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Lo scandalo è che in Italia gli scandali non sono fatti gravi, ma semplici opinioni.

La nostra infinita emergenza
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Sono ormai anni che viviamo nell’emergenza, e quasi non ci accorgiamo che ogni mossa, ogni parola detta in pubblico, ogni sopracciglio intempestivamente inarcato, son sottoposti a speciali esami di idoneità, che mescolano etica e estetica, dover essere e presunto buon gusto. La mossa, la parola, il sopracciglio, devono adeguarsi all’ora del disastro: sia esso attentato terroristico o ciclone, tsunami o terremoto. Chi rompe le righe si copre di colpe, prestamente censurate. Vergogna e indecenza sono il marchio impresso sulla fronte di chi non ha tenuto conto del perentorio buon gusto. L’emergenza è diventata una seconda pelle delle democrazie, e per questo non ci accorgiamo quasi più dell’anormale convertito in normale: delle libertà che per l’occasione vengono sospese, dell’autonomia di giudizio che vien tramutata in lusso fuori luogo.

È un po’ come il corno che cresce d’improvviso sulla fronte di tutti i concittadini di Bérenger, protagonista dei Rinoceronti di Ionesco: arriva il momento in cui la protuberanza è talmente familiare ed estesa che chi non la possiede si sente un reietto, e lo è. Anche durante il terremoto in Abruzzo è stato così, e questo spiega lo scandalo assolutamente abnorme generato da una trasmissione televisiva – Anno Zero di Santoro – che era un po’ diversa dalle altre perché fondata sulla denuncia polemica: dell’organizzazione dei soccorsi, e soprattutto della secolare commistione fra affari, corruzione, malavita, edilizia.

Indecente è stata definita la trasmissione, perché questa non era ora di far scandalo: di «seminare zizzania con i morti ancora sotto le macerie, di descrivere l’Italia come il solito Paese di furbi, incapaci di rispettare ogni legge scritta e morale», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, l’11 aprile. Lo spazio smodato dato su giornali e telegiornali all’evento è esemplare, perché conferma una malattia democratica diffusa. Incapaci di dominare eventi più grandi di loro, le democrazie vivono sempre più di emergenze, ne hanno bisogno esistenziale. A partire dall’ora in cui è pronunciata la frase fatale: «Questo non è il momento», già è stato di eccezione. In tempi normali è proprio questa l’ora delle controversie. Se non nel mezzo del disastro, quando farne l’archeologia e denunciare?

Non così in stato d’eccezione, quando è il regnante a decretare natura e vincoli del momento. La sua sovranità è essenzialmente sulla vita e la morte, e il momento è dunque quello delle bare allineate, del supremo dolore, del lutto vissuto nell’unanime afflizione. Grazie a questo momento si crea un’unità magica, propizia all’intensificazione massima della sovranità. Viene mobilitato anche l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire». La Bibbia per la verità parla all’anima, ma nell’emergenza anima e politica si fondono. Assieme, esse giustificano lo stato d’eccezione che sempre esordisce con la soppressione, non si sa se davvero provvisoria, di libertà e abitudini alla critica vigenti in epoche di pace. Giorgio Agamben, che ha studiato tale materia, racconta come morte e lutto siano ingredienti dello stato d’eccezione sin da Roma antica: l’emergenza si chiamava iustitium, e in quei giorni veniva abolito il divieto di mettere a morte un cittadino senza ricorso a un giudizio popolare (Agamben, Lo Stato di eccezione, Torino 2003).

Stato d’eccezione o emergenza sono in realtà imbellimenti di quel che effettivamente accade, camuffano lo stato di guerra: per l’Oxford English Dictionary, sono suoi sinonimi, eufemismi. È in guerra che i comportamenti liberi, biasimatori, son ribattezzati disfattisti. Nell’emergenza guerra, disastro e morte richiedono un dover-essere e un dover-dire. È a questo punto che lo stato di eccezione si tramuta in regola, e il sistema giuridico politico in «macchina di morte». La morte fa tacere il popolo e al tempo stesso nutre il sovrano. È il grande correttore, regolatore: non dici cose scomposte davanti a una salma, anche se veritiere. Il potere usa la morte: diviene necrofago. L’uomo colpito da catastrofe è ridotto a vita nuda e quest’ultima sovrasta la vita buona, prerogativa di chi tramite la politica e la libera opinione esce dalla minorità. La nudità politica, scrive Hannah Arendt nelle Origini del Totalitarismo, può esistere anche senza diritti civili.

Il fenomeno non è nuovo, Agamben lo spiega molto bene. I giorni dello iustitium sono anche i giorni in cui si celebra il lutto del sovrano. Leggi e libertà non sono abolite ma sospese, perché l’essenza del potere (potere di vita e di morte) non appaia vuoto. Da allora ogni disastro, naturale o terrorista, è occasione di affermare tale essenza. Di mettere in scena non il morire o il multiforme soffrire dei cittadini, ma la possibile morte del sovrano e della stessa politica. L’unità si fa non attorno alle salme ma al sovrano, il quale dice: «Sono io in causa, e la vera posta in gioco è la dilazione della mia messa a morte, l’anticipazione rituale del lutto della mia persona».

Nella storia della democrazia c’è anche questo: l’eccezione che cessa d’esser tale, facendosi regola. Che non proclama più giorni di lutto, ma epoche. Tutto è guerra, in permanenza si tratta di riconfermare il sovrano unendo il mio col suo, la solidarietà emotiva di cui ho bisogno io e quella di cui necessita lui. L’idea che tale sia la guerra moderna nasce nel ’14-’18, ed è teorizzata da uno dei suoi protagonisti, Erich Ludendorff, nella Guerra Totale scritta nel 1935. Nella guerra democratica totale scompare la distinzione tra fronte e retrovia, militari e civili (Heimatfront è la fusione hitleriana – animista, dice Ludendorff – tra fronte e patria). Il governo delle emozioni permette di metter fra parentesi libertà e norme, e in questo ha le stesse funzioni della violenza fuori-legge. Il giornalista che aderisce agli imperativi di tale emergenza distrugge il proprio mestiere.

Nei disastri c’è chi soffre, chi governa, chi racconta (messaggero nella tragedia antica, giornalista oggi) e chi indaga rammentando. Ogni ambito ha un suo dover-essere, una sua autonomia. Se la priorità per il messaggero sono i sofferenti, si racconterà tutto quel che essi provano: gratitudine ma anche rabbia, sollievo per i soccorsi e ira suscitata da uno Stato complice di speculazioni edilizie. Chi ha letto Gomorra, ricorderà quel che Saviano scrive nel capitolo sul cemento armato, «petrolio del Sud», a pagina 235-236: «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: appalti, cave, cemento, inerti, mattoni, impalcature, operai… L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile.… Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezza Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi e ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia… Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova».

L’emergenza, come la guerra, ha sue leggi speciali. Non sono le leggi della dittatura, perché la dittatura crea nuove leggi. Lo stato d’eccezione permanente è più insidioso: non instaura regolamenti nuovi, ma sospende leggi e libertà creando vuoto legale, anomia. L’Ecclesiaste a questo punto non è parola di Dio, ma decreto del sovrano che assieme al giornalista-messaggero invoca unanimismo. Il giornalista nega se stesso, quando consente a mettere sullo stesso piano gli abusi dell’edilizia e gli «abusi di libertà» di chi punta il dito su tali abusi: invece di vigilare, giustifica – per sé e i concittadini – lo stato d’eccezione. (Beh, buona giornata).

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Un ragionamento sulle gaffes di Berlusconi.

da blitzquotidiano.it

Questo è un aggiornamento, basato sui fatti recenti, di un commento dedicato alla propensione alle gaffes del primo ministro italiano Silvio Berlusconi.

Lo si è visto durante il terremoto. Serio, durante i funerali, anche se visibilmente annoiato e impaziente. Ma composto, ineccepibile.

E ha dimostrato una capacità di rapporto con la gente, certo basata sul populismo più che sul sinceeroi sentimento, ma che ha fatto di sicuro bene alle migliaia e migliaia di abruzzesi rimasti senza casa e costretti a vivere sotto le tende. Passare con loro la Pasqua è stata una scelta giusta e intelligente, che si discosta dal freddo e imbarazzato comportamento del passato.

Non è che questo renda più buono Berlusconi: per i suoi avversari, però dovrebbe essere una ulteriore prova di quanto sia abile e per loro pericoloso.

Se poi ci voleva una conferma della tesi che le gaffes di Berlusconi sono in prevalenza frutto di scelte politiche, il terremoto in Abruzzo, nel grande dolore che ha provocato, l’ha data.

A smontare questa teoria non è valsa la montatura fatta da alcuni giornali stranieri di una frase detta da Berlusconi ad alcuni bambini rimasti senza casa a causa del terremoto in Abruzzo. Semmai si tratta della logica conseguenza di un uso e abuso di battute di spirito da parte del premier italiano, che spesso viene classificato come “gaffes”.

Per chi pensa che il premier Silvio Berlusconi non faccia mai niente a caso, quelle che per gli osservatori superficiali sono delle gaffes diventano invece degli atti politici ben precisi.
Non a caso Berlusconi le fa: come direbbero i suoi odiati giudici, reitera. Uno come lui, che vive di tv, politica e sondaggi, non lo farebbe se ne avesse, dai sondaggi dei riscontri positivi dalla sua base elettorale, o almeno una consistente parte di essa.

Facendo il cucù alla cancelliera tedesca Angela Merkel, trattando da pari a pari, come un coscritto, il presidente francese Nicolas Sarkozy, Berlusconi fa superare al nostro inconscio italiano un complesso di inferiorità verso gli stranieri, che trova riscontro in tanti film di Alberto Sordi o di Totò.

Siamo abituati a essere guardati dall’alto in basso un po’ in tutto il mondo. Ci consoliamo dicendoci da soli che siamo simpatici perché distribuiamo pasta e pomodoro (salvo poi essere ripagati da bombe e fucilate): infatti quegli stessi stranieri extracomunitari che umilmente ci servono come badanti o camerieri, a casa loro ci chiamano proprio così, “macaroni”. E così fanno anche i francesi: anche in questo caso, un classico del cinema, “Rififi”, di Jules Dassin, conferma.

Berlusconi in un certo senso pareggia il conto, ci rende giustizia, ci fa sentire alla pari degli altri. Noi lo neghiamo, ma intimamente li sentiamo superiori a noi. Che poi così facendo ribadisca nelle loro teste il concetto che non siamo gente simpatica sì, ma poco seria e quindi poco affidabile, diventa marginale. A un’intepretazione politica è certamente ascrivibile la più clamorosa delle gaffes, quella a Buckinghan Palace, davanti alla regina d’Inghilterra, anzi, dietro le sue spalle. E anche la susseguente ira di Berlusconi, che se l’è presa con i giornali invece che con sé stesso, ha una evidente motivazione politica.

Vediamo i due episodi.
Berlusconi, dopo la foto di gruppo a Buckingham Palace la vigilia del summit dei G20, non sta nella pelle, vuole a tutti i costi la foto con il presidente americano Barack Obama e lo chiama a gran voce, come si sente chiaramente nel video diffuso da Youtube. «Mister Obamaaaaaa!», chiama a voce alta, provocando, come in tanti hanno potuto vedere, il fastidio della sovrana.

