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“Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?”

di STEFANO RODOTA’ da repubblica.it

Torna un’espressione che sembrava confinata nel passato – “legge truffa”. Ed è giusto che si dica così, perché non altrimenti può essere definito il testo preparato dalla maggioranza per introdurre nel nostro sistema le “direttive anticipate di trattamento” (o testamento biologico) e che, in concreto, ha l’opposto obiettivo di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone. Non solo per quanto riguarda il morire, ma incidendo più in generale sulla possibilità stessa di governare liberamente la propria vita.

Poiché, tuttavia, si discute di fondamenti, appunto dello statuto della persona e del rapporto tra la vita e le regole giuridiche, bisogna almeno fare un tentativo di andar oltre la rozzezza delle argomentazioni che ci hanno afflitto in queste difficili settimane e che rischiano di trascinarsi anche nell’immediato futuro.

Due ammonimenti dovrebbero guidare chi si accinge a legiferare sulla dignità del morire. Il primo viene da un grande giudice americano, Oliver Wendell Holmes: “Hard cases make bad laws”, i casi difficili producono leggi cattive. Questa affermazione lapidaria è stata variamente interpretata e discussa, ma se ne può cogliere il nocciolo nell’invito a separare la legge dall’occasione, la creazione di una norma destinata a durare dall’emozione di un momento. Rischia di accadere il contrario. L’ossessione della turbolegge (ieri in tre giorni, oggi in tre settimane) possiede la maggioranza e frastorna il Pd. Non riflessione pacata, ma frettolosa imposizione di norme incuranti della loro coerenza interna e, soprattutto, della loro conformità alla Costituzione.

Il secondo ammonimento è nell’alta riflessione di Michel de Montaigne: “La vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme”. Quest’intima sua natura fa sì che la vita appaia come irriducibile ad un carattere proprio del diritto: il dover essere eguale, regolare, uniforme. Da qui, da quest’antico conflitto, nascono le difficoltà che oggi registriamo, più intense di quelle del passato perché l’innovazione scientifica e tecnologica fa progressivamente venir meno le barriere che le leggi naturali ponevano alla libertà di scelta sul modo di nascere, vivere, di morire.

L’occhio del giurista, e del politico, deve registrare questa difficoltà, e cogliere le novità del quadro. Da una parte, l’impossibilità di continuare ad usare il diritto secondo gli schemi semplici del passato, pena la sua inefficacia, la sua riduzione a puro strumento autoritario, la perdita di legittimazione sociale. E, dall’altra, l’ampliarsi delle possibilità di scelta che appartengono alla libertà individuale, che riguardano solo la propria vita, e che per ciò non possono essere sacrificate da mosse autoritarie, da imposizioni ideologiche, senza violare l’eguale libertà di coscienza.

La legge, dunque, deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d’un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all’irriducibile unicità di ciascuno – la vita, appunto. Quando ciò è avvenuto, libertà e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso “la rivoluzione del consenso informato” nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell’esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L’autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle “protettive”.

Riconoscere l’autonomia d’ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente. Non a caso, riflettendo proprio sul consenso informato, si è detto che questo strumento, sottraendo il corpo della persona alle pretese dello Stato e al potere del medico, aveva fatto nascere “un nuovo soggetto morale”.

Se il testo sul testamento biologico proposto dalla maggioranza dovesse diventare legge, sarebbe proprio questo soggetto a scomparire. Ma qui s’incontra un altro, e ineludibile, ammonimento, l’articolo 32 della Costituzione. Ricordiamone le ultime parole: “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. è, questa, una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato.

Siamo di fronte ad una sorta di nuova dichiarazione di habeas corpus, ad una autolimitazione del potere. Viene ribadita, con forza moltiplicata, l’antica promessa che il re, nella Magna Charta, fa ad ogni “uomo libero”: “Non metteremo né faremo mettere la mano su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Il corpo intoccabile diviene presidio di una persona umana alla quale “in nessun caso” si può mancare di rispetto. Il sovrano democratico, una assemblea costituente, ha rinnovato la sua promessa di intoccabilità a tutti i cittadini.

La proposta della maggioranza si allontana proprio da questo cammino costituzionale. Nega la libertà di decisione della persona, riporta il suo corpo sotto il potere del medico, fa divenire lo Stato l’arbitro delle modalità del vivere e del morire. Le “direttive anticipate di trattamento”, di cui si parla nel titolo, non sono affatto direttive, ma indicazioni che il medico può tranquillamente ignorare, con un grottesco contrasto tra la minuziosità burocratica della procedura per la manifestazione della volontà dell’interessato e la mancanza di forza vincolante di questa dichiarazione, degradata a “orientamento”. La libertà della persona viene ulteriormente limitata dalle norme che indicano trattamenti ai quali non si può rinunciare e, più in generale, da norme che vietano al medico di eseguire la volontà del paziente, anche quando questi sia del tutto cosciente.

Tutto questo ha la sua origine in una premessa che altera gravemente il quadro costituzionale, poiché si afferma che “la Repubblica riconosce il diritto alla vita inviolabile e indisponibile”. Ora, se è ovvio che nessuno può disporre della vita altrui, altrettanto ovvio dovrebbe essere il principio che vuole ogni persona libera di rifiutare la cura, qualsiasi cura, disponendo così della sua vita. Proprio questo diritto viene illegittimamente negato quando si vieta al medico “la non attivazione o disattivazione di trattamenti sanitari ordinari e proporzionati alla salvaguardia della sua vita o della sua salute, da cui in scienza e coscienza si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente”. Conosciamo, infatti, infiniti casi in cui persone hanno rifiutato interventi sicuramente benefici – dalla dialisi, alla trasfusione di sangue, all’amputazione di un arto – decidendo così di morire. Si introduce così un “obbligo di vivere”, che contrasta proprio con i diritti fondamentali della persona.
E’ abusivo anche il divieto di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione, definite “forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze”, con una inquietante deriva verso una “scienza di Stato”. Quella affermazione, infatti, è quasi unanimemente contestata dalla scienza medica, sì che un legislatore rispettoso davvero dei diritti delle persone dovrebbe, se mai, limitarsi a prevedere modalità informative tali da mettere ciascuno in condizione di valutare e decidere liberamente, davvero in “scienza e coscienza”: ma, appunto, scienza e coscienza della persona, non del medico o di un legislatore invasivo. E si tratta pure di una affermazione puramente ideologica, che ha come unico fine quello di continuare a gettare un’ombra sulla conclusione della vicenda di Eluana Englaro. Inoltre, dietro il nominalismo della distinzione tra “trattamento” e “sostegno”, si coglie la volontà di aggirare l’articolo 32, dove l’imposizione di trattamenti obbligatori è legata a situazioni particolari o eccezionali (vaccinazioni obbligatorie in caso di epidemia). Questa prepotenza legislativa si concreta anche in un trasferimento di enormi poteri ai medici, caricati di responsabilità che li indurranno ad assumere atteggiamenti fortemente restrittivi, così trasformando la proclamata “alleanza terapeutica” con il paziente in una situazione che prepara nuovi conflitti che, alla fine, saranno ancora i giudici a dover decidere.

Delle molte sgrammaticature giuridiche di quel testo si potrà parlare in un’altra occasione. Ma qui conviene concludere con una domanda francamente politica. Nonostante il terrorismo mediatico, con le sue accuse al “partito della morte”, una salda maggioranza di cittadini continua a dichiarare che debba essere solo la persona a dover decidere della sua vita. Chi li rappresenterà in Parlamento, vista la debolezza dimostrata finora dal Partito democratico?  (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Guido Ceronetti sul caso Eluana: “Dobbiamo un po’ tutti ri-imparare a morire: dunque a vivere e a trascendere la morte.”

di GUIDO CERONETTI da lastampa.it
Non permettiamo che si raffreddi. Il caso Englaro va riattizzato costantemente: che davanti a quel Golgotha arda un lume sempre. Tutti dobbiamo gratitudine a quella vittima sacrificale e alla sua famiglia: perché la passione civile non finisca in una cloaca e la passione etica e religiosa trovino altre e ben diverse, e superiori, vie.

Si sono visti stormi di avvoltoi, sulla breve agonia di Udine, scendere in picchiata a disputarsi i resti di una creatura disfatta e sfamarsi a beccate ignobili di qualcosa che già più non era e che altro non aveva da offrirgli, tetri pennuti ciechi, che carne di sventura.

Tale lo spettacolo, da iscrivere nel tragico delle cronache italiane che non avranno uno Stendhal per trascriverle. L’Italia, se qualcuno vorrà capirla sine ira et studio, non è un luogo pacifico, non è una penisola turistica, non è un animale da stabulario economico – l’Italia è, è stata sempre, una città di risse feroci, di brigantaggio, di vendette, di medioevi e di cattivi governi. Gli avvoltoi, che non si annidano soltanto sulle torri dei Parsi a Benares, hanno voliere, spalti, e più d’una cupola anche a Roma, e non c’è televisione o campo di calcio in grado di oscurarne la presenza e il volo. Qua, dunque, non si può vivere avendo per fine esclusivamente il far soldi e pensare alla salute. Qua si nasce perché l’Italia ci faccia male, ci ferisca, ci sia una madre crudele, inzuppata di sadismo. Vederlo o non vederlo: that is the question.

L’imbarbarimento di profondità, progressivo, non è da statistiche. Puoi vederlo chiaramente anche lì: nel pullulare di cure mediche di spavento, nell’ignorare i limiti sacri della vita, i diritti dei morenti e di «nostra sirocchia morte corporale» – cure di coma irreversibili criminalmente protratti, cure che la tecnomedicina, settorialista e antiolistica, sempre più andrà sperimentando sulla totalità del vivente.

L’Italia debole, che con strenuo sforzo – in cui va compreso il tributo di una risalita coscienza collettiva, di risorse d’anima e mentali inapparenti, antiavvoltoio, di pensieri silenziosi ma renitenti ai ricatti e alle violenze verbali dell’estremismo cattolico, materialista e anticristico – ha liberato dalle catene Eluana, è un resto di Italia dei giusti, di Italia che sa giudicare umanamente e cerca la libertà nella legge, che non accetta che l’impurità più grossolanamente sofistica prevalga sulla verità semplice e pura.

Dobbiamo un po’ tutti ri-imparare a morire: dunque a vivere e a trascendere la morte. Comprendere l’insignificanza della vita e dell’esistenza materiale è luce in tenebris.

Per chi, pensando, ritenga che la vera salvezza consista nel liberarsi dalla schiavitù delle rinascite in corpi mortali, Eluana col suo lungo martirio avrà meritato la tregua nirvanica, e non tornerà in mondi come questo a patire sondini e beccate di avvoltoi – condannati, per loro intrinseca natura, a commettere empietà.

Da cristiani autentici si sono comportate le Chiese evangeliche: schierate dalla parte di Eluana, hanno voluto ricordare che un essere umano non è soltanto un aggregato scimmiesco di funzioni e che è delitto tradirne l’anelito al padre ignoto al di là del finito.

