai propizio dove nessuno ha interesse a riconoscere il conflitto d’interesse altrui perché troppo spesso ne ha a sua volta un altro da difendere. E dove alla concorrenza si preferisce troppo spesso la connivenza: seduti nello stesso cda o magari in due botteghe o due scrivanie vicine. (Beh, buona giornata).

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