La foto che ne consegue, è anch’essa una foto di gruppo , molto meno informale della prima, con tutti i personaggi ritratti felici e sorridenti come scolari in gita. Al vertice del gruppo, più in alto di tutti, c’è Berlusconi. Accanto Obama. Berlusconi non sta nella pelle dalla gioia. Obama, col pollice trionfalmente alzato e un ghigno soddisfatto, è anche lui al settimo cielo. Le ragioni della gioia di Obama sono evidenti: un summit che poteva naufragare davanti agli occhi del mondo intero per il nulla di fatto che vi è stato ottenuto, è invece riuscito a trasferire al mondo un’immagine di successo il cui effetto psicologico, se non altro sui sondaggi, almeno qualche tempo dovrebbe continuare.

E Berlusconi? Beh, lui ha le sue ragioni e sono più di una. Ha fatto la pace con Obama. Posando con lui, Obama ha mostrato di non essersela presa proprio per la battuta sulla abbronzatura del presidente americano. Anzi, non solo posa, ma posa felice, e quasi quasi le loro teste si sfiorano nel sorriso.
Obama, che ha escluso l’Italia dal suo viaggio in Europa quasi per punire il governo Berlusconi dell’eccessivo appiattimento su Bush (e dato che l’Italia conta nel mondo molto poco, gli americani hanno fatto finta di niente con l’Inghilterra di Gordon Brown ma a noi ce l’anno fatta pagare, umiliandoci: Obama è stato in Gran Bretagna, Francia, Germania e Turchia, ha visto testa a testa i premier di Spagna e Grecia, ma con Berlusconi solo la foto, con tutti gli altri, e a gentile insistenza).

Ora tutto sembra superato, Obama verrà in Italia in luglio, per il G8, ma nel frattempo Berlusconi gli ha strappato un invito a Washington, del genere «se proprio vuoi, vieni pure». Non c’è che dire: «Silvio l’è propi simpatic, ogni tanto sarà un po’ monello, ma alla fine tutti lo perdonano e vince semper lu».

In questa logica, anche l’irritazione per il risalto che siti e giornali italiani hanno dato all’aristocratico scatto di nervi della regina è un fatto politico. La regina, oltre a essere una signora di ottant’anni che non sopporta i rumori e i toni di voce eccessivi, è anche discendente da una stirpe che, per dritto o per traverso occupa quel trono da quasi mille anni. Subire un rimbrotto da una persona così è come entrare al Grand’Hotel con le scarpe gialle o bicolore e essere guardati dall’alto in basso da ospiti e portieri con quel “mepris” che ti fa arrossire per la brutta figura (espressione italiana entrata ormai nel linguaggio internazionale).
Il rimprovero della regina è old money contro new money, è la maionese impazzita che rovina il pesce.

È quello sguardo che ti dice: sei sempre lo stesso, un povero “macarone”. E dopo tanti sforzi per accreditarsi con “Mister Obamaaa”, la delegittimazione più nera e umiliante.

E un po’, che uno sia pro o contro Berlusconi sul piano politico poco importa, la cosa dovrebbe irritare tutti. Non c’è solo Berlusconi a fare gaffes al mondo. Un giornale inglese di recente ha stilato l’elenco delle venti gaffes più recenti del presidente americano Barack Obama e del suo vice Joe Biden. E non hanno proprio nulla da imparare dal povero cavaliere. Ma tant’è, Lui è Lui, è ricco, e soprattutto italiano. E gli italiani nel mondo sono, ci piaccia o no, quel che i romeni sono in Italia. Anche per questo, forse, un politico che, nonostante l’età, nutre ancora grandi ambizioni di rappresentare l’unità nazionale, alle belle o brutte figure dovrebbe stare più attento. (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

C’è chi vuole portare in tribunale il servizio meterologico dell’aeronautica.

di ALBERTO MATTIOLI da lastampa.it

Siate ottimisti. Pensate positivo. Gettate il cuore oltre l’ostacolo e i pronostici negativi nel cestino. Giustissimo. Ma forse tutte queste iniezioni di ottimismo scacciacrisi stanno provocando un’overdose. Perché adesso tocca alle previsioni meteo che devono essere, se non sempre giuste, almeno positive. E le sorti vacanziere comunque magnifiche, progressive e soprattutto soleggiate. Altrimenti, crepi il meteorologo: la «class action» è pronta e pende «sugli istituti che diffondono previsioni errate».

L’ha deciso l’Associazione Contribuenti.it, che ha commissionato al solito istituto di ricerche uno studio che dimostra come gli annunci errati di brutto tempo fatti a ridosso delle vacanze di Pasqua o di quelle estive riducono i vacanzieri dal 20 al 50%. Risultato: un danno di circa 10 miliardi di euro per albergatori, ristoratori, osti, guide, taxisti, bagnini, vu’ cumprà e chiunque lavori durante le ferie degli altri. Insomma, «non piove, meteorologo ladro». Non solo: il presidente dei Contribuenti.it, dall’impegnativo nome di Vittorio Carlomagno, fa addirittura notare che le previsioni sballate «potrebbero determinare il reato di diffusione di notizie false e tendenziose» e qualche pm in crisi d’astinenza da titoli di giornale potrebbe pure prenderlo sul serio, dato che in Italia, come tutti sanno, la realtà supera la fantasia. Dunque, vietato profetizzare nebbie in Valpadana, nevicate fuori tempo massimo sulle Alpi, temporali in Riviera e ombrelli aperti al posto degli ombrelloni, cioè tutto quel che è capitato nelle ultime estati italiane, meteorologicamente bizzarre per la gioia dei quotidiani alle prese con la bassa pressione agostana di notizie.

E dire che, superati i tempi eroici del «rosso di sera / bel tempo si spera» e del temporale sicuro perché alla povera zia facevano male i calli, i nipotini di Bernacca hanno raggiunto un grado di affidabilità piuttosto rassicurante. Per esempio, per il fine settimana di Pasqua si prevedeva maltempo su tutta la parte sinistra dell’Italia (quella geografica; quella politica ormai alle grandinate è abbonata come Fantozzi alla nuvoletta) e infatti ieri Torino sembrava Edimburgo in una giornata di novembre particolarmente umida.

Però questi contribuenti organizzati sono davvero tosti. Ieri, per esempio, oltre a minacciare rappresaglie su Caroselli e Giuliacci, hanno lamentato il crollo del potere d’acquisto in un modo decisamente originale. Hanno infatti diffuso una fondamentale classifica dei dolci pasquali che vengono riciclati di più. Si apprende così che un italiano su tre regalerà la colomba che un altro italiano gli ha regalato: è la famosa migrazione primaverile degli uccelli ed è già stata cantata da Nilla Pizzi nel celebre «Vola, colomba». Al più classico dei dolci pasquali seguono, lo scriviamo per la storia e anche perché stiate attenti alle date di scadenza, la pastiera, la pinza triestina, la pizza pasquale, l’uovo di Pasqua fondente, la colomba allo zabaglione, le scarcelle pugliesi, il casatiello napoletano, i coniglietti pasquali e la pigna dolce.

La morale è che, dai meteorologi ai riciclatori di colombe, nessuno sfugge ai Contribuenti punto it. Quindi state attenti. Punto e basta. (Beh, buona giornata).

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Società e costume

Area 51: svelato il segreto della base segreta.

da lastampa.it

L’aereo più veloce del mondo, successive generazioni di velivoli-spia, la capsula lunare Apollo e una base sotto il sito dei test nucleari dove l’accesso è proibito: sono le prime, scarne, notizie sui segreti dell’Area 51 che emergono da documenti del governo Usa declassificati dalla Cia, che ha anche autorizzato a parlare alcuni dei tecnici che vi hanno lavorato.

L’Area 51, a poco più di un’ora di auto a nord-ovest di Las Vegas in Nevada, è la base aerea della quale il governo non riconosce neanche l’esistenza ma dove gli esperti di Ufo ritengono che siano nascosti, dalla fine degli Anni 40, dischi volanti e corpi di extraterrestri. Le testimonianze di tecnici ed esperti della base lasciano aperta tale ipotesi perché, come dice lo scienziato Stanton Friedman, «c’è una base sotterranea» sotto il sito nucleare Jackass Flats nella quale entrano in pochi e «l’esistenza di segreti governativi è un fatto della vita come tanti altri».

Ciò che accomuna i documenti declassificati è come il personale dell’Area 51 si sia giovato negli anni delle voci sulla presenza di Ufo al fine di celare i progetti che il Pentagono stava realizzando nel massimo della segretezza. Fra questi il primo aereo-razzo degli Stati Uniti, l’X-15, la capsula spaziale Apollo che venne adoperata per raggiungere la Luna e anche i veicoli che servirono ai primi astronauti per atterrare e spostarsi sul Pianeta sconosciuto. In ogni occasione, racconta Thornton Barnes, ex ingegnere dei progetti speciali dell’Area 51, «i veri Ufo eravamo noi» perché i team tecnici lavoravano con la sicurezza che quanto di più anomalo fosse stato osservato da lontano sarebbe stato scambiato per una traccia di esistenza extraterrestre.

«I miti degli Ufo resero molto più agevole il nostro lavoro», ammette Barnes, che ha collaborato anche al progetto A-12 Oxcart che la Cia ha deciso iniziare a svelare ad oltre 50 anni dalla realizzazione. Si tratta di un aereo superveloce Mach-3, che nel bel mezzo della Guerra Fredda venne realizzato dalla Lockheed al termine di una fase di sperimentazione molto lunga e faticosa. Vennero fatti 2850 test di volo con l’impiego di centinaia di tecnici e alla fine il Pentagono riuscì ad avere quanto cercava: un velivolo in grado di viaggiare a 2200 miglia orarie e 30 mila metri di altezza, ovvero l’aereo più veloce del mondo che nessun sistema di sorveglianza dell’Urss sarebbe mai riuscito a intercettare e neanche a vedere.

Barnes, che era un esperto di Mig sovietici, venne scelto dalla Cia per seguire il progetto Oxcart al fine di bucare le difese aeree sovietico e l’intento venne raggiunto a metà degli Anni 60 moltiplicando test di volo talmente anomali da dare l’impressione di essere dei sorvoli di Ufo perché da lontano si vedevano solo lunghe scie di luce che sparivano immediatamente. Poiché Oxcart era un segreto gelosamente custodito da Cia e aviazione, spesso i suoi voli di prova facevano scattare l’allarme Ufo da parte di altre agenzie governative. Oxcart fu in quel periodo un fiore all’occhiello della Difesa americana, confermò di essere un’arma che metteva in difficoltà i sovietici e per l’ex supervisore di voli Harry Martin, che oggi ha 77 anni, coincise con «il periodo più bello della mia carriera» perché fu il frutto del lavoro «del migliore gruppo di persone con le quali abbia mai lavorato». I racconti dei tecnici, che la Cia ha autorizzato a parlare con il «Los Angeles Times», convergono nello spiegare che l’Area 51 servì alla Cia soprattutto per realizzare e testare diverse generazioni di aerei spia destinati a sorvegliare dall’alto il territorio dell’Unione Sovietica dopo l’abbattimento nel 1960 dell’U2 che obbligò a una rapida sostituzione. Il caccia F-117 Stealth, invisibile ai radar e adoperato nei conflitti degli ultimi anni, è il diretto discendente di questa tecnologia. (Beh, buona giornata).

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Il Senato approva la legge sul testamento biologico che voleva il Card. Bagnasco.