Il combattimento spirituale è brutale. La meno ingiusta Italia, che assumerà Eluana per segno, non deve temere di accettarlo, di restare unita, respinto l’avvoltoio, per la pietà e la luce. (Beh, buona giornata).

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

” l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende.”

da ilmessaggero.it

Oltre ai conti sempre più in picchiata precipita anche l’indice della credibilità delle aziende in Italia: in un solo anno è passato dal 41% al 27%.

È quanto emerge dalla decima edizione del Trust Barometer, l’indagine annuale che Edelman conduce ogni anno fra gli opinion leader di 20 Paesi attraverso l’istituto di ricerche controllato StrategyOne.

Secondo la rilevazione, l’Italia è il Paese europeo con il più basso livello di credibilità nei confronti delle aziende. A livello globale il 65% degli opinion leader (il 61% in Italia) sono favorevoli ad un maggiore controllo da parte dello Stato nei confronti del mondo aziendale.

La perdita di fiducia nel sistema imprenditoriale è un fenomeno che riguarda molti dei Paesi colpiti dalla crisi economica, ma è più marcata in Italia (meno 14%), mentre cresce la fiducia nel governo, cala la credibilità dei media e nelle Ong rispetto ai dati del 2008.

L’Italia ha più fiducia nelle istituzioni governative (32%) rispetto alle aziende (27%), ed è il Paese nel mondo che ha minor fiducia nel settore aziendale (27%). Il 61% chiede che il Governo imponga regole più strette e un controllo più ferreo su tutti i settori del business. (Beh, buona giornata)

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Botte da orbi tra Mediaset e Sky. La pubblicità sta a “guardare”.

Sky non ha fatto nemmeno in tempo ad annunciare ufficialmente l’arrivo di Fiorello  che Mediaset  per rappresaglia sta facendo di tutto perché vengano tolti dalla piattaforma satellitare di Murdoch i suoi canali (Canale5, Italia1 e Rete 4) per essere trasmessi esclusivamente sulla nuova piattaforma satellitare Tivù Sat, Insomma, tra Sky Mediaset sta per scorrere sangue. 

Pare che in questi giorni, ogni tanto succede che dei tre canali Mediaset visibili su Sky uno venga oscurato e su un altro  compaia in modo continuato una scritta che avvisa lo spettatore dell’opportunità di vedere lo stesso canale anche sul digitale terrestre.

Sicuramente il lancio di Tivù Sat, la piattaforma realizzata in collaborazione da Mediaset, Rai e Telecom Italia Media, cioè La 7, riveste un’importanza strategica in particolare per Mediaset, che sta spingendo sulla pay tv. Infatti sul digitale terrestre sta operando nell’ottica di affiancare canali a pagamento a quelli in chiaro, soprattutto allo scopo di diversificare il fatturato. Il gruppo sta cercando di dare una spinta propulsiva agli abbonamenti a importo fisso mensile, proprio sul modello inventato da Sky appunto, in sostituzione alle carte prepagate.

Però, per sfruttare al meglio le potenzialità del modello pay, è innegabile che la piattaforma migliore resti quella satellitare; da qui la fiducia che Mediaset ripone nella nuova Tivù Sat e la decisione di portare su di essa anche i tre canali free, togliendoli alla tv satellitare di Sky.

Che intanto però, colleziona successi, non solo in termini di ascolti ma anche di raccolta pubblicitaria. Pare infatti che, nonostante l’annus horribilis del mercato, il 2008 per Sky si sia chiuso con lo stesso risultato del 2007, se non addirittura con qualche punto in più.

Finalmente un po’ di concorrenza nel mercato televisivo italiano. Anche se c’è da notare come in questo nuovo scenario la Rai appaia “embedded” alle scelte di Mediaset. Beh, buona giornata.

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Attualità Società e costume

Parole sante.

“Il magistero della Chiesa è morale, lo Stato è laico e in esso convivono anche i cattolici. Quello che dice la Chiesa riguarda solo loro, non noi che non professiamo questa confessione”. (Beppino Englaro). Beh, buona giornata.

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Prove tecniche di Terza repubblica: “Il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza.”

Non poteva esserci scempio più atroce

di EUGENIO SCALFARI da repubblica.it
Il caso Englaro appassiona molto la gente poiché pone a ciascuno di noi i problemi della vita e della morte in un modo nuovo, connesso all’evolversi delle tecnologie. Interpella la libertà di scelta di ogni persona e i modi di renderla esplicita ed esecutiva. Coinvolge i comportamenti privati e le strutture pubbliche in una società sempre più multiculturale. Quindi impone una normativa per quanto riguarda il futuro che garantisca la certezza di quella scelta e ne rispetti l’attuazione.

Ma il caso Englaro è stato derubricato l’altro ieri da simbolo di umana sofferenza e affettuosa pietà ad occasione politica utilizzabile e utilizzata da Silvio Berlusconi e dal governo da lui presieduto per raggiungere altri obiettivi che nulla hanno a che vedere con la pietà e con la sofferenza. Non ci poteva essere operazione più spregiudicata e più lucidamente perseguita.

Condotta in pubblico davanti alle televisioni in una conferenza stampa del premier circondato dai suoi ministri sotto gli occhi di milioni di spettatori.
Non stiamo ricostruendo una verità nascosta, un retroscena nebuloso, una opinabile interpretazione. Il capo del governo è stato chiarissimo e le sue parole non lasciano adito a dubbi. Ha detto che “al di là dell’obbligo morale di salvare una vita” egli sente “il dovere di governare con la stessa incisività e rapidità che è assicurata ai governanti degli altri paesi”.

Gli strumenti necessari per realizzare quest’obiettivo indispensabile sono “la decretazione d’urgenza e il voto di fiducia”; ma poiché l’attuale Costituzione semina di ostacoli l’uso sistematico di tali strumenti, lui “chiederà al popolo di cambiare la Costituzione”.

La crisi economica rende ancor più indispensabile questo cambiamento che dovrà avvenire quanto prima.
Non ci poteva essere una spiegazione più chiara di questa. Del resto non è la prima volta che Berlusconi manifesta la sua concezione della politica e indica le prossime tappe del suo personale percorso; finora si trattava però di ipotesi vagheggiate ma consegnate ad un futuro senza precise scadenze. Il caso Englaro gli ha offerto l’occasione che cercava.

Un’occasione perfetta per una politica che poggia sul populismo, sul carisma, sull’appello alle pulsioni elementari e all’emotività plebiscitaria.

Qui c’è la difesa di una vita, la commozione, il pianto delle suore, l’anatema dei vescovi e dei cardinali, i disabili portati in processione, le grida delle madri. Da una parte. E dall’altra i “volontari della morte”, i medici disumani che staccano il sondino, gli atei che applaudono, i giudici che si trincerano dietro gli articoli del codice e il presidente della Repubblica che rifiuta la propria firma per difendere quel pezzo di carta che si chiama Costituzione.

Quale migliore occasione di questa per dare la spallata all’odiato Stato di diritto e alla divisione dei poteri così inutilmente ingombrante? Non ha esitato davanti a nulla e non ha lesinato le parole il primo attore di questa messa in scena. Ha detto che Eluana era ancora talmente vitale che avrebbe potuto financo partorire se fosse stata inseminata. Ha detto che la famiglia potrebbe restituirla alle suore di Lecco se non vuole sottoporsi alle spese necessarie per tenerla in vita.

Ha detto che i suoi sentimenti di padre venivano prima degli articoli della Costituzione. E infine la frase più oscena: se Napolitano avesse rifiutato la firma al decreto Eluana sarebbe morta.

Eluana scelta dunque come grimaldello per scardinare le garanzie democratiche e radunare in una sola mano il potere esecutivo e quello legislativo mentre con l’altra si mette la museruola alla magistratura inquirente e a quella giudicante.

Questo è lo spettacolo andato in scena venerdì. Uno spettacolo che è soltanto il principio e che ci riporta ad antichi fantasmi che speravamo di non incontrare mai più sulla nostra strada.

Ci sono altri due obiettivi che l’uso spregiudicato del caso Englaro ha consentito a Berlusconi di realizzare.
Il primo consiste nella saldatura politica con la gerarchia vaticana; il secondo è d’aver relegato in secondo piano, almeno per qualche giorno, la crisi economica che si aggrava ogni giorno di più e alla quale il governo non è in grado di opporre alcuna valida strategia di contrasto.

Dopo tanto parlare di provvedimenti efficaci, il governo ha mobilitato 2 miliardi da aggiungere ai 5 di qualche settimana fa. In tutto mezzo punto di Pil, una cifra ridicola di fronte ad una recessione che sta falciando le imprese, l’occupazione, il reddito, mentre aumentano la pressione fiscale, il deficit e il debito pubblico. Di fronte ad un’economia sempre più ansimante, oscurare mediaticamente per qualche giorno l’attenzione del pubblico depistandola verso quanto accade dietro il portone della clinica “La Quiete” dà un po’ di respiro ad un governo che naviga a vista.

Quando crisi ingovernabili si verificano, i governi cercano di scaricare le tensioni sociali su nemici immaginari. In questo caso ce ne sono due: la Costituzione da abbattere, gli immigrati da colpire “con cattiveria”.

Il Vaticano si oppone a quella “cattiveria” ma ciò che realmente gli sta a cuore è mantenere ed estendere il suo controllo sui temi della vita e della morte riaffermando la superiorità della legge naturale e divina sulle leggi dello Stato con tutto ciò che ne consegue. Le parole della gerarchia, che non ha lesinato i complimenti al governo ed ha platealmente manifestato delusione e disapprovazione nei confronti del capo dello Stato ricordano più i rapporti di protettorato che quelli tra due entità sovrane e indipendenti nelle proprie sfere di competenza. Anche su questo terreno è in atto una controriforma che ci porterà lontani dall’Occidente multiculturale e democratico.

Nel suo articolo di ieri, che condivido fin nelle virgole, Ezio Mauro ravvisa tonalità bonapartiste nella visione politica del berlusconismo. Ha ragione, quelle somiglianze ci sono per quanto riguarda la pulsione dittatoriale, con le debite differenze tra i personaggi e il loro spessore storico.

Ci sono altre somiglianze più nostrane che saltano agli occhi. Mi viene in mente il discorso alla Camera di Benito Mussolini del 3 gennaio 1925, cui seguirono a breve distanza lo scioglimento dei partiti, l’instaurazione del partito unico, la sua identificazione con il governo e con lo Stato, il controllo diretto sulla stampa. Quel discorso segnò la fine della democrazia parlamentare, già molto deperita, la fine del liberalismo, la fine dello Stato di diritto e della separazione dei poteri costituzionali.

Nei primi due anni dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva conservato una democrazia allo stato larvale. Nel novembre del ’22, nel suo primo discorso da presidente del Consiglio, aveva esordito con la frase entrata poi nella storia parlamentare: “Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”.

Passarono due anni e non ci fu neppure bisogno del bivacco di manipoli: la Camera fu abolita e ritornò vent’anni dopo sulle rovine del fascismo e della guerra.
In quel passaggio del 3 gennaio ’25 dalla democrazia agonizzante alla dittatura mussoliniana, gli intellettuali ebbero una funzione importante.
Alcuni (pochi) resistettero con intransigenza; altri (molti) si misero a disposizione.

Dapprima si attestarono su un attendismo apparentemente neutrale, ma nel breve volgere di qualche mese si intrupparono senza riserve.
Vedo preoccupanti analogie. E vedo titubanze e cautele a riconoscere le cose per quello che sono nella realtà. A me pare che sperare nel “rinsavimento” sia ormai un vano esercizio ed una svanita illusione. Sui problemi della sicurezza e della giustizia la divaricazione tra la maggioranza e le opposizioni è ormai incolmabile. Sulla riforma della Costituzione il territorio è stato bruciato l’altro ieri.

E tutto è sciaguratamente avvenuto sul “corpo ideologico” di Eluana Englaro. Non ci poteva essere uno scempio più atroce. (Beh, buona giornata).

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Prove tecniche di Terza repubblica: “La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli.”

Il potere apparente della Chiesa

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Solo in apparenza c’è contraddizione fra l’enorme caduta di autorità manifestatasi ai vertici della Chiesa in occasione della riabilitazione dei vescovi lefebvriani e il potere non meno grande che il Vaticano ha esercitato, e sta esercitando, sul caso Englaro e sullo scontro tra istituzioni in Italia. Nel lungo periodo il primo caso finirà forse col pesare di più: i libri di storia racconteranno nei prossimi secoli quel che è accaduto nella Santa Sede, quando un Pontefice volle metter fine a uno scisma, tolse la scomunica ai vescovi di Lefebvre, e mostrò di non sapere bene quello che faceva. Mostrò di ignorare quel che la setta sostiene, e quel che un suo rappresentante, il vescovo Williamson, afferma sul genocidio nazista degli ebrei: genocidio che il vescovo nega («gli uccisi non furono 6 milioni e non morirono in camere a gas») e che non giustificherebbe il senso di colpa della Germania. Un papa tedesco inconsapevole di quel che Williamson divulga da anni fa specialmente impressione.

I libri di storia racconteranno com’è avvenuto il ravvedimento, non appena il cancelliere Angela Merkel gli ha chiesto d’esser «più chiaro»: i giornali tedeschi, impietosi, descrivono il suo cedimento alla politica, la sua caduta nel peccato (è un titolo della Süddeutsche Zeitung), la fine di un’infallibilità che è dogma della Chiesa dal 1870, per volontà di Pio IX. Il rapporto con il caso Eluana c’è perché anche quando esercita poteri d’influenza sproporzionati, nei rapporti con lo Stato italiano, la Chiesa pare agire come per istinto, senza calcolare a fondo le conseguenze: interferisce nelle leggi del potere civile, sorvola su sentenze passate in giudicato, disturba gravemente lo scabro equilibrio fra Stato italiano e Vaticano. Difende l’idea che lo Stato debba essere etico, e che solo il Vaticano possa dire l’etica. Dopo essersi rivelato impotente di fronte al mondo – impotente al punto di «piegarsi» sulla questione lefebvriana – è come se il Vaticano si prendesse una rivincita locale in Italia, esibendo una forza che tuttavia è più apparente che reale. È apparente perché le questioni morali poste dalla Chiesa sono usate dai politici per scopi a essa estranei.

Nell’interferire, la Chiesa non mostra autorità né autentica forza di persuasione. Mostra di possedere quel che viene prima del potere di governo (prima di quello che nella Chiesa è chiamato donum regiminis, un carisma da coniugare col «dono della contemplazione»): esibisce pre-potenza. Proprio questo accadde nel 1870: il Papa stava perdendo il potere temporale, e per questo accampò l’infallibilità spirituale. La prepotenza ecclesiastica verso Eluana e verso chi dissente dalla riabilitazione dei vescovi sembra avere tratti comuni. Ambedue i gesti hanno radici nella superficialità, e in una sorta di volontaria, diffusa incoscienza. Riconciliandosi con la setta, non mettendo subito alcune condizioni irrinunciabili e accennando enigmaticamente a una «comunione non ancora piena», il Papa ha trascurato molte altre cose, sostenute nelle confraternite da decenni. Gli scismatici non si limitavano a dire la messa in latino, volgendo le spalle ai fedeli. Si opponevano con veemenza alle aperture del Concilio Vaticano II, e soprattutto alla dichiarazione di Paolo VI sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (Nostra Aetate, 1965). Totale resta la loro opposizione al dialogo con chi crede e pensa in modo diverso.

Granitica la convinzione, contro cui insorge la dichiarazione di Paolo VI, che gli ebrei non convertiti siano gli uccisori di Cristo. Nostra Aetate non parla solo dell’ecumenismo cristiano. Parla di tutti i monoteismi (Ebraismo, Islam) e anche di religione indù e di buddismo. Apre a altri modi di credere, non ritenendo che la Chiesa romana sia unica depositaria della verità e della morale. Rispondendo a Alain Elkann, monsignor Tissier de Mallerais della confraternita San Pio X dice: «Noi non cambiamo le nostre posizioni ma abbiamo intenzione di convertire Roma, cioè di portare il Vaticano verso le nostre posizioni» (La Stampa, 1-2-09). L’atteggiamento che la Chiesa ha verso l’autonomia dello Stato di diritto in Italia non è molto diverso, nella sostanza, da alcune idee lefebvriane. Il diritto e la Costituzione tengono insieme, per vocazione, etiche e individui diversi. Il dubbio su questioni di vita e morte è in ciascuna persona, e proprio per questo si fa parlare la legge e si separa lo Stato dalle chiese.

È quello che permette allo Stato di non essere Stato etico, dunque ideologico. Nell’ignorare la necessità di questi vincoli il Vaticano non si differenzia in fondo da Berlusconi, oscurando quel che invece li divide eticamente. L’interesse o la morale del principe contano per loro più della legge, della costituzione. Il particolare, sotto forma di spirito animale dell’imprenditore-re o di convinzione etica del sacerdote-guida, non si limita a chiedere un suo spazio d’espressione e obbedienza (com’è giusto), ma esige che lo Stato rinunci a fare la laica sintesi di opinioni contrarie. La laicità non è un credo antitetico alla Chiesa, ma un metodo di sintesi. Su questi temi sembra esserci affinità della Chiesa con Berlusconi e perfino con i lefebvriani, favorevoli da sempre al cattolicesimo religione di Stato. I vertici del Vaticano si sono rivelati in queste settimane assai deboli e assai forti al tempo stesso. Deboli, perché per ben 14 giorni Benedetto XVI è apparso prima ignaro, poi male informato, infine – appena seppe quel che faceva – paralizzato.

Il cardinale Lehman ha accennato a errori di management e comunicazione, ma c’è qualcosa di più. Aspettare l’intervento della Merkel è stato distruttivo di un’autorità. Nei libri di storia alcuni parleranno di clamoroso fallimento di leadership. Una leadership così scossa, è cosa triste recuperarla su Eluana. La Chiesa ha solo aiutato un capo politico (Berlusconi) a disfarsi con fastidio di leggi e vincoli. Non si capisce come questo aiuti la Chiesa. Condannando Napolitano, la Chiesa non sceglie la maestà della legge e la vera sovranità: dice solo che le leggi di uno Stato pesano poco, e invece di usare la politica ne è usata in maniera indecente. La questione Englaro non divide religiosi e non religiosi, fautori della vita e della morte. Divide chi rispetta la legge e chi no; chi auspica rapporti di rispetto fra due Stati e chi ritiene che lo Stato vaticano possa legiferare al posto dell’italiano. Sono ministri del Vaticano che hanno attaccato Napolitano: dal cardinale Martino presidente del consiglio Pontificio Giustizia e Pace al cardinale Barragan, responsabile per la Sanità nello Stato della Chiesa.

Il loro dovere istituzionale sarebbe stato quello di tacere, come laicamente ha deciso di fare, unico e solitario nella maggioranza, Gianfranco Fini Presidente della Camera. Come difendere la Chiesa, ora che non ha più potere temporale e che vacilla? La questione sembrava risolta: non lo è. Non si tratta di seguire l’opinione dominante: sarebbe autodistruttivo, proprio in questi giorni il Papa ne ha fatto l’esperienza. Si tratta di ascoltare il diverso, di documentarsi su quel che dicono i tribunali e la scienza, come rammenta Beppino Englaro. Sull’accanimento terapeutico e l’alimentazione-idratazione artificiale si possono avere opinioni diverse e si hanno comunque dubbi, per questo urge una legge sul testamento biologico: non discussa precipitosamente tuttavia. Non perché una maggioranza, adoperando il povero corpo vivo-morto di Eluana, accresca i suoi poteri. Non annunciando che «Eluana può generare figli» come dice, impudicamente, Berlusconi. Prima d’annunciare e sparlare occorre informarsi, studiare, capire. È il dono di governo e contemplazione che manca tragicamente sia in chi conduce la Chiesa, sia in chi governa la Repubblica. (Beh, buona giornata).

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Il diritto di Eluana: “Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza.”

 
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it
Tutte le grida perentorie, che cingono come fasce di pietra Eluana e il suo viaggio nell’aldilà; tutti gli insulti, e le accuse di assassinio pronunciate da politici che non nomineremo per non appiattire quel che deve restare profondo: questo è triste, nelle ore in cui Eluana, assistita dalla legge, giace nella clinica che l’aiuterà a morire com’era nelle sue volontà, dopo diciassette anni di coma vegetativo permanente.

Tristezza è lo sgomento che irrompe quando ci si trova in una situazione senza uscita: la parola vien meno, a soccorrere non c’è che il balsamo del silenzio oppure quel sottile mormorio che si chiama amore ed è più forte, San Paolo lo sapeva, di ogni altra virtù: fede, speranza, dono della profezia e della lingua, conoscenza delle scienze, perfino sacrificio di sé, delle proprie ricchezze (1 Corinzi 13).

Quando s’affievoliscono fede e speranza, si può sempre ancora amare: in particolare il sofferente, il morente. Nel momento in cui non sai più guardare un altro essere con amore già sei nel biblico sheòl, scivoli nel nulla. Tristi son dunque le grida dei politici e anche dei vescovi: quando urlano all’omicidio.

E quando s’indignano con la magistratura e i medici, che hanno preso in mano il volere di Eluana per il semplice motivo che altra via non le era offerta. Non c’era una legge sul testamento biologico, non ci son state parole pudiche di comprensione, né una politica che tace invece d’infilarsi fin dentro la camera, privata, dov’è la soglia per entrare nel mondo o uscirne.