L’ EGEMONIA PERDUTA
di Stefano Rodotà. (da Repubblica — 24 marzo 2009)

UN MONDO vastissimo, compresi molti cattolici, è rimasto sbalordito di fronte ad alcune affermazioni del Papa, governo e istituzioni internazionali hanno protestato e i vescovi italiani, invece di interrogarsi seriamente e criticamente su una vicenda così grave, la trasformano in un pretesto per lanciare un proclama intimidatorio, un vero e proprio diktat al quale Parlamento e politica italiana dovrebbero inchinarsi. Non è nuova l’ arroganza di una politica vaticana che, debole nel mondo, cerca occasioni di rivincita nel giardino di casa, in questa povera Italia che, presentata come il luogo dal quale doveva partire la riconquista cattolica del mondo, appare sempre di più come un fortilizio dove una gerarchia disorientata cerca di rassicurare se stessa alzando la voce.

Con parole forti si vuole imporre l’ approvazione di una legge sul testamento biologico sgangherata e incostituzionale, lesiva dei diritti delle persone. Si urla contro una deriva verso l’ eutanasia mentre il Senato sta discutendo un disegno di legge lontanissimo dall’ apertura che, su questo tema, hanno mostrato le conferenze episcopali di Germania e Spagna. Siamo di fronte ad una prova di forza, alla volontà vaticana di sottomettere il Parlamento. Sono in gioco proprio la sovranità parlamentare e, con essa, l’ autonomia dello Stato. Una inerzia colpevole, una pavidità delle istituzioni lascerebbero oggi un segno profondo sulla stessa democrazia. E un intervento così diretto può addirittura far venire il sospetto che si voglia incidere sulle dinamiche interne del nascente Pdl, chiudendo ogni spiraglio di laicità e autonomia

I governi di Francia e Germania, l’ Unione europea, il Fondo monetario internazionale avevano criticato le parole del Papa sull’ uso del preservativo, con una presa di distanza che metteva in discussione il ruolo internazionale della Chiesa. Il governo tedescoè guidato da una donna cattolica, Benedetto XVI aveva compiuto un viaggio in Francia accompagnato da parole imp e g n a t i v e d e l p r e s i d e n t e Sarkozy sulla necessità di passare ad una laicità “positiva”, parole che lo stesso presidente aveva già pronunciato in occasione della sua visita ufficiale a Roma. Assume grande significato, allora, la decisione di governi “amici” di non riconoscersi nelle posizioni della Chiesa. A ciò dev’ essere aggiunta la decisione di Obama di firmare la dichiarazione sui diritti degli omosessuali, proposta all’ Onu proprio dalla Francia e che aveva suscitato una durissima reazione del Vaticano.

Viene così respinta la pretesa vaticana di dettare al mondo la linea etica su grandi temi della vita, ed emerge un isolamento che non è solo diplomatico, ma rivela una perdita di egemonia culturale. Ora il tema del conflitto è costituito dalla legge sul testamento biologico. Tardivamente ci si è accorti di quanto fosse saggia la richiesta di moratoria, di un tempo di riflessione che allontanasse emozioni e strumentalizzazioni nell’ affrontare un tema che riguarda la libertà stessa delle persone.

Forse anche i cento “ribelli” del Pdl che hanno firmato contro i medici-spia dovrebbero rendersi conto che quella legge è anch’ essa profondamente negatrice di diritti e che è necessaria una riflessione più profonda sui rischi di un uso sbrigativo e autoritario dello strumento giuridico. Riflessione, peraltro, che dovrebbe essere estesa ad altre materie, anch’ esse affrontate finora in modo sbrigativo. Non ci si è accorti dei rischi dello stillicidio di norme che riducono la tutela della privacy, della pericolosità di proposte che vogliono introdurre controlli e censure per Internet, della disinvoltura con la quale sono state approvate in prima lettura le norme sulla banca del Dna.

Se la nuova sensibilità per la dimensione dei diritti non è solo una fiammata, di tutto questo è bene che si cominci a discutere seriamente e fino in fondo. Moratoria o non moratoria, è indispensabile ribadire in ogni momento che il testo della maggioranza sul testamento biologicoè un ammasso di incostituzionalità, di regressioni normative, di piccoli deliri burocratici e linguistici, di procedure che produrranno nuove contraddizioni e nuove angosce. Non vi sono astuzie parlamentari che possano redimere quel testo dai suoi peccati. Ricordiamo che appena ieri, a fine dicembre dunque già nel fuoco della polemica sul caso Englaro, la sentenza 438 della Corte costituzionale ha riconosciuto che l’ autodeterminazione costituisce un “diritto fondamentale” della persona. Come si concilia con questo diritto la pratica cancellazione del consenso informato, la sua degradazione da manifestazione di volontà a semplice “orientamento”, come fa il testo di maggioranza? Come non vedere che, dietro una versione assai fumosa della formula dell’ “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, il potere sul morire viene consegnato ai medici, facendo enormemente e impropriamente crescere la loro responsabilità? Come non vedere che il rifiuto da parte del medico di dare attuazione alle direttive anticipate creerà nuovi drammi, nuove rappresentazioni pubbliche del dolore e ricorsi che trasferiranno al giudice la decisione finale sul morire, cioè esattamente quello su cui si è tanto polemizzato?

Sono interrogativi provocati da pervicacia politica e incultura, dal fatto che la dimensione costituzionale non appartiene a questo governo e questa maggioranza, che vogliono cogliere ogni occasione per cercar di liberarsene. Proprio per questo si cerca di costruire una Costituzione abusiva, dove la possibilità di imporre per legge trattamenti obbligatori è svincolata dall’ unica sua premessa costituzionalmente corretta, il rischio per la salute pubblica, come hanno sempre messo in evidenza gli studiosi (venerata ombra di Costantino Mortati, grande costituente cattolico, manifestati!); dove si propongono indecorosi pasticci tra rifiuto delle cure e vendita di organi; dove il rispetto della dignità è convertito in strumento per imporre una misura della dignità in conflitto con la libertà di scelta della persona. Una vigile attenzione per i diritti dovrebbe segnare la discussione politica, il primo passo dovrebbe essere appunto il ritorno pieno nella dimensione costituzionale. E, insieme ad esso, i legislatori dovrebbero interrogarsi sui limiti della legge, su quanto si addica alla vita “l’ ipotesi del non diritto”, che attribuisce alla norma giuridica non un illimitato potere di ingerenza, ma la funzione di costruire le condizioni necessarie perché ciascuno possa decidere liberamente. – (Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Roma-Italy, storia di ordinaria xenofobia (con buona pace del sindaco Alemanno)

(lettera a il messaggero.it)
Ostia, Roma, linea 05/ treno 5 vettura 6024 diretto a Via Ebridi proveniente da Via Mar Rosso alla prima fermata dopo che Via dei Velieri incrocia Viale Vasco de Gama sono costretto ad arrestare la corsa del mezzo, aprire le porte e per la seconda volta in meno di 12 mesi a frappormi tra una donna italiana e una ragazza straniera (stavolta era dell’est europeo anziché nera) per evitare che si arrivi alle mani e finisca per pagarne il conto un bambino.

La vettura era piuttosto piena, la giornata bella e tutto procedeva tranquillamente quando una signora italiana di piccola statura con i capelli biondi ha iniziato a inveire contro una giovane ragazza per il passeggino con il bambino dentro che a suo dire le intralciava il passaggio, ne è nato un alterco tra le due donne con i toni usati dalla signora italiana che in un crescendo rossiniano divenivano sempre meno inerenti al passeggino e sempre più a sfondo razziale.

La giovane mamma ha avuto inizialmente un reazione di indifferenza e silenzio per poi cercare di rispondere educatamente quando alla fine, ripetutamente insultata (si è partiti da “siete tutti assassini” fino a “rimonta sur gommone”) in preda alle lacrime si è lanciata addosso alla sua controparte, inevitabile l’arresto della vettura, l’apertura delle porte e il dover intervenire frapponendomi tra le due contendenti, per fortuna questa volta non ho riscontrato la totale indifferenza della volta precedente e un ragazzo è corso in mio aiuto per sedare la lite ma purtroppo la tensione si è diffusa e alla fine l’intera vettura si è divisa tra chi esigeva da me che facessi scendere la giovane ragazza e il suo passeggino e chi altresì incitava invece a far scendere la signora italiana.

Una situazione assurda in cui ho dovuto urlare a squarciagola per sedare gli animi e affermare in tono imperativo che non avevo la facoltà di far scendere nessuno e che non potevo assolutamente toccare nessuno; in tutto questo tra le sostenitrici (perché la cosa triste è che a quell’ora verso le 11.39 i passeggeri sono per lo più anziane e donne) della defenestrazione della ragazza e del passeggino spuntava una signora bionda che mi accusava di essere la causa del problema anzi di averne in toto la colpa e la responsabilità perché avrei dovuto sin dall’inizio impedire alla ragazza e al suo passeggino di salire a bordo del mezzo!

A mio vantaggio per sedare gli animi e contenere la situazione ha giocato il tipo di vettura (Mercedes Citaro) caratterizzato da pochi posti in piedi, corridoio di camminamento strettissimo (permette il passaggio di una sola persona), due solo porte (di cui una singola posta sulla parte anteriore) con il quale ho cerchiobottistamente convinto le parti in causa che sebbene la norma preveda che i passeggini siano chiusi e i bambini presi in braccio era pur vero e incontrovertibile che il modello di bus era privo di spazi nei quali seppure chiuso fosse possibile tenere il passeggino (il corridoio ne risulterebbe comunque ostruito e lo spazio tra sedili è insufficiente, sfido chiunque con un passeggino e un metro a sostenere il contrario e dimostrarlo) , alla fine ho convinto la signora italiana ad accomodarsi vicino a me al posto guida (scoperto) e l’ho portata a distanza di sicurezza dalla ragazza dell’est.

Ciò che mi ha molto colpito è la vicinanza di due casi simili in uno spazio di tempo non molto ampio con un iter identico e un casus belli futile, indubbiamente le caratteristiche tecniche della vettura hanno influito ma la volta precedente si trattava ma questo non spiega il sentirsi coinvolto con il dovere di schierarsi di tutti gli altri passeggeri, si è calpestato tutto dalla sacralità della maternità (e a farlo erano delle donne!!!) all’innocenza di un bambino fino alla dignità umana!

La cosa sconvolgente è che erano presenti tra le passeggere donne anziane che hanno visto la guerra, le deportazioni, il fascismo e che pure inveivano genericamente contro la ragazza pretendendo che la buttassi fuori e la lasciassi a piedi per il passeggino ma sottolineando che se lo teneva aperto era per la sua provenienza geografica come se questa determinasse aprioristicamente il suo comportamento!

Se anche chi rappresenta la memoria vivente del passato ha dimenticato quanto orribile sia discriminare una persona, un essere umano per via del suo luogo di nascita mi chiedo se non si sia passato il confine che ci divide da una società non più degna di questo nome.

La cosa bella (si fa per dire) è che tutte le donne munite di passeggino non lo chiudono mai! Di qualunque colore, razza o religione! E che solitamente invitarle a farlo scateni una reazioni che vede l’autista letteralmente ricoperto di insulti da tutti i passeggeri che immantinentemente solidarizzano con la mamma in barba alle regole! L’altra cosa che evidenzia quanto sia soggetto a variazioni notevoli il comportamento umano è che se invece di una giovane ragazza sola ci fossero stati 4 o 5 bulletti (made in italy o d’importazione non conta) con i piedi sui sedili e la musica a tutto volume nessuno avrebbe fiatato!