Non è la sola tristezza, che ci accompagna dal 2006, quando Welby ci parlò dal suo letto di non vita e non morte. C’è la tristezza di non potersi parlare gli uni con gli altri, di non poter guardare in faccia insieme il proliferare straordinario di paure, primordiali e moderne, legate alla morte. Quasi fin dalla nascita esse ci visitano: chi ha memoria dell’infanzia ricorda quei mesi, quegli anni, in cui il pensiero della morte d’un tratto ci attornia come acqua alta, in cui sembra inverosimile e atroce che i genitori possano morire, che anche noi passeremo di lì, che per ognuno verrà il turno. Il pensiero s’insinua come ladro nelle notti alte dei bambini, per poi lasciarli in pace qualche anno. Poi s’installa la paura del morire, più che della morte: naufragare in dolori insopportabili, o non riuscire a morire malgrado la fine sia lì accanto, ineludibile epilogo di mali incurabili. E infine la paura moderna: terribile, prossima al panico. La paura di non padroneggiare la vita e il morire, perché ambedue sono stati affidati a forze esterne. Il diritto al morire nasce dal dilemma fondamentale: chi è proprietario della morte? Come difendere gli espropriati: che siamo noi ma sono anche la natura e – per alcuni – Dio?

La scienza e la tecnologia medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire, essendo diventati i veri proprietari della soglia. Non si moriva così, restando per decenni nella vita-non vita, quando non esisteva il gigantesco potere che prolunga artificialmente la vita con tubi, macchine, farmaci. Non c’era bisogno di fissare limiti all’accanimento terapeutico o all’idratazione-alimentazione di pazienti che non patiscono più sete e fame. Non c’era il fossato scandalosamente enorme tra l’individuo cosciente, che può invocare la libertà di cura prevista dalla Costituzione (art. 32), e chi non ha più diritti essendo appeso alle macchine, e possiede una biografia uccisa in nome del diritto alla vita.

La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, rinominata. Non si chiede la bella morte. Si chiede il permanere di un diritto prima della morte biologica, e il rispetto di questo diritto anche quando non c’è più coscienza. Questa strada è sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi (di darsi auto-nomia), ma non è sottratta solo a lui. La proprietà passa a macchine che trasformano l’uomo in un mezzo, che si sorveglia e punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati, nelle celle d’isolamento, i prigionieri. La prigione della tecnica che s’accanisce in nome di valori morali è terrorista: taglia le ali alla preparazione della morte, che è nostra intima e nobile aspirazione; tratta l’individuo non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica, l’ideologia: quale che sia l’ideologia. Welby e Eluana dicono l’indisponibilità, assai meno prometeica delle macchine, all’esser docile, utile mezzo. È qui che insorge il panico: non solo di chi vuol staccare le sonde ma anche di chi, con amore eguale, non lo fa. La morte in sé non mette spavento: essa è terribile per chi sopravvive, Epicuro è saggio quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Il panico dell’espropriato insinua il sospetto: può accadere che quando ci sarà lei (la morte) anche noi ci saremo, ma morti-viventi.

È un panico cresciuto mostruosamente: per questo urge riprendersi la morte. Non è un diritto che spossessa la natura, il sacro. Se fossero loro ad agire, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, la natura, il divino. L’autonomia del morente restituisce naturalezza e sacralità a un’esperienza inalienabile, sia che si stacchi la sonda sia che il malato non voglia farlo. L’etica del morire è una difesa della vita, perché risponde all’estendersi del bio-potere con la forza, vitale, della responsabilità. Risponde con il testamento biologico, per evitare che il paziente senza coscienza sia ucciso in vita. Risponde col rifiuto dell’accanimento terapeutico e, se il corpo non sente più fame e sete, dell’alimentazione-idratazione forzata. Risponde anche al timore di chi – non meno solitario – mantiene la sonda.

Anche questa solitudine va ascoltata: anche la paura dell’eutanasia, della morte della persona accelerata non per amore, ma in nome di volontà collettive, politiche. È già accaduto nella storia, e se esiste un tabù sull’eutanasia non è senza ragione. Non se ne può parlare leggermente (neppure dell’aborto si può): è talmente incerto il confine con il crimine. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, la legge? Se decide il collettivo, il rischio è grande che non avremo la bella morte ma la morte utile alla società, alla razza, alla nazione, o alle spese sanitarie. L’eutanasia può estendere il bio-potere anziché frenarlo. Può snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti non solo nel bene ma anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge, scrive Hans Jonas: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza?

Scrive la Bibbia che la parola divina sorprese Elia in modo inaspettato, sul monte Oreb. Il vento soffiava ma la parola non era nel vento. Sopravvenne un terremoto ma la parola non era nel terremoto. S’accese un fuoco ma il Signore non era nel fuoco. Infine apparve: era una voce di silenzio sottile. È a quel punto che Elia si prepara all’incontro: non con discorsi prolissi ma coprendosi il volto col mantello (1 Re 19,11). Forse la voce di silenzio sottile si sente a malapena perché viene da dentro, dalla nostra coscienza. Se solo si potesse parlare così delle questioni essenziali, del vivere e morire. Sforzandosi di capire il diverso, scoprendo quel che è comune nelle paure. Scoprendo l’aporia, che è la condizione dell’esistenza in cui manca la via d’uscita, il dubbio s’installa, e d’aiuto sono il senso del tragico o il mormorare sottile. Lì stiamo: non da una parte il popolo della vita e dall’altra la cultura della morte, da una parte i credenti dall’altra gli atei. Ma tutti egualmente confusi, sperduti, assetati, poveri di parole. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Il Google Drive (“GDrive”) potrebbe uccidere il computer da scrivania.”

di David Smith – «The Guardian» – tradotto da ComeDonChisciotte.org

Secondo un rapporto dell’azienda, Google sta per lanciare un servizio che permetterebbe agli utenti di accedere al loro personal computer da qualunque connessione Internet. Ma i critici avvertono che ciò darebbe al behemoth della rete un controllo senza precedenti sui dati personali degli individui.

Il Google Drive, o “GDrive”, potrebbe uccidere il computer da scrivania basato su un potente hard disk. Invece i file personali dell’utente e il sistema operativo potrebbero essere custoditi sui server di Google avendovi accesso tramite Internet.

Secondo il sito Web di notizie tecnologiche TG Daily, che lo descrive come “il prodotto più atteso della storia di Google”, il GDrive di cui si è tanto parlato dovrebbe essere lanciato quest’anno. Esso viene visto come un cambio di paradigma, con l’allontanamento dal sistema operativo Windows di Microsoft, che gira all’interno di gran parte dei computer del mondo, in favore del “cloud computing” [“elaborazione a nuvola” N.d.t.], in cui l’elaborazione e la memorizzazione vengono effettuati a migliaia di chilometri in remoti centri dati.

Gli utenti da casa o da lavoro si stanno sempre più rivolgendo a servizi basati sul Web, solitamente gratuiti, che vanno dalle e-mail (come Hotmail e Gmail) alla memorizzazione di foto digitali (come Flickr e Picasa) e a sempre più applicazioni per documenti e fogli dati (come Google Apps). La perdita di un computer portatile o la rottura di un hard disk non mettono a repentaglio i dati perché essi sono regolarmente salvati nella “nuvola” e possono essere consultati tramite Web da qualunque macchina.

Il GDrive seguirà questa logica sino alla sua estrema conclusione spostando i contenuti dell’hard disk dell’utente nei server di Google. Il PC sarà un dispositivo più semplice ed economico che funzionerà come portale verso l’Web, forse tramite un adattamento di Android, il sistema operativo di Google per telefoni cellulari. Gli utenti penseranno al loro computer come a un software piuttosto che a un hardware.

È questa prospettiva che mette in allarme i critici delle ambizioni di Google. Peter Brown, direttore esecutivo della Free Software Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che difende le libertà di chi utilizza il computer, non ha messo in discussione la convenienza che viene offerta, ma ha detto: “Sarebbe un po’ come dire ‘siamo in una dittatura, i treni viaggiano in orario’. Ma vi importa che qualcuno possa vedere tutto ciò che avete sul vostro computer? Vi importa che Google può essere in qualunque momento vincolato legalmente a consegnare tutti i vostri dati al governo americano?”

Google si è rifiutata di dare conferme sul GDrive, ma ha riconosciuto l’esistenza di una crescente domanda per il cloud computing. Dave Armstrong, direttore del dipartimento prodotti e marketing della Google Enterprise ha detto: “Vi è una chiara direzione… che allontana dall’idea ‘ Questo è il mio PC, questo è il mio hard disk’ e porta verso ‘ Questo è il modo in cui interagisco con le informazioni, questo è il modo in cui interagisco con il Web'”. (Beh, buona giornata).

Titolo originale: “Google plans to make PCs history”

Fonte: http://www.guardian.co.uk
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25.01.2009

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ALCENERO

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“Rispetto alla fisica l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente.”

di Jean-Philippe Bouchaud – Science & Finance, Capital Fund Management

Sostengo che l’attuale crisi finanziaria evidenzia la necessità cruciale di un cambiamento di mentalità nell’economia e nell’ingegneria finanziaria, che dovrebbero allontanarsi dagli assiomi dogmatici per concentrarsi maggiormente sui dati, gli ordini di grandezza, e su plausibili, ancorché non rigorosi, argomenti. Una versione ridotta di questo saggio è apparsa su «Nature».

Rispetto alla fisica, sembra giusto dire che l’esito positivo dei dati quantitativi nelle scienze economiche è deludente. I razzi volano sino alla luna, l’energia viene ottenuta da minuti cambiamenti di massa atomica senza grandi disastri, i satelliti di posizionamento globale aiutano milioni di persone a trovare la loro strada di casa. Ma qual è un successo che sia il fiore all’occhiello dell’economia, oltre alla sua ricorrente incapacità di prevedere e prevenire le crisi, tra cui l’attuale crisi del credito mondiale? Perché le cose vanno così?

Naturalmente, modellare la follia delle persone è più difficile del moto dei pianeti, come disse una volta Newton. Ma l’obiettivo qui è quello di descrivere il comportamento di grandi popolazioni, per le quali dovrebbero emergere regolarità statistiche, così come la legge dei gas ideali emerge dal movimento incredibilmente caotico delle singole molecole. Per me, la differenza fondamentale tra le scienze fisiche e l’economia o la matematica finanziaria è piuttosto nel relativo ruolo dei concetti, delle equazioni e dei dati empirici. L’economia classica si basa su ipotesi molto forti che diventano rapidamente assiomi: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l’efficienza del mercato, ecc.