Ci sono cose che non capirò mai. (Beh, buona giornata).

Roberto Staiano

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Lavoro Leggi e diritto Scuola Società e costume

L’Italia non è un paese per giovani.

di ROSARIA AMATO da repubblica.it

L’età giusta per un ingresso adeguato nel mondo del lavoro? Trentacinque-quarant’anni. E per una stabile affermazione professionale? Dai 50 ai 60. Non si tratta di una boutade, ma dei risultati del rapporto del Forum Nazionale dei Giovani e del Cnel, in collaborazione con Unicredit Group, dal titolo ” Urge ricambio generazionale – Primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova”.

Già i titoli dei vari capitoli del rapporto la dicono lunga sulle conclusioni dei ricercatori: “Non è un Paese per giovani: l’emarginazione politica di una generazione”. Oppure “In paziente attesa del proprio turno. Diventare medico in Italia”. O ancora: “L’odissea dei giovani avvocati tra la libera professione e la trappola del precariato”. I vari percorsi professionali analizzati nel corso dell’indagine differiscono tra loro per le caratteristiche, ma non per le enormi difficoltà incontrate in misura sempre maggiore dai giovani, soprattutto negli ultimi anni.

“Il quadro che emerge non è incoraggiante – osservano gli autori del rapporto – e lo spaccato della gioventù italiana è permeato da una forte sicurezza individuale e sociale: i giovani italiani, seppur capaci e meritevoli, a fatica riescono ad affermarsi professionalmente e ad emanciparsi dalla propria famiglia prima dei quarant’anni. Non a caso si è andata affermando una nuova categoria sociale: quella dei giovani-adulti. Né tanto meno i giovani italiani sono nelle condizioni di poter incidere sulle scelte politiche, economiche e sociali della nazione, essendo esclusi da tutti i cosiddetti “circuiti” del potere”.

Under-35: precario uno su due. Prima ancora che dalla politica, tuttavia, l’emarginazione dei giovani italiani nasce nel mondo del lavoro. “Incertezza, disoccupazione, bassi salari sono tre dei principali fattori di disagio con cui i giovani guardano al problema del lavoro”, dice il presidente del Cnel Antonio Marzano. I dati: oltre un collaboratore su due ha meno di 35 anni. Ma non si tratta di contratti d’ingresso: secondo l’Istat, il 73,1% dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, a distanza di un anno erano ancora nella stessa posizione. Naturalmente chi lavora per 10 anni a progetto, come collaboratore, o a tempo determinato “ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto escluso dalle posizioni di vertice”.

Per i giovani retribuzioni più basse. Lavori meno importanti, retribuzioni più basse. “Se nel 2003 il guadagno medio lordo di un giovane d’età compresa tra i 24 e i 30 anni – si legge nel rapporto – era di 20.252 euro, rispetto ai 25.032 euro percepiti dagli over50, nel 2007 il divario si è significativamente ampliato: a fronte dei 22.121 euro corrisposti agli under30, i 51-60enni hanno percepito una retribuzione media lorda di 29.976 euro”.

E i disoccupati sono in forte aumento. Ma tra gli under-35 non ci sono solo i precari malpagati, ci sono anche i disoccupati, e ce ne sono molti di più che nelle altre fasce di età. “Tra il 2006 e il 2007 crescono di circa 200.000 i giovani inattivi, cioè ragazzi che non lavorano e non cercano lavoro. Questi giovani hanno avuto un brusco cambiamento di status: nel 2006 erano formalmente inseriti nelle forze di lavoro (come occupati o persone in cerca), mentre nel 2007 hanno deciso di non provare nemmeno a cercare un lavoro”. A questi si aggiungono 430.000 giovani che nel 2006 erano in cerca di prima occupazione, e l’anno successivo sono risultati inattivi.

Classi dirigenti sempre più vecchie. Visto che i giovani sono tenuti fuori dal mondo del lavoro, o al più lavorano in posizione marginali, guadagnando poco, le classi dirigenti negli ultimi anni sono invecchiate inesorabilmente. Da un’analisi condotta sulla banca dati del Who’s who (il database dei top manager pubblici e privati) risulta “un sensibile aumento dell’età delle classi dirigenti italiane: si è passata da una media di 56,8 anni a una di quasi 61 (60,8 anni). Un sistema di potere che invecchia di anno in anno, quello italiano, in tutti gli ambiti: anche i neoparlamentari hanno un’età media di 51 anni. Dal 1992 a oggi i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10% degli eletti alla Camera, fatta eccezione per la XII Legislatura (nella quale costituivano il 12,4%). Infatti negli anni ’90 sembrava essersi instaurata, almeno nel Parlamento, una dinamica favorevole ai giovani, ma nell’attuale decennio si è decisamente interrotta. E quindi i giovani dai 25 ai 25 anni, che costituiscono il 18,7% della popolazione maggiorenne, hanno una rappresentanza pari solo a un terzo dell’incidenza effettiva sugli elettori.

La Lega Nord il partito più “giovane”. La rappresentanza giovanile è scarsa in tutti i partiti, con l’unica eccezione della Lega Nord, che presenta nell’ultima legislatura un 20,1% di eletti tra gli over35 contro l’11,4% tra i 25-35enni; per gli altri partiti la percentuale di eletti in età matura è quasi il triplo (47,4%). Anche nelle amministrazioni comunali, sostengono gli autori del rapporto, “nell’ultimo decennio gli under35 hanno perso terreno: finanche a livello locale le oligarchie di partito tendono ad estromettere le nuove generazioni dal governo del territorio”.

L’Università: nessun ricambio generazionale. Il rapporto analizza poi alcune professioni in particolare. Si comincia dal mondo accademico, sclerotizzato in misura inimmaginabile: tra i professori ordinari l’età media è di 59 anni. “Nel dettaglio, la metà dei professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su 100 (7,6%) hanno compiuto i 70 anni”. Non va meglio per le fasce più basse: l’età media dei professori associati è di 52 anni, e quella dei ricercatori è di 45. Solo il 3,4% di chi ottiene un dottorato di ricerca, infine, ha meno di 28 anni.

Ma va male anche nelle libere professioni. Non va meglio nelle libere professioni. Il giornalismo, la medicina, l’avvocatura e il notariato hanno tempi di accesso lunghissimi: “Per i più stage, tirocini gratuiti e condizioni di estremo precariato o sotto-occupazione di susseguono senza soluzione di continuità fino a oltre 40 anni. Qualche esempio: l’età media dei praticanti giornalisti è di 36 anni. I medici con non più di 35 anni sono poco meno del 12%, mentre i 35-39enni, rispetto a 11 anni fa, sono diminuiti del 13,8%. Mentre gli avvocati, pur iscritti all’albo, sono costretti per anni e anni a un ruolo umiliante di garzoni di bottega, e tra i notai due su dieci sono figli d’arte.

I padri tolgono in pubblico e restituiscono in privato. In questo scenario desolante il ruolo delle famiglie è ambiguo. Infatti in Italia ci sarebbero tutte le condizioni perché esploda un feroce conflitto generazionale tra i padri che mantengono il potere fino alla tomba e i figli esclusi, ma non esplode un bel niente perché, rilevano gli autori dell’indagine, “i genitori italiani sono tra i più generosi d’Europa quando è necessario dare un aiuto ai propri figli”, mentre “nel momento in cui sono chiamati a pensare ai giovani in quanto tali (e quindi ai figli degli altri) diventano molto egoisti”. In pratica, conclude il rapporto, “ci troviamo di fronte a una vera e propria legge del contrappasso: ciò che i genitori tolgono ai propri figli nella vita pubblica, è restituito (e con interessi molto alti) all’interno dei nuclei familiari”. Ma le conseguenze non sono positive: “Il rischio è che i giovani, rassegnati a questo immobilismo sociale, continuino ad accettare la propria condizione di emarginati in una società organizzata per caste e al cui vertice si trova una gerontocrazia inamovibile”.

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Attualità Società e costume

Der Spiegel: ”di tanto in tanto l’inguine di Berlusconi sembra prendere il posto del suo cervello”.

da blitzquotidiano.it

Il sito tedesco Spiegel.de, version online del noto settimanale tedesco, pubblica un lungo articolo in cui attacca e prende in giro Silvio Berlusconi, raccontando anche, almeno in un caso, cose non vere, come la favola di aver detto al presidente francese Nicolas Sarkozy ”io ti ho dato tua moglie” riferendosi a Carla Bruni.(Delle successive – e documentate – smentite lo Spiegel non fa parola. Scrive invece: ”la frase fornisce un’indicazione di quello che in quel momento passava per la testa di quest’uomo’)’.

Prosegue Spiegel.de: ”Silvio Berlusconi è ossessionato dal potere e di conseguenza anche dal sesso, e non sembra importargli molto che si sappia in giro”. A questo proposito, il settimanale racconta che lo scorso ottobre il premier sarebbe stato visto uscire da un night club milanese nelle prime ore del mattino, dopo esser rientrato da Parigi per un vertice sulla crisi.

Poi Spiegel cita testualmente Berlusconi. Rilevando che ha 72 anni, dice: ”Anche se dormo tre ore mi resta la forza sufficiente per fare l’amore per altre tre ore”.

Quindi il settimanale ci va giù pesante, scrivendo che ”di tanto in tanto l’inguine di Berlusconi sembra prendere il posto del suo cervello”, come quando, dopo una serie di stupri in Italia, il premier promise di aumentare le misure di sicurezza aggiungendo: ”Per essere completamente sicuri dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle ragazze d’Italia. Ma non credo che potremmo mai riuscirci”.

Spiegel fa anche un paragone tra Berlusconi e Mussolini citando l’esperto di comunicazioni Federico Boni: ”Mussolini interpretava vari ruoli: contadino, cavallerizzo, operaio, padre. Era il Duce che serviva il suo Paese. Berlusconi, d’altro canto, e’ un super-eroe senza caratteristiche che come un personaggio dei fumetti puo’ assumere qualsiasi forma: allenatore di calcio, messia, invasato dal sesso, uomo di famiglia, leader nazionale, pianista di night club, cattolico devoto e libertino, padrone industriale e operaio in fabbrica”.

Conclude Spiegel: ”Berlusconi ha conquistato l’Italia, l’ha persa e l’ha riconquistata. L’ha tradita molte volte, ed altrettante volte l’ha sedotta”. Quanto alle donne, ”il premier ne ha amato veramente solo una: la mamma Rossella, morta l’anno scorso, i cui consigli teneva in considerazione più di quelli di Putin, Bush, Blair e perfino del papa”. (Beh, buona giornata).

FONTI INFORMATIVE
der spiegel

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Attualità Società e costume

Mentre il Pd risale nei sondaggi d’opinione, ecco il Franceschini-pensiero.

di Mario Ajello da ilmessaggero.it

Semplice boy-scout? Curatore fallimentare? Questo si vedrà. Intanto, nel giro di poche settimane, Franceschini ha rivoluzionato le parole, gli schemi e la vendibilità del prodotto Pd, che tutti davano per scaduto. «Fiducia» è la prima parola rimessa in circolo dal fanceschinismo. E le altre? Eccole, dalla A alla Zeta.

Antagonismo. Al solo pronunciarne il suono, Walter tremava: per la paura di venire considerato un comunista. Dario, da ragazzone democristiano senza sensi di colpa, se ne infischia della mediazione a oltranza per apparire potabile ai ceti moderati e di altri togliattismi scaduti ma vivissimi nel Dna degli attuali ”compagni di scuola” d’origine Pci.
Antagonismo come radicalità post-ideologica.