Un economista una volta mi ha detto, sconcertandomi: questi concetti sono così forti che si sostituiscono a qualunque osservazione empirica. Come Robert Nelson ha affermato nel suo libro, Economics as Religion (L’economia come una religione, ndt), il mercato è stato divinizzato. I fisici, d’altro canto, hanno imparato a essere diffidenti nei confronti di assiomi e modelli. Se l’osservazione empirica è incompatibile con il modello, il modello deve essere cestinato o emendato, anche se è concettualmente bello o matematicamente conveniente. Così tante idee ben accette si sono rivelate sbagliate nella storia della fisica al punto che i fisici hanno maturato fino a essere critici e guardinghi rispetto ai loro modelli. Purtroppo, analoghe salutari rivoluzioni scientifiche non hanno ancora preso piede in economia, laddove le idee si sono cristallizzate in dogmi, che ossessionano gli accademici, nonché i responsabili delle decisioni nelle posizioni apicali delle agenzie governative e delle istituzioni finanziarie.

Questi dogmi sono perpetuati attraverso il sistema dell’istruzione: la didattica della realtà, con tutte le sue sfumature ed eccezioni, è molto più difficile da insegnare rispetto a una bella formula coerente.

Gli studenti non discutono i teoremi che possono usare senza pensare.

Anche se un certo numero di fisici è stato assunto dalle istituzioni finanziarie nel corso degli ultimi decenni, questi fisici sembrano avere dimenticato la metodologia delle scienze naturali per assorbire e rigurgitare le abitudini economiche in vigore, senza il tempo o la libertà di metterne in discussione le loro fondamenta.

La presunta onniscienza e perfetta efficacia di un libero mercato deriva dal lavoro economico degli anni ‘50 e ‘60, che – con il senno di poi – sembra più propaganda contro il comunismo che una descrizione scientifica plausibile.

In realtà, i mercati non sono efficienti, gli uomini tendono ad essere eccessivamente mirati al breve periodo e ciechi sul lungo periodo, e gli errori si amplificano per via della pressione sociale e l’intruppamento acritico, e in ultima analisi portano a irrazionalità collettiva, panico e dissesti.

I mercati liberi sono mercati selvaggi.

È assurdo credere che il mercato possa imporre la propria auto-disciplina, come è stato sostenuto dalla US Securities and Exchange Commission nel 2004, quando ha consentito alle banche di accumulare ancora nuovi debiti.

Il ricorso a modelli basati su assiomi errati ha evidenti e grandi effetti. Il modello Black-Scholes è stato inventato nel 1973 per dare un prezzo alle ‘options’ supponendo che le variazioni di prezzo abbiano una distribuzione gaussiana, come a dire che la probabilità di eventi estremi è considerata trascurabile. Venti anni fa, l’uso indebito del modello di copertura del rischio sul crollo dei mercati azionari entrò nella spirale del crack borsistico dell’ottobre 1987: un crollo del 23% in un solo giorno, tanto da far apparire piccoli i recenti singhiozzi dei mercati. Ironia della sorte, è proprio l’uso del modello anti crack Black-Scholes che destabilizzò il mercato!

Questa volta, il problema risiede in parte nello sviluppo di prodotti finanziari strutturati che hanno impacchettato il rischio subprime all’interno di investimenti ad alto rendimento apparentemente rispettabili. I modelli utilizzati per stabilirne i prezzi erano fondamentalmente errati: hanno sottovalutato la probabilità che più mutuatari sarebbero stati insolventi sui loro prestiti contemporaneamente. In altre parole, questi modelli hanno di nuovo trascurato proprio la possibilità di una crisi globale, anche se hanno contribuito ad innescarne una. Gli ingegneri finanziari che hanno sviluppato questi modelli non si sono nemmeno resi conto che hanno aiutato i trafficanti di credito del settore finanziario a contrabbandare i loro prodotti in tutto il mondo: non erano stati addestrati a decifrare che cosa implicassero davvero le loro ipotesi.

Sorprendentemente, non vi è alcun quadro di riferimento nell’economia classica per comprendere i mercati selvaggi, anche se la loro esistenza è così evidente per i profani. La fisica, d’altro canto, ha sviluppato diversi modelli che permettono di capire in che modo le piccole perturbazioni possano portare a effetti incontrollabili. La teoria della complessità, sviluppata nella letteratura della fisica durante gli ultimi trenta anni, mostra che, quantunque un sistema possa avere uno stato ottimale (come uno stato di energia più basso, per esempio), sia talvolta difficile da identificare giacché il sistema non si situa mai in quella condizione. Questa soluzione ottimale non solo è inafferrabile, è anche fragilissima rispetto a piccole modifiche dell’ambiente, e quindi spesso irrilevante per capire cosa stia succedendo. Vi sono buone ragioni per credere che questo paradigma della complessità dovrebbe essere applicato ai sistemi economici in generale e ai mercati finanziari in particolare.
Semplici idee di equilibrio e di linearità (l’ipotesi che piccole azioni producano piccoli effetti) non funzionano. Abbiamo bisogno di rompere con l’economia classica e sviluppare strumenti del tutto nuovi, come si è cercato in modo ancora frammentario e disorganizzato da parte degli ‘economisti comportamentali’ e degli ‘econofisici’. Ma la loro sforzo di nicchia non è preso sul serio dall’economia mainstream.

Intanto che si sta lavorando per migliorare i modelli, anche la normativa ha bisogno di migliorare. Dovrebbero essere esaminate le innovazioni nei prodotti finanziari, sottoposte a dei “crash test” rispetto a scenari estremi e approvate da agenzie indipendenti, proprio come abbiamo fatto con le altre industrie potenzialmente letali (chimiche, farmaceutiche, aerospaziali, nucleari, ecc.).
In considerazione della presente caotica fuoriuscita dal settore finanziario alla vita di ogni giorno, un parallelo con queste altre attività umane pericolose sembra pertinente.

Soprattutto, vi è la necessità decisiva di cambiare la mentalità di coloro che lavorano in economia e nell’ingegneria finanziaria. Essi hanno bisogno di allontanarsi da ciò che Richard Feynman ha definito Cargo Cult Science: una scienza che segue tutti i precetti e le apparenti forme dell’indagine scientifica, mentre manca ancora qualcosa di essenziale. Un insegnamento eccessivamente formale e dogmatico nelle scienze economiche e nella matematica finanziaria sono elementi integranti del problema. I curriculum economici richiedono che siano incluse più scienze naturali. I presupposti per una maggiore stabilità a lungo termine risiedono nello sviluppo di una più pragmatica e realistica rappresentazione di ciò che sta succedendo nei mercati finanziari, e di concentrarsi sui dati, che dovrebbero sempre soppiantare perfette equazioni ed estetici postulati. (Beh, buona giornata).

Traduzione di Pino CabrasMegachip
Fonte originale: Economics needs a scientific revolution

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Obama non ha usato il web. Non è entrato in rete, ha fatto rete. Obama ha vinto perché ha cambiato il web.

“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha dietto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca lascia intendere la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni che potrebbe trasformanre la nostra vita quotidiana e, contemporaneamente, la società globale.

 A cominciare dalla comunicazione. La logica della partecipazione e della condivisione dei contenuti dovrebbe essere resa possibile su vasta scala, come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama. E’ un fatto nuovo. Nessuna organizzazione o azienda può pensare di restare fuori da queste sfide. Ma stare al passo con i tempi non è così semplice come può sembrare. Secondo  Alberto Abruzzese, direttore dell’Istituto di Comunicazione Università Iulm e prorettore dell’ateneo, Obama si è distinto non per l’uso esclusivo dei social media, bensì per aver messo in atto una comunicazione politica basata su un adeguato mix di media innovativi e classici. A differenza dei suoi principali competitor, la Clinton prima e McCain poi, che hanno condotto la loro campagna seguendo schemi molto più tradizionalistici.

In realtà, Barak Obama è stato lungimirante e si è  appropriato con successo del territorio simbolico e valoriale della parola chiave ‘change’, ha fatto leva sulle emozioni profonde degli elettori, spingendoli a diventare soggetti attivi e interattivi di un progetto. Ed ha anche ottenuto la partecipazione spontanea di artisti e designer che hanno realizzato per lui magliette, poster e video di alta qualità.

In altre parole, Obama si è trasformato in un simbolo, ma anche in un  logo, un brand, che trasmette un messaggio fortissimo: la speranza nel cambiamento.

In Italia, ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale il Pd ha tentato di fare propria questa strategia, ma invece di comprendere la forza del concetto “change”, ha fatto proprio “yes, we can”,  tradotto in “si può fare”. Un equivoco, più che un errore: è suonato nelle orecchie degli elettori come una affermazione autoreferenziale, ego riferita alla nascita delPd e non un nuovo progetto di paese cui partecipare con entusiasmo. Il risultato di queste equivoco non è solo nelle urne elettorali, ma è diventata un fatto politico. Oggi in Italia nessuno pensa che il Pd sia stata una vera innovazione, né che Veltroni ne sia il simbolo.

 D’altra parte, i discorsi di Obama hanno incarnato il desiderio di cambiamento americano, e i prodotti audiovisivi a lui riconducibili si sono distinti per un’elevata qualità sia della grafica sia del contenuto.

Senza contare  l’uso sapiente e consapevole dei social media: i progetti web di Obama hanno avuto la forza di incoraggiare le persone a diventare, esse stesse, parte del cambiamento, innescando meccanismi di condivisione e partecipazione che hanno portato i sostenitori di Obama a usare i social network in piena autonomia per incontrarsi e organizzare sia eventi sia raccolte fondi.

Un’esperienza vincente come quella di Obama insegna che il web non è un semplice spazio virtuale dove sparare messaggi, per entrare nel mondo dei new media non basta mettere un banner su qualche sito o aprire un blog, perché su Internet non basta esserci, bisogna esserne parte: occorre diventare un nodo, un anello, della Rete stessa. Anzi, bisogna saper essere il bandolo della matassa  della  rete stessa. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Società e costume

” Il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media.”

di Francesco De Carlo – Megachip.info

A che serve il web? A far circolare le idee, catturare l’attenzione dei consumatori, promuovere beni e servizi, soddisfare le fantasie erotiche di giovani e meno giovani. Tanti modi di utilizzare uno strumento oramai divenuto centrale nelle abitudini dei cittadini di buona parte del pianeta. Ma quali sono i contenuti più popolari? Qual è l’argomento più discusso? Quale il personaggio più cliccato?

Una recente indagine di Liquida, un portale aggregatore della blogosfera, ci offre uno spunto per ragionare sul tipo di consumo del web fanno le masse attraverso un’analisi semantica di 600mila post contenuti in più di 10mila blog.
Il giornalista Massimo Russo ha riportato la ricerca (http://massimorusso.blog.kataweb.it/cablogrammi/2009/01/19/berlusconi-e-il-piu-citato-dai-blog-ecolalia-dei-media/) che ha preso in esame l’ultimo quadrimestre 2008.