Besame. Mucho. Canzone prediletta da Dj-Franceschini, come lo chiama Fiorello. I notabili del Pd lo stanno baciando tutti (preoccuparsi?).

Cifre. E proposte concrete. 460 milioni di euro di risparmio con l’election day. 2 per cento di una tantum, per i poveri, da chi guadagna oltre 120mila euro. E via così. Senza un «ma anche».

Dialogo. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica quanto aiutarlo.

Emergenza. Democratica. «Accadranno cose inimmaginabili», nel caso Berlusconi stravincesse le elezioni europee. Intostare il linguaggio, per coprirsi a sinistra.

Frou frou. Zero. Niente più veltronismo da terrazza romana. Ma sodo provincialismo, padre partigiano e nonno fascistone, giuramento sulla Costituzione, la cartolina spedita a Berlusconi (e non una mail), il giubbottino di renna fuori moda (solo lui e Fini lo indossano ancora)… Se non scrivesse romanzi, sarebbe meglio.

Gente. Parola semplice. Che i politologi non amano e la sinistra riformista neppure. Finalmente sdoganata. Senza la doppia ”gg” (la «ggente») che è orrendamente populistica e santoriana.

Hasta. La victoria siempre? La soglia della vittoria, per Franceschini, è non mandare il Pd troppo sotto il 30 per cento, recuperando astensionisti e delusi. Se ce la fa, canteranno tutti per lui una delle sue canzoni predilette (di Lucio Dalla): «E non andar più via».

Intransigenza. Vedi Antagonismo e anche Dialogo.

Lavoro. E crisi. Questo il terreno sul quale mettere in crisi Berlusconi.

Mangiare. «Le promesse e gli annunci di Berlusconi non danno da mangiare».

Nemici. Ora si usa dire avversari. Fra questi, il «catto-comunista» Dario viene considerato come il più insidioso. Erede di quella sinistra Dc che fece oscurare le tivvù del Cavaliere.

Oscuramento. Oscurato Walter. Riapparso Prodi. Il miracolo di San Franceschino.

Pericolo. Perdere contatto con chi vuole più riformismo, più innovazione, meno subalternità nei confronti della Cgil e nuovo welfare.

Quiz. Dopo le elezioni di giugno, Dario – che è passato dal Loft al Left – guarderà di più al centro?

Radicalismo. Ancora?

Serenità. D’Alema ha dato il la («Con Franceschini, il partito è più sereno») e al Nazareno si canta, sulla falsariga della canzone di Arisa a Sanremo: «Serenità».

Tonino. Cioè Di Pietro. Il franceschinismo l’ha come attutito.

Unione. Prodiana. Lì si tornerà.

Vice. Lo chiamavano Vice-Disastro.

Zero. La soglia di tolleranza degli elettori del Pd, se anche San Franceschino viene ridotto a un San Sebastiano, trafitto dalle solite frecce dei soliti notabili del suo partito. (Beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Società e costume

Roma che è diventata una città incattivita.

di Marco De Risi da ilmessaggero.it

Un gruppo di adolescenti ha scatenato il finimondo in un autobus notturno mentre stava transitando nei pressi di piazza Venezia. Sei, sette ragazzotti sono saliti sulla vettura danneggiandola, aggredendo i viaggiatori e anche l’autista. Non contenti se la sono presa con un uomo di 29 anni che aveva detto loro di smetterla. L’hanno preso a calci e pugni e rapinato. La vittima è un dj napoletano che lavora in un locale notturno del centro. Immediato l’intervento dei carabinieri che hanno già arrestato uno dei rapinatori, un ragazzino di 17 anni. I militari questa volta sono stati davvero fortunati. Durante il sopralluogo nell’autobus dopo l’aggressione, fra i sedili, hanno trovato la carta d’identità di un componente della “baby gang”.

In pratica mentre il diciassettenne stava picchiando il “dj” non si è accorto che dalla tasca dei pantaloni si era sfilata la carta d’identità. L’episodio di violenza è accaduto sabato notte (verso la mezzanotte) su un autobus della linea “N3” all’altezza di corso Vittorio. «Alla fermata – ha raccontato il disc jockey aggredito – è salito un gruppo di ragazzi. Si sono subito comportati come se l’autobus fosse il loro. Hanno tirato il freno d’emergenza, dicevano frasi piene di volgarità». Il conducente ha provato a sgridarli, a dire loro di smetterla. «Il gruppetto – prosegue il “dj” – ha risposto male al conducente, l’hanno circondato in modo minaccioso. Poi hanno iniziato a insultare anche gli altri passeggeri prendendosela con una signora. A quel punto mi sono fatto avanti io e gli ho detto che dovevo andare a lavorare e se per favore potevano fare in modo che il conducente potesse ripartire».

Pochi secondi dopo e il gruppo si è accanito contro il ventinovenne. Calci, pugni, insulti e poi la rapina. Con la forza gli hanno sfilato uno zaino che il giovane aveva in spalla. All’interno c’erano gli strumenti del mestiere: “cd”, cuffie, microfoni e altro materiale “hi tech”. Poi la fuga a piedi. Un’ambulanza ha soccorso il ragazzo aggredito portandolo al Santo Spirito dove ha avuto una prognosi di 7 giorni per ecchimosi e contusioni. Sono accorsi anche i carabinieri della compagnia “Roma Centro” che hanno diramato alle altre “gazzelle” le ricerche degli aggressori. Intanto durante il sopralluogo è stata trovata la carta d’identità di uno dei “baby rapinatori”. I militari dopo neanche mezz’ora erano a casa del ricercato: una ragazzo di 17 anni, incensurato che risiede a Vitinia, lungo la via Ostiense. L’hanno trovato a letto che dormiva. Il minore è stato fatto rialzare, vestire e portato in caserma. Dove è stato riconosciuto dal ventinovenne aggredito e da altre persone che erano nell’autobus. Quindi per lui sono scattate le manette per rapina e danneggiamento. I complici hanno le ore contate.(Beh, buona giornata).

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Attualità Società e costume

Un barbone a Roma: «Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina».

da ilmessaggero.it
«Ormai se mi scambiano per romeno nessuno mi fa l’elemosina». Per questo un clochard a Roma ha deciso di scrivere su un cartello appeso al collo: “Sono bulgaro”. Per lui è un modo per ingraziarsi gli automobilisti distratti su via Laurentina «che almeno – spiega – così sanno subito che con i romeni non ho nulla a che fare».

I passanti e gli autombilisti di tanto in tanto gli allungano qualche monetina, più attirati dal cartello che porta appeso al collo che dallo stato di indigenza dell’uomo.

Pantaloni larghi, giaccone blu di almeno tre misure più grande, capellino di lana, il “bulgaro” non parla ma si avvicina discretamente ai finestrini delle macchine e aspetta l’elemosina. Il cartello non è scritto a mano e non è nemmeno di cartone marrone. È di buona fattura: bianco e plastificato, ha la scritta in nero realizzata al computer.

E se gli si chiede perché abbia scelto di indicare solo la sua provenienza e non, l’uomo schivo risponde con un forte accento dell’Est e a bassa voce: «Per noi che veniamo da quelle zone adesso in Italia e soprattutto qui a Roma è tutto più difficile. Pensano che siamo tutti della Romania, che siamo tutti delinquenti, e ci trattano di conseguenza. Ci chiamano stupratori, ci dicono di tornare a casa. Ma tanti di noi sono qui per cercare un lavoro onesto e, se non lo trovano subito, chiedono l’elemosina, come faccio io. Non ho nulla contro i romeni ma devo sopravvivere».

Qualcuno chiude il finestrino, altri fanno finta di non vederlo. Un automobilista gli dà un euro: «È triste – dice – che qualcuno debba pensare di dover mettere in chiaro a quale nazionalità appartiene per avere la carità. La povertà non ha colore o paese». (Beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Media e tecnologia Popoli e politiche Società e costume

Sicurezza: ecco come sono stati avvelenati i pozzi.

(fonte: repubblica.it)
Durante i due anni del governo Prodi (2006 e 2007) i tg hanno raddoppiato lo spazio della cronaca nera. Secondo uno studio del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva (nato da un’iniziativa dei radicali) dal 2003 al 2007, il tempo dedicato ai servizi su delitti, violenze e rapine è raddoppiato (se non triplicato) passando dal 10,4% dei tg del 2003 al 23,7% di quelli del 2007. Dato significativo che potrebbe avere aumentato la percezione di insicurezza da parte degli italiani, e avere avuto un peso alle elezioni politiche del 2008, tesi sostenuta dal centrosinistra in molte occasioni. Come la convinzione che il senso di incertezza e paura sarebbe nato in parte per il battage dei media.

I numeri dicono che nel 2003 il Tg1 ha dato notizie di cronaca nera per l’11% del suo tempo, il 19,4% nel 2006, il 23% nel 2007. Il Tg2 è passato dal 9,7% del 2003 al 21% del 2006, fino ad arrivare nel 2007, al 25,4%. Il Tg3 è la testata che registra il minore aumento, passando dall’11,5% del 2003 al 18,6% del 2007. Sulle reti Mediaset l’aumento è maggiore: per Studio Aperto, la percentuale è stata pari al 30,2 della durata totale dei tg del 2007, contro il 12,6% del 2003. Il Tg5 è passato dal 10,8% al 25,7%. Il Tg4, malgrado il raddoppio negli ultimi 5 anni, ha avuto l’incremento minore, dal 10,2% del 2003 al 20,9% del 2007. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori.”

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II – con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista – sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi – pur discordando – deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il “puro rendiconto”.(…) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti. (beh, buona giornata).

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

La sicurezza, le ronde e le “facce da romeni”.

di RICCARDO BARENGHI da lastampa.it

Una regola basilare di qualsiasi società fondata sullo Stato di diritto si chiama garantismo. E fin qui non ci piove. Solo che se facciamo un passo in più, oggi, in Italia, nel clima che ormai si è creato, rischiamo la più profonda impopolarità. Però lo facciamo lo stesso, per dire che anche i romeni hanno diritto a essere garantiti. Addirittura quei romeni accusati e arrestati per stupro. Quelli della Caffarella, quelli di Primavalle e chiunque altro sia stato o sarà incriminato di qualsiasi reato. Al di là del fatto che siano innocenti o colpevoli – e al momento ci sono molti dubbi che i due accusati dell’orrendo stupro su una ragazza di 14 anni abbiano commesso quel reato, anche se uno dei due è indicato come responsabile di un altro stupro – la regola deve valere per tutti. Italiani, romeni, albanesi, tunisini e via dicendo. Fino alla prova definitiva della loro colpevolezza, si tratta di persone (persone) innocenti. E possono avere qualsiasi faccia truce, qualsiasi espressione poco raccomandabile, possono frequentare i peggiori bassifondi della città, ma sempre innocenti sono fino a che non si dimostra il contrario.

Sebben che son romeni, insomma, sebbene cioè si tratti ormai della popolazione che nel cosiddetto immaginario collettivo suscita più paura, più repulsione e provochi l’istinto primordiale del nemico da sconfiggere o cacciare, sebbene tutto questo, sempre di persone stiamo parlando che potrebbero anche essere innocenti accusati ingiustamente. Ora, figuriamoci, sappiamo benissimo che nelle statistiche della criminalità importata nel nostro Paese, i romeni non sono certo tra gli ultimi. Anzi. Ma proprio per questo, ancora di più vale il discorso. Perché se ci facciamo trascinare dal nostro terrore per il romeno, e lasciamo che le indagini, gli arresti, i processi, insomma la giustizia faccia non il suo corso previsto dalla Costituzione ma vada avanti sull’onda dell’emotività pubblica, allora un domani saranno guai per tutti. Anche per noi italiani. Se poi in questo quadro già piuttosto preoccupante ci mettiamo pure le ronde in arrivo, lo scenario che si prospetta non è certo tranquillizzante.

Possiamo prevedere, senza grandi rischi di sbagliare, che saranno proprio i romeni (seguiti dagli albanesi, i tunisini, i neri, gli immigrati in genere) quelli più «segnalati» dalle squadre di cittadini perbene chiamati a vigilare sulla nostra sicurezza. Ma quanti di loro risulteranno poi innocenti, gente che magari beveva una birra per strada, discuteva, scherzava rumorosamente, o forse litigava pure? Quanti di loro saranno costretti a passare una notte in Questura cercando, faticosamente, di dimostrare la loro estraneità a qualsiasi azione criminale? E alla fine, quanti di noi italiani finiranno nella stessa situazione? Domande retoriche, risposte scontate. E evidente che più l’emergenza stupri cresce nella percezione dell’opinione pubblica, più bisognerebbe avere la capacità di tenere a freno le emozioni. Soprattutto se si è chiamati a responsabilità di qualsiasi genere, dal governo fino all’ultimo poliziotto, fino all’ultimo rondista.

E fino a qualsiasi cittadino si trovi sulla scena di un delitto sentendosi magari sicuro di riconoscere quel romeno piuttosto che quell’altro. Non è facile riconoscere una persona intravista nella notte e che magari assomiglia a tanti suoi connazionali. Già si sente in giro la frase «quello ha la faccia da romeno» (chi si ricorda lo straordinario libro-inchiesta del tedesco Wallraff Günter, «Faccia da turco»?). Si dovrebbe allora pensarci due volte prima di accusare qualcun altro, si dovrebbero vagliare tutti gli indizi, una, dieci, cento volte, prima di arrestare qualcuno. E si dovrebbe anche stare attenti – noi che facciamo informazione – a come pubblicare queste notizie, con quale enfasi, quali certezze, quale rilievo, quali e quanti dubbi. Tanto più se si tratta di romeni: un aggettivo che purtroppo è diventato sinonimo di criminale. (Beh, buona giornata).

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L’emendamento anti-internet di D’Alia:”noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso.”

di Carlo Gubitosa – da giornalismi.info
E’ impossibile mettere un bavaglio politico alla rete: per un sito che viene chiuso in una Repubblica delle Banane, altri mille siti in altri cento paesi del mondo sono disposti ad ospitarne i contenuti ritenuti “scomodi” da una miope legislazione nazionale.

Un provvedimento inutile per reprimere reati affida al ministero dell’Interno il potere di oscurare interi servizi web.

Per questa ragione ogni tentativo di normare la comunicazione dal basso piu’ che un bavaglio e’ solo un “bavaglino”, come quelli che si mettono ai bambini per contrastare il loro istinto naturale di giocare col cibo, sperimentando, manipolando e lanciando tutto quello che gli passa per le mani e per la bocca.

E i bavaglini sono solo palliativi inutili, come ben sa chi ha scoperto a sue spese che nonostante i nostri sforzi i bambini riescono comunque a sporcare seggiolone, genitori, tavola e pareti.

Anche i tentativi di regolamentare una tecnologia intrinsecamente libertaria e creativa come internet sono pezze colorate che non potranno fermare con un colpo di penna la forza inarrestabile della comunicazione sociale, che segue tempi, regole e dinamiche di evoluzione non governabili per legge, nonostante il pugno dei governi cerchi da sempre di stringersi attorno alla sabbia della comunicazione orizzontale. Ma la sabbia si sposta altrove, e le mani dei governi restano vuote.

Inizialmente si e’ cercato di affermare la responsabilita’ dei fornitori dei servizi internet, obbligandoli a controllare tutti i siti che ospitano come se le compagnie telefoniche fossero responsabili dei reati organizzati con una telefonata. Poi questo principio e’ diventato talmente assurdo da essere comprensibile perfino a un parlamentare.

Poi si e’ maldestramente provato ad equiparare ogni pagina web ad una testata giornalistica, col risultato tragicomico di veder oscurato un sito sciocchino pieno di bestemmie su Padre Pio (Vedi http://beta.vita.it/news/view/3208/ ), ma solo dopo averlo elevato al rango di “prodotto editoriale”, come se fosse stato il Corriere della Sera e non un banale sfogo anticlericale.

Ora c’e’ la cosiddetta “dottrina Sarkozy”, che chiude i rubinetti della rete agli “utenti cattivi” e sta prendendo piede in vari paesi europei per minacciare e criminalizzare tutti quelli che condividono materiali culturali in rete senza guadagnarci un centesimo, proprio come fanno le biblioteche pubbliche, ma pagando di tasca propria i costi di connessione e delle bollette telefoniche.

Ma noi italiani dobbiamo sempre distinguerci, anche nelle misure illibertarie e stupide al tempo stesso. Ed ecco quindi l’ultimo “bavaglino politico” con cui si e’ cercato di piegare la rete alla visione di un singolo: l’articolo 50-bis del Ddl n° 773 gia’ approvato dal Senato, un emendamento del pacchetto sicurezza varato dal governo e presentato dal senatore Udc Gianpiero D’Alia, che a suo dire servirebbe a reprimere l’utilizzo di internet per commettere reati di opinione.

Alcune bestialita’ saltano subito all’occhio gia’ dalla prima lettura: se c’e’ una apologia di reato su una pagina web si oscura tutto il sito (un po’ come oscurare tutte le reti Mediaset perche’ hanno esaltato in una specifica trasmissione l’eroismo del mafioso Vittorio Mangano) e non e’ la magistratura che dispone “l’interruzione dell’attivita'” di un sito, ma il ministero dell’Interno con apposito decreto.

Il tutto con una formulazione talmente vaga da lasciare ampi e prevedibili margini di discrezionalita’ politica al “censore” di turno, che a seconda dei suoi orientamenti decidera’ se censurare “da destra” i filmati violenti e sanguinari che mostrano i reati commessi dai poliziotti durante il G8 genovese del 2001, oppure oscurare “da sinistra” i siti padani quando fanno apologia di reato inneggiando alla rivolta armata secessionista. Ce n’e’ per tutti i gusti.

Intervistato da Alessandro Gilioli (L’Espresso), D’Alia ha spiegato che secondo lui quando un video sconveniente fa capolino su youtube bisognerebbe oscurare tutto il servizio. Affermazioni sufficienti a scatenare la protesta del popolo della rete e di chi ha sottratto alla lobotomia televisiva i neuroni sufficienti a leggere e capire una norma scritta male.

Ma il senatore ha ribadito le convinzioni espresse a Giglioli con una lettera indirizzata a Vittorio Zambardino di Repubblica.It, in cui afferma che rifiutare il suo emendamento equivale a “legittimare gli insulti, le nefandezze di cui è già piena la nostra società reale” e concedere “diritto di parola di chi incita alla mafia, al terrorismo, alla violenza, alla pedofilia, agli stupri di gruppo”.

Ma nel testo dell’emendamento si parla di “delitti di apologia di reato, previsti dal codice penale o da altre disposizioni penali”, e allora se sono gia’ previsti dal codice e puniti dalla magistratura, che bisogno c’e’ di reprimerli anche con l’azione discrezionale del Ministro dell’Interno?

Questo dubbio e’ sollevato anche dalla dettagliata analisi giuridica di questo stupido bavaglino giuridico fatta da Elvira Berlingieri sulle pagine di Apogeonline (http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia) in cui si afferma che tutte le brutture descritte dal senatore sono gia’ sanzionate “da adeguati strumenti già presenti nel nostro ordinamento”, e al tempo stesso “la pericolosità sociale dei reati individuati dall’articolo 50-bis sembra sproporzionata agli effetti che la norma potrebbe perseguire”.

Tra i “delitti contro l’ordine pubblico” puniti dal codice penale, c’e’ anche l'”istigazione a delinquere” (art. 414) che punisce con la reclusione fino a cinque anni “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati, per il solo fatto dell’istigazione”, oppure l'”Istigazione a disobbedire alle leggi” (art. 415), che sbatte in galera da sei mesi a cinque anni “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali”.

C’era bisogno di altri strumenti repressivi da affidare al potere politico anziche’ a quello giudiziario? D’Alia e’ sempre piu’ convinto di si’, e nel testo inviato a Repubblica.it sostiene che la sua azione e’ mirata a colpire “chi insulta le vittime di Mafia, si mette a disposizione di Cutolo, inneggia alla Jihad o alle Brigate rosse, spiega come fabbricare un esplosivo, incita a picchiare i romeni o considera filantropi gli stupratori di Guidonia o i pedofili”.

Ma le vittime di Mafia che tira in ballo D’Alia saranno state interpellate?Sembra proprio di no, almeno a giudicare dalla reazione di Sonia Alfano, presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia: “invece di oscurare internet – sostiene la Alfano – si potrebbero ad esempio riaprire le inchieste sulle stragi di Ustica, Via D’Amelio, Capaci, Piazza Fontana, e molte altre, e far avere alle vittime delle molteplici stragi italiane la giustizia che non hanno mai ottenuto”.

Sul suo blog “piovono rane”, Giglioli racconta che “ho proposto via mail a D’Alia un di realizzare un dibattito audio-video da registrare qui a Kataweb e da pubblicare sul sito de L’espresso, in cui il senatore avrebbe potuto rispondere a tutte le accuse mossegli in questi giorni, confrontandosi con due giornalisti e due blogger”. Ma Il senatore D’Alia, tramite il suo addetto stampa, ha rifiutato il confronto. La “bonta'” delle sue idee e’ tale da non aver bisogno di dibattito per essere colta nella sua pienezza.

Dopo essere stata demolita sul versante giuridico, l’invenzione di D’Alia e’ stata attaccata anche sul fronte tecnico dal blogger Stefano Quintarelli ( http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html )

Oltre a rilevare “una sproporzione colossale tra il garantismo relativo alle intercettazioni telefoniche e il filtraggio di qualunque comunicazione internet”richiesto dall’emendamento D’Alia, Quintarelli dimostra con dati tecnici alla mano che “quanto richiesto dalla norma non è tecnicamente fattibile. Almeno non più di quanto sia fattibile combattere le inondazioni facendo evaporare l’acqua”.

Quintarelli prosegue affermando che “la rete non e’ un luogo diverso dal mondo reale; la rete e’ uno strumento che fa parte del mondo e quindi per i comportamenti attuati con questo strumento valgono gia’ le leggi esistenti! Ma forse il legislatore lo ignora. Sequestri di contenuti, imputazioni di reati, condanne di persone che hanno compiuto reati usando lo strumento Internet, avvengono gia’, su provvedimento delle autorità”. Ma non ancora su ordine del ministro dell’Interno.