Interessanti i dati relativi alle prime 10 posizioni. Dunque la parola più cliccata è “Berlusconi” (9.807 volte) e certo non può considerarsi una grossa notizia. Stacca di gran lunga “Obama” (7.951) e soprattutto “Veltroni” (3.863) che chiude la top ten, leccandosi, ancora una volta, le ferite. Prima considerazione: nonostante la grande attenzione del leader del Pd (e naturalmente del suo beniamino statunitense) per il web, è Silvio Berlusconi, imperatore televisivo, a dominare la scena. Certo andrebbe affrontata anche la prospettiva qualitativa, quella che descrive come si parla di questi soggetti. Ma l’evoluzione dei mezzi di comunicazione è stata accompagnata da un credo, empirico più che teorico: bene o male, l’importante è che se ne parli. Il Presidente del Consiglio ha fatto e farà di tutto per dimostrare l’incrollabile fede in questo principio.

Tra le prime dieci parole, oltre ad altre due keyword politiche (Partito Democratico, quinta, e Gelmini, settima) spiccano Windows, Facebook e Iphone. E questo potrebbe spiegarsi innanzitutto con la connaturata tendenza dei media a parlare di se stessi. È chiaro, peraltro, che gli utenti di internet sono i più interessati a tali tematiche, spesso ignorate dagli altri media tradizionali.
Terza considerazione. Tutte o quasi le parole della top ten sono marchi. Che si tratti di un brand politico o commerciale il consumatore resta il protagonista del processo comunicativo, costantemente bombardato da messaggi chiaramente pubblicitari, ma anche disposto a sfruttare gli spazi più liberi della discussione per trattarne i diversi aspetti.

In conclusione, si può dire che il web resta ancora confinato a una cassa di risonanza dell’agenda setting dettata da altri media (interessante la parte dell’analisi dedicata ai temi dell’attualità). L’interattività permette sì la possibilità di discutere liberamente, ma gli argomenti restano sempre gli stessi. Questo per dire che a qualche tempo dalla sua esplosione internet ancora non ha sicuramente espresso a pieno le sue potenzialità, in termini di organizzazione del dissenso, capacità di condizionare le decisioni pubbliche, possibilità di disegnare scenari alternativi e porli al centro di un progresso culturale che accompagni quello tecnologico.

Forse manca solo un po’ di coraggio, forse un po’ di immaginazione, ma nel 2009 scoprire che Maria de Filippi è più cliccata di Roberto Saviano e Simona Ventura di Marco Travaglio, dà il senso e la misura di quanta strada c’è ancora da fare. Anche se i tanti segnali di una involuzione intellettuale del pubblico scoraggiano ogni forma di ottimismo: più il consumo di web si diffonde più viene utilizzato dagli strati sociali affezionati al trash televisivo e non c’è da stupirsi se nelle prossime classifiche le parole legate all’impegno civile troveranno sempre meno spazio. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

“Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini.”

 I NUOVI ITALIANI  di Corrado Giustiniani da ilmessaggero.it
  La guerra dei bambini in tv: ha ragione Michele Santoro
pubblicato il 19-01-2009 alle 14:03
 
Non credo di uscire dal seminato de “I nuovi italiani” se dico la mia sulla puntata di Annozero intitolata “La Guerra dei bambini”, che tante polemiche ha suscitato nei confronti del conduttore Michele Santoro. Non esco dal seminato, perché in studio o in collegamento con Santoro c’erano diversi “nuovi italiani”, immigrati palestinesi ma anche giovani israeliani che vivono nel nostro paese. E poi perché la sfida della convivenza fra religioni diverse è una delle più complesse che si pongono in tutti i paesi di immigrazione, Italia compresa, e quella guerra è un letale controspot alla convivenza.

Intanto, sono convinto che molti giornalisti che hanno scritto di quella puntata, non l’abbiano vista attentamente. Non c’è da stupirsi che questo accada. Annozero va in onda in diretta, e alla nove di sera i giornalisti dei quotidiani sono impegnati nella chiusura della prima edizione, difficile che abbiano due ore di tempo da dedicare tutte a Santoro, a meno che non vi siano state polemiche politiche preventive, che suscitano una particolare attesa proprio per quella puntata. Così, a informarli sono per lo più le agenzie di stampa, che nei loro servizi riportano le battute più salienti dei personaggi intervenuti. Credo, soltanto per fare un esempio fra i tanti possibili, che potrebbe non aver visto Annozero Giovanni Valentini, saggista e commentatore di cose televisive, autore su Repubblica di un fondo, dal titolo “La parabola del tribuno tv”, che a me è parso squilibrato ed esageratamente livoroso nei confronti di Santoro: se l’avesse seguita con attenzione, avrebbe certamente montato il suo ragionamento in modo diverso. Visionando la cassetta della trasmissione o  la registrazione su Internet della stessa, vi sarebbe la possibilità di dare il giorno successivo un giudizio più pertinente e obiettivo. Ma per pigrizia si tralascia quest’incombenza. Anche perché decidere di fare un passo indietro sarebbe comunque imbarazzante.

Giovedì 15 gennaio ero libero, e ho potuto vedere a casa mia, dall’inizio alla fine, la puntata sulla guerra di Gaza. Quasi nessuno ha colto che il vero valore aggiunto della trasmissione stava in uno straordinario reportage iniziale che mostrava i cadaveri dei bambini uccisi dalle bombe, e il trasporto in barella dei corpicini dilaniati ma rimasti ancora in vita. Filmati e interviste da lasciare senza respiro, realizzati da un giornalista arabo che, ha spiegato Santoro, collabora anche con l’agenzia Ansa. Mi è rimasto impresso il racconto di un ragazzo rimasto senza famiglia e gli occhi sbarrati di una bambina sdraiata per terra. Parlava a monosillabi, con una grande garza in testa, a coprire la ferita profonda causata da una scheggia. Sembrava il servizio di un grande network internazionale, la Bbc, o anche la Cbs, qualcosa insomma assolutamente fuori dagli schemi ai quali la Rai ci ha purtroppo abituato.

Un salutare pugno nello stomaco, perché una cosa è leggere frettolosamente un titolo di giornale che ti comunica, mentre bevi il caffé, che 450 bambini sono stati uccisi dagli attacchi in pochi giorni, un’altra è vederli, questi bambini. La spessa corteccia di indolenza e cinismo che tutto ci fa accettare, perché in fondo non succede a noi, o addirittura perché “mors tua vita mea” (pensiamo solo alla richiesta effettuata a Gheddafi di non farci arrivare più barconi di migranti: decida lui se decimarli a fucilate, torturarli, o farli morire di sete nel deserto) all’improvviso si squarcia, perché si mette in atto un processo di immedesimazione: quel bambino che vedi, e se è ancora in vita senti, potrebbe essere tuo figlio. Non è forse l’immedesimazione che crea la solidarietà, vera anima di ogni società democratica? Non è, per chi ci crede, il “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” uno dei principi fondanti del cristianesimo, che quando ci fa comodo siamo orgogliosi di sbandierare come nostra religione? E non è il documentare senza paura, l’essere testimoni diretti, sul campo, il vero, profondo valore del giornalismo?

Di quel reportage che valeva, da solo, l’intera trasmissione, si sono dette cose pazzesche. Che “strumentalizzava le emozioni” e che trasformava “il dramma in drammaturgia”. Ma andiamo avanti. Finito il filmato, si apre il dibattito. Ci sono in studio, oltre a Santoro e a Marco Travaglio, Lucia Annunziata, una scrittrice israeliana, un esperto di guerra, una giornalista palestinese che da molti anni vive in Italia, un giornalista di Al Jazira. Un parterre, come si vede, composito e sufficientemente equilibrato. Proprio all’Annunziata viene data per prima la parola. E ha il tempo di dire tutto quello che pensa: un contributo così lungo che a un certo punto sente quasi il bisogno di scusarsi (“sto per finire”). Dura per l’esattezza 5 minuti e 30 secondi, un’eternità per la televisione, e sarà il primo di ben tre interventi. Osserva tra l’altro, la giornalista ex-presidente della Rai, che «è molto difficile parlare come terzi, mi scuso se dipano l’emozione dalla razionalità, Israele dimostra di non saper far bene la guerra, non ci possiamo dividere dicendo chi ha torto e chi ha ragione…»

Il confronto si apre agli altri interlocutori, e poi si allarga a giovani palestinesi che vivono in Italia, attraverso un collegamento esterno con Corrado Formigli, ma ci sono anche giovani ebrei in studio, a cominciare da Tobia Zevi. Margherita Granbassi introduce una ragazza israeliana, che entra in vivace polemica con una palestinese. A questo punto Lucia Annunziata interviene per la seconda volta, per tre minuti: «Michele non sono d’accordo  su come stai conducendo il dibattito, non si possono far parlare così due ragazze» e sostiene che dalla trasmissione dovrebbe venir fuori «un punto di vista italiano».

Un punto di vista italiano? Non hanno diritto a dire la loro dei giovani che vivono le loro reciproche cause, israeliana e palestinese, non per sentito dire, ma come stimmate su cui è impressa tutta la loro esistenza? E perché mai? E il punto di vista italiano, non viene forse arricchito da “nuovi italiani” come quei giovani? L’obiettivo di quella trasmissione non era fare la storia della questione palestinese a partire dal 1948, e la Annunziata aveva comunque avuto ampio spazio per esprimere il suo pensiero, attaccando, giustamente, i terroristi di Hamas e il loro rifiuto di riconoscere lo Stato di Israele. C’erano, è vero, più ragazzi palestinesi che ebrei. Ma a nessuno è stata tolta la parola. La proposta più bella e innovativa è venuta fra l’altro da una ragazza religiosamente meticcia, se così possiamo dire, in quanto figlia di padre palestinese e madre ebrea: ha proposto uno scambio di famiglie, per un’estate, fra ragazzi delle due diverse religioni.

Ma il bello deve ancora venire. Lucia Annunziata interviene per la terza volta: «Michele ti disturbo…Non mi piace come hai condotto finora la trasmissione al 99,9 per cento». Dunque, non salvava niente. Ma come può, ragiono io, un collega contestare professionalmente un altro, in diretta, davanti a milioni di persone? Un atteggiamento eticamente e deontologicamente sbagliato. Se voleva, glielo diceva dopo, a riflettori spenti. E se la ferita era così grave da non sanarsi, a mente fredda poteva chiedere a Giulio Anselmi, il direttore de “La Stampa” di cui Lucia è editorialista, di poter scrivere una riflessione sul tema. 

Il conduttore ha fatto male a perdere le staffe. Ma attenzione, rivediamo la sua frase-chiave, quella che ha causato il plateale abbandono del posto da parte di Lucia Annunziata. «Sei venuta a fare l’ospite? E allora dì quello che pensi. Stai acquisendo dei meriti nei confronti di qualcuno? No, e allora fai il tuo lavoro e dì quello che vuoi». I giornali hanno riportato questa domanda, con successiva negazione e invito a parlare, come una gravissima offesa senza punti interrogativi, e non hanno tenuto conto di quella professionale che Santoro aveva ricevuto. Se l’avessi subita io, incassare mi sarebbe stato difficile, lo confesso. Il conduttore, in realtà, è uscito fuori dai gangheri soprattutto dopo che l’Annunziata se n’è andata, e ha commesso degli errori, mettendosi contro tutti.