Per commentare questo pastrocchio si e’ scomodata perfino la “Grande G” di Google, che per bocca del suo rappresentante italiano Marco Pancini ha denunciato l’ignoranza e la sordita’ delle istituzioni. “Non c’è dubbio che per chi non è un nativo digitale – scrive Pancini – non è semplice comprendere immediatamente le dinamiche delle nuove tecnologie. Ma per questo è importante il dialogo fra Istituzioni, industria e società civile”, lo stesso dialogo a cui D’Alia si e’ sottratto dopo le sue esternazioni unilaterali. Pancini fa riferimento esplicito al “filtraggio di tutti i siti Internet” auspicato da D’Alia, affermando senza mezzi termini che “non serve a combattere il crimine, perché basta segnalare un’attività illecita a qualunque Internet service provider perché questi la possa rimuovere: è già previsto dalla legge e dai contratti di tutti coloro che forniscono servizi online”. Ma allora qual e’ lo scopo di questi maldestri tentativi? Google non ha dubbi: “questo serve a controllare la Rete e in quanto tale è pericoloso per la nostra libertà”.

Che sia proprio questo l’obiettivo del pasticciaccio brutto innescato dal senatore UDC? Poche righe ben confuse per consegnare al ministro dell’Interno la chiave di un potentissimo lucchetto che puo’ chiudere un intero sito anche per una piccola istigazione a delinquere di due righe, qualcosa di tremendo e di sovversivo come “non ubbidite alle leggi ingiuste, stupide e repressive scritte da parlamentari ignoranti che non hanno la minima idea del funzionamento tecnico della rete, delle sue dinamiche sociali e degli strumenti gia’ a disposizione contro gli abusi”. (Oops! Mi e’ scappato! Speriamo che non se ne accorga nessuno senno’ si chiude baracca)

Di fronte alla superficialita’ cialtrona con cui si stanno affrontando nel nostro paese i problemi delle nuove tecnologie, viene voglia di rileggere la “Dichiarazione di Indipendenza del Ciberspazio”, scritta nel 1996 da John Perry Barlow, pioniere della difesa dei diritti civili in rete e cofondatore della “Electronic Frontier Foundation”.

Per reagire alle prime leggi che mettevano le briglie alla comunicazione elettronica, Barlow affermava che “queste misure sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di quegli antichi amanti della libertà e dell’autodeterminazione che furono costretti a rifiutare l’autorità di poteri distanti e poco informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i nostri pensieri”.

Tredici anni dopo, questa sfida e’ ancora valida. (Beh, buona giornata).

Note:

APPROFONDIMENTI

L’analisi tecnica di Stefano Quintarelli
http://blog.quintarelli.it/blog/2009/02/quel-biiip-di-biiip-ha-biiip-una-biiip-.html

L’analisi giuridica di Elvira Berlingieri
http://www.apogeonline.com/webzine/2009/02/11/fact-check-il-50-bis-secondo-dalia

La posizione del Senatore Dalia
http://zambardino.blogautore.repubblica.it/2009/02/17/risponde-il-sen-dalia-ma-quale-censura/

La posizione di Google
http://googleitalia.blogspot.com/2009/02/filtrare-la-rete-no-grazie.html

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Attualità Pubblicità e mass media Società e costume

A proposito dei due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore: il carattere (tipografico) della censura.

Se quanto affermato da i due commenti a “L’atac di Roma contro la tv di Al Gore:  il carattere (tipografico) della censura” è vero, le affermazioni del presidente dell’Atac sono campate in aria: la campagna non era panificata sugli autobus, ma era un’ affissione nella Metro della Capitale. Dunque, le valutazioni circa la difficoltà di capire gli annunci da parte dei cittadini di Roma sono una versione di fantasia da parte del presidente degli autobus di Roma.

E’ di fantasia anche l’idea che la campagna in oggetto potesse turbare l’ordine pubblico, prova ne è la rettifica del Campidoglio: “nella scelta non ha avuto un ruolo il problema della sicurezza.”

Delle argomentazioni a supporto della censura contro Current Tv rimarrebbe solo il riferimento alla città di Roma ” che è sede della Chiesa cattolica”.

Sul punto, vale la pena citare le parole di Tommaso Tessarolo, general manager di Current Italia: “Peccato che chi ha preventivamente censurato la nostra campagna non si sia neanche preso la briga di capire a cosa si riferisse: è il lancio del nostro VANGUARD, una puntata dedicata ad un PRETE UCCISO DALLA CAMORRA”.

Qui il presidente dell’Atac l’ha fatta proprio grossa: vorrebbe lasciar a intendere che alla Chiesa cattolica avrebbe dato fastidio una campagna pubblicitaria per un reportage sull’uccisione di un sarcedote da parte della Camorra?

A questo punto è chiaro che la decisione di censurare la campagna pubblicitaria è stata presa con troppa superficialità.

Sarebbe meglio ripensarci e permettere la campagna. Ci guadagnerebbero tutti: chi l’ha ideata (Cookies ADV), chi l’ha commissionata (Current Italia), chi l’ha pianificata (la concessionaria di pubblicità); chi incassa il budget (l’Atac).

Ci guadagnebbere anche la Chiesa,  perché il programma tv rende omaggio al sacrificio di uno dei suoi figli, che ha perso la vita per insegnare il rispetto della legalità.

Ci guadagnerebbe il Campidoglio, facendo un gesto “politically correct”, riparatore nei confronti di una emittente, fondata da Al Gore, premio Nobel per la Pace, che ha scelto l’Italia come uno dei paesi in cui trasmettere i suoi programmi televisivi.

Infine, ci guadagnerebbro i cittadini della Capitale, i quali proprio non si meritano di essere trattati come “gente che non ha il tempo di fermarsi a leggere e comprendere il senso del messaggio”, mentre i cittadini di Milano invece sì. Beh, buona giornata.

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“Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine».” Ovvero: un popolo spaventato si governa meglio.

di IGOR MAN da lastampa.it 

Un italiano su 4 non si sente sicuro quando esce di casa. Aumentano le rapine, dilaga il traffico di stupefacenti. Risulta dal Rapporto annuale sulla criminalità in Italia. È di 500 pagine e porta la data del 22 giugno 2007. L’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato, definì «impressionanti» i dati sui reati contro le donne. Il 31% delle italiane ha subìto almeno una violenza. Di più: il 62,4% di tutte le violenze sulle donne è stato commesso dal partner (amante o marito) e la percentuale sale al 68,3% per le violenze sessuali e al 69,7% per gli stupri. Con tanti saluti alla famiglia «fiore all’occhiello della società italiana». Oggi non sono disponibili dati «aggiornati» sull’ordine pubblico.

Ma chi di dovere può anticipare che se uscisse, in questo dannato momento, il Rapporto (aggiornato) sulla criminalità, ci sarebbe da preoccuparsi. E questo perché il Rapporto dice che la famiglia è in crisi. Non da oggi. Paradossalmente a mano a mano che il benessere s’allargava cresceva la domanda non già di rapporti intimi gratificati dallo scambio di «affettuosità», cresceva la domanda di beni. Beni banali utili per figurare diversi, cioè «più ricchi» e quindi «più importanti». Oltre il 74,7% degli italiani confonde il consumismo col successo, vede negli status symbol l’imprimatur della promozione sociale.

Negli anni (felici?) dell’immediato dopoguerra, trionfava la modestia, il risparmio (anche feroce) era costume di vita, garanzia di sicurezza. I valori erano valori, la famiglia faceva blocco, ci si aiutava tra parenti e anche amici. Non esisteva l’attuale filosofia perversa che papa Ratzinger denunziò, quand’era cardinale, vale a dire il Relativismo. Epperò, a dispetto delle apparenze, dati certi ancorché non ufficiali smentiscono il presunto crescendo della violenza: il delitto comune è in ribasso. Ma se la violenza reale in fatto è diminuita come si spiega che venga percepita in aumento, che un po’ tutti ci si senta immersi nel pericolo permanente: rapine, omicidi, stupri? La risposta l’affidiamo a un giornalista-umanista, Marco d’Eramo. Ci spiega che la percezione della violenza è aumentata anche con la diffusione di «fattacci» via radio e tv. È il prezzo che esige la democrazia nel rispetto della libertà d’espressione. Sulla spinta dei media, il fattaccio più remoto (un delitto in un borgo lucano ovvero la strage in un college americano) gonfia le agenzie di stampa, rapidamente veicolato nei giornali. Il delitto entra nelle case. Creando allarme, paura.

Qui il Vecchio Cronista vorrebbe fermarsi sulla demagogia di chi cerca, scientemente, di attizzare quella che d’Eramo definisce «l’ansia securitate». È importante rifarsi alla Storia. Che ci dice come l’arma di chi pratica e predica «sicurezza», consista nel sobillare le peggiori paure del (vulnerabile) uomo della strada. Vortica nell’aria nostra una sorta di peronismo alla amatriciana, occorre dunque vivisezionare quanto ci dicono i soliti apprendisti stregoni che invocano «legge e ordine». E c’è un modo egregio di farlo: leggere, ascoltare, riflettere. Sceverare il grano dal loglio. Vedere se le parole corrispondano ai fatti, oppure cerchino di contrabbandare leggi all’apparenza benefiche ma in fatto repressive, lucide anticamere dello Stato autoritario. (Beh, buona giornata).

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Processo Mills: “la sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio.”

di  ALEXANDER STILLE da repubblica.it

ALLORA, fammi capire – mi ha scritto un mio collega giornalista americano – viene condannato per corruzione il coimputato del primo ministro ma si dimette il capo dell’ opposizione. Che strano Paese, l’ Italia». Poi, mi chiama più tardi un’ altra collega americana che chiede, «ma è possibile che non avrà conseguenze gravi la condanna di David Mills?». «DOPO tutto – aggiunge – se Berlusconi non avesse fatto passare il Lodo Alfano sarebbe stato condannato anche lui? Come spieghi il fatto che cose di questa gravità passano come se nulla fosse?».

Prima, ricapitoliamo i fatti principali. Nel febbraio 2004, David Mills, l’ avvocato britannico di Berlusconi che si occupava dei conti “off-shore” della Mediaset, i conti cosidetti “very discreet,” per operazioni finanziarie segrete e forse illegali, mette penna su carta. Impaurito dalla possibilità di essere colto in fallo con un pagamento di 600.000 dollari non dichiarato al fisco inglese, decide di spiegarne l’ origine al suo fiscalista. Spiega che i soldi erano un regalo o un prestito a lungo termine per il silenzio nei vari processi di Berlusconi che chiama sempre B.o Mr. B. Il fiscalista, per non essere complice di un reato, passa la lettera alle autorità britanniche, le quali a loro volta, informano la magistratura italiana.

Quindi, il processo nasce non da una caccia alle streghe dei giudici italiani ma da una comunicazione di un reato denunciata nel Regno Unito alla quale la magistratura ha dovuto rispondere. Mills conferma ai magistrati italiani il contenuto della sua lettera. Solo in un momento successivo, quando si accorge forse di essere in guai ancora più gravi, ritratta le sue dichiarazioni e dice di aver avuto i soldi da un’ altra parte. Evidentemente il tribunale di Milano ha trovato più convincente la prima versione e l’ ha condannato.

Nel processo originario, Berlusconi era coimputato con Mills e con buona probabilità, dato l’ esito del processo, sarebbe stato condannato anche lui se il suo governo, con grande tempestività, non avesse varato il Lodo Alfano che protegge il primo ministro da qualsiasi processo penale durante il suo mandato.

Che un caso così grave (un primo ministro che rischia la condanna per aver corrotto un testimone al fine di evitare, forse, altre condanne – falsando completamente il sistema giudiziario – e poi si toglie dai guai usando il Parlamento per farsi leggi ad personam) passi quasi inosservato, desta stupore e incredulità nel pubblico americano. Dopotutto, quando il governatore democratico dell’ Illinois viene scoperto a promettere favori in cambio di denaro, viene espulso dall’ assemblea sia dai democratici che dai repubblicani.

Quando l’ uomo scelto da Barack Obama per riformare la sanità americana, Tom Daschle, viene scoperto nei guai con il fisco, il presidente è costretto ad allontanarlo.

Allora, come si spiega la mancanza di risposta in Italia? In parte, bisogna partire da lontano; con l’ unità d’ Italia, lo Stato visto come un’ imposizione; l’ abitudine di guardare la legge con sospetto come strumento di potere, evitata dai potenti, interpretata per gli amici e applicata ai nemici. Ma questo è solo lo sfondo, non spiega tutto.

Ricordiamoci, l’ opinione pubblica era massicciamente a favore della magistratura ai tempi dell’ inchiesta Mani Pulite quando Berlusconi è sceso in campo. Ma in un paese normale, non avrebbe mai potuto farlo essendo ancora proprietario di tre grandi reti televisive. Sarebbe stato messo fuori gioco dai soldi a Craxi, dalle tangenti alla Guardia di Finanza, anche se i processi non hanno portato a condanne. O dal caso Previti: per conto di chi l’ avvocato Previti ha corrotto il magistrato Renato Squillante? O dal caso Dell’ Utri: per chi ha lavorato Marcello Dell’ Utri in tutti gli anni in cui ha intrattenuto rapporti con esponenti importanti della mafia? Si potrebbe andare avanti per molti paragrafi. Ma ovviamente, la risposta è più complessa. Una delle più grandi prestazioni di Berlusconi (se le possiamo chiamare cosi) è di aver sistematicamente smantellato Mani Pulite.

Per ogni guaio giudiziario del Cavaliere e della Mediaset, partiva un attacco feroce contro i giudici. Venivano fatte sistematicamente delle accuse gravissime – che andavano dalla corruzione all’ assassinio, contro Di Pietro, Borrelli, Caselli, contro altri magistrati di punta come Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. E poi i vari casi Mitrokhin e Telekom con le accuse di megatangenti a Romano Prodi e Piero Fassino. Il fatto che queste accuse siano tutte crollate non importa. Creava l’ apparenza, falsa, di un’ equivalenza morale. Così fan tutti. La raffica di accuse e contro-accuse crea una tale confusione che l’ elettore medio ha deciso di non tenere conto delle questioni giudiziarie e morali.

La retorica antipolitica di Berlusconi ha aggravato il già diffuso cinismo degli italiani da cui trae beneficio politico. Con abilità brillante, riesce a governare il paese per anni in una fase di netto declino ma riesce a presentarsi come l’ uomo dell’ opposizione alla politica. Peggio va, meglio è per lui, un sistema perfetto – per ora. In tutto questo ha un ruolo estremamente pesante il mondo dell’ informazione. Appariva in prima pagina e all’ inizio dei telegiornali la conferenza stampa in cui Berlusconi ha dichiarato, cimice in mano, di essere stato spiato – il delitto politico più grave dopo il Watergate. Ma la notizia che era tutta una bufala è stata riportata come una notizietta.

Ho suggerito un piccolo esame alla mia collega americana che chiedeva perché il caso Mills non avrebbe inciso nel dibattito italiano: vediamo se il Tg1 o il Tg2 riportano o citano la lettera di David Mills, la pistola fumante del processo. Qualsiasi resoconto del processo avrebbe l’ obbligo di spiegare su quale base un tribunale della Repubblica ha condannato qualcuno di un reato molto grave. Se c’ è un’ informazione libera in Italia i tg menzioneranno almeno l’ esistenza della lettera. Ma i due grandi Tg della Rai hanno sepolto la notizia con dei brevi servizi in mezzo al programma e nessuno ha spiegato sulla base di quali prove è stato condannato l’ avvocato Mediaset.

Ho saputo che il servizio ha rischiato addirittura di non esserci. La sede di Milano della Rai non ha neppure mandato una troupe al tribunale per fare un servizio. Hanno spiegato i dirigenti che senza Berlusconi come imputato non aveva nessuna importanza nazionale, aggiungendo figuriamoci dopo i risultati in Sardegna. Solo dopo la protesta dei giornalisti e il loro sindacato – e per evitare uno scandalo – si è fatto qualcosa, ma a quell’ ora la Rai ha dovuto comprare il filmato da una troupe privata.

Ormai i giornalisti dei tg sono talmente condizionati che diventa prassi normale tacere su notizie imbarazzanti o sgradevoli. Berlusconi ha detto un giorno a Marcello Dell’ Utri: “Non capisci che se qualcosa non passa in televisione non esiste? E questo vale per i prodotti, i politici e le idee.” E’ anche per questo che in Italia il caso Mills non esiste o quasi. (Beh, buona giornata).

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Sulla sicurezza il Sindaco di Roma ha le idee confuse.

“Mai alla violenza né alle ronde che si fanno giustizia da sole”, ha detto il Sindaco di Roma dopo i raid razzisti di ieri nella Capitale. Il fatto è che non è vero che gli squadristi che hanno aggredito alcuni cittadini stranieri si volevano fare giustizia da soli.  Essi hanno messo in atto una gesto politico, perfettamente compatibile con le dottrine xenofobe, troppo spesso tollerate, per non dire cavalcate anche all’interno della coalizione che ha vinto le scorse elezioni, compresa quello che lo ha portato al Campidoglio. Quelli sono militanti dell’ultra-destra, non cittadini che hanno cercato di farsi giustizia da soli.

Farsi giustizia da soli è il gesto disperato di chi crede di sostituirsi alla Legge per colpire i colpevoli, di chi scambia la vendetta personale con l’esercizio della giustizia. E’ un sentimento umano, ancorché aberrante, tuttavia prevedibile,  che, se spinto dall’emozione del momento può cogliere le vittime di una violenza e i loro parenti.

Però qui i colpevoli non sono ancora stati individuati, né dalla polizia né dalla magistratura. Qui i colpevoli sono indicati genericamente in tutti quelli che avrebbero il passaporto degli eventuali connazionali dei presunti colpevoli, che al momento dei raid non si erano ancora individuati. Prendere le distanze da un gesto odioso, confondendo i fatti con il significato dei fatti crea confusione: invece che una condanna, suona come una qualche attenuante.

La destra italiana ha creato un clima di tensione per giustificare una campagna elettorale all’insegna della sicurezza, con lo slogan “tolleranza zero”. Una volta andata al governo, la destra è rimasta prigioniera del clima che ha emozionato ansie e paure.  Tanto che il Sindaco s’impappina: confonde il farsi giustizia con le proprie mani con l’andare in giro in squadracce con i manganelli. Il dottor Freud avrebbe qualcosa da dire in proposito.

La quattordicenne che è stata aggredita ha di fronte a se un lungo periodo per tentare di superare un’esperienza terribile: la violenza sulle donne.  Bisognerebbe crearle attorno un clima di solidarietà e comprensione, non di odio e vendetta. Le serve giustizia, non rappresaglie.

Senza contare che qui manca anche un gesto di solidarietà nei confronti di chi è stato aggredito a freddo, colpevole di essere cittadino romeno, mentre mangiava un kebab, in un negozio andato distrutto dalla furia razzista di una squadraccia, nelle strade di Roma, capitale d’Italia e metropoli europea.

Fosse solo per l’immagine internazionale di questa città, il suo sindaco dovrebbe pesare di più le parole. Beh, buona giornata.

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Sulla sicurezza il governo di destra mostra i muscoli, ma non sa che in Italia le vittime del partner per abusi psicologici, fisici e sessuali sono oltre 6 milioni.

 Il fatto che non riconosca la specificità della violenza sulle donne significa che la sicurezza in Italia è passata da farsa elettorale a tragica conseguenza di politiche sbagliate.

Secondo recenti dati forniti dall’Istat, il 6,6% delle donne con età fra 16-70 anni) hanno subito una violenza fisica e sessuale prima dei 16 anni. I parenti (zii, padri, nonni) sono responsabili nel 23,8% mentre gli sconosciuti del 24,8%. Le vittime del partner per abusi psicologici, fisici e sessuali ammontano ad oltre 6 milioni.

«Non siamo in grado di conoscere se gli stupri siano realmente aumentati, come appare dalle notizie di cronaca. Va infatti ricordato che solo una piccola parte delle violenze è denunciata», rileva il sociologo, Marzio Barbagli, dell’università di Bologna, in una pubblicazione uscita alla fine del 2008, “Immigrazione e sicurezza in Italia “(ed. Il Mulino), in cui sono stati elaborati dati del ministero dell’interno. Secondo questi dati il 60% dei casi di stupro sono perpetrati da cittadini italiani.

La quota degli stranieri sul totale delle persone denunciate per stupro sono passate, negli ultimi 20 anni, dal 9 al 40%. In testa alla “classifica” degli stupratori stranieri, i romeni (più che raddoppiati in tre anni), seguono i marocchini e gli albanesi. Rispetto alla nazionalità degli autori di violenze sessuali (dal 2004 al 2007) spicca l’avanzamento significativo dei cittadini romeni (da 170 a 447). La classifica segue con i marocchini (243-296), gli albanesi (127-153), i tunisini (80-121), peruviani (22-40), equadoregni ( 30-35), indiani (25-42), algerini (23-19).

Per quanto riguarda le vittime, Barbagli sottolinea che nella maggior parte dei casi, le violenze sessuali avvengono all’ interno della stessa nazionalità. Ad esempio, dal 2004 al 2006, delle violenze commesse da romeni, il 35,4% ha interessato italiane ma nel 46,6% le stesse romene. Di quelle, invece, commesse da italiani, l’84,2% è stato commesso su connazionali, il 4% su romene, il 3,4% su cittadine di altri paesi europei, il 2,1% su sudamericane e l’1,5% su africane.

Le denunce delle donne immigrate,  dice Barbagli, soprattutto se irregolari, sono ancora minori rispetto a quelle delle italiane perché le donne immigrate temono conseguenze. Di fatto poi «la violenza su italiane – commenta Barbagli – trova più spazio sulla stampa, fa più clamore e gli italiani, siano padri o mariti, si identificano di più con i padri e i mariti colpiti. Un clamore che invece non c’è ancora sulla violenza domestica che non riesce ad arrivare alla cronaca e che invece è in aumento spaventoso».  

Il che significa molto semplicemente che le attuali politiche governative in materia di sicurezza, di prevenzione e repressione della violenza sulle donne sono completamente fuori binario, rispetto alla realtà. Al contrario, sembra proprio che il problema non esista, e che si lasci solo spazio a campagne persecutorie contro gli stranieri.  Ma il problema della violenza sulle donne urla soluzioni, si aggrava con la negazione del problema stesso.

Anche se fosse solo un fatto di ordine pubblico non è certo tagliando risorse alle forze dell’ordine, né aumentando le sentinelle militari, né autorizzando le ronde di quartiere che è possibile immaginare un qualche successo.  Ammesso che risultati si cerchino e non invece, come sembra sempre più chiaro, non si persegua l’obiettivo politico-propagandistico di militarizzare le città, per far vedere che la destra c’ha i muscoli. E intanto le violenze contro le donne continuano, soprattutto tra le mura domestiche. Beh, buona giornata.

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