E’ una cronaca diversa, cari amici, da quella che avete letto su altri media e che ha fornito assist per interventi pro-Annunziata all’universo mondo, dall’ambasciatore israeliano a Pippo Baudo. Magari anche io, per dare il succo, avrò forzato alcuni passaggi. Ma la democrazia di Internet sta nel fatto che potete rivedervi la trasmissione e giudicare con la vostra testa. Un’ultima cosa. Quello stesso giovedì 15 gennaio, all’ora di pranzo, ero in macchina e sentivo alla radio, sul secondo programma Rai, Barbara Palombelli che aveva in studio due esperti, il professor Israeli e un altro. Entrambi di parte israeliana, senza contraddittorio. Uno dei due diceva che i bambini muoiono unicamente perché Hamas li usa come scudi umani, a protezione dei terroristi. Questa trasmissione, però, non ha fatto scandalo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

La Rai condanna “La guerra dei bambini” di Michele Santoro. Ecco la lettera di Santoro al cda della Rai.

* Gentile Presidente, gentili Consiglieri *

Non è mia abitudine replicare a chi commenta le nostre trasmissioni e
ritengo, anche in questa circostanza, di non rinunciare a questo mio
comportamento. Tuttavia nel florilegio di dichiarazioni che hanno fatto
seguito ad Annozero, a volte assumendo le forme del linciaggio, sono
completamente scomparsi i contenuti del nostro lavoro. Siamo stati definiti
terroristi, portavoce di Hamas, giornalisti spazzatura. Senza che questi
insulti suscitassero adeguate reazioni.

Eppure siamo il più seguito appuntamento informativo della televisione
italiana in prima serata, con introiti pubblicitari che ci consentono il
completo autofinanziamento senza far ricorso al canone, permettendo di
destinare risorse importanti alle altre attività del servizio pubblico.
Siamo anche tra le trasmissioni meglio posizionate della Rai, tra le poche
seguite in prevalenza dal nord del Paese e dalle fasce più acculturate. Vi
invito a leggere lo studio pubblicato questa settimana dalla Sipra per
vedere quanto poco felice ed approssimativa sia la descrizione di Annozero
come un programma populista e pericoloso per la democrazia, dal momento che
a guardarlo non e’ un esercito di sempliciotti ma una fetta di opinione
pubblica che ricorre a molte fonti per informarsi.

Personalmente considero l’intervento dell’Ambasciatore dello Stato
d’Israele, Gideon Meir, una grave interferenza nella libertà d’espressione
del nostro Paese. Ma non gliene faccio una colpa. La responsabilità ricade,
piuttosto che sulla politica di quel governo, sul difetto di liberalismo del
sistema politico italiano e della categoria alla quale appartengo, che non
reagisce adeguatamente a queste clamorose invasioni di campo.

Repubblica ha pubblicato un intervento di David Grossman, che si concentra
sulle caratteristiche dell’ultima rappresaglia israeliana, lasciando sullo
sfondo le ragioni storiche che hanno prodotto il conflitto. Ho realizzato
molte trasmissioni sui rapporti tra Stato d’Israele e palestinesi e posso
rassicurare il nostro Presidente – che di queste cose si è occupato
sicuramente meglio di me quando era Direttore de l’Unità: niente può
scatenare una rissa in uno studio televisivo quanto l’evocazione della
Storia. Ricorrere all’approccio storico avrebbe sicuramente consentito ai
sostenitori di Hamas (assenti nel parterre) di mettere in discussione
l’esistenza dello Stato d’Israele. Con la nostra impostazione, unica
trasmissione, abbiamo potuto affrontare l’argomento in prima serata,
decidendo (proprio come Grossman) di parlare dei bambini e della possibilità
di fermare il massacro, domandandoci se fossero necessari quei corpi
straziati per restituire sicurezza allo Stato di Israele.

Sono accusato di essere fazioso. Ma a quale fazione apparterrei? Ad una
piccolissima fazione che conta qualche centinaio di aderenti. Se qualcuno
avesse chiesto a quei bambini: “Preferireste vivere?”, cosa avrebbero
risposto? “Certo che sì”. Bene, io la penso esattamente come loro.

Su quanto è avvenuto ho trovato su Internet un’ analisi di un giornalista de
“Il Messaggero” che non conosco, Corrado Giustiniani. L’unico che ha rivisto
il documento “La guerra dei bambini” minuto per minuto. Vi allego il suo
scritto insieme alla trascrizione completa del programma. Così potrete
controllare comodamente che l’insulto più grave è quello che mi è stato
rivolto affermando: “La trasmissione, come l’hai impostata finora, scusate
ma questo è il mio lavoro farlo, non entro nel merito, è al 99,9%, eccetto
la voce della ragazza di prima, tutta mirata…”.

Un insulto gratuito, assolutamente non giustificato da quello che era stato
trasmesso fino a quel momento. Contate le parole, classificatele pure a
seconda di quello che dicono. Soffermatevi poi sulla frase pronunciata da
Lucia Annunziata quando gli animi erano calmi: “Faccio una parte
assolutamente da stronzissima”. Cosa voleva dire? Che parte voleva fare?
Fornite voi una spiegazione plausibile, visto che lei avrebbe potuto dire
tutto quello che voleva sull’argomento trattato, ragioni storiche comprese.
Purtroppo, siccome siamo scomodi per il sistema politico, è invalsa
l’abitudine di entrare nel nostro studio non per discutere o argomentare ma
per insultarci. Tanto non si rischia niente. Io questo non l’ho tollerato la
scorsa settimana e non lo tollererò nelle settimane a venire.

Tra le tante menzogne scritte su di noi ce n’e’ una insopportabile: avremmo
addebitato la morte dei bambini soltanto alla responsabilità dello Stato di
Israele. Vi prego di leggere almeno questo stralcio di dialogo tra me e la
scrittrice israeliana Manuela Dviri all’inizio della nostra trasmissione,
traendone le dovute conclusioni.

*DVIRI*
*E quando guardo queste immagini sento una grande pesantezza, mi sembra che
sia tornato il tempo della retorica, delle parole vuote, che, della
stupidità umana. Siamo tutti assassini, sono un’assassina anch’io*

*SANTORO*
*Siamo tutti responsabili e tutti impotenti, insomma*

*DVIRI*
*Tutti, siamo tutti responsabili, tutti impotenti, io sono un’assassina,
siamo tutti degli assassini, siamo degli assassini dei bambini del Darfur,
del Congo, della Palestina, anche dei bambini israeliani che sono morti in
questi anni. Siamo tutti degli assassini. Io sono un’assassina.*

*SANTORO*
*Non abbiamo fatto abbastanza per evitare tutto questo*

*DVIRI*
*Non abbiamo fatto nulla. Non facciamo nulla.*

Infine qualcuno di voi ha ritenuto di dover ricordare che siamo in onda
grazie ad una sentenza della magistratura. Ma dovrebbe dedurne che solo
grazie ad una sentenza della magistratura la Rai può oggi venderci come un
prodotto pregiato del listino della Sipra. Tuttavia, prendete pure le vostre
decisioni editoriali serenamente e a prescindere. L’importante è che siano
rispettose delle leggi e dei contratti in essere. Io credo di aver lavorato,
da 25 anni a questa parte, con coscienza, serietà e producendo grandi
profitti per l’Azienda.

Per il resto, buon lavoro

*Michele Santoro*

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Media e tecnologia Scuola Società e costume

I figli e il computer.

L’ansia di apparire fa miracoli, così succede che la tv sforna opinionisti. Tutti sanno tutto su tutto e su tutti.  Stavolta tocca a Claudio Amendola, star de “I Cesaroni”. Che dice: ‘Tutta sta’ gente che chatta e va su Facebook è  demenziale. Se volete parlare con qualcuno andate al bar’. L’attore si è sfogato in un’intervista a Nostrofiglio.it. ‘Molti ragazzi passano la giornata sul web? Perché non passiamo più tempo con loro? Dobbiamo sforzarci – osserva – Importa la qualità del tempo che gli dedichiamo, non la quantità. Abbiamo solo un’ora? Giochiamo con loro a battaglia navale’ (Ansa, 20 gennaio).

 

Ma per favore. Ma ti pare che uno si mette a fare un gioco noioso come la battaglia navale? Tuo figlio ti affonda prima ancora di cominciare. Facciamo così: mettiamoci insieme davanti al computer. Tu gli insegni dove navigare per trovare qualcosa di buono e interessante. Lui ti fa vedere come si cazzeggia sul web. Tutti e due avremmo qualcosa da imparare, l’uno dall’altro. Insieme, si potrebbe navigare in acqua migliori, lasciando fuori gioco moralismi para-pedagogici, più dannosi che inutili.

 

Quanto al fatto che la qualità è meglio della quantità del tempo che si dedica ai figli, anche questo mica è vero. Basta provare a rovesciare l’ordine degli addendi per scoprire che il risultato non torna: se fosse tuo figlio a dirtelo, ti incazzeresti come una bestia. Se fosse la tua donna, penseresti che ha un altro. Altro che battaglia navale: poi dice che i rapporti tra padri e figli fanno acqua da tutte le parti. (A Clà, gnente de perzonale, ma quanno ce vò ce vò). Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Società e costume

Si stava meglio quando si stava peggio?

“La crisi non è così drammatica come tutti vogliono pensare e il meno 2 per cento del Pil previsto significa che torneremo indietro di due anni e due anni fa non stavamo così male”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.

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Attualità Società e costume Sport

“La verità sulla vicenda di Kakà non la sapremo mai. Fu vera finzione?”

di MARCO ANSALDO da lastampa.it
Quando sembrava che si verificasse l’inevitabile e Kakà scegliesse i milioni del Manchester City, un colpo di teatro ha riportato sulla scena il più astuto dei burattinai: Silvio Berlusconi. Lui, l’uomo che sabato sera aveva spiegato agli avventori di un’osteria sarda che non era possibile rinunciare ai 105 milioni offerti dagli arabi sbarcati in Inghilterra.

Lui che, poco prima della suprema decisione, aveva dichiarato che un ragazzo non può rinunciare a 15 o 18 milioni all’anno. Insomma lui che pareva spingesse il suo giocatore più importante tra le braccia dei nuovi sultani perché sarebbe stato un affare per tutti ieri sera ha potuto annunciare che hanno trionfato i buoni sentimenti, l’amore, la riconoscenza, il disinteresse e «Kakà rimane al Milan per altri quattro anni perché i soldi non contano». Da maestro della comunicazione il Cavaliere ha scelto per il melodrammone all’italiana Aldo Biscardi, il barman del Bar Sport traslocato lontano dai grandi network ma di sicura fedeltà al nazional-popolare. E’ uno spot da milioni di consensi. Quelli dei milanisti, ovviamente. Ma anche di chi si sente rassicurato dalla scelta che tiene alle porte i possibili predoni. Se Riccardino fosse finito al City, si sarebbero aperte le porte del supermercato anche in Italia. Quelli come Buffon, che in estate avevano respinto le sirene di Mansour, probabilmente ci avrebbero ripensato, vedendo che a Manchester non finivano soltanto mezzi campioni alla Robinho ma i campioni veri come Kakà. I tifosi di qualsiasi squadra importante non avrebbero dormito sonni tranquilli.

La verità sulla vicenda di Kakà non la sapremo forse mai. Fu vera finzione? Oppure, forse per la prima volta nella vita, Riccardino ha imposto le proprie ragioni al padre che gli ha inculcato profonde passioni religiose ma anche altre più terrene, come l’attenzione ai guadagni? Kakà in questi giorni sembrava un pallone di coccio, dopo aver vinto quello d’oro. Piangeva e portava al cuore la maglia del Milan mentre il padre trattava con gli emiri. Alla fine è rimasto. Tutto sarà come prima. Forse. Perché in queste ore di gioia milanista tornano all’orecchio le parole dei procuratori più scafati che avevano previsto l’aborto dell’affare con il Manchester City ma con altrettanta certezza parlavano di un rinvio a giugno per la partenza di un campione che adesso sa di avere un prezzo per il Milan. Il Real come sponda futura? Sarà il tormentone del futuro anche se Riccardino e Berlusconi cercheranno di oscurarlo. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia Società e costume

Chi di tv ferisce, di tv perisce.

“In tv, soprattutto nei programmi di seconda serata, mi basta al massimo cinque minuti per sentire dire qualcosa contro di me”, ha detto Berlusconi, che aggiunge: “C’e’ una volonta’ di colpire chi si impegna allo strenuo per il bene del Paese, per gli interessi di tutti i cittadini e colpisce anche quelli della sinistra”. Per il presidente del Consiglio, questa situazione “non accade in nessuna tv nazionale del mondo, di nessun Pese civile del mondo”. Berlusconi vittima delle  televisioni fa rima, ma fa verità. Beh, buona giornata.

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

Gratuita la censura, gratuita la polemica.

 E’ stata rifiutata la campagna pubblicitaria dell’Unione degli atei, agnostici, razionalisti su due (!?) autobus urbani di Genova. La concessionaria  ha deciso di non concedere gli spazi comunali per lo slogan “La cattiva notizia è che Dio non esiste. Quella buona è che non ne hai bisogno”.

 

Apriti cielo: quelli dell’Unione si sono indiavolati e per tutta risposta hanno chiesto che il Comune di Genova revocasse la concessione alla concessionaria.

E’ vero che campagne simili sono state lanciate a Londra, a Barcellona, a Washington. E’ vero anche che ovunque hanno scatenato polemiche. Poiché  la polemica era appunto l’oggetto della comunicazione della campagna, Unione degli atei ha ottenuto l’effetto desiderato.

 

Con la variante molto più furba di quanto successo a Londra, a Barcellona o a Washington, perché questa è una polemica gratis, ottenuta senza neanche spendere una lira, pardon un euro, per acquistare gli spazi.

 

Ironia della sorte, il tutto è avvenuto a Genova, che lo stereotipo dice essere città abitata da persone parsimoniose (chiedo scusa agli amici genovesi, ma l’occasione era ghiotta, ancorché innocua).  

 

Comunque, questa mi pare proprio la morale della favola: gratuita la censura, gratuita la polemica. Per cui, parafrasando lo slogan, potremmo concludere: “la cattiva notizia è che la campagna non esiste, la buona è che non ne hai più bisogno”. Beh, buona giornata.

 

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

La pubblicità italiana e la carta stampata.

 La notizia è che Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente dell’Upa, l’associazione degli investitori di pubblicità, riferendosi all’analisi proposta da Giovanni Valentini ne “Il sabato del villaggio”, su Repubblica del 10 Gennaio, ha scritto: “Agli editori non posso che prospettare di utilizzare al massimo le loro potenzialità, accelerando la sinergia con la rete e continuando nel buon lavoro fatto fino a ora nell’innovazione dei loro prodotti.” E’ una notizia perché in passato Upa è sembrata essere sempre molto più attenta alla tv che alla stampa.

Fatto sta che è un bene che si torni a parlare di pubblicità e carta stampata. Lo si è fatto recentemente in un convegno a Milano, lo si è letto in questi giorni sui giornali, appunto. E’ un bene perché si mette in discussione, finalmente, un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l’intrattenimento attira pubblicità più dell’informazione.

E’stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare la tv. Quando dico scoppiare mi riferisco all’efficacia, o sarebbe meglio dire l’inefficacia del mezzo televisivo, che mostra la corda proprio in tempo di crisi: i consumi crollano nonostante la enorme pressione pubblicitaria televisiva.

La necessità di ampliare a tutta la filiera dei mezzi di comunicazione i messaggi pubblicitari, alleggerendo la pressione sulla tv è una “conditio sine qua non” del ruolo della pubblicità italiana, sul modello di quanto avviene in tutti i mercati occidentali. Bisogna aggiungere che se l’intrattenimento è un “bene voluttuario”, l’informazione è “un bene comune”, un fondamentale della nostra democrazia. La mediazione che i giornali forniscono tutti i giorni tra gli avvenimenti e i significati, vale a dire tra ciò che è successo e ciò che significa, è il ruolo irrinunciabile di ogni paese democratico, che ha il dovere di alimentare l’informazione, corretta e puntuale, perché la democrazia è tale se i cittadini sono consapevoli, aggiornati e partecipati della vita pubblica. Questo dovere e il relativo vantaggio valgono anche per le aziende che spendono soldi in comunicazione commerciale, per informare correttamente i propri clienti attuali e potenziali.

I lettori dei giornali, nonostante ricevano almeno tre copie gratuite di free press e abbiano la possibilità di trovare notizie aggiornate in internet, al cellulare o nei tg televisivi, rinnovano il rito dell’acquisto del quotidiano in edicola“, ha detto recentemente  Ferrucio De Bortoli, direttore de Il Sole 24 ore. A cui ha fatto eco Emanuele Pirella: “I giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole“. Osservazioni pertinenti col problema del rapporto tra la stampa e la pubblicità.

Non ci si può nascondere, tuttavia, quanta diffidenza ci sia su questo punto: i giornalisti non amano la pubblicità, perché la vivono intrusiva del loro lavoro, invadente gli spazi fisici del giornale. Se fanno buon viso a cattivo gioco è solo perché la pubblicità aiuta il giornale a vivere. Insomma, giornalisti e pubblicitari non si amano, va bene se al limite si sopportano. Ha scritto  Giovanni Valentini: “I giornali e i giornalisti sono chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. La svolta del New York Times insegna. Nuove sezioni specializzate, nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, vanno ideati e proposti al mercato per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, occorre incrementare l’ offerta di un servizio.”

I pubblicitari, dal canto loro hanno a lungo rincorso la tv e attualmente quasi si sentono diminuiti a prendere in mano penna e matita e fare una bella campagna su un quotidiano. Lo diceva recentemente anche Pirella, sottolineando quanto questo atteggiamento sia sbagliato e un poco patetico: “In passato era l’immagine, l’idea, il messaggio scelti dal creativo a fare la differenza in una campagna. Oggi sono i budget, che consentono il ricorso a effetti speciali, a registi famosi ...”.

Quanto ai clienti, cioè agli inserzionisti, essi continuano ad essere persuasi che più spot meno stop alle vendite. “La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti”, ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. “E’ un fatto assodato che la gente  non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario”, ha detto una volta Howard Luck Gossage, grande copy writer.

In altri termini, l’esperienza, nonché la pratica ci dice che il consumatore moderno passa senza soluzione di continuità, nell’ arco temporale di una giornata-tipo, dalla tv (la mattina a casa), alla radio (in auto per andare al lavoro), dalle affissioni (che incontra movendosi in città, compresi i mega schermi che cominciano ad essere sempre più numerosi sugli  edifici), ai free press (ai semafori o in metro), dal giornale (che vede la bar durante il caffè, che compra all’edicola, che trova in ufficio), a internet (che ha in ufficio sulla scrivania), da i monitor che sono stati piazzati nelle stazioni ferroviarie e negli aeropori, fino alle news che trova sul telefonino a ogni ora del giorno, fino di nuovo alla tv che ritroverà a casa la sera, rifacendo a ritroso il percorso-tipo, scandito dagli appuntamenti informativi e pubblicitari che ho appena descritto. In questo contesto,  il messaggio pubblicitario non può che essere “neutro” rispetto al mezzo che lo contiene e lo veicola, capace di adattarsi di più alle esigenze di chi il messaggio lo fruisce.

Bisogna essere invece molto d’accordo con Sassoli de Bianchi quando dice: “Noi dell’Upa riteniamo che sia un errore per le aziende sane privarsi di una spinta che ha un obiettivo molto ambizioso: tenere desta la fiducia.” Ma soprattutto, si deve sottoscrivere in pieno quanto aggiunge poco dopo: “E’ vero: i consumi ristagnano e gli investimenti in comunicazione arrancano, ma le aziende sane e le marche hanno il dovere di andare controcorrente.” Sembrerebbe davvero un buon viatico per attraversare la crisi, e uscirne tutti migliori di prima. 

Ridare forza attrattiva alla stampa per la pubblicità significa riscoprire un principio basilare: l’autorevolezza di una testata attribuisce credibilità al messaggio pubblicitario, dunque ristabilisce i fili della fiducia tra marca e consumatore. Contemporaneamente, obbliga il marketing e il creativo a essere all’altezza della reputazione della testata e della sua autorevolezza presso i lettori.

Occorre tuttavia superare vecchi preconcetti e vecchi tabù, anche per consentire alla carta stampata di reggere meglio la concorrenza sempre più aggressiva e invadente della tv che bombarda quotidianamente i telespettatori di spot, mini-spot, telepromozioni e televendite – ha scritto Giovanni Valentini, che aggiunge -Colpisce a questo proposito l’ immediato exploit della tv pubblica in Francia che lunedì scorso, nella sua prima serata senza spot in seguito alla riforma voluta da Sarkozy, ha registrato un boom di tre milioni e centomila spettatori in più.

Qui a quanto pare c’è  il punto della questione: come si fa concretamente a dare più spazio alla pubblicità sulla stampa? In altri termini, come si può passare dalle petizioni di principio ai fatti concreti? Siccome la crisi impone scelte decise,  ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa.  A tutto vantaggio del resto della filiera della comunicazione commerciale. Infatti, se gli investimenti nella tv rientrano nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale: dal web al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.

Con il vantaggio che l’idea farebbe la differenza, che la strategia farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza  si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv, non solo quella pubblica. Beh, buona giornata.

 

 

 